Inferno, Canto XXII. I malversatori (seconda parte)

COMMENTO

Il canto ventiduesimo si svolge nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i malversatori; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300. È strettamente legato al precedente, del quale costituisce il "secondo atto". «Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de’ barattieri in persona d’uno navarrese, e de’ barattieri medesimi questo canta.» Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo.
Il canto inizia riallacciandosi direttamente al precedente e spiega con una similitudine il suono del cul del diavolo fatto "trombetta". Dante vi richiama con dovizia di dettagli le proprie vicende biografiche, nelle quali ha avuto modo di vedere operazioni militari d'ogni tipo e tutti i segnali che le caratterizzano (la marcia, l'assalto, la rassegna, la ritirata, le sortite a cavallo, i tornei a squadra e in singolo mossi da suoni di trombe, campane, tamburi, segnali visivi dai castelli, cose all'italiana e cosa alla straniera, né pedoni, né navi che seguissero segnali di terra o le stelle), ma mai uno così strano come questo con cui i diavoli si mettono in marcia (cioè il peto del loro comandante). Questa parentesi, dove Dante finge di essere un po' stupefatto e un po' saccente, è un chiaro esempio dello stile comico del brano dei barattieri: egli usa parole marziali e magniloquenti per metter su un divertissement basato sulla parodia.
Notevole è anche, all'inizio del canto, l'accumulazione di riferimenti militari che si riferiscono a episodi autobiografici: Dante menziona la battaglia di Campaldino, che fu seguita dall'assedio di Caprona citato nel canto precedente; questa spedizione fiorentina del 1289 tratta dell'unica esperienza militare che Dante ebbe (a quanto si sa).
Dante e Virgilio dunque stanno camminando in compagnia dei dieci demoni ("i Malebranche") lungo l'argine della bolgia, ma il pellegrino non è spaventato o inorridito (come per esempio sulla schiena di Gerione), anzi non gli viene in mente altro che un proverbio "ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni (cioè i furfanti)", come a voler dire che a ogni luogo si confa' una compagnia "in tema" e che essendo all'Inferno si deve rassegnare a passeggiare con i diavoli.
Come detto da Malacoda, i demoni devono pattugliare la pece bollente, per controllare che nessun dannato ne esca. Anche Dante guardando la pece vede i dannati che escono con la schiena, come i delfini, o con la faccia, come le ranocchie (da notare il continuo riferimento a similitudini animalesche, indice della bestialità di questi dannati - Dante era infatti particolarmente avverso ai peccati che riguardavano il denaro - e dello stile comico), le quali si affacciano dall'acqua sugli stagni, ma appena vedono un serpente si rituffano tutte. Così facevano i dannati, sempre pronti a beffarsi dei diavoli in un continuo gioco di astuzie e furberie contrapposte, diametralmente opposto, per esempio, all'episodio dei centauri, dove nessun dannato pare sognarsi minimamente l'idea di uscire dal sangue bollente del Flegetonte.
I barattieri quindi appena vedono l'ombra dei diavoli si rituffano, ma uno di essi (e Dante nel ripensarci mentre scrive se ne raccapriccia ancora), sempre come talvolta fanno le rane, è troppo lento a re-immergersi e viene afferrato da Graffiacane, il diavolo più vicino, che lo prende per i capelli impegolati con l'uncino e, tirandolo su come una lontra (nero, lucido per la pece sgrondante) si appresta a scuoiarlo.
Dante, nella sua estrema precisione, premette che dei diavoli si ricorda già tutti i nomi per averli sentiti chiamare a uno a uno e per averli sentiti discorrere nella marcia fin lì. I diavoli stanno gridando "O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", ma Virgilio, su richiesta di Dante, chiede che prima il dannato dica chi sia presentandosi.
Egli risponde che è nativo della Navarra e che sua madre lo mise al servizio di un Signore, essendo suo padre già morto per aver distrutto sé e le sue cose (suicida e scialacquatore quindi); entrò poi nella famiglia (intesa qui come insieme dei servi) del re Tebaldo (Thibaut II di Navarra o Thibaut V di Champagne) presso di cui compie il peccato di baratteria per il quale è punito. I commentatori antichi diedero a questa figura il nome di Ciampòlo di Navarra (forse una contrazione di Giampaolo o del francese Jean Paul), ma le notizie storiche su di esso sono limitate al solo testo dantesco.
Ciriatto allora, il diavolo che somiglia a un porco nel nome e di fatto, fece sentire al dannato come una delle sue zanne, che gli uscivano ai due lati della bocca, ferisse, strusciandola però solamente ("sdruscia"). Dante non è impaurito, ma forse incuriosito da questo sorco finito tra male gatte. Barbariccia, che è il "sergente" di questa truppa, allora "il chiuse con le braccia": chi? Ciriatto o Ciampolo? Sembra più probabile il dannato; e qual è il gesto esattamente? Se dalla scena successiva sembra improbabile che lo tenesse abbracciato (egli infatti si divincolerà) forse allora si potrebbe intendere come egli si sia solo interposto tra i due per contenere i diavoli, magari allargando le braccia, essendo il verbo "chiudere" anche sinonimo di "recintare". Sempre Barbariccia dice poi"State in là, mentr'io lo 'nforco" cioè vorrebbe escludere gli altri diavoli dal piacere della tortura del dannato, anche se qualcuno ci ha letto "inforcare" quale "montare a cavallo".
Dante e Virgilio sembrano però tifare una volta tanto per il dannato (una concessione del tutto straordinaria all'ineluttabilità del giudizio divino che commina le pene giuste ai dannati, in linea però con l'atipicità di questo brano), quindi gli rivolgono un'altra domanda ritardando il supplizio: "de li altri rii / conosci tu alcun che sia latino (qui sinonimo di italiano)/ sotto la pece?". Il dannato risponde che lì accanto a lui c'era fino a poco fa un "vicino" dell'Italia, un sardo, e che tanto vorrebbe tornare accanto a lui sotto la pece senza paura né di unghia né di uncino.
Nel ritmo incalzante dell'episodio, il discorso di Ciampòlo è di nuovo interrotto dai diavoli. Libicocco, che freme di impazienza per usare l'uncino profferisce laconicamente "Troppo avem sofferto!" e gli stacca un pezzo di braccio con l'arpione. Draghignazzo allora alla vista del sangue si esalta e si avventa sulle gambe del poveretto, ma basta un'occhiataccia del loro capo per fermarli. Le ferite però non sono orride e non danno dolore al malcapitato (si pensi per esempio il raccapriccio di Dante in altre occasioni come con gli scialacquatori o i seminatori di discordie per sottolineare anche qui il tono scanzonato e grottesco), il quale le guarda, ma riprende subito a parlare, spronato da Virgilio.
Il dannato di cui parlava poco fa è Frate Gomita, gallurese, ricettacolo di ogni frode, che trattò i nemici del suo signore in maniera che ognuno ne ebbe profitto (lui e loro, intende: prese i soldi e li lasciò liberi; ma anche negli altri offici fu un barattiere, "non picciol, ma sovrano". Con lui c'è Michele Zanche del Logudoro, e le loro due lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna.
Al vedere i diavoli minacciarlo sempre più da vicino, Ciampolo si zittisce. Farfarello sta "stralunando" gli occhi e il gran proposto (un altro modo di indicare ancora Barbariccia, che è stato appunto proposto come capo dagli altri diavoli) lo scaccia: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!". Ciampolo allora propone un patto di scambio: se essi (Dante e Virgilio) vogliono vedere altri loro compaesani toscani e lombardi, lui li può richiamare se i Malebranche staranno un poco in ritirata, così che essi non temano le loro ombre; basterà che egli "suffoli" un segnale convenuto e parecchi (sette con valore indeterminato) usciranno fuori.
Al che Cagnazzo leva il muso e lo accusa di volerli ingannare per tornare nella pece, ma Ciampolo risponde di compiere l'inganno a danno degli altri dannati, adescando i diavoli. Alichino allora, in contrasto con gli altri diavoli, accetta per primo la sua proposta, minacciandolo di riafferrarlo se solo tenta di ributtarsi nella pece ("non ti verrò dietro di galoppo, / ma batterò sopra la pece l'ali" cioè con le mie ali sarò più veloce che un cavallo al galoppo). I diavoli allora convinti da Alichino arretrano appena dietro la riva, coperti anche dalla leggera pendenza delle Malebolge ed il primo a farlo è proprio Cagnazzo, quello che aveva manifestato perplessità, come a intendere il suo spazientimento per il gioco o l'ardimento dopo essere stato convinto: in ogni caso è un realistico particolare psicologico.
Tutti stanno a guardare, ma il Navarrese, studiato il momento giusto, si acquatta e poi spicca il tuffo nella pece beffando tutti. Alichino spicca il salto per acciuffarlo, ma deve fare come il falcone che risale quando l'anatra si nasconde sotto l'acqua: cioè più rapida delle ali fu la paura. Tutti sono presi dai rimorsi, ma più di tutti Alichino e dopo di lui Calcabrina, che aveva seguito il volo sperando che il dannato fuggisse per potersi azzuffare; infatti appena il barattiere sparisce egli rivolge i suoi artigli al compagno, che a sua volta risponde con artigliate da sparvier grifagno. Nella zuffa entrambi però rotolano nella pece bollente. Il caldo si rivela meraviglioso pacificatore perché i due si separano subito, ma non riescono a rialzarsi in volo con le ali tutte invischiate di pece, e devono essere afferrati dai compagni, pur essendo "già cotti dentro la crosta".
Il canto, ancor più del precedente, assume una forma drammatica (in senso teatrale), accentuando l'aspetto di "commedia": e infatti Dante la definisce ludo, che in latino medievale indica una "rappresentazione drammatica" (in francese antico jeu = "gioco" si usa per designare drammi sacri e profani, come nel Jeu d'Adam "Dramma di Adamo"). Tema di questo "spettacolo" è una gara di astuzia fra diavoli e barattiere, entrambi fraudolenti per definizione, ma che entrambi finiscono sconfitti: i diavoli perché perdono la preda, il barattiere perché non guadagna altro che la sua pena, tornando nella pece dalla quale era uscito all'inizio per trovare un po' di refrigerio. L'azione scenica è ben rappresentata dal vivace dialogo a più voci, in cui si alternano Dante e Virgilio che parlano con il dannato da una parte, e i diavoli dall'altra, o dal mimo finale. Il registro è comico anche nel linguaggio, nell'assenza di riferimenti alle fonti classiche, così presenti nel resto della Commedia, nelle somiglianze dei peccatori con gli animali (delfini, rane, e poi lontra, ratto, anatra): l'episodio è d'altronde paragonato, nel canto successivo, alla favola esopica della rana e del topo.

TESTO

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo; 3

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra; 6

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane; 9

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella. 12

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni. 15

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa. 18

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena,
che s’argomentin di campar lor legno, 21

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori il dosso
e nascondea in men che non balena. 24

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso, 27

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori. 30

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia; 33

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra. 36

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come. 39

«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti. 42

E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi». 45

Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
«I’ fui del regno di Navarra nato. 48

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose. 51

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:
quivi mi misi a far baratteria;
di ch’io rendo ragione in questo caldo». 54

E Ciriatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia. 57

Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia,
e disse: «State in là, mentr’io lo ’nforco». 60

E al maestro mio volse la faccia:
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia». 63

Lo duca dunque: «Or dì : de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii, 66

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!». 69

E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 72

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio. 75

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro: 78

«Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, 81

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda. 84

Danar si tolse, e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano. 87

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche. 90

Omè, vedete l’altro che digrigna:
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna». 93

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!». 96

«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaurato appresso
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire; 99

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso, 102

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette». 105

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!». 108

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia». 111

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo, 114

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali». 117

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse;
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo. 120

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse. 123

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!». 126

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar: quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto: 129

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto. 132

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa; 135

e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. 138

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno. 141

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue. 144

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente 147

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta;

e noi lasciammo lor così ’mpacciati. 151

Video HD https://www.youtube.com/watch?v=IGxY1a6-xyg

Gassman https://www.youtube.com/watch?v=SDpOqNiTKto

PARAFRASI

Io ho visto in altre occasioni dei cavalieri mettersi in marcia, attaccare battaglia e sfilare in parata, talvolta battere in ritirata; ho visto soldati a cavallo nella vostra terra, o Aretini, e li ho visti fare incursioni, partecipare a tornei a squadre e individuali;
li ho visti obbedire a squilli di tromba, a campane, a tamburi e a segnali dai castelli, con strumenti nostrani e stranieri;
ma non ho mai visto cavalieri o fanti muoversi al suono di un così bizzarro strumento a fiato, né ho visto una nave muoversi per un segnale simile venuto da terra o dal cielo.
Noi camminavamo coi dieci diavoli: feroce compagnia, ahimè, ma in chiesa si deve stare coi santi e alla taverna con gli ubriaconi.
Io avevo occhi solo alla pece, per vedere tutto quanto era contenuto nella Bolgia e la gente che vi era bruciata all'interno.
Come i delfini, quando emergono con la schiena e indicano ai marinai che devono salvare la loro nave (da una tempesta),
così talvolta, per alleviare la loro pena, alcuni peccatori mostravano il dorso fuori della pece, e si nascondevano in men che non si dica.
E come i ranocchi stanno a pelo d'acqua in un fosso, col muso fuori e celando le zampe e il resto del corpo, così stavano i peccatori da ogni parte; ma non appena si avvicinava Barbariccia, tornavano sotto la pece bollente.
Io vidi, e ancora ne provo orrore in cuore, un dannato che esitava, proprio come quando una rana resta fuor d'acqua e un'altra si immerge;
e Graffiacane, che gli era proprio di fronte, afferrò con l'uncino i suoi capelli imbrattati di pece e lo tirò su come se fosse una lontra.
Io conoscevo il nome di tutti quanti i demoni, perché li notai quando furono scelti e prestai attenzione quando si chiamavano l'un l'altro.
I maledetti gridavano a una voce: «O Rubicante, mettigli gli artigli addosso e scuoialo!»
E io: «Maestro mio, se puoi, fa' in modo che io sappia chi è lo sventurato che è caduto nelle mani dei suoi avversari».
Il mio maestro gli si avvicinò a lato; gli chiese chi fosse e quello rispose: «Io nacqui nel regno di Navarra.
Mia madre mi mise a servizio di un signore, dopo avermi generato con un ribaldo che fu scialacquatore e suicida.
Poi fui al servizio del buon re Tebaldo II (di Champagne): qui iniziai a compiere baratterie, di cui sconto la pena in questo calore».
E Ciriatto, a cui usciva da ogni lato della bocca una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una sola lacerava le carni.
Il topo era finito tra le grinfie di gatte malvagie; ma Barbariccia lo protesse con le braccia, dicendo: «State lontani, mentre lo infilzo».
E poi il demone si rivolse a Virgilio, dicendogli: «Domandagli ancora, se desideri sapere altro di lui, prima che qualcuno lo faccia a pezzi».
Allora il maestro: «Dimmi: sai se tra gli altri dannati sotto la pece ci siano degli italiani?» E quello: «Io mi separai poco fa da uno che proviene da un paese vicino (la Sardegna). Fossi ancora insieme a lui coperto dalla pece, in quanto non avrei paura degli artigli né degli uncini dei Malebranche!»
E Libicocco disse: «Abbiamo pazientato troppo»; e gli prese il braccio con l'uncino, cosicché gli portò via un brandello di carne.
Anche Draghignazzo volle ferirlo alle gambe, ma il loro capo rivolse a tutti loro un'occhiata severa.
Quando essi si furono placati un poco, il mio maestro chiese subito al dannato, che ancora guardava la sua ferita:
«Chi fu colui dal quale dici che ti sei malamente separato per venire a riva?» E lui rispose: «Fu frate Gomìta, della Gallura, ricettacolo di ogni imbroglio, che ebbe in suo potere i nemici del suo signore (Nino Visconti) e si comportò con loro in modo che ciascuno ne ebbe vantaggio.
Ne prese danari e li liberò facilmente, così come racconta; e anche negli altri incarichi fu un barattiere non mediocre, ma sopraffino.
È solito stare con lui messer Michele Zanche di Logudoro e le loro lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna.
Ahimè, vedete il diavolo (Farfarello) che digrigna i denti: io direi altro, ma temo che quello sia pronto a procurarmi sofferenze».
E il gran capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi per colpire, disse: «Fatti in là, uccello malefico!»
Poi il dannato, spaurito, ricominciò: «Se voi volete vedere o sentire toscani o lombardi, io li farò venire qui;
ma i Malebranche stiano un poco indietro, così che i dannati non temano le loro rappresaglie; e io, stando in questo punto in disparte, in cambio di uno solo come me, ne farò emergere sette fischiando, come siamo soliti fare quando qualcuno di noi affiora dalla pece».
A quelle parole Cagnazzo alzò il muso, scrollando la testa, e disse: «Senti che inganno ha escogitato per gettarsi sotto la pece!»
Allora il dannato, che conosceva ogni astuzia per imbrogliare, rispose: «Sarei davvero troppo furbo se procurassi ai miei compagni di pena nuovi tormenti».
Alichino non si trattenne e di contro agli altri disse al dannato: «Se tu ti tufferai, non ti inseguirò a piedi ma volando sulla pece. Lasciategli il collo e ripariamoci dietro l'argine, così vedremo se tu da solo vali più di tutti noi».
O lettore, adesso ascolterai una nuova farsa: ogni diavolo rivolse lo sguardo all'argine opposto, a cominciare da colui (Cagnazzo) che era più restio a fare questo.
Il Navarrese colse prontamente l'occasione; puntò i piedi sulla roccia e in un istante saltò e si divincolò dal loro capo (Barbariccia).
Ognuno di loro si sentì colpevole della cosa, ma soprattutto quello che l'aveva provocata (Alichino); quindi si mosse e gridò al dannato: «Ti ho preso!»
Ma non gli servì a molto, poiché le ali non furono più rapide della paura del barattiere: quello si immerse e il demone si impennò volando in alto e sollevando il petto:
proprio come fa l'anitra di colpo, quando il falcone si avvicina e lei si tuffa in acqua, così che il rapace torna in alto stizzito e stanco.
Calcabrina, infuriato per la beffa, lo inseguì volando e desiderò che il dannato scappasse per azzuffarsi col compagno;
e non appena il barattiere fu scomparso, rivolse gli artigli contro Alichino e lo ghermì proprio sopra il fossato.
Ma l'altro fu pronto a difendersi come uno sparviero adulto e ad artigliarlo a sua volta, ed entrambi caddero in mezzo al bollente stagno di pece.
Il caldo li fece subito dividere, ma sollevarsi in volo era impossibile, tanto avevano le ali imbrattate di pece.
Barbariccia, avvilito insieme agli altri, ne fece volare quattro sull'altro argine con tutti gli uncini, e quelli scesero rapidamente da un lato e dall'altro nei punti loro assegnati;
porsero gli uncini ai due compagni impegolati, che erano già cotti sotto la superficie vischiosa della pece; e noi li lasciammo lì in quell'impaccio.

Giampaolo da NAVARRA

Ciampólo (da Gian Paolo, o Jean Paul), originario del regno di Navarra, è un personaggio della Divina Commedia
«I' fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo d'un segnor mi puose,
che m'avea generato d'un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo»
(Inferno XXII, vv. 48-54).
Di questo personaggio nulla si sa, se non quello che ci viene detto da Dante stesso: fu al servizio del re Tebaldo II di Navarra, (V come conte di Champagne), sotto il quale commise malversazioni. Lo stesso nome Ciampolo, peraltro, non compare nel testo, ma viene attribuito al personaggio dagli antichi commentatori. Per questo è stato anche identificato col poeta giullaresco Rutebeuf, anch'egli attivo alla corte di re Tebaldo, del quale commemorò la partecipazione alla Crociata di San Luigi. Note

Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso - 7 ottobre -2019

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