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L'economia italiana negli anni '80. Inizio della ripresa delle imprese italiane.

Più che la meta del tuo viaggio importa lo spirito con cui l'hai raggiunta, e pertanto, non dobbiamo subordinare il nostro animo ad alcun luogo. Bisogna vivere con questa convinzione. "Non sono nato per un solo cantuccio di terra, la mia patria è l'Universo intero.

Seneca Lettere morali a Lucilio


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L'emergenza economica, nella quale si era trovato il Paese a seguito della crisi petrolifera del 1973, era rientrata grazie alla relativa stabilizzazione del medio oriente, ma, nel 1979, riesplode la tensione sui prezzi del petrolio a causa della rivoluzione in Iran. L'inflazione nel Paese supera il 20% e occorre un'altra dura recessione per riguadagnare la stabilità dei prezzi; la recessione '80 - '84 è assai più pesante di quella del '75 e costa al Paese una forte perdita occupazionale.

Nel frattempo la dipendenza energetica dall'estero è aumentata, nel 1987 gli idrocarburi coprono l'80% dei consumi di energia del Paese, cosicché, a seguito della seconda crisi petrolifera, le perdite di bilancio dell'Enel, nel 1982, arrivano a 2.200 miliardi.

Fortunatamente, la contrazione del fabbisogno energetico per unità di prodotto, che caratterizza tutto il mondo industriale, e che dipende da una drastica riduzione dei consumi di elettricità da parte del sistema industriale e dalla lenta, ma inesorabile transizione dall'era industriale all'era postindustriale, fa sì che il rapporto tra consumi energetici e pil tenda a diminuire. L'Italia si caratterizza, peraltro, per il Paese nel quale tale rapporto diminuisce più che negli altri paesi industrializzati. Ancora una volta la legge del mercato e le imprese dànno una mano al disastrato sistema energetico del Paese.

A partire dal 1985 si assiste ad un progressivo deterioramento dei saldi di finanza pubblica, con l'esplosione del debito che, nel 1990, supera il 100% del pil. La pressione fiscale aumenta vertiginosamente per tentare di arrestare l'emorragia, ma la spesa corrente resta fuori controllo e gli interessi per pagare il debito pubblico innescano un pericoloso circolo vizioso.

Nel giugno 1981 il governo decide un provvedimento fondamentale per incidere sul debito pubblico: il divorzio tra tesoro e Banca d'Italia.
Quest'ultima non avrebbe più finanziato il deficit dello stato stampando banconote, il deficit sarebbe stato compensato, invece, attingendo al risparmio privato attraverso l'emissione di titoli di debito pubblico (bot, cct, btc). Questa decisione viene tuttora difesa a spada tratta dagli estensori, ma quello che risulta dai fatti è che la Banca d'Italia, che aveva sempre fatto da freno, perde il controllo del debito pubblico, il debito diventa strumento di gestione politica del sottogoverno, gli interessi che il tesoro deve pagare sui titoli di debito pubblico vanno ad accrescere il debito stesso, tanto che si arriverà a ridurre la spesa corrente ma ad aumentare il debito per effetto degli interessi da pagare.

La gestione delle imprese pubbliche ha completamente perso di vista i criteri dell'efficienza, della competitività, della capacità di stare al passo con i cambiamenti. Ammetterà Gianni De Michelis, vent'anni dopo il suo ministero alle partecipazioni statali del 1980, che la degenerazione del rapporto tra imprese pubbliche e partiti «rese impossibile al management delle imprese di compiere in modo corretto il loro dovere. La pressione della politica era tale che finiva per deresponsabilizzare i dirigenti, e il fatto che le perdite di bilancio venissero giustificate con ragioni politiche o con ragioni sociali distoglieva i manager dall'obiettivo di rimettere a posto i bilanci. Si creava addirittura l'effetto opposto: visto che era perfettamente giustificabile perdere cento miliardi, veniva meno qualsiasi preoccupazione di perderne duecento o trecento».
Un altro elemento distorcente dell'economia è rappresentato dai trattamenti retributivi dei dipendenti delle aziende pubbliche: la difesa corporativa dei salari di queste aziende prevale sulla difesa dei milioni di italiani che pagano bollette (elettricità, gas, acqua, telefono) gonfiate a causa di trattamenti retributivi altamente superiori alla media e nessuno pensa di porre un limite allo scandalo di stipendi del 30 - 40% più alti degli stipendi delle imprese private.
Comunque, tutta la politica salariale degli anni '80 deve sottostare al principio del meccanismo dell'adeguamento automatico; le vicende di tutto il decennio mostrano che i limitati successi di politica monetaria (stabilità del cambio lira/marco, liberalizzazione dei movimenti di capitale, riduzione della banda di oscillazione della lira nello Sme) non sono in grado di portare la nostra economia alla stabilità, di fronte ai comportamenti incoerenti della politica di bilancio e di quella salariale.

Nell'arco di quarantacinque anni la struttura dell'economia italiana è cambiata profondamente, ma quello che avrebbe dovuto essere il punto di forza del capitalismo e cioè il rafforzamento della competitività ha subìto i cambiamenti meno significativi, quando non negativi.

La grande impresa è rimasta debole e il sistema finanziario cristallizzato in un immobilismo patologico, cosicché, i vecchi limiti del capitalismo, dell'essere senza capitale, della scarsa attitudine a rischiare, dell'abitudine ad adagiarsi sull'investimento dello stato sono rimasti una costante della politica industriale italiana.

Dalla crisi degli anni settanta alcune imprese hanno tratto la forza per un rilancio e una rigenerazione; le piccole e medie imprese, reinvestendo gli utili, sono state in grado di affrontare le sfide dell'innovazione tecnologica se non addirittura della diversificazione dell'area di business, la grande impresa, per lo più, ha visto, invece, aggravati tre aspetti: il rapporto industria-finanza, la cultura imprenditoriale, la struttura familiare.

Eugenio Caruso

Nella versione PDF oltre agli aspetti economici viene illustrato, anche, dettagliatamente, lo scenario storico.


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