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La smart city. Parte II


Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abolirla o emendarla.
Marguerite Yourcenar


smart city

Congresso di Barcellona - Novembre 2012


Con questa Parte II prosegue la pubblicazione di una serie di articoli comparsi su Ecoscienza 5/2012 che illustrano, a 360 gradi, lo spirito e la sostanza delle smart city. Per gli articoli della Parte I, clicca QUI.


5. L’innovazione richiede una nuova partecipazione

Le grandi iniziative per l’Europa del 2020, Patto dei sindaci (Covenant of Mayors) e Smart Cities in primis, per avere successo implicano un ribaltamento del paradigma che ha guidato i processi partecipativi inclusivi come furono disegnati vent’anni fa dalla Conferenza di Rio e da Agenda 21. Un ribaltamento che vede gli stakeholder non più come “portatori” di interessi, spesso divergenti, da condurre a sintesi, ma partner e promotori di iniziative coordinate. In questi anni l’esperienza ha dimostrato come i processi di policy making aperti e inclusivi siano funzionali a migliorare la “performance” democratica del governo locale e come lavorando con i cittadini, le organizzazioni della società civile, le imprese e gli altri stakeholder abbiano migliorato le prestazioni e la qualità dei servizi pubblici. Il modello che vede gli attori di un territorio (profit e non profit) interagire con un soggetto pubblico che guida e controlla il processo di definizione di politiche o di realizzazione di iniziative è però inadeguato rispetto alla portata delle sfide di cui ci stiamo occupando per almeno tre aspetti:
1. molteplicità dei livelli di azione, perché non parliamo semplicemente del miglioramento di un servizio o di una politica, ma di una trasformazione radicale delle nostre città e del nostro modo di viverle
2. quantità di risorse che è necessario mobilizzare, rispetto alle quali l’ente locale può avere al massimo un ruolo di catalizzatore
3. criticità del fattore tempo, perché è necessario agire subito e rapidamente.
Il successo di una città smart o di un Piano d’azione locale del Covenant of Mayors è legato alla capacità di stimolare la comunità locale non tanto a “prendere parte” a un processo, ma più profondamente a “esserne parte”, attivando e mettendo in rete le proprie competenze e investendo direttamente le proprie risorse garantendo ascolto, presidio, interazione e comunicazione. La sfida è cogliere contestualmente il duplice obiettivo di migliorare la vita dei cittadini e di avviare processi di sviluppo economico locale, anche stimolando la nascita di attività imprenditoriali che sviluppino un’offerta locale di smart technology e di servizi di supporto, rispetto ad esempio alla digitalizzazione. Perché queste iniziative siano effettivamente il motore di crescita e sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo, come è nelle intenzioni della Strategia Europa 2020, è indispensabile che nella attuale fase di start-up sia centrale il coinvolgimento diretto di quelle imprese e degli altri attori economici in grado di dare gambe alle iniziative. Nel passato, anche recente, il loro coinvolgimento è stato raramente efficace, a differenza di quanto avvenuto per altri soggetti, come l’associazionismo e il terzo settore in generale. È necessario comprendere e correggere i motivi di questa scarsa attenzione, perché senza la spinta propulsiva del tessuto economico è impossibile raggiungere gli obiettivi di innovazione, digitalizzazione e razionalizzazione dell’uso delle risorse energetiche che ci stiamo dando. A supporto di questi nuovi processi partecipativi è necessario innanzitutto attivare nuovi strumenti di supporto. In particolare è necessario dotare la città di “infrastrutture” (fisiche e/o virtuali) per mettere in connessione i soggetti chiave, quali l’industria, la ricerca, gli sviluppatori, le organizzazioni della società civile, gli enti locali e le “funzioni” fondamentali della città (ad esempio ospedali, università, aeroporti, porti ecc.). Con questo scopo a Genova ad esempio è stata creata l’associazione Genova Smart City (www. genovasmartcity.it), mentre a Barcellona è stata lanciata dal Comune una piattaforma pubblico-privata per lo sviluppo dell’emobility (http://w41.bcn.cat/web/guest). Queste piattaforme, al di là delle specificità locali e delle modalità con cui operano, di solito hanno lo scopo di:
- supportare la definizione del quadro strategico di riferimento (es. Piani di azione)
- connettere i soggetti che possono dare vita a iniziative locali (es. sviluppatori di tecnologie con finanziatori e potenziale domanda)
- assicurare lo scambio di conoscenze e la creazione di partenariati pubblico privato per la ricerca, l’innovazione e il finanziamento
- far emergere la domanda che il mercato locale non è in grado di soddisfare in termini di qualità tecnologica o quantità (ad esempio nei settori chiave dell’efficienza energetica e della mobilità).
5.1 Il modello a tripla elica
Come già sottolineato l’obiettivo è di andare oltre la semplice partecipazione, vedendo gli attori del territorio non solo come portatori di interesse ma come veri e propri partner. A prescindere dalle modalità e strumenti di partecipazione che si decide di attivare è importante creare da subito le basi per cui l’intera iniziativa sia inquadrabile come una partnership pubblico-privato. Questo significa attivare un processo di collaborazione strutturato che porta in un arco di tempo definito (ad esempio il 2020) diversi attori a condividere un obiettivo comune (ad esempio la riduzione del 20% delle emissioni di CO2). In particolare le caratteristiche che distinguono una collaborazione di partnership pubblico-privato da un percorso limitato alla partecipazione sono:
- la definizione di obiettivi e target quantificati
- la durata relativamente lunga della collaborazione, che ha una durata definita e termina al raggiungimento dell’obiettivo
- la cooperazione durante l’intero sviluppo del progetto, dall’ideazione alla conclusione
- la compartecipazione di risorse (anche finanziarie) ed eventuali rischi
- la formalizzazione della collaborazione e la definizione di un sistema di governance
- l’esistenza di un sistema di misurazione e valutazione degli esiti della collaborazione.
Il modello di riferimento, tipico dei processi di innovazione, è quello della tripla elica. Tre sono infatti le categorie di soggetti in grado di attivare la partnership innescando il complesso processo di innovazione verso la città intelligente: la ricerca, il governo locale e le imprese. Le attività di coinvolgimento e le relative infrastrutture devono quindi essere pensate per coinvolgere questi diversi attori. In pratica si devono attivare, coinvolgere e far collaborare una serie di soggetti chiave per ciascuna di queste categorie. Per la ricerca le università, i poli tecnologici, i centri di ricerca e le reti, anche non istituzionali, di soggetti pubblici o privati che producono ricerca e innovazione. Per il governo locale i Comuni, le Province, le Regioni e gli altri soggetti pubblici che hanno capacità di influenzare il processo (ad esempio enti parco, sovrintendenze e associazioni dei Comuni). Per quanto riguarda le imprese è necessario superare il modello tradizionale di interazione pubblico-privato che vede la mediazione da parte delle associazioni di impresa. Queste hanno un ruolo importante per coinvolgere in modo diffuso il tessuto imprenditoriale locale, ma al processo devono partecipare direttamente e in autonomia le imprese in grado di dar vita e partecipare direttamente alla partnership. È chiaro che una collaborazione di questo tipo supera lo schema classico di partecipazione, basato sull’ascolto e l’inclusione del punto di vista dei propri interlocutori, a favore di un processo di profonda e strutturata collaborazione in cui ogni soggetto partecipa attivamente con le proprie risorse al conseguimento dell’obiettivo comune. L’enfasi sulla necessità di coinvolgere attivamente le imprese non significa che dal processo siano esclusi i cittadini. Rendere una città intelligente non è semplicemente questione di tecnologie o innovazione dei servizi. Queste sono il mezzo con cui raggiungere un obiettivo strategico di apertura democratica dei meccanismi vitali di governo, gestione e fruizione della città.
Mauro Bigi, Alessandra Vaccari



6. Dalla tecnologia a un nuovo umanesimo

Smart city: tutti ne parlano, difficile trovare un accordo su cosa s’intenda realmente con questo termine. Per ipotizzare quale possa essere il ruolo delle amministrazioni pubbliche nel loro sviluppo, occorre assumere alcuni postulati di partenza, alcuni elementi di discontinuità che consentano di non disconoscere l’intelligenza delle città del passato, bensì di individuare le specificità di quelle del futuro. Un futuro ormai presente, tangibile e praticabile. Le città sono fatte di uomini e donne, e sempre lo saranno. Ma le smart city sono tali perché gli uomini e le donne che le popolano e le governano sono oggi in grado di accedere in modo diffuso a tecnologie che prima non c’erano. Questo è il primo elemento di discontinuità che occorre tenere presente. Se oggi possiamo pensare in termini di smart city è perché le strade e le case sono piene di oggetti più o meno intelligenti connessi a internet: sensori, telefoni, oggetti, veicoli ecc. E questa opportunità non è ristretta ai centri di ricerca, alle università, alle grandi imprese. No, oggi anche un ragazzo dotato di uno smartphone può incidere attivamente sulle funzioni, i servizi, le informazioni del territorio che lo circonda. Anche un’amministrazione locale può impiantare, con investimenti contenuti, reti e servizi fino a pochi anni fa impensabili. Basti pensare alla capacità di calcolo e storage oggi disponibile grazie alle soluzioni di cloud computing. La diffusione di internet, la facilità di accesso e l’ubiquità di oggetti connessi, la disponibilità di piattaforme d’integrazione e di servizi digitalizzati, sono elementi abilitanti che prima non c’erano e oggi vanno a costituire le colonne portanti della smart city. Questo non significa affermare che essa sia fatta di tecnologia, tutt’altro, ma se vogliamo individuarne gli elementi identificativi per ricavare il ruolo delle amministrazioni pubbliche, il fattore tecnologico è determinante.
Il secondo elemento di discontinuità è culturale e si sviluppa a più livelli: politico, delle istituzioni, degli abitanti e delle imprese. La smart city si riconosce perché attua un profondo cambiamento culturale nel modo di intendere la governance locale. Il presupposto tecnologico rende impensabile l’assenza di una visione sistemica e della capacità di ragionare su strategie di lungo periodo. Si può accettare una città dove gli enti del territorio adottano sistemi incapaci di interagire e integrarsi fra di loro? Quanto tempo occorre per portare a regime le piattaforme per la gestione del traffico che sono in grado di analizzare i dati sulla mobilità in tempo reale e indirizzare i pendolari? È sensato elaborare i dati del traffico e correlarli in tempo reale con quelli ambientali per dotarsi di strumenti a supporto delle decisioni strategiche?
6.1 Pensare e agire per il lungo periodo
Non sono obiettivi di legislatura, occorre andare oltre, pensare in grande e lontano, coinvolgere un alto numero di stakeholder. Serve il coinvolgimento delle imprese con modelli che vadano oltre il rapporto cliente/fornitore. Occorre valorizzare il tessuto imprenditoriale locale e sfruttare al contempo l’expertise dei grandi vendor internazionali in grado di trasferire le conoscenze sviluppate nei territori più evoluti. La complessità del sistema delle partnership, unita alla necessità di finanziare grandi progetti con risorse limitate, richiede una forte leadership politica e delle istituzioni. Richiede vision, garanzie di continuità. Questo è forse l’elemento che caratterizza le città oggi più all’avanguardia: la capacità di trasferire il senso di una vision, di un progetto che vada oltre il singolo sindaco. Sì, i personaggi sono fondamentali e imprimono un marchio alle loro creature
– lo slogan “New Urban Mechanics” del sindaco di Boston Thomas Menino è forse destinato a durare una legislatura, ma la lungimirante strategia di Amsterdam per ridurre le emissioni entro il 2025 resisterà nel tempo. E sono una bella promessa anche i progetti a 360° di Barcellona, che nonostante la crisi economica spagnola e catalana si appresta a divenire la capitale mondiale del settore. Il coinvolgimento delle imprese sotto forma di co-investitori nello sviluppo del territorio è fondamentale, ma nessuna di loro accetterà come partner un soggetto che non sappia cosa voglia fare da grande.
6.2 Digitalizzazione ed e-government
Il modo nuovo di concepire una parte dei servizi pubblici è il terzo elemento di discontinuità. Ancora una volta il presupposto tecnologico e la sua diffusione sono gli elementi abilitanti. L’eredità della stagione dell’e-government – ancora non pienamente conclusa e assai poco valorizzata, quantomeno nel nostro paese – è la piena realizzazione del percorso di digitalizzazione dei processi e dei procedimenti degli enti pubblici. Se il processo è digitale, e il servizio può quindi essere erogato virtualmente ove non si tratti di attività materiali, allora le modalità di accesso divengono molto più flessibili, non necessariamente legate ai canali istituzionali. Possono intervenire nuovi intermediari sul territorio, anche privati, come banche, poste, reti terze. È ipotizzabile chiudere sportelli pubblici e spostare l’erogazione del servizio sia on line, sia presso strutture che per le loro caratteristiche siano funzionali e vicine al cittadino, riducendo i costi e aumentando la qualità percepita dagli utenti. È un passaggio organizzativo e culturale piuttosto ovvio, se si pensa a come gli utenti stessi abbiano rivoluzionato intere fette di mercato passando dal fisico al digitale: la fruizione musicale e cinematografica, le prenotazioni di viaggi, di voli, di hotel ecc. Ovvio ma non ancora concluso, a giudicare dalla lentezza con cui le amministrazioni pubbliche accettano di modificare i propri modelli di funzionamento.
6.3 Un nuovo umanesimo
Il quarto, e forse più importante elemento di discontinuità, è quello che potremmo definire un “nuovo umanesimo” ed è legato al coinvolgimento attivo delle persone. La pervasività della rete e la disponibilità di apparati sempre connessi hanno reso possibile la nascita di nuove forme di partecipazione e influenza che nascono dal basso. I cittadini sono oggi in grado di agire volontariamente e influenzare l’operato delle amministrazioni. Così come i fruitori di TripAdvisor si fanno condizionare consapevolmente dai commenti di altri utenti che già hanno sperimentato risorse ricettive, allo stesso modo gli abitanti della città possono dotarsi di strumenti di valutazione dei servizi pubblici, di segnalazione di problemi di degrado urbano, di monitoraggio ambientale. Sono azioni in grado di incidere in misura potenzialmente rilevante sulle amministrazioni, sulle scelte politiche, sui comportamenti degli abitanti, sulla qualità della vita e dei servizi e durante le situazioni di emergenza. La nascita di queste iniziative dipende dall’intuizione e dalla creatività degli individui, ma da sole non sono sufficienti. Occorre creare massa critica e sostenere la popolazione locale affinché raggiunga un livello sufficiente di cultura digitale. L’amministrazione pubblica di una vera smart city stimola la presenza di questi fenomeni, si avvale della loro incisività, incoraggia le forme di auto-organizzazione e di resilienza che si sviluppano sui social media e nel territorio.
Claudio Forghieri


7. Opena data per l'innovazione e la trasparenza

La storia dell’Openness nel nostro paese inizia nel 2002 con la presentazione del disegno di legge “Norme in materia di pluralismo informatico sulla adozione e la diffusione del software libero e sulla portabilità dei documenti informatici nella Pa” che introduceva il concetto di “diritto allo sviluppo portabile. Chiunque ha il diritto di sviluppare, pubblicare e utilizzare un software originale compatibile con gli standard di comunicazione e con i formati di salvataggio di un altro software, anche proprietario”. Sulla scia di queste iniziative è nata la Commissione per il software a codice sorgente aperto nella Pa (decreto 31/10/02) con il compito di “esaminare gli aspetti tecnici, economici e organizzativi legati all’utilizzo dell’open source nella Pubblica amministrazione…” La Commissione ha prodotto l’Indagine conoscitiva sul software open source a valle della quale sono stati definiti decreti e normative e in particolare il Codice dell’amministrazione digitale (Cad), che già nel 2005 faceva i primi passi in direzione dell’Openness non solo del software, ma anche dei dati. Nel capo V, “Dati delle pubbliche amministrazioni e servizi in rete” del Cad, alla sezione I “Dati delle pubbliche amministrazioni” e in particolare all’articolo 50 “Disponibilità dei dati delle pubbliche amministrazioni”, comma 1, infatti si legge: “I dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati”. Insomma, la normativa italiana, già nel 2005 chiedeva alle pubbliche amministrazioni di adottare formati aperti, definiti all’articolo 68 dello stesso Cad: “Per formato dei dati di tipo aperto si intende un formato dati reso pubblico e documentato esaustivamente”. La norma chiedeva di garantire ad altre Pa, ma anche a privati, la possibilità di fruire e riutilizzare i dati. Allora come mai non è successo niente o quasi per molti anni? Forse non eravamo pronti, forse non avevamo colto davvero la portata di tale norma, forse la comunità del mondo open non era così forte e soprattutto non erano ancora così diffusi gli strumenti del web 2.0, non eravamo ancora attrezzati alla partecipazione.
7.1 Il futuro è nell’open government
Non eravamo attrezzati, forse, ma anche gli amministratori del nostro Paese erano lontani da queste tematiche. Negli Usa e in altri Paesi europei gli open data sono stati promossi dal governo centrale che ha definito le proprie policy e progettato e implementato un portale nazionale per fornire data-set aperti e favorirne la diffusione. In Italia il cammino è stato davvero 2.0, gli open data sono nati dal basso, da molte associazioni che hanno lavorato, principalmente online, con mailing list, con wiki, con strumenti di condivisione e con lo scopo di sollecitare le amministrazioni locali e centrali a dar seguito al Cad e soprattutto ad aprire i propri dati con consapevolezza e trasparenza. In particolare l’associazione italiana per l’open government ha lavorato alla definizione condivisa di un Manifesto (www.datagov.it/il manifesto) che si può così sintetizzare:

Governare con le persone
La partecipazione attiva è un diritto e un dovere di ogni cittadino. L’open government deve creare le condizioni organizzative, culturali e politiche affinché questo venga esercitato con pari opportunità per tutti.

Governare con la rete
La Pa deve abbandonare la logica burocratica verticale di gestione dei servizi pubblici a favore di una logica orizzontale, in grado di coinvolgere i diversi attori pubblici, privati e del non profit, nel raggiungimento di un obiettivo comune.

Creare un nuovo modello di trasparenza
La Pa deve garantire completa trasparenza dell’attività di governo e la pubblicità di tutto ciò che è relativo al settore pubblico. Fornire ai cittadini tutte le informazioni sull’operato dell’amministrazione è indispensabile per realizzare un controllo diffuso sulle attività di governo.

Trattare l’informazione come infrastruttura
I dati delle Pa devono essere accessibili a tutti in formato aperto, gratuitamente e con licenze idonee a consentire la più ampia e libera utilizzazione. La disponibilità di dati aperti è l’infrastruttura digitale sulla quale sviluppare l’economia immateriale. Le Pa, liberando i dati che gestiscono per conto di cittadini e imprese, possono favorire lo sviluppo di soluzioni da parte di soggetti terzi e contribuire allo sviluppo economico dei territori.

Liberare i dati pubblici per lo sviluppo economico del terzo millennio
Le Pa devono concentrarsi su produzione, classificazione e pubblicazione di dati e informazioni grezzi e disaggregati, lasciando all’iniziativa privata lo sviluppo di applicazioni per la loro rielaborazione, consultazione e fruizione. Un orientamento della Pa verso l’open data offre nuove opportunità a chi investe nella Rete, incentivando la crescita di nuovi distretti dell’economia immateriale.

Informare, coinvolgere, partecipare per valorizzare l’intelligenza collettiva
La rete moltiplica il potenziale delle intelligenze coinvolte e aumenta l’efficacia dell’azione amministrativa. Le dinamiche organizzative e i procedimenti della Pa vanno ripensati per migliorare la qualità dei processi di informazione, facilitare il coinvolgimento e la partecipazione di tutti i cittadini e diffondere la cultura dell’open government.

Educare alla partecipazione
La Pa promuove la partecipazione di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica anche attraverso il ricorso alle Icy eliminando discriminazioni culturali, sociali, economiche, infrastrutturali o geografiche ed educando alla partecipazione, diritto-dovere di ogni cittadino.

Promuovere l’accesso alla Rete
Le tecnologie e la Rete sono elementi abilitanti ai processi di partecipazione. Lo Stato deve quindi consentire a tutti i cittadini di accedervi e promuoverne la cultura d’uso.

Costruire la fiducia e aumentare la credibilità della Pa
La conoscenza e la partecipazione ai processi decisionali sono strumenti di costruzione della fiducia in un rapporto tra pari che coinvolge amministrazione e cittadini, rendendo inutili gli attuali livelli di mediazione. L’appartenenza agli stessi ecosistemi (digitali e non), la pratica delle stesse dinamiche sociali e servizi efficaci costruiti intorno al cittadino e alle sue esigenze aiutano ad accrescere la fiducia, la credibilità dell’amministrazione e la condivisione degli obiettivi.

Promuovere l’innovazione permanente nella Pa
La costruzione di servizi deve essere realizzata in modalità condivisa e sviluppata, pensando l’utente al centro. Innovazione permanente per garantire una revisione continua nelle forme di funzionali e organizzativi sempre in linea con l’evoluzione dei paradigmi della rete. Un territorio smart, un’amministrazione innovativa non può più, oggi, prescindere da questi punti, i cittadini sono pronti, la normativa ci supporta, gli amministratori ne hanno colto l’importanza: non possiamo e non dobbiamo fermarci, il futuro delle città e il cammino verso l’openness non vanno fermati.
Flavia Marzano


8. Città, ambiente e benessere per la sostenibilità ambientale

A vent’anni dal summit mondiale sullo sviluppo sostenibile del 1992, la comunità internazionale ha deciso di tornare a Rio de Janeiro, dove tutto era cominciato. Ai più romantici potrebbe sembrare una scelta consapevole, dettata da una intima necessità di tracciare un bilancio: come quando dopo molto tempo si torna a un luogo caro, la propria città o il paese di origine, per rendersi meglio conto di quanto si sia cambiati nel frattempo. Così quest’estate la comunità internazionale riunita a Rio de Janeiro, mentre ribadiva il proprio impegno per lo sviluppo sostenibile, ha potuto constatare quanto siano stati miseri i progressi nelle ultime due decadi, specie se paragonati alla grandezza delle aspettative che avevano dato vita all’intero processo. Ma soprattutto è apparso evidente quello che solo dieci anni prima, a Johannesburg, aveva trovato scarso spazio in un dibattito dallo stile decisamente novecentesco: lo sviluppo sostenibile non era una questione che poteva essere lasciata nelle mani degli ambientalisti e degli stati nazionali, ma avrebbe richiesto il pieno coinvolgimento della società civile e una nuova alleanza con il mondo dell’economia. E così, spinte anche dalla più grave recessione economica mondiale del dopoguerra, governance e green economy sono diventati i pilastri attorno ai quali si è svolta la trattativa del 2012, oltre al segno più evidente del cambiamento intercorso negli ultimi vent’anni. In questo quadro è andata anche crescendo l’importanza delle aree urbane come laboratori del cambiamento verso modelli più sostenibili. Questo recupero del ruolo delle città, le cui sorti hanno influito in maniera decisiva sul corso della storia, non è nuovo, specie pensando alle Agende 21 locali varate proprio a Rio de Janeiro nel 1992. Tuttavia, oggi forse più di ieri, le città presentano alcune caratteristiche tali da renderle più capaci di guidare il cambiamento in atto. Innanzitutto è proseguita la transizione da un modello prevalentemente agricolo e diffuso sul territorio a uno urbano. La popolazione mondiale residente nelle città ha oramai superato quella delle campagne e oggi nelle aree urbane si concentra la maggior parte dei consumi di energia e di risorse naturali. Ma, fatto ancora più importante, è attorno alle città che si sono andate disegnando le reti e le infrastrutture che veicolano i flussi di informazione, energia e materia. Le aree urbane influenzano in maniera decisiva le dinamiche interne delle attività umane e, quindi, la capacità di preservare o ricostituire gli stock di capitale naturale, economico e sociale di una nazione: in altri termini, il grado di sostenibilità.
8.1 Le città come centro di innovazione
Se è vero che le grandi crisi di questi tempi, a cominciare da quella ambientale, hanno carattere globale, è anche vero che le città, a cominciare dai grandi agglomerati urbani, sono sempre meno vincolate al loro carattere territoriale. Grazie alle reti mondiali dei trasporti e dell’informazione, le città sono oramai in grado di far partecipare le comunità locali a sempre più vaste collettività globali. Un altro elemento favorevole deriva dal fatto che la soluzione alle crisi attuali richiede risposte inedite, molto lontane dalle ipotesi di progressioni business as usual. Come afferma il sociologo americano Richard Florida, sono proprio le città ad attrarre gli individui più creativi, divenendo luoghi naturalmente predisposti all’innovazione. La soluzione alle molteplici crisi dei nostri anni richiede risposte non solo innovative, ma anche pervasive di tutti gli aspetti della vita di una società e di un individuo. Le soluzioni che dovranno essere messe in campo riguarderanno anche questioni emergenti non direttamente connesse ai temi tradizionali della sostenibilità: basti pensare al dibattito esistente sulla transizione da un modello economico basato sul benessere materiale verso uno più orientato alla qualità della vita, alla valorizzazione del tempo libero e delle relazioni interpersonali. Le crisi dei nostri giorni non troveranno certo una risposta unicamente nei comportamenti virtuosi di alcune città, ma è più probabile che in questi ambiti potranno essere sviluppati e sperimentati modelli innovativi ed efficaci, che in un secondo tempo potranno essere esportati a livelli di governo superiore. Ed ecco forse perché negli ultimi anni si assiste al moltiplicarsi dei progetti sulle città per promuovere una transizione verso lo sviluppo sostenibile, e non solo. L’esperienza delle Agende 21 locali non ha prodotto i risultati attesi, ma ha consentito di sperimentare un nuovo modello di governance (basato su partecipazione pubblica, pianificazione basata sull’utilizzo di target e indicatori, creazione di strumenti di verifica e controllo ecc.) a cui in vario modo si rifanno le iniziative più recenti. Tra queste in Europa deve essere segnalata quella del Patto dei Sindaci per la riduzione delle emissioni di gas serra, lanciata nel 2008 e che in pochi anni è arrivata a coinvolgere più di quattromila enti locali e 160 milioni di cittadini.
8.2 Sostenibilità, benessere, tecnologia
Al Patto dei Sindaci si è affiancata la proposta delle città intelligenti, le smart cities. Si tratta di un progetto più fluido, non codificato attraverso un percorso in gran parte predeterminato, come invece avviene nel Patto dei Sindaci o nelle Agende 21 locali. Anche per questo, se da un lato si presta ad accogliere nuove istanze integrando gli obiettivi classici della sostenibilità, dall’altro rischia di prestarsi alle interpretazioni più disparate perdendo di credibilità ed efficacia. Proprio per questo è utile partire dalla definizione di smart city data dalla Commissione europea nell’ambito del piano sulle tecnologie energetiche del 2009 (Set Plan), quando si legge che “…la presente iniziativa supporterà città e regioni nell’affrontare misure ambiziose e pioneristiche atte a condurre al 2020 verso una riduzione delle emissioni serra del 40%… dando prova ai cittadini che… possano migliorare la qualità della vita e l’economia locale”. In primo luogo al centro dell’iniziativa stanno gli obiettivi di sostenibilità, a cominciare dalla lotta al cambiamento climatico. In secondo luogo si ritrovano gli obiettivi di benessere e qualità della vita che collocano l’iniziativa all’interno di un dibattito aggiornato sull’economia. C’è infine il ruolo – trasversale – delle tecnologie, che diventano uno degli strumenti privilegiati per perseguire gli obiettivi indicati. Una smart city dovrebbe quindi rappresentare in primo luogo un’eccellenza nella ricerca e sperimentazione di un modello urbano sostenibile. In questo quadro il primo passo dovrebbe essere quello di dotarsi di un piano d’azione, o master plan, che contenga gli obiettivi a breve e medio termine e sia integrato da un sistema di indicatori per la verifica dei progressi. Secondo una proposta sviluppata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile in collaborazione con il Comune di Piacenza, proprio riprendendo le indicazioni della Commissione europea, un piano del genere potrebbe essere strutturato attorno a tre obiettivi strategici:
1. ridurre le emissioni di carbonio (di almeno il 40% rispetto al 1990)
2. offrire adeguati livelli di benessere economico
3. promuovere standard elevati di qualità della vita.
Si tratta di obiettivi non banali, che richiedono notevoli capacità di governance per un’amministrazione locale e rimandano alle caratteristiche sopra elencate, che fanno delle città luoghi privilegiati per la sperimentazione di modelli innovativi per la sostenibilità.
Andrea Barbabella

LOGO ... Tratti da Ecoscienza 5/2012
5 dicembre 2012

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Tratto da

1

www.impresaoggi.com