E’  trascorso più di un decennio dalla scadenza dei cinque anni di moratoria sull’uso  dell’energia nucleare imposta per legge, a seguito della famosa interpretazione  restrittiva dei referendum dell’87, ma nulla si muove, caso unico nel mondo,  per una soluzione del problema energetico. 
La  legge sulla moratoria resta un altro dei tanti misteri italiani che, se  sarà chiarito, mostrerà che, non il desiderio  di assecondare la volontà popolare, ma celati interessi economici, magari gli  stessi che, con il cosiddetto scandalo Ippolito, tentarono di affossare per la  prima volta il nucleare in Italia, sono alla base di quella scelta.
   
  Nel  novembre '87, si svolgono tre referendum sull'energia da fonte nucleare;  l'80,6% vota contro le norme sulla localizzazione delle centrali nucleari, il  79,7% contro i contributi agli enti locali che ospitano le centrali, il 71,9%  contro la legge che consente all'Enel di partecipare alla realizzazione di  centrali nucleari all'estero.
I  socialisti, spinti dai manager dell'Eni che non possono mettere le mani sulle  forniture del combustibile nucleare, pretendono che alla volontà popolare venga  data un'applicazione più estensiva e totalizzante imponendo la moratoria con  l'arresto delle realizzazioni in atto e lo smantellamento delle centrali in  funzione.
I  risultati dei tre referendum non giustificavano  la chiusura di Caorso e di Trino Vercellese, né lo stop alla costruzione di  Montalto di Castro. La situazione energetica italiana, dal momento di quelle  decisioni si è fatta ancora più drammatica; un dato certo è che, nell'ultimo  ventennio, l'Italia è stato l'unico Paese, tra quelli industrializzati, che ha  visto aumentare la propria dipendenza energetica dall'estero.
Per  le sole fonti di elettricità, la dipendenza è passata dal 61 al 79%, mentre in  Giappone è scesa dal 73 al 63%, in Francia dal 38% a zero, in Gran Bretagna dal  31 al 6%, in Germania dal 23 all'8%. Per coprire i consumi di energia elettrica  dobbiamo importare dall'estero 35 miliardi di kilowattora per un valore di  circa 2.500 miliardi di lire e la conseguente perdita di migliaia di posti di  lavoro. La chiusura e il blocco delle centrali sono costati allo Stato dai 10  ai 12 mila miliardi, il mancato risparmio della produzione nucleare rispetto a  gas o petrolio è attorno ai 700 miliardi all'anno, una vera e propria  catastrofe economica e anche tecnologica, se si pensa alla dispersione delle  competenze di migliaia di professionisti che operavano nel settore nucleare.
Tutti  i paesi industrializzati, dopo Three Miles Island e Chernobyl, hanno deciso una  pausa nei progetti di costruzione di nuove centrali nucleari, ma nessuno ha  pensato di attuare la decisione antistorica di una completa smobilitazione.  Quando, in tutto il mondo, riprenderà la costruzione di centrali nucleari, intrinsecamente sicure, il nostro Paese  sarà tagliato fuori e dovrà subire dall'estero, non solo la dipendenza  energetica, ma anche quella tecnologica in un campo nel quale siamo stati un  tempo all'avanguardia; inoltre, la produzione di energia elettrica, in Italia,  quasi esclusivamente da fonte termoelettrica, è causa di un'emissione di CO2, in atmosfera, molto  maggiore di quella degli altri paesi più industrializzati.
Un po' di storia 
La  leggenda metropolitana assicura che in Italia non abbiamo il nucleare perché la  grande mobilitazione popolare e ambientalista, culminata con il referendum del  1987, impose ai nostri governi l’abbandono di questa forma di energia.
  Agli  inizi degli anni sessanta l’Italia, prima della nazionalizzazione dell’energia  elettrica, faceva parte dei paesi all’avanguardia con ben tre centrali nucleari  funzionanti: Latina, Trino Vercellese  e  Garigliano. 
  Con  la nazionalizzazione tutti si aspettavano un’accelerazione in questo settore,  anche per dimostrare ai privati che il pubblico funzionava meglio. Si constatò  invece una potente frenata.
  Nel  1967 l’ENEL si impegnò a ordinare almeno una centrale nucleare all’anno,  scegliendo gli impianti tra i due competitor nazionali Fiat, Tosi e Marelli (su  licenza Westinghouse) e Iri, Ansaldo (su licenza General Electric); l’Eni  avrebbe fornito il combustibile.
  Lo  scontro tra i due gruppi in lizza è serrato; il primo ordine dell’ENEL, nel  1969, la centrale di Corso, è aggiudicato ad Iri, Ansaldo. Secondo una certa  logica di alternanza il secondo dovrebbe andare al gruppo guidato da Fiat, ma la  sinistra democristiana con il sotterraneo ma forte sostegno del Pci spinge perché  ulteriori commesse cadano nell’orbita delle partecipazioni statali e  favoriscano, Genova, la città dell’Iri. Questa lotta di potere porta al  dilatarsi dei tempi per l’acquisto della seconda centrale, acquisto che avviene  solo nel 1974 con la centrale di Montalto di Castro affidata ancora all’Iri.
 All’allungamento dei tempi concorrono due  vicende, quella della centrale di Corso e lo scontro Iri, Eni.
La  scelta dell’ENEL era caduta infatti su un reattore della GE che il colosso  statunitense non aveva mai realizzato; la costruzione richiese più di otto anni  e una volta in funzione, la centrale ebbe un numero inverosimile di interruzioni  che mandarono un messaggio di inaffidabilità. 
Tra  il ’68 e il ’71 si accese una lotta furiosa tra Iri ed Eni; quest’ultima,  infatti, voleva entrare nel merito della progettazione dei reattori. Solo nel  dicembre del 1971 il ministro del bilancio e della programmazione economica  Antonio Giolitti approvò una delibera che stabiliva ruoli e compiti di Iri ed  Eni.
 Nel 1973, all’indomani della crisi  petrolifera, l’energia nucleare sembrava l’unica soluzione percorribile per un  paese povero di combustibili fossili. Infatti, Carlo Donat Cattin, ministro  dell’industria, e democristiano decisionista, approva nel 1975 il Piano  energetico nazionale che prevede la costruzione di centrali nucleari per 20  mila MW entro il 1985, piano che si ispirava a quello centralistico e  dirigistico della Francia di De Gaulle.
Ma  il ritiro dalla competizione della Fiat che poteva rappresentare il più forte  centro di potere in grado di forzare la politica, la debolezza del management di Enel e Iri (che si trovava nella  difficile situazione di rappresentare sia la Westinghouse che la GE), il modesto interesse dell’Eni,  più sensibile ai combustibili fossili, la paura di molti per il faraonico piano  di Donat Cattin, che sembrava più una provocazione che un progetto reale, portarono,  gradatamente ad una perdita di interesse nei riguardi del nucleare, lasciando  ampio spazio alle intransigenze ambientaliste e qualunquiste.
Eugenio Caruso
12-12-2000
Mentre  l'Enel si dibatte tra i suoi dubbi amletici, in tutto il mondo, tra il 1970 e  il 1980 la produzione di energia elettrica da fonte nucleare passa da 150  miliardi a 620 miliardi di kWh.
Eugenio Caruso 
 