Eraclito e i suoi aforismi

Eràclito di Efeso (in greco antico: Herákleitos, "gloria di Era" - Efeso, 535 a.C. – Efeso, 475 a.C.) è stato uno dei maggiori pensatori presocratici. Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclito aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca. A esempio Aristotele, che si suppone ne abbia letto integralmente l'opera, lo definisce «l'oscuro»; persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'«oscuro», sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo. Eraclito influenzò in vario modo i pensatori successivi: da Platone allo stoicismo, la cui fisica ripropone in gran parte la teoria eraclitea del logos.
Nacque in una famiglia aristocratica; il padre, dal nome incerto (le fonti riportano vari possibili nomi: Bautore, Blosone, Blysone, Erachione, Erachino, Eraconte o Eraconto che, invece, a quanto presentato da Giannantoni si suppose essere il nome del nonno), era un discendente di Androclo, il fondatore di Efeso, e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi. A Eraclito non interessava né la fama né il potere né la ricchezza; infatti, nonostante come primogenito avesse diritto al titolo onorifico di basileus (che in greco significava re ed era la massima autorità sacerdotale), rinunciò a esso in favore del fratello minore.
Quando il re di Persia Dario, dopo aver letto il suo libro Sulla natura, lo invitò a corte promettendogli grandi onori, Eraclito rifiutò la sua proposta, rispondendogli che, mentre "tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia" (che per Eraclito consiste nel "placare l'insaziabilità dei sensi" e nell'ambizione al potere), lui invece è immune dal desiderio e rifugge ogni privilegio, fonte d'invidia, restando a casa sua e accontentandosi di quel poco che ha. Per il suo distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e per la ricchezza, Eraclito non piaceva molto agli efesini; per questo venne criticato dagli efesini quando riuscì a convincere il tiranno Melancoma ad abdicare e ad andare a vivere nei boschi, ad aperto contatto con la natura. Visse in solitudine nel tempio di Artemide ove, stando a quanto dice Diogene Laerzio, depose il suo libro, «avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché a esso si accostassero quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo».
Mentre Teofrasto sostiene che, a causa del temperamento di Eraclito, esso non fu mai portato a termine e fu scritto in modo discontinuo. Il testo sempre a quanto affermka Diogene Laerzio «godette di una tale fama che alcuni se ne fecero seguaci e furono chiamati Eraclitei». La deposizione del libro nel tempio conferma il suo temperamento aristocratico, essendo un gesto volto a proteggerlo dalla massa degli umani. Vivendo per lo più isolato, Eraclito trascorse gli ultimi anni prima della morte sui monti, cibandosi di sole piante, adottando una dieta strettamente vegetariana.
Durante l'eremitaggio sui monti, si ammalò di idropisia (malattia causata da accumulo di liquido sieroso, che gonfia a dismisura il corpo umano. Ricorre in Inferno XXX 52, e indica la pena cui è soggetto maestro Adamo, falsario di moneta), quindi «tornò in città e, in forma di enigma, chiese ai medici se fossero capaci di far sì che dall'inondazione venisse la siccità; e poiché quelli non lo comprendevano, si seppellì in una stalla sotto il calore dello sterco animale, sperando che l'umore evaporasse». Da qui si raccontano cinque versioni leggermente diverse. Nella prima, «non avendone, neppure così, alcun giovamento, morì dopo essere vissuto sessant'anni.». Ermippo presenta invece «ch'egli chiese ai medici se qualcuno fosse capace di essiccare l'umore vuotando gli intestini; alla loro risposta negativa, si distese al sole e ordinò ai ragazzi di ricoprirlo di sterco animale. Stando così disteso, il secondo giorno morì e fu seppellito nella piazza». Mentre Neante di Cizico «dice che era rimasto lì non essendo più riuscito a staccarsi lo sterco di dosso, e che, divenuto irriconoscibile per la deformazione, fu divorato dai cani». È possibile che la causa di morte di Eraclito sia stata proprio l'annegamento nello sterco di mucca, anche se «Aristone nell'opera Su Eraclito dice che era guarito dall'idropisia e che era morto per un'altra malattia; questo lo afferma anche Ippoboto».
Dell'opera di Eraclito ci rimangono testimonianze e frammenti sparsi, in forma di aforismi oracolari. In un frammento fa riferimento alla maniera di interpretare i responsi dell'oracolo di Apollo a Delfi:
«Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica.»
Sempre a quanto scritto da Diogene Laerzio vi furono moltissimi che diedero interpretazioni del suo libro tra i quali: Antistene, Eraclide Pontico, Cleante, Sfero lo Stoico, Pausania detto l'Eraclitista, Nicomede, Dionisio, Diodoto che negò che il testo trattasse della natura ma riguardasse la politica, Ieronimo e Scitino. Eraclito manifesta un atteggiamento filosofico che potremmo definire "iniziatico", ritenendo infatti di non poter essere compreso dalla moltitudine. A conferma di ciò disse:
«Uno è per me diecimila, se è il migliore»(Galeno, De Dignoscendis Pulsibus; frammento 49.
Ma non si limitò alla folla, infatti criticò apertamente anche i più sapienti dell'epoca, colpevoli di non aver compreso l'unitarietà del Logos:
«L'erudizione non insegna ad avere intelligenza: altrimenti l'avrebbe insegnata ad Esiodo e a Pitagora ed inoltre a Senofane e ad Ecateo.» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1; frammento 40)
In lui probabilmente sono presenti anche alcuni legami con la tradizione orfica e dionisiaca. Eraclito è comunemente passato alla storia come il "filosofo del divenire" legato al motto «tutto scorre» (pánta rhêi), ma in realtà il famoso detto non è attestato nei frammenti giunti fino a noi ed è probabilmente da attribuirsi al suo discepolo Cratilo che svilupperà il pensiero del maestro, estremizzandolo. In ogni caso la formula lessicale "panta rei" verrà coniata e utilizzata la prima volta da Simplicio in Phys., 1313, 11. L'origine di tale affermazione è legata all'aforisma eracliteo n. 91:
«Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va.»
In altri frammenti afferma che il solo Logos è immutabile, ma prende forme mutevoli in quanto l'universo eracliteo è panteistico e mutevole al tempo stesso:
«Non ascoltando me, ma il logos, è saggio intuire che tutto è Uno, e che l'Uno è tutto.» (Eraclito, Diels-Kranz, Fr. 50)
Se da un lato è sensato - per buona parte della critica storico-filosofica - riferirsi ad Eraclito come il "filosofo del divenire", su un altro versante interpretativo, sembra essere altrettanto appropriato approcciarsi al pensiero di Eraclito considerando la sua speculazione come incentrata su una prima e fondamentale importanza data al lògos. Nel sopra citato frammento, infatti, si nota quanto sia presente un non troppo implicito carattere rivelativo del lògos filosofico. Eraclito è il primo a mettersi in disparte: è perfettamente consapevole che l'ascolto debba essere indirizzato al lògos stesso e non, quasi profeticamente parlando, alla sua parola. In questo senso è egli stesso a farsi mero portavoce di un qualcosa che "già è" e che, in primis, "sempre è". Come ha osservato il filosofo Giorgio Colli, il verbo greco "eidénai" indica preminentemente un "congetturare per immagini", un "intuire". Tale analisi filologica, evidenzia quella peculiare tensione del mondo greco antico a legare l'atto stesso della conoscenza con quello della visione.
È in questo senso che, circa un secolo dopo, Platone userà il termine eìdos per enfatizzare il carattere mnemonico della conoscenza sensibile: infatti, il conoscere è, per Platone, risvegliare nell'anima dell'uomo l'idea di ciò che è stato già visto in un iperuranio ideale, esterno al mondo sensibile, in cui l'anima si trovava - contemplando e vedendo quelle idee - prima di incarnarsi nel corpo materiale. Emerge così, alla luce di queste precisazioni, la natura stessa del lògos eracliteo: è il senso del tutto che permea il tutto, rivelandosi indirettamente e rendendosi afferrabile tramite intuizione.
«È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi.» (Eraclito, frammento 88)
Ricorre nel pensiero filosofico di Eraclito la contrapposizione fra i desti e i dormienti: è «unico e comune il mondo per coloro che sono svegli», ossia quelle persone, che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose, mentre «agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo», riferendosi alla mentalità degli uomini comuni, i dormienti appunto. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all'interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita. Il pensiero eracliteo è quindi aristocratico, in quanto egli definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante. Secondo Eraclito infatti «rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie». La testimonianza di Diogene Laerzio conferma come Eraclito fosse uno «spregiatore del volgo».
«Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie» (Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscellanea))
Eraclito pone anche una contrapposizione tra i "migliori" (aristoi), i quali, a suo avviso, «preferiscono una sola cosa a tutte le altre: la gloria eterna alle cose caduche», e i "più" ( oi de polloi), i quali «invece pensano solo a saziarsi come bestie». Da tale contrapposizione si deduce che per Eraclito i "più" sono in maggioranza rispetto ai "migliori". Ancora, con queste premesse, si potrebbe attribuire ad Eraclito un pensiero non solo filosoficamente aristocratico, ma anche politicamente oligarchico, o monarchico:
«Legge è anche ubbidire alla volontà di uno solo»(Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscellanea))
e
«Uno è per me diecimila, se è il migliore» (Galeno, De Dignoscendis Pulsibus)
Si deduce di conseguenza una netta contrapposizione tra la "gloria eterna", la quale è sia ciò che è preferito dai "migliori" sia ciò che in quanto tale ne attesta l'essere "migliore", e tutte le altre cose, ossia quelle "caduche, mortali", tra le quali vi è anche il "pensare solo a saziarsi come bestie", che è quanto pensato dai "più".
La dottrina dei contrari
«Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.» (Ippolito di Roma, - Confutazione di tutte le eresie, IX, 9, 4; Diels-Kranz, frammento B 53.)
La dottrina dell'unità dei contrari è forse l'aspetto più originale del pensiero filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altro, poiché vivono solo l'uno in virtù dell'altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere pensata come una discesa da chi vi si trova in cima. Tra i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, questa guerra fra i contrari (polemos) in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vide quello che lui definiva il logos indiviso, ossia la legge universale della Natura.
Ed è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclito il fondatore di una logica degli opposti, antitetica a quella aristotelica e fondata sulla legge del divenire della realtà. In essa, infatti, tesi e antitesi (essere e non-essere) sono una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti ("nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo"; "siamo e non siamo"); ed è antitetica alla logica aristotelica perché opposta al suo principio di non contraddizione e del terzo escluso ("Il mare è l'acqua più pura e impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è imbevibile e mortale").
L'arché
«Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita.» (Frammento 62)
I primi filosofi greci cercavano l'origine, o archè, dei fenomeni negli enti della realtà naturale, a partire da Talete per il quale l'arché è l'acqua. È costante infatti nella filosofia antica la consapevolezza che le cose derivino da un principio che in quanto tale è unico, ingenerato e imperituro, indivisibile ed immutabile. La dottrina delle quattro essenze fondamentali della Terra, acqua, terra, aria, fuoco, fornisce gli elementi tra i quali i primi filosofi greci scelsero l'arché, i più generali tra i costituenti del mondo sensibile. Platone mostrerà che l'arché del sensibile sono le idee iperuraniche, e che dunque non può essere trovata nemmeno nei costituenti fondamentali, e che il sensibile postula l'esistenza di una realtà trascendente che lo causa.
Aristotele affermò che l'arché secondo Eraclito fosse il fuoco. In alcuni frammenti, effettivamente, sembra che Eraclito sostenga questa tesi: il fuoco, condensandosi, diventa aria, quindi acqua e poi terra; dopodiché, esso può rarefarsi per tornare ad essere acqua, aria, e in seguito fuoco. Quindi tutto ha origine e fine nel fuoco. Questo permetterebbe di collegare Eraclito con le ricerche naturalistiche dei filosofi di Mileto. In realtà, è probabile che il riferimento al fuoco vada inteso in senso più metaforico: in questo elemento fisico sembra infatti mostrarsi la teoria ontologica di Eraclito. Il fuoco è sempre vivo, in continuo movimento; è in ogni momento diverso dal momento precedente, ma allo stesso tempo sempre uguale a sé stesso. Analogamente l'arché è il primo ed unico principio, la nascita e la morte, l'inizio e la fine: come il fuoco, che nella giusta misura ora si accende e ora si spegne, in quanto è il divenire la realtà fondamentale, assieme al Logos.
L'universo come Dio-tutto
Questa visione cosmologica sfocia nell'identificazione panteistica dell'universo con Dio, inteso come unità dei contrari, mutamento continuo e fuoco generatore.
«La divinità è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Ed essa muta come il Fuoco.» (Frammento 67)
Questo Dio-tutto comprende quindi in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esiste da sempre e per sempre. Eraclito crede anche nella ciclicità del cosmo, concepita come insieme di fasi alterne di distruzione-produzione, al punto che alcuni autori attribuiscono a lui il concetto di ekpyrosis, una sorta di grande conflagrazione universale.
Influenza su autori successivi
La contrapposizione del "panta rei" eracliteo al pensiero di Parmenide, filosofo dell'essere, ebbe un'influenza determinante su Platone, il quale per risolverla cercherà di mostrare come il non-essere esiste solo in senso relativo, dando così un fondamento filosofico al senso greco del divenire. Hegel intravide in questo passaggio la dialettica fondamentale della filosofia greca. Secondo la sua interpretazione la filosofia di Parmenide è riassumibile nella frase "tutto è, nulla diviene" (tesi), mentre quella di Eraclito in "tutto diviene, nulla è" (antitesi); il momento di sintesi sarebbe quindi rappresentato da Platone. Lo stesso Hegel si considerava filosoficamente erede di Eraclito al punto da affermare: «Non c'è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia). Eraclito però, a differenza di Hegel non concepiva il divenire come una progressiva presa di coscienza dell'assoluto; per lui il divenire sembra consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: «tutte le cose sono Uno e l'Uno tutte le cose»; «questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà». Da questa visione del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo.
In seguito, se la tradizione filosofica aristotelica giudicò Eraclito incompatibile con i princìpi della logica formale, sebbene lo stesso Aristotele (come già Platone) ne accoglieva la teoria del divenire nel tentativo di conciliarla con la rigida staticità di Parmenide e introducendo così la dottrina del perenne passaggio dalla potenza all'atto, sarà presso i mistici neoplatonici che Eraclito troverà maggior fortuna. Secondo Plotino, che pure tiene fermi i capisaldi della logica parmenidea, «Eraclito seppe che l'Uno è eterno e spirituale: poiché solo ciò che è corporeo diviene eternamente e scorre» (Enneadi, V, 9). Anche i mistici cristiani come Meister Eckhart e Nicola Cusano poterono far propria la concezione eraclitea degli opposti collocandola su un piano trascendente e sovra-razionale: per costoro infatti, mentre sul piano immanente della vita quotidiana continuano a valere i princìpi della razionalità sillogistica, in Dio si troverebbe invece la comune radice di ciò che appare contraddittorio alla semplice ragione, perché in Lui è presente quell'unità degli opposti che esplicandosi e materializzandosi nel mondo giunge poi a diversificarsi.
Eraclito verrà infine riabilitato del tutto da Hegel, il quale però reinterpretò la sua identità degli opposti non più in senso mistico e trascendente, ma in un'ottica immanente. Anche Nietzsche ebbe un'alta stima di Eraclito: la sua grandezza, per il filosofo tedesco, sta anche nel fatto che la nobiltà di ciò che ha da dire non si presta alla chiarezza superficiale, ed egli ne ammira anche la descrizione del mondo come divenire.
Martin Heidegger, che alla fine degli anni sessanta tenne un famoso seminario sul filosofo greco insieme con Eugen Fink a Friburgo, ritiene che il concetto di verità, intesa come «non-nascondimento» (in tedesco Unverborgenheit), sia una sorta di parafrasi del frammento eracliteo n. 93, sul fatto cioè che la verità può essere soltanto "indicata", ossia non è "nascosta" ma neanche la si può "dire" direttamente: per Heidegger la filosofia di Eraclito funge da conferma alle sue posizioni.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato analogia tra "l'unità dei contrari" che emerge nel pensiero di Eraclito e la polarità tipica del taoismo cinese.
Nell'arte
Per il suo pessimismo, in età medievale, seguendo una tradizione antica esposta nei Dialoghi di Luciano di Samosata, Eraclito venne detto il "filosofo del pianto", in contrapposizione a Democrito, detto "filosofo del riso". Spesso è rappresentato nelle opere artistiche con un'espressione seria, triste o poco allegra, da solo o con accanto il sorridente Democrito. Raffaello Sanzio lo raffigura isolato e intento a scrivere, con le fattezze di Michelangelo Buonarroti, nel dipinto della Scuola di Atene.
Eraclito viene citato da Dante nel Canto IV dell'Inferno (Divina Commedia), fra gli spiriti magni che quest'ultimo incontra nel primo Cerchio o Limbo; il poeta lo descrive accanto a Democrito, Anassagora, Talete, Empedocle, Diogene il Cinico e Zenone di Elea: Eraclito, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., è di famiglia aristocratica (addirittura discendente da famiglia regale) e lo stile stesso in cui scrive risente di questa influenza aristocratica (nella sua opera arriverà a dire: "uno è per me diecimila, se è il migliore"). Nel suo libro Peri fusewV (Sulla natura) traspare palesemente un atteggiamento di disprezzo per la massa popolare (definita come un branco di "cani" che gli abbaiano contro). Va subito precisato, però, che l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale. Secondo la tradizione, Eraclito avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio di Artemide ad Efeso: egli compie questo gesto senz'altro per il fatto che il tempio era il luogo più sicuro per la custodia (all'epoca le biblioteche non c'erano) , ma anche perchè era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale ed arcaica. Eraclito ritiene dunque che il tempio sia l'unico luogo idoneo a custodire il suo scritto: egli infatti nutre grande sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto possa essere compreso dalla maggior parte degli uomini. Ciò dipende dai contenuti di esso, lontani dalle esperienze della vita comune, ma anche dal linguaggio e dalla forma nei quali questi contenuti sono espressi. In effetti ancora oggi non si è riusciti a comprendere la natura dell'opera di Eraclito, sebbene possediamo numerosi frammenti (oltre 100): essa era infatti costituita di aforismi, vale a dire paginette autonome e singole. Il fatto che fosse un libro "aforistico" non significa che fossero idee campate in aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca, cambiando in continuo argomenti: ogni frase, ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo. Va senz'altro notato che Eraclito fu probabilmente il primo a fare collegamenti forma-contenuto : dal momento che i contenuti erano complessi , anche lo stile e la forma dovevano essere complessi: è come se Eraclito volesse sottolineare la difficoltà del contenuto tramite la difficoltà della forma (tant'è che veniva spesso denominato "l'oscuro" o "il piangente"): Aristotele stesso, nel tratteggiare le qualità stilistiche proprie dei filosofi, cita Eraclito come esempio in negativo. Socrate stesso dice che per penetrare nel senso dei discorsi di Eraclito occorrerebbe essere dei "palombari di Delo". Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di interpretazione del suo libro: da buon aristocratico, diceva che non tutti gli uomini erano in grado di capire cosa dicesse: solo i migliori ce l'avrebbero fatta. In Eraclito perfino gli accenti sono ambigui: il termine greco "bios" (bioV) , ad esempio, letto "biòs" significa "arco" , ma letto "bìos" significa "vita" (sono addirittura antitetici i significati: l'arco è un qualcosa che provoca la morte, che è l'opposto della vita). E' interessante e famoso il frammento in cui Eraclito dice "la natura ama nascondersi" (fusiV filei kruptein) : con ciò, egli intende sottolineare che non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli occhi; lo stesso stile eracliteo – così oscuro - può allora essere inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una convinzione di fondo: che l'intera realtà sia governata da un solo principio (come dicevano i Milesi), a cui tutto è collegato. Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal LogoV (Logos) : nel mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con "logos", termine che riveste una miriade di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Questo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perchè restano rinchiusi nel loro orizzonte privato . Eraclito paragona questi uomini a coloro che dormono e li chiama "dormienti", in contrapposizione con coloro che son desti: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in comune le esperienze: non siamo soli , ma c'è un comune terreno d'intesa . Quando invece dormiamo e ciascuno di noi vive nei sogni in un mondo interamente suo. I dormienti quindi, nel caso degli uomini che Eraclito così definisce, sono coloro che rinunciano al logos cosmico, che ci consente di capire insieme la realtà. Certo suona strano che un aristocratico parli di logos comune-cosmico: in realtà la questione è che quel "comune" logos "cosmico" si riferisce non a tutti gli uomini, ma a pochi : solo ai migliori , e non ai dormienti. Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda con "logos comune, cosmico": come accennato, la parola logos è polisemantica ed è quindi bene non tradurla. Essa si riconnette al verbo greco "lego", che in origine significava "legare" ma che poi passò a significare "parlare". Logos vuol dire, tra le varie cose, discorso: c'è l'idea di più parole che vengono tra loro legate per assumere un significato. Può anche significare "discorso interiore" in quanto prima di parlare, si effettua un ragionamento, un dialogo interno a noi stessi. Quindi passò a significare "ragionamento" e da qui "ragione", ossia la facoltà di effettuare ragionamenti. Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre: 1) La ragione che governa l'universo 2) Il pensiero che comprende questa ragione universale 3) il discorso che esprime questa conoscenza (dunque il discorso che Eraclito pone per iscritto nel suo testo). Così come abbiamo un logos dentro di noi (la ragione) , Eraclito dice che anche nella realtà ci deve essere un logos cosmico, dove logos ha valenza di "ragione" : il logos è quel qualcosa che fa funzionare l'universo. Eraclito afferma che il logos che abbiamo nella nostra mente non è diverso da quello cosmico. Per arrivare a dire questo, probabilmente, Eraclito si deve essere sagacemente chiesto: "come è che quello che noi pensiamo esiste anche nella realtà?". Questo è anche un modo per rispondere alla domanda: "come si ricollegano le leggi della natura e del mondo? ". Di fatto, Eraclito nega l'esistenza di un dio, ma ammette quella di una ragione universale: c'è un nesso tra la ragione che governa il mondo e quella che governa la nostra mente: sono la stessa cosa e dunque l’ambiguità espositiva nell'opera "Perì fuseos" è dettata dal logos stesso, che fà sì che la natura ami nascondersi. Certo è difficile comprendere questo logos universale, ma non è impossibile: l'uomo ce la può fare usando quel frammento di logos a sua disposizione, insito dentro di lui : la ragione, che non è nient'altro che un pezzettino di logos universale di cui tutti disponiamo. Quindi tutti partiamo dallo stesso livello, ma solo i migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico. I dormienti sono coloro che non ci riescono nè ci provano: per raggiungere il logos universale bisogna cooperare, non agire da soli e nel proprio interesse: Eraclito dice "bisogna seguire ciò che è comune; infatti ciò che è è comune di tutti . Ma pur essendo il logos di tutti , la folla vive come se avesse un proprio ed esclusivo criterio per giudicare". Eraclito era del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle leggi: come il logos cosmico governa il mondo, così le leggi governano la città. Anche le leggi (nomoi), come la mente umana, rappresentano un frammento di logos universale. In Eraclito matura l'idea che la legge umana derivi da quella naturale, della fusiV (natura). Tutte le leggi umane - nella misura in cui sono giuste - attingono ad un'unica legge cosmica. A quei tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente convenzionali e non c'entrassero nulla con la natura. Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio sia il logos, un'entità assolutamente astratta, tuttavia egli sente il bisogno di incarnarlo in qualcosa di materiale, e più precisamente nel fuoco. Eraclito dice che l'universo non è il prodotto di dei o uomini, ma un ordine universale unico ed eterno. Egli lo identifica con "il fuoco sempre vivente" . Con il riferimento al fuoco, Eraclito non intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente attribuita agli ionici a partire da Aristotele (Metafisica, I), dell'unicità del principio. Intende piuttosto insistere sulla peculiarità di comportamento del fuoco: si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare anche dal sole, che ora brilla (di giorno) e ora si spegne (di notte). La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti regolata da una misura. La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato, ma è regolata secondo ritmi precisi. Eraclito sostiene che non si tratti solo della successione di un opposto all'altro, del giorno alla notte, della vita alla morte e così via. La guerra (polemoV) assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell'universo: questo è caratterizzato da un'armonia superiore consistente nell'unità e identità degli opposti in tensione tra loro (coincidentia oppositorum). Quindi anche per Eraclito la ricerca dell'unità, al di sotto dell'apparente molteplicità e dispersione di ciò che appare ai più, è l'obiettivo primario. La guerra ("Polemos è signore di tutte le cose") tra gli opposti non è espressione di ingiustizia, come ritengono i più e come aveva detto Anassimandro: il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto e si esprime nell'incessante tensione e trasformazione di un contrario nell'altro. Il fuoco suggerisce bene l'idea di questo costante divenire, di dinamicità, di trasformazione e di identità degli opposti: dove c'è il fuoco c'è la vita, ma il fuoco porta anche la morte (come "bios" denota sia la vita sia l’arco mortifero). Eraclito polemizzerà moltissimo con i Pitagorici (ed in particolare con Pitagora che definirà "inventore di coltelli", vale a dire dell'arte tagliente della retorica, che mira ad affascinare l'ascoltatore con dialoghi raffinati, ma privi di verità), che sostenevano la pace e l'armonia dei contrasti e che vedevano nella musica la struttura numerica della realtà. Per lui la vera armonia è la tensione tra i contrasti (armonia discors): se prendiamo un arco o una lira, notiamo che essi funzionano fin tanto che la struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Divenire significa proprio passare da un opposto all'altro. Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla guerra, Eraclito (e in forza di ciò sarà amatissimo ad esempio da Hegel) dice che polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose, è ciò che rende liberi o schiavi gli uomini. Da notare che non si può conoscere pienamente una cosa se non si conosce il suo opposto: non si può conoscere davvero la schiavitù se non si sa che cosa sia la libertà. Per Eraclito la guerra è una grande cosa anche perchè determina quali siano gli uomini più valevoli e quelli inferiori: anche nella guerra c'è dunque un frammento di logos universale. Per Eraclito c'è armonia solo quando i contrari sono in tensione. In un suo frammento, Eraclito afferma che il diametro del sole sia di un piede umano, il che è un'assurdità e lui lo sapeva bene: con quest'affermazione sconcertante egli vuole dire che, così come è assurda la sua affermazione, tali sono anche tutte quelle che si arrestano all’apparenza, giacchè "la natura ama nascondersi". In un altro frammento dice di aver indagato se stesso ("ho indagato me stesso"): salta all'occhio questa affermazione perchè sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto gnwqi sauton (conosci te stesso): lui dice di aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro, tipicamente aristocratico, quel mondo a cui aveva voluto affidare il proprio scritto. Probabilmente quest'affermazione va riferita ad un'importante constatazione di Eraclito: voleva conoscere il logos dell'anima e dice di aver scoperto che l'anima non ha dimensioni, non è definita: "per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos". Dice che il suo logos è profondo, quasi con l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. Eraclito biasima anche Esiodo, l'autore di quella specie di Bibbia dei Greci che è la "Teogonia", che tra le varie coppie di contrari aveva individuato il giorno e la notte, ma che non le aveva individuate come identità di opposti. In un frammento Eraclito dice "la via in su ed in giù è unica ed identica": un qualsiasi percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare l'identificazione degli opposti: la salita e la discesa sono tra loro opposti, ma si identificano. Interessante è il frammento in cui dice: "il fulmine governa tutte le cose" ; il fulmine è strettamente connesso al fuoco, che governa tutto ed è l'attributo principale di Zeus, il padre degli dei. Gli Stoici pensavano che vi sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla conflagrazione del mondo (ekpurosiV) e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo. Essi amavano Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili, quali la conflagrazione. In effetti c'è un frammento eracliteo in cui si dice che il fuoco può cambiarsi in tutte le cose e che tutte le cose si possono cambiare in fuoco, ma Eraclito intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco, e una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose. C'è un equilibrio: Eraclito non intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni: si tratta di interpretazioni errate da parte degli stoici. Uno dei frammenti senz'altro più famosi di Eraclito è quello che dice : "negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo " : troppo spesso è stato interpretato come il manifesto della "filosofia del divenire", del panta rei ("tutto scorre"), come se Eraclito ci stesse suggerendo che non possiamo mai bagnarci due volte nelle stesse acque di un fiume, giacchè esse si rinnovano incessantemente. In realtà l’indirizzo dell’incessante divenire che regola la realtà sarà intrapreso, più che da Eraclito (nel quale pure non è assente), dal suo discepolo Cratilo (futuro maestro di Platone): egli estremizzerà le posizioni di Eraclito e diventerà il filosofo del "tutto scorre": a suo avviso è addirittura impossibile dare i nomi alle cose perchè esse cambiano di continuo (noi chiamiamo Po un fiume ma non è corretto, perchè le acque si rinnovano in continuazione e il fiume non è mai lo stesso); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe limitarsi ad indicare le cose col dito, senza chiamarle per nome. In realtà Eraclito, con il frammento del fiume, sta argomentando in favore della coincidenza degli opposti, mettendo in luce come quando ci immergiamo in un fiume siamo in esso e al contempo non siamo in esso (poiché nel fiume le acque cambiano di continuo). Circa l'identità degli opposti, egli dice anche che "il mare è l'acqua più pura e impura, per i pesci potabile e salutare, per gli uomini imbevibile e letale" : in questo frammento si può anche scorgere il famoso relativismo assoluto di Protagora, ad avviso del quale il miele c'è chi lo sente dolce e chi lo sente amaro, ma non si può effettivamente dire se esso sia amaro o dolce: dipende da come ciascuno lo sente. Durissima è la critica condotta da Eraclito contro i sapienti del suo tempo (Pitagora, Ecateo, Esiodo, Omero, tutta "gente dalla doppia testa"), accusati di polumaqia, il "sapere molte cose": la vera conoscenza dev’essere quella dell’unico logos.
«Democrito che 'l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone.»
(Inferno, IV, vv. 136-138)
RIASSUNTO
Eraclito è di famiglia aristocratica e lo stile stesso in cui scrive risente di questa influenza (nella sua opera arriverà a dire: "uno è per me diecimila, se è il migliore"). Nel suo libro Sulla natura traspare palesemente un atteggiamento di disprezzo per la massa popolare. Va subito precisato, però, che l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale. Secondo la tradizione, Eraclito avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio di Artemide ad Efeso: egli compie questo gesto senz'altro per il fatto che il tempio era il luogo più sicuro per la custodia (all'epoca le biblioteche non c'erano) , ma anche perchè era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale. Eraclito ritiene dunque che il tempio sia l'unico luogo idoneo a custodire il suo scritto: egli infatti nutre grande sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto possa essere compreso dalla maggior parte degli uomini. Ciò dipende dai contenuti di esso, lontani dalle esperienze della vita comune, ma anche dal linguaggio e dalla forma nei quali questi contenuti sono espressi. In effetti ancora oggi non si è riusciti a comprendere la natura dell'opera di Eraclito, sebbene possediamo numerosi frammenti (oltre 100): essa era infatti costituita di aforismi, vale a dire paginette autonome e singole. Il fatto che fosse un libro "aforistico" non significa che fossero idee campate in aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca, cambiando in continuo argomenti: ogni frase, ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo. Va senz'altro notato che Eraclito fu probabilmente il primo a fare collegamenti forma-contenuto: dal momento che i contenuti erano complessi , anche lo stile e la forma dovevano essere complessi: è come se Eraclito volesse sottolineare la difficoltà del contenuto tramite la difficoltà della forma (tant'è che veniva spesso denominato "l'oscuro" o "il piangente"): Aristotele stesso, nel tratteggiare le qualità stilistiche proprie dei filosofi, cita Eraclito come esempio in negativo. Socrate stesso dice che per penetrare nel senso dei discorsi di Eraclito occorrerebbe essere dei "palombari di Delo". Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di interpretazione del suo libro: da buon aristocratico, diceva che non tutti gli uomini erano in grado di capire cosa dicesse: solo i migliori ce l'avrebbero fatta. In Eraclito perfino gli accenti sono ambigui: il termine greco "bios", ad esempio, letto "biòs" significa "arco" , ma letto "bìos" significa "vita" (sono addirittura antitetici i significati: l'arco è un qualcosa che provoca la morte, che è l'opposto della vita). E' interessante e famoso il frammento in cui Eraclito dice "la natura ama nascondersi" : con ciò, egli intende sottolineare che non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli occhi; lo stesso stile eracliteo – così oscuro - può allora essere inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una convinzione di fondo: che l'intera realtà sia governata da un solo principio (come dicevano i Milesi), a cui tutto è collegato. Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal Logos: nel mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con "logos", termine che riveste una miriade di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Questo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perchè restano rinchiusi nel loro orizzonte privato. Eraclito paragona questi uomini a coloro che dormono e li chiama "dormienti", in contrapposizione con coloro che son desti: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in comune le esperienze: non siamo soli , ma c'è un comune terreno d'intesa . Quando invece dormiamo e ciascuno di noi vive nei sogni in un mondo interamente suo. I dormienti quindi, nel caso degli uomini che Eraclito così definisce, sono coloro che rinunciano al logos cosmico, che ci consente di capire insieme la realtà. Certo suona strano che un aristocratico parli di logos comune-cosmico: in realtà la questione è che quel "comune" logos "cosmico" si riferisce non a tutti gli uomini, ma a pochi : solo ai migliori , e non ai dormienti. Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda con "logos comune, cosmico": come accennato, la parola logos è polisemantica ed è quindi bene non tradurla. Essa si riconnette al verbo greco "lego", che in origine significava "legare" ma che poi passò a significare "parlare". Logos vuol dire, tra le varie cose, discorso: c'è l'idea di più parole che vengono tra loro legate per assumere un significato. Può anche significare "discorso interiore" in quanto prima di parlare, si effettua un ragionamento, un dialogo interno a noi stessi. Quindi passò a significare "ragionamento" e da qui "ragione", ossia la facoltà di effettuare ragionamenti. Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre: 1) La ragione che governa l'universo 2) Il pensiero che comprende questa ragione universale 3) il discorso che esprime questa conoscenza (dunque il discorso che Eraclito pone per iscritto nel suo testo). Così come abbiamo un logos dentro di noi (la ragione) , Eraclito dice che anche nella realtà ci deve essere un logos cosmico, dove logos ha valenza di "ragione": il logos è quel qualcosa che fa funzionare l'universo. Eraclito afferma che il logos che abbiamo nella nostra mente non è diverso da quello cosmico. Per arrivare a dire questo, probabilmente, Eraclito si deve essere sagacemente chiesto: "come è che quello che noi pensiamo esiste anche nella realtà?". Questo è anche un modo per rispondere alla domanda: "come si ricollegano le leggi della natura e del mondo? ". Di fatto, Eraclito nega l'esistenza di un dio, ma ammette quella di una ragione universale: c'è un nesso tra la ragione che governa il mondo e quella che governa la nostra mente: sono la stessa cosa e dunque l’ambiguità espositiva nell'opera "Perì fuseos" è dettata dal logos stesso, che fà sì che la natura ami nascondersi. Certo è difficile comprendere questo logos universale, ma non è impossibile: l'uomo ce la può fare usando quel frammento di logos a sua disposizione, insito dentro di lui : la ragione, che non è nient'altro che un pezzettino di logos universale di cui tutti disponiamo. Quindi tutti partiamo dallo stesso livello, ma solo i migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico. I dormienti sono coloro che non ci riescono nè ci provano: per raggiungere il logos universale bisogna cooperare, non agire da soli e nel proprio interesse: Eraclito dice "bisogna seguire ciò che è comune; infatti ciò che è è comune di tutti . Ma pur essendo il logos di tutti , la folla vive come se avesse un proprio ed esclusivo criterio per giudicare". Eraclito era del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle leggi: come il logos cosmico governa il mondo, così le leggi governano la città. Anche le leggi (nomoi), come la mente umana, rappresentano un frammento di logos universale. In Eraclito matura l'idea che la legge umana derivi da quella naturale, della fusiV (natura). Tutte le leggi umane - nella misura in cui sono giuste - attingono ad un'unica legge cosmica. A quei tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente convenzionali e non c'entrassero nulla con la natura. Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio sia il logos, un'entità assolutamente astratta, tuttavia egli sente il bisogno di incarnarlo in qualcosa di materiale, e più precisamente nel fuoco. Eraclito dice che l'universo non è il prodotto di dei o uomini, ma un ordine universale unico ed eterno. Egli lo identifica con "il fuoco sempre vivente" . Con il riferimento al fuoco, Eraclito non intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente attribuita agli ionici a partire da Aristotele (Metafisica, I), dell'unicità del principio. Intende piuttosto insistere sulla peculiarità di comportamento del fuoco: si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare anche dal sole, che ora brilla (di giorno) e ora si spegne (di notte). La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti regolata da una misura. La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato, ma è regolata secondo ritmi precisi. Eraclito sostiene che non si tratti solo della successione di un opposto all'altro, del giorno alla notte, della vita alla morte e così via. La guerra assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell'universo: questo è caratterizzato da un'armonia superiore consistente nell'unità e identità degli opposti in tensione tra loro (coincidentia oppositorum). Quindi anche per Eraclito la ricerca dell'unità, al di sotto dell'apparente molteplicità e dispersione di ciò che appare ai più, è l'obiettivo primario. La guerra ("Polemos è signore di tutte le cose") tra gli opposti non è espressione di ingiustizia, come ritengono i più e come aveva detto Anassimandro: il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto e si esprime nell'incessante tensione e trasformazione di un contrario nell'altro. Il fuoco suggerisce bene l'idea di questo costante divenire, di dinamicità, di trasformazione e di identità degli opposti: dove c'è il fuoco c'è la vita, ma il fuoco porta anche la morte (come "bios" denota sia la vita sia l’arco mortifero). Eraclito polemizzerà moltissimo con i Pitagorici (e in particolare con Pitagora che definirà "inventore di coltelli", vale a dire dell'arte tagliente della retorica, che mira ad affascinare l'ascoltatore con dialoghi raffinati, ma privi di verità), che sostenevano la pace e l'armonia dei contrasti e che vedevano nella musica la struttura numerica della realtà. Per lui la vera armonia è la tensione tra i contrasti (armonia discors): se prendiamo un arco o una lira, notiamo che essi funzionano fin tanto che la struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Divenire significa proprio passare da un opposto all'altro. Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla guerra, Eraclito (e in forza di ciò sarà amatissimo ad esempio da Hegel) dice che polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose, è ciò che rende liberi o schiavi gli uomini. Da notare che non si può conoscere pienamente una cosa se non si conosce il suo opposto: non si può conoscere davvero la schiavitù se non si sa che cosa sia la libertà. Per Eraclito la guerra è una grande cosa anche perchè determina quali siano gli uomini più valevoli e quelli inferiori: anche nella guerra c'è dunque un frammento di logos universale. Per Eraclito c'è armonia solo quando i contrari sono in tensione. In un suo frammento, Eraclito afferma che il diametro del sole sia di un piede umano, il che è un'assurdità e lui lo sapeva bene: con quest'affermazione sconcertante egli vuole dire che, così come è assurda la sua affermazione, tali sono anche tutte quelle che si arrestano all’apparenza, giacchè "la natura ama nascondersi". In un altro frammento dice di aver indagato se stesso ("ho indagato me stesso"): salta all'occhio questa affermazione perchè sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto conosci te stesso: lui dice di aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro, tipicamente aristocratico, quel mondo a cui aveva voluto affidare il proprio scritto. Probabilmente quest'affermazione va riferita a un'importante constatazione di Eraclito: voleva conoscere il logos dell'anima e dice di aver scoperto che l'anima non ha dimensioni, non è definita: "per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos". Dice che il suo logos è profondo, quasi con l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. Eraclito biasima anche Esiodo, l'autore di quella specie di Bibbia dei Greci che è la "Teogonia", che tra le varie coppie di contrari aveva individuato il giorno e la notte, ma che non le aveva individuate come identità di opposti. In un frammento Eraclito dice "la via in su ed in giù è unica ed identica": un qualsiasi percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare l'identificazione degli opposti: la salita e la discesa sono tra loro opposti, ma si identificano. Interessante è il frammento in cui dice: "il fulmine governa tutte le cose"; il fulmine è strettamente connesso al fuoco, che governa tutto ed è l'attributo principale di Zeus, il padre degli dei. Gli Stoici pensavano che vi sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla conflagrazione del mondo e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo. Essi amavano Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili, quali la conflagrazione. In effetti c'è un frammento eracliteo in cui si dice che il fuoco può cambiarsi in tutte le cose e che tutte le cose si possono cambiare in fuoco, ma Eraclito intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco, e una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose. C'è un equilibrio: Eraclito non intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni: si tratta di interpretazioni errate da parte degli stoici. Uno dei frammenti senz'altro più famosi di Eraclito è quello che dice : "negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo " : troppo spesso è stato interpretato come il manifesto della "filosofia del divenire", del panta rei ("tutto scorre"), come se Eraclito ci stesse suggerendo che non possiamo mai bagnarci due volte nelle stesse acque di un fiume, giacchè esse si rinnovano incessantemente. In realtà l’indirizzo dell’incessante divenire che regola la realtà sarà intrapreso, più che da Eraclito (nel quale pure non è assente), dal suo discepolo Cratilo (futuro maestro di Platone): egli estremizzerà le posizioni di Eraclito e diventerà il filosofo del "tutto scorre": a suo avviso è addirittura impossibile dare i nomi alle cose perchè esse cambiano di continuo (noi chiamiamo Po un fiume ma non è corretto, perchè le acque si rinnovano in continuazione e il fiume non è mai lo stesso); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe limitarsi ad indicare le cose col dito, senza chiamarle per nome. In realtà Eraclito, con il frammento del fiume, sta argomentando in favore della coincidenza degli opposti, mettendo in luce come quando ci immergiamo in un fiume siamo in esso e al contempo non siamo in esso (poiché nel fiume le acque cambiano di continuo). Circa l'identità degli opposti, egli dice anche che "il mare è l'acqua più pura e impura, per i pesci potabile e salutare, per gli uomini imbevibile e letale" : in questo frammento si può anche scorgere il famoso relativismo assoluto di Protagora, ad avviso del quale il miele c'è chi lo sente dolce e chi lo sente amaro, ma non si può effettivamente dire se esso sia amaro o dolce: dipende da come ciascuno lo sente. Durissima è la critica condotta da Eraclito contro i sapienti del suo tempo (Pitagora, Ecateo, Esiodo, Omero, tutta "gente dalla doppia testa"), accusati di polumaqia, il "sapere molte cose": la vera conoscenza dev’essere quella dell’unico logos.

VIDEO 1: https://www.youtube.com/watch?v=D6P38P2By7M&t=46s

VIDEO 2: https://www.youtube.com/watch?v=6wmo1yTensU

VIDEO 3: https://www.youtube.com/watch?v=ZAdahn6Bt1s&t=87s

VIDEO 4: https://www.youtube.com/watch?v=izDAXt_BNgo&t=51

Eugenio Caruso - 27 maggio 2020



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