Omero, Iliade, Libro XV. Strage di achei e troiani presso le navi achee.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.


RIASSUNTO XV LIBRO
Giove si risveglia. Egli vede i Greci che, aiutati da Nettunno, mettono in rotta i Troiani e accusa la consorte Era. Iride è mandata da Giove a richiamare Nettunno dalla battaglia. Apollo, per volere del padre, scende a ravvivare le forze di Ettore. Lo stesso Iddio precede l’eroe nel combattimento e rovescia gli avanzi del muro. Terribile pugna innanzi alle navi. Aiace colla sua lancia tiene lontani Ettore ed i Troiani, che sono sul punto di mettere a fuoco le navi achee. Attorno alle navi si assiste a una carneficina di achei e troiani, Aiace ed Ettore sono i pricipali protagonisti di questa battaglia che vede Giove intervenire in favore di Ettore; Giove fa di tutto per dare a Ettore gloria nonostante il fato abbia decretato la sua morte. Secondo Omero più che il valore dei singoli guerrieri conta l'aiuto di un dio.

Era in un affresco pompeiano
era 3

TESTO LIBRO XV

Ma poichè il vallo superaro e il fosso,
Con molta di lor strage, i fuggitivi
Nel viso smorti di terror fermârsi
Ai vôti cocchi; e Giove in quel momento
Sull’Ida risvegliossi accanto a Giuno.
Surse, stette, e gli Achei vide e i Troiani,
Questi incalzati, e quei coll’aste a tergo
Incalzanti, e tra loro il re Nettunno.
Vide altrove prostrato Ettore, e intorno
Stargli i compagni addolorati, ed esso
Del sentimento uscito, e dall’anelo
Petto a gran pena traendo il respiro
Nero sangue sboccar; chè non l’avea
Certo il più fiacco degli Achei percosso.

Pietà sentinne nel vederlo il padre
De’ mortali e de’ numi, e con obliquo
Terribil occhio guatò Giuno, e disse:
Scaltra malvagia, la sottil tua frode
Dalla pugna cessar fe’ il divo Ettorre,
E i Troiani fuggir. Non so perch’io
Or non t’afferri, e col flagel non faccia
A te prima saggiar del dolo il frutto.
E non rammenti il dì ch’ambe le mani
D’aureo nodo infrangibile t’avvinsi,
E alla celeste volta con due gravi
Incudi al piede penzolon t’appesi?
Fra l’atre nubi nell’immenso vôto
Tu pendola ondeggiavi, e per l’eccelso
Olimpo ne fremean di rabbia i Numi,
Ma sciorti non potean; chè qual di loro
Afferrato io m’avessi, giù dal cielo
L’avrei travolto semivivo in terra.
Nè ciò tutto quetava ancor la bile
Che mi bollía nel cor, quando, commosse
D’Ercole a danno le procelle e i venti,
Tu pel mar l’agitasti, e macchinando
La sua rovina lo svïasti a Coo,
Donde io salvo poi trassi il travagliato
Figlio, e in Argo il raddussi. Ora di queste
Cose ben io farò che ti sovvegna,
Onde svezzarti dagl’inganni, e tutto
Il pro mostrarti de’ tuoi falsi amplessi.
   Raccapricciò d’orror la veneranda
Giuno a que’ detti; e, Il ciel, la terra attesto
(Diessi a gridare) e il sotterraneo Stige,
Che degli Eterni è il più tremendo giuro,
E il sacro tuo capo, e l’illibato
D’ogni spergiuro marital mio letto:
Se agli Achivi soccorse e nocque ai Teucri
Il re Nettunno, non fu mio consiglio,
Ma del suo cor spontaneo moto, e piéta
De’ mal condotti Argivi. Esorterollo
Anzi io stessa a recarsi, ovunque il chiami,
Terribile mio sire, il tuo comando.
   Sorrise Giove, e replicò: Se meco
Nel senato de’ numi, augusta Giuno,
In un solo voler consentirai,
Consentiravvi (e sia diversa pure
La sua mente) ben tosto anco Nettunno.
Or tu, se brami che per prova io vegga
Sincero il tuo parlar, rimonta in cielo,
E qua m’invía sull’Ida Iri ed Apollo.
Iri nel campo degli Achei discesa
A Nettunno farà l’alto precetto
D’abbandonar la pugna, e di tornarsi
Ai marini soggiorni. Apollo all’armi
Ettore desterà, novello in petto
Spirandogli vigor, sì che sanato
D’ogni dolore fra gli Achei di nuovo
Sparga la vile paurosa fuga,
E gl’incalzi così che fra le navi
Cadan, fuggendo, del Pelíde Achille.
Questi allor nella pugna il suo diletto
Patroclo manderà, che morta in campo
Molta nemica gioventù col divo
Mio figlio Sarpedon, morto egli stesso
Cadrà, prostrato dall’ettórea lancia.
Dell’ucciso compagno irato Achille
Spegnerà l’uccisore, e da quel punto
Farò che sempre sian respinti i Teucri,
Finchè per la divina arte di Palla
Il superbo Ilïon prendan gli Achei.

Metraponto il tempio di Era
era 4

Né l’ire io deporrò, nè che veruno
Degli Dei qui l’argive armi soccorra
Sosterrò, se d’Achille in pria non veggo
Adempirsi il desío. Così promisi,
E le promesse confermai col cenno
Del mio capo quel dì che i miei ginocchi
Teti abbracciando, d’onorar pregommi
Coll’eccidio de’ Greci il suo gran figlio.
   Disse, e la Diva dalle bianche braccia
Obbedïente dall’idéa montagna
All’Olimpo salì. Colla prestezza
Con che vola il pensier del vïatore,
Che scorse molte terre le rïanda
In suo secreto, e dice: Io quella riva,
Io quell’altra toccai: colla medesma
Rattezza allor la veneranda Giuno
Volò dall’Ida sull’eccelso Olimpo,
E sopravvenne agl’Immortali, accolti
Nelle stanze di Giove. Alzârsi i numi
Tutti al vederla, e coll’ambrosie tazze
L’accolsero festosi. Ella, negletta
Ogni altra offerta, la man porse al nappo
Appresentato dalla bella Temi
Che primiera a incontrar corse la Dea,
Così dicendo: Perchè riedi, o Giuno?
Tu ne sembri atterrita. Il tuo consorte
N’è forse la cagion? - Non dimandarlo,
Giuno rispose. Quell’altero e crudo
Suo cor tu stessa già conosci, o Diva.
Presiedi ai nostri almi convivii, e tosto
Qui con tutti i Celesti udrai di Giove
Gli aspri comandi che per mio parere
De’ mortali fra poco e degli Dei
Le liete mense cangeranno in lutto.

   Tacque, e s’assise. Contristârsi in cielo
I Sempiterni; e Giuno un cotal riso
A fior di labbro aprì, ma su le nere
Ciglia la fronte non tornò serena.
Ruppe alfin disdegnosa in questi detti:
Oh, noi dementi! Inetta è la nostr’ira
Contra Giove, o Celesti, e il faticarci
Con parole a frenarlo o colla forza
È vana impresa. Assiso egli sull’Ida
Nè gli cale di noi nè si rimove
Dal suo proposto, chè gli Eterni tutti
Di fortezza ei si vanta e di possanza
Immensamente superar. Soffrite
Quindi in pace ogni mal che più gli piaccia
Invïarvi a ciascuno. E a Marte, io credo,
Il suo già tocca: Ascálafo, il più caro
D’ogni mortale al poderoso iddio
Che proprio sangue lo confessa, è spento.
   Si batté colle palme la robusta
Anca Gradivo, e in suon d’alto dolore
Gridò: Del cielo cittadini eterni,
Non mi vogliate condannar, s’io scendo
L’ucciso figlio a vendicar, dovesse
Steso fra’ morti il fulmine di Giove
Là tra il sangue gittarmi e tra la polve.
   Disse; e alla Fuga impose e allo Spavento
D’aggiogargli i destrieri; e di fiammanti
Armi egli stesso si vestiva. E allora
Di ben altro furor contro gli Dei
Di Giove acceso si sarebbe il core,
Se per tutti i Celesti impaurita
Non si spiccava dal suo trono, e ratta
Fuor delle soglie non correa Minerva
A strappargli di fronte il rilucente
Elmo, e lo scudo dalle spalle: e a forza
Toltagli l’asta dalla man gagliarda,
La ripose, e il garrì: Cieco furente,
Tu se’ perduto. Per udir non hai
Tu più dunque gli orecchi, e in te col senno
Spento è pure il pudor? Dell’alma Giuno,
Ch’or vien da Giove, non intendi i detti?
Vuoi tu forse, insensato, esser costretto
A ritornarti doloroso al cielo,
Fatto di molti mali un rio guadagno,
E creata a noi tutti alta sciagura?
Perciocchè, de’ Troiani e degli Achei
Abbandonate le contese, ei tosto
Risalendo all’Olimpo, in iscompiglio
Metterà gl’Immortali, e afferrando
L’un dopo l’altro, o innocenti o rei,
Noi tutti punirà. Del figlio adunque
La vendetta abbandona, io tel comando:
Ch’altri di lui più prodi o già periro
O periranno. Involar tutta a morte
De’ mortali la schiatta è dura impresa.
   Sì dicendo, al suo seggio il vïolento
Dio ricondusse. Fuor dell’auree soglie
Giuno intanto a sè chiama Apollo ed Iri
La messaggiera, e lor presta sì parla:
Ite, Giove l’impon, veloci all’Ida;
Arrivati colà fissate il guardo
In quel volto, e ne fate ogni volere.
   Ciò detto, indietro ritornò l’augusta
Giuno, e di nuovo si compose in trono.
Quei mossero volando, e su l’altrice
Di fontane e di belve Ida discesi,
Di Saturno trovâr l’onniveggente
Figlio sull’erto Gárgaro seduto;
E circonfusa intorno il coronava
Un’odorosa nube. Essi del grande
Di nembi adunator giunti al cospetto,
Fermârsi: e satisfatto egli del pronto
Loro obbedir della consorte ai detti,
Ad Iri in prima il favellar rivolto,
Va, disse, Iri veloce, e al re Nettunno
Nunzia verace il mio comando esponi.
Digli che il campo ei lasci e la battaglia,
E al ciel si torni o al mar. Se il cenno mio
Ribelle sprezzerà, pensi ben seco
Se, benchè forte, s’avrà cor che basti
A sostener l’assalto mio: ricordi
Che primo io nacqui, e che di forza il vinco,
Quantunque egli osi a me vantarsi eguale,
A me che tutti fo tremar gli Dei.
Obbedì la veloce Iri, e discese
Dalle montagne idée. Come sospinta
Da fiato d’aquilon serenatore
Dalle nubi talor vola la neve
O la gelida grandine: a tal guisa
D’Ilio sui campi con rapido volo
Iri calossi, e al divo Enosigéo
Fattasi innanzi, così prese a dire:
Ceruleo Nume, messaggiera io vegno
Dell’Egíoco signore. Ei ti comanda
D’abbandonar la pugna, e di far tosto
O agli alberghi celesti o al mar ritorno.
Se sprezzi il cenno, e obbedir ricusi,
Minaccia di venirne egli medesmo
Teco a battaglia. Ti consiglia quindi
D’evitar le sue mani; e ti ricorda
Ch’ei d’etade è maggiore e di fortezza,
Quantunque egual vantarti oso tu sia
A lui che mette agli altri Dei terrore.
   Arse d’ira Nettunno, e le rispose:
Ch’ei sia possente il so; ma sue parole
Sono superbe, se forzar pretende
Me suo pari in onor. Figli a Saturno
Tre germani siam noi da Rea produtti,
Primo Giove, io secondo, e terzo il sire
Dell’Inferno Pluton. Tutte divise
Fur le cose in tre parti, e a ciascheduno
Il suo regno sortì. Diede la sorte
L’imperio a me del mar, dell’ombre a Pluto,
Del cielo a Giove negli aerei campi
Soggiorno delle nubi. Olimpo e Terra
Ne rimaser comuni, e il sono ancora.
Non farò dunque il suo voler; si goda
Pur la sua forza, ma si resti cheto
Nel suo regno, nè tenti or colla destra
Come un vile atterrirmi. Alle fanciulle,
Ai bamboli suoi figli il terror porti
Di sue minacce, e meglio fia. Tra questi
Almen si avrà chi a forza l’obbedisca.
   Dio del mar, la veloce Iri soggiunse,
Questa dunque vuoi tu che a Giove io rechi
Dura e forte risposta? E raddolcirla
In parte almeno non vorrai? De’ buoni
Pieghevole è la mente; e chi primiero
Nacque ha ministre, tu lo sai, l’Erinni.
   Tu parli, o Diva, il ver, l’altro riprese:
E gran ventura è messaggier che avvisa
Ciò che più monta. Ma di sdegno avvampa
Il cor quand’egli minaccioso oltraggia
Me suo pari di grado e di destino.
Pur questa volta porrò freno all’ira,
E cederò. Ma ben vo’ dirti io pure
(E dal cor parte la minaccia mia),
Se Giove, a mio dispetto e di Minerva
E di Giuno e d’Ermete e di Vulcano,
Risparmierà dell’alto Ilio le torri,
Nè atterrarle vorrà, nè darne intera
La vittoria agli Achei, sappia che questo
Fia tra noi seme di perpetua guerra.
   Lasciò, ciò detto, il campo e in mar s’ascose,
E ne sentiro la partenza in petto
I combattenti Achei. Si volse allora
Giove ad Apollo, e disse: Or vanne, o caro
Al bellicoso Ettór. Lo scotitore
Della terra evitando il nostro sdegno
Fe’ ritorno nel mar. Se ciò non era,
Della pugna il rimbombo avría ferito
Anche l’orecchio degl’inferni Dei
Stanti intorno a Saturno. Ad ambedue
Me’ però torna che schivato egli abbia,
Fatto più senno, di mie mani il peso;
Perchè senza sudor la non saría
Certo finita. Or tu la fimbrïata
Egida imbraccia, e forte la percoti,
E spaventa gli Achei. Cura ti prenda,
O Saettante, dell’illustre Ettorre,
E tal ne’ polsi valentía gli metti,
Ch’egli fino alle navi e all’Ellesponto
Cacci in fuga gli Achivi. Allor la via
Troverò che i fuggenti abbian respiro.
Obbedì pronto Apollo, e dall’idéa
Cima disceso, simile a veloce
Di colombi uccisor forte sparviero
De’ volanti il più ratto, al generoso
Prïamide n’andò. Dal suol già surto
E risensato il nobile guerriero
Sedea, ripresa degli astanti amici
La conoscenza: perocchè, dal punto
Che in lui di Giove s’arrestò la mente,
L’anelito cessato era e il sudore.
Stettegli innanzi il Saettante, e disse:
Perchè lungi dagli altri e sì spossato,
Ettore siedi? e che dolor ti opprime?
   E a lui con fioca e languida favella
Di Priamo il figlio: Chi se’ tu che vieni,
Ottimo nume, a interrogarmi? Ignori
Che il forte Aiace, mentre che de’ suoi
Alle navi io facea strage, mi colse
D’un sasso al petto, e tolsemi le forze?
Già l’alma errava su le labbra; e certo
Di veder mi credetti in questo giorno
L’ombre de’ morti e la magion di Pluto.
   Fa cor, riprese il Dio: Giove ti manda
Soccorritore e assistente il sire
Dell’aurea spada, Apolline. Son io
Che te finor protessi e queste mura.
Or via, sveglia il valor de’ numerosi
Squadroni equestri, ed a spronar gli esorta
Verso le navi i corridori. Io poscia
Li precedendo spianerò lor tutta
La strada, e fugherò gli achivi eroi.
   Disse, e al duce una gran forza infuse.
Come destrier di molto orzo in riposo
Alle greppie pasciuto, e nella bella
Uso a lavarsi corrente del fiume,
Rotti i legami, per l’aperto corre
Insuperbito, e con sonante piede
Batte il terren; sul collo agita il crine,
Alta estolle la testa, e baldanzoso
Di sua bellezza, al pasco usato ei vola
Ove amor d’erbe il chiama e di puledre:
Tale, udita del Dio la voce, Ettorre
Move rapidi i passi, inanimando
I cavalieri. Ma gli Achei, siccome
Veltri e villani che un cornuto cervo
Inseguono, o una damma a cui fa schermo
Alto dirupo o densa ombra di bosco,
Poichè lor vieta di pigliarla il fato;
Se a lor grida s’affaccia in su la via
Un barbuto leon colle sbarrate
Mascelle orrende, incontanente tutti,
Benchè animosi, volgono le terga:
Così agli Achei, che stretti infino allora
Senza posa inseguito aveano i Teucri
Colle lance ferendo e colle spade,
Visto aggirarsi tra le file Ettorre,
Cadde a tutti il coraggio. Allor si mosse
Toante Andremoníde, il più gagliardo
Degli etóli guerrieri. Era costui
Di saetta del par che di battaglia
A piè fermo perito, e degli Achivi
Pochi in arringhe lo vincean, se gara
Fra giovani nascea nella bell’arte
Del diserto parlar. - Numi! qual veggo
Gran prodigio? (dicea questo Toante)
Dalla Parca scampato, e di bel nuovo
Risurto Ettorre! E speravam noi tutti
Che per le man d’Aiace egli giacesse.
Certo qualcuno de’ Celesti i giorni
Preservò di costui, che molti al suolo
Degli Achivi già stese, e molti ancora
Ne stenderà, mi credo; chè non senza
L’altitonante Giove egli sì franco
Alla testa de’ Teucri è ricomparso.
Tutti adunque seguiamo il mio consiglio.
La turba ai legni si raccosti; e noi,
Quanti del campo achivo i più valenti
Ci vantiamo, stiam fermi e coll’alzate
Aste vediam di repulsarlo. Io spero
Che quantunque animoso, ei nella calca
Entrar non ardirà di scelti eroi.
   Disse, e tutti obbedîr volonterosi.
Ambo gli Aiaci e Teucro e Idomenéo
E Merïone e il marzïal Megéte
Convocando i migliori, in ordinanza
Contro i Teucri ed Ettór poser la pugna.
Verso le navi intanto s’avvïava
De’ men forti la turba. Allor primieri
E serrati fêr impeto i Troiani.
Li precede a gran passi camminando
L’eccelso Ettorre, e lui precede Apollo,
Che di nebbia i divini omeri avvolto
L’irta di fiocchi, orrenda, impetuosa
Egida tiene, di Vulcano a Giove
Ammirabile dono, onde tonando
I mortali atterrir. Con questa al braccio
Guidava i Teucri il Dio contro gli Achei
Che stretti insieme n’attendean lo scontro.
Surse allor d’ambe parti un alto grido.
Dai nervi le saette, e dalle mani
Vedi l’aste volar, altre nel corpo
De’ giovani guerrieri, altre nel mezzo,
Pria che il corpo saggiar, piantarsi in terra
Di sangue sitibonde. Infin che immota
Tenne l’egida Apollo, egual fu d’ambe
Parti il ferire ed il cader. Ma come
Dritto guardando l’agitò con forte
Grido sul volto degli Achei, gelossi
Ne’ lor petti l’ardire e la fortezza.
Qual di bovi un armento o un pieno ovile
Incustodito, all’improvviso arrivo
Di due belve notturne si scompiglia;
Così gli Achivi costernârsi; e Apollo
Fra lor spargeva lo spavento, i Teucri
Esaltando ed Ettorre. Allor turbata
L’ordinanza, seguía strage confusa.
Ettore Stichio uccide e Arcesilao,
Questi a’ Beozi capitano, e quegli
Un compagno fedel del generoso
Menestéo. Per le man poscia d’Enea
Jaso cade e Medonte. Era Medonte
Del divino Oiléo bastardo figlio
E d’Aiace fratel: ma morto avendo
Un diletto german della matrigna
Erïopíde d’Oiléo mogliera,
Dalla paterna terra allontanato
In Filace abitava. Attico duce
Era Jaso, e figliuol detto venía
Del Bucolide Sfelo. A Mecistéo
Polidamante nelle prime file
Tolse la vita; ad Echïon Políte,
Ed Agenore a Clónio. A Dëijóco,
Tra quei di fronte in fuga volto, al tergo
Vibra Paride l’asta e lo trafigge.
Mentre l’armi rapían questi agli uccisi,
Giù nell’irto di pali orrendo fosso
Precipitando i fuggitivi Achei
D’ogni parte correan, dalla crudele
Necessità sospinti, entro il riparo
Della muraglia: ed alto alle sue schiere
Gridava Ettorre di lasciar le spoglie
Sanguinolente, e sul navile a gitto
Piombar: Qualunque scorgerò ristarsi
Dalle navi lontan, di propria mano
L’ucciderò, nè morto il metteranno
Su la pira i fratei nè le sorelle,
Ma innanzi ad Ilio strazieranlo i cani.
   Sì dicendo, sonar fe’ su le groppe
De’ cavalli il flagello e li sospinse
Per le file, animando ogni guerriero.
Dietro al lor duce minacciosi i Teucri
Con immenso clamor drizzaro i cocchi.
Iva Apollo davanti, e col leggiero
Urto del piede lo ciglion del cupo
Fosso abbattendo il riversò nel mezzo,
E a immago di ponte un’ampia strada
Spianovvi, e larga come d’asta il tiro,
Quando a far di sue forze esperimento
Un lanciator la scaglia. Essi a falangi
Su questa via versavansi, ed Apollo
Sempre alla testa, sollevando in alto
L’egida orrenda, degli Achivi il muro
Atterrava con quella agevolezza
Che un fanciullo talor lungo la riva
Del mar per giuoco edifica l’arena,
E per giuoco co’ piedi e colle mani
Poco poi la rovescia e la rimesce.
Tale fu, Febo arcier, l’opra in che tanto
Sudâr gli Achivi, dispergesti, e loro
Del gelo della fuga empiesti il petto.
Così spinti fermârsi appo le navi,
E a vicenda incuorandosi, e le mani
Ai numi alzando, ognun porgea gran voti.
Ma più che tutti, degli Achei custode,
Il Gerénio Nestorre allo stellato
Cielo le palme sollevando orava:
Giove padre, se mai nelle feconde
Piagge argive o di tauri o d’agnellette
Sacrifici offerendo ti pregammo
Di felice ritorno, e tu promessa
Ne festi e cenno, or deh! il ricorda, e lungi,
Dio pietoso, ne tieni il giorno estremo,
Nè voler sì da’ Troi domi gli Achivi.
   Così pregava. L’udì Giove, e forte
Tuonò. Ma i Teucri dell’Egíoco Sire
Udito il segno si scagliâr più fieri
Contro gli Achivi, e incalzâr la pugna.
Come del mar turbato un vasto flutto
Da furia boreal cresciuto e spinto
Rugge e sormonta della nave i fianchi;
Tali i Teucri con alti urli saliro
La muraglia, e, cacciati entro i cavalli,
Coll’aste incominciâr sotto le poppe
Un conflitto crudel, questi su i cocchi,
Quei sul bordo de’ legni colle lunghe,
Che dentro vi giacean, stanghe commesse,
Ed al bisogno di naval battaglia
Accomodate colle ferree teste.
Finchè fuor del navile intorno al muro
Arse de’ Teucri e degli Achei la pugna,480
Del valoroso Eurípilo si stette
Patroclo nella tenda, e ragionando
Il ricreava, e sull’acerba piaga
Dell’amico, a placarne ogni dolore,
Obblivïosi farmaci spargea.
Ma tosto che mirò su l’arduo muro
Saliti a furia i Teucri, e l’urlo surse
Degli Achivi e la fuga, in lai proruppe,
E battendosi l’anca, Ohimè! diss’egli
In suono di lamento, una feroce
Mischia là veggo. Non mi lice, Eurípilo,
All’uopo che pur n’hai, teco indugiarmi
Più lungamente: assisteratti il servo;
Io ne volo ad Achille onde eccitarlo
Alla pugna. Chi sa? forse un propizio
Nume darammi che mia voce il tocchi;
Degli amici il pregar va dolce al core.
   Così detto, volò. Gli Achivi intanto
Fermi de’ Teucri sostenean l’assalto;
Ma dalle navi non sapean, quantunque
Di numero minori, allontanarli;
Nè i Troiani potean romper de’ Greci
Le stipate falangi, e insinuarsi
Tra le navi e le tende. E a quella guisa
Che in man di fabbro da Minerva istrutto,
Il rigo una naval trave pareggia;
Così de’ Teucri egual si diffondea
E degli Achei la pugna; ed altri a questa
Nave attacca la zuffa, ed altri a quella.
Ma contro Aiace dispiccato Ettorre,
Intorno ad un sol legno ambo gli eroi
Travagliansi, nè questi era possente
A fugar quello e il combattuto pino
Incendere, nè quegli a tener lunge
Questo, chè un nume ve l’avea condotto.
Colpì coll’asta il Telamónio allora
Caletore di Clízio in mezzo al petto,
Mentre alle navi già venía col foco.
Rimbombò nel cadere, e dalla mano
Cascògli il tizzo. Come vide Ettorre
Riverso nella polve anzi alla poppa
Il consobrino, alzò la voce, e i suoi
Animando gridò: Licii, Troiani,
Dardani bellicosi, ah dalla pugna
Non ritraete in questo stremo il piede!
Deh non patite che di Clízio il figlio,
Da valoroso nel pugnar caduto,
Sia dell’armi dispoglio. - E sì dicendo,
Aiace saettò colla fulgente
Lancia, ma in fallo; e Licofron percosse
Di Mastore figliuol che reo di sangue
Dalla sacra Citera esule venne
Al Telamónio, e v’ebbe asilo, e poscia
Suo scudiero il seguì. Lo giunse il ferro
Nella testa, da presso al suo signore,
Sul confin dell’orecchia: e dalla poppa
Resupino il travolse nella polve.
Raccapriccionne Aiace, e a Teucro disse:
Caro fratel, n’è spento il fido amico
Mastoride che noi ne’ nostri tetti
Da Citera ramingo in pregio avemmo
Quanto i diletti genitor: l’uccise
Ettore. Dove or son le tue mortali
Frecce, e quell’arco tuo, dono d’Apollo?
   L’udì Teucro, e veloce a lui ne venne
Coll’arco e la faretra, e via ne’ Troi
Dardeggiando ferì di Pisenorre
Clito illustre figliuol, caro al Pantíde
Polidamante a cui de’ corridori
Reggea le briglie. Or, mentre che bramoso
Di mertarsi d’Ettorre e de’ Troiani
E la grazia e la lode, ove dell’armi
Lo scompiglio è maggior spinge i cavalli,
Malgrado il presto suo girarsi il giunse
L’inevitabil suo destin; chè il dardo
Lagrimoso gli entrò dentro la nuca.
Cadde il trafitto; s’arretrâr turbati
I destrieri scotendo il vôto cocchio
Orrendamente. Ma v’accorse pronto
Di Panto il figlio, che parossi innanzi
Ai frementi corsieri; e ad Astinóo
Di Protaon fidandoli, con molto
Raccomandar lo prega averli in cura
E seguirlo vicin. Ciò fatto, il prode
Riede alla zuffa, e tra i primier si mesce.
Pose allor Teucro un altro dardo in cocca
Alla mira d’Ettorre: e qui finita
Tutta alle navi si saría la pugna,
Se al fortissimo eroe togliea l’acerbo
Quadrel la vita. Ma lo vide il guardo
Della mente di Giove, che d’Ettorre
Custodía la persona, e privo fece
Di quella gloria il Telamónio Teucro:
Chè il Dio, nell’atto del tirar, gli ruppe
Del bell’arco la corda, onde svïossi
Il ferreo strale, e l’arco di man cadde.
Inorridito si rivolse Teucro
Al suo fratello, e disse: Ohimè! precise
Della nostra battaglia un Dio per certo
Tutta la speme, un Dio che dalla mano
L’arco mi scosse, e il nervo ne diruppe
Pur contorto di fresco, e ch’io medesmo
Gli adattai questa mane, onde il frequente
Scoccar de’ dardi sostener potesse.
   O mio diletto, gli rispose Aiace,
Poichè l’arco ti franse un Dio, nemico
Dell’onor degli Achivi, al suolo il lascia
Con esso le saette; e l’asta impugna
E lo scudo, e co’ Teucri entra in battaglia,
Ed agli altri fa core; onde, se prese
Esser denno le navi, almen non sia
Senza fatica la vittoria. Ad altro
Non pensiam dunque che a pugnar da forti.
   Corse Teucro alla tenda, e vi ripose
L’arco, e preso un brocchier che avea di quattro
Falde il tessuto, un elmo irto d’equine
Chiome al capo si pose; e orribilmente
N’ondeggiava la cresta. Indi una salda
Lancia impugnata, a cui d’acuto ferro
Splendea la punta, s’avvïò veloce,
E raggiunse il fratello. Intanto Ettorre,
Viste cader di Teucro le saette,
Le sue schiere incuorando, alto gridava:
Teucri, Dardani, Licii, ecco il momento
D’esser prodi, e mostrar fra queste navi
Il valor vostro, amici. Infrante ha Giove
D’un gran nemico (con quest’occhi il vidi)
Le funeste saette. Agevolmente
Si palesa del Dio l’alta possanza,
Sia ch’esalti il mortal, sia che gli piaccia
Abbassarne l’orgoglio, e l’abbandoni:
Siccome appunto degli Achivi or doma
La baldanza, e le nostre armi protegge.
Pugnate adunque fortemente, e stretti
Quelle navi assalite. Ognun che colto
O di lancia o di stral trovi la morte,
Del suo morir s’allegri. È dolce e bello
Morir pugnando per la patria, e salvi
Lasciarne dopo sè la sposa, i figli
E la casa e l’aver, quando gli Achei
Torneran navigando al patrio lido.
   Fur quei detti una fiamma a ogni core.
Dall’una parte i suoi conforta anch’esso
Aiace, e grida: Argivi, o qui morire,
O le navi salvar. Se fia che alfine,
Il nemico le pigli, a piè tornarvi
Forse sperate alla natía contrada?
E non udite di che modo Ettorre
D’incenerirle tutte impazïente
I suoi guerrieri istiga? Egli per certo
Non alla tresca, ma di Marte al fiero
Ballo gl’invita. Nè partito adunque
Nè consiglio sicuro altro che questo,
Menar le mani, e di gran cor. Gli è meglio
Pure una volta aver salute o morte,
Che a poco a poco in lungo aspro conflitto
Qui consumarci invendicati e domi
Per mano, oh scorno! di peggior nemico.
   Rincorossi ciascuno, e allor la strage
D’ambe le parti si confuse. Ettorre
Schedio uccide, figliuol di Perimede,
Condottier de’ Focensi. Uccide Aiace
Laodamante, generosa prole
D’Antenore, e di fanti capitano.
Polidamante al suol stende il cillénio
Oto, compagno di Megéte, e duce
De’ magnanimi Epei. Visto Megéte
Cader l’amico, scagliasi diritto
Su l’uccisor; ma questi obliquamente
Chinando il fianco andar fe’ vôto il colpo,
Chè in quella zuffa non permise Apollo
Del figliuolo di Panto la caduta,
E l’asta di Megéte in mezzo al petto
Di Cresmo si piantò, che orrendamente
Rimbombò nel cader. Corse a spogliarlo
Dell’armi il vincitor; ma gli si spinse
Contra il gagliardo vibrator di picca
Dolope che di Lampo era germoglio,
Di Lampo prestantissimo guerriero
Laomedontíde. Impetuoso ei corse
Sopra Megéte, e lo ferì nel mezzo
Dello scudo; ma il cavo e grosso usbergo
L’asta sostenne, quell’usbergo istesso
Che d’Efira di là dal Selleente
Un dì Fileo portò, dono d’Eufete,
Ospite suo. Con questo egli più volte
Campò sè stesso nelle pugne, ed ora
Con questo a morte si sottrasse il figlio
Che non fu tardo alle risposte. Al sommo
Del ferrato e chiomato elmo ei percosse
L’assalitor coll’asta, e dispicconne
L’equina cresta, che così com’era
Di purpureo color fulgida e fresca
Tutta gli cadde nella polve. Or mentre
Ei qui stassi con Dolope alle strette,
E vittoria ne spera, ecco venirne
A rapirgli la palma il bellicoso
Minore Atride, che furtivo al fianco
Di Dolope s’accosta, e via nel tergo
L’asta gli caccia. Trapassògli il petto
La furïosa punta oltre anelando:
Boccon cadde il trafitto, e gli fur sopra
Tosto que’ due per dispogliarlo. Allora
Il teucro duce incoraggiando tutti
I congiunti, si volse a Melanippo
D’Icetaon. Pasceva egli in Percote,
Pria dell’arrivo degli Achei, le mandre.
Ma giunti questi ad Ilio, ei pur vi venne,
E risplendea fra’ Teucri, ed abitava
Col re medesmo che l’avea per figlio.
Lo punse Ettorre, e disse: E così dunque
Ci starem neghittosi, o Melanippo?
E non ti senti il cor commosso al diro
Caso del morto consobrin? Non vedi
Lo studio che color dansi dintorno
A Dolope per l’armi? Orsù mi segui:
Non è più tempo di pugnar da lungi
Con questi Argivi. Sterminarli è d’uopo,
O veder Troia al fondo, e allagate
Per lor di sangue cittadin le vie.
Così detto, il precede, e l’altro il segue
In sembianza d’un Dio. Ma volto a’ suoi
Il gran Telamoníde, Amici, ei grida,
Siate valenti, in cor v’entri la fiamma
Della vergogna, e l’un dell’altro abbiate
Tema e rispetto nella forte mischia.
De’ prodi erubescenti i salvi sono
Più che gli uccisi. Chi si volge in fuga,
Corre all’infamia insieme e alla morte.
   Sì disse, e tutti per sè pur già pronti
Alla difesa, si stampâr nel core
Que’ detti, e fêr dell’armi un ferreo muro
Alle navi; ma Giove era co’ Teucri.
   Prese allor Menelao con questi accenti
D’Antíloco a spronar la gagliardia:
Antíloco, tu se’ del nostro campo
Il più giovin guerriero e il più veloce,
E niun t’avanza di valor. Trascorri
Dunque, e di sangue ostil tingi il tuo ferro.
Così l’accese e si ritrasse; e quegli
Fuor di schiera balzando, e d’ogn’intorno
Guatandosi vibrò l’asta lucente.
Visto quell’atto, si scansaro i Teucri,
Ma il colpo in fallo non andò, chè colse
Melanippo nel petto alla mammella,
Mentre animoso s’avanzava. Ei cadde
Risonando nell’armi, e ratto a lui
Antíloco avventossi. A quella guisa
Che il veltro corre al caprïol ferito,
Cui, mentre uscía dal covo, il cacciatore
Di stral raggiunse, e sciolsegli le forze:
Così sovra il tuo corpo, o Melanippo,
A spogliarti dell’armi il bellicoso
Antíloco si spinse. Il vide Ettorre,
E volò per la mischia ad assalirlo.
Non ardì l’altro, benchè pro’ guerriero,
Aspettarne lo scontro, e si fuggío
Siccome lupo misfattor, che ucciso
Presso l’armento il cane o il bifolco,
Si rinselva fuggendo anzi che densa
Lo circuisca de’ villan la turba;
Così diè volta sbigottito il figlio
Di Nestore per mezzo alle saette
Che alle sue spalle con immenso strido
I Troiani piovevano ed Ettorre;
Nè diè sosta al fuggir, nè si converse
Che giunto fra’ compagni a salvamento.
Qui fu che i Teucri un furïoso assalto
Diero alle navi, e adempîr di Giove
Il supremo voler, che vie più sempre
Lor forza accresce, e agli Achei la scema;
Togliendo a questi la vittoria, e quelli
Incoraggiando, perchè tutto s’abbia
Ettor l’onore di gittar ne’ curvi
Legni le fiamme, e tutto sia di Teti
Adempito il desío. Quindi il veggente
Nume il momento ad aspettar si stava
Che il guardo gli ferisse alfin di qualche
Incesa nave lo splendor, perch’egli
Da quel punto volea che de’ Troiani
Cominciasse la fuga, e degli Achei
L’alta vittoria. In questa mente il Dio
Sproni aggiungeva al cor d’Ettorre, e questi
Furïando parea Marte che crolla
La grand’asta in battaglia, o di vorace
Fuoco la vampa che ruggendo involve
Una folta foresta alla montagna.
Manda spume la bocca, e sotto il torvo
Ciglio lampeggia la pupilla: ai moti
Del pugnar, la celata orrendamente
Si squassa intorno alle sue tempie, e Giove
Il proteggea dall’alto, e di lui solo
Tra tanti eroi volea far chiaro il nome
A ricompensa di sua corta vita.
Perocchè già Minerva il dì supremo,
Che domar lo dovea sotto il Pelíde,
Gl’incalzava alle spalle. Ove più dense
Egli vede le file, e de’ più forti
Folgoreggiano l’armi, oltre si spigne
Di sbaragliarle impazïente, e tutte
Ne ritenta le vie; ma tuttavolta
Gli esce vano il desío, chè stretti insieme
Resistono gli Achei siccome aprico
Immane scoglio che nel mar si sporge,
E de’ venti sostiene e del gigante
Flutto la furia che si spezza e mugge:
Tali a piè fermo sostenean gli Achei
L’urto de’ Teucri. Finalmente Ettorre
Scintillante di foco nella folta
Precipitossi. Come quando un’onda
Gonfia dal vento assale impetuosa
Un veloce naviglio, e tutto il manda
Ricoperto di spuma: il vento rugge
Orribilmente nelle vele, e trema
Ai naviganti il cor, chè dalla morte
Non son divisi che d’un punto solo:
Così tremava degli Achivi il petto;
Ed Ettore parea crudo lïone
Che in prato da palude ampia nudrito
Un pingue assalta numeroso armento.
Ben egli il suo pastor vorría da morte
Le giovenche campar; ma non esperto
A guerreggiar col mostro, or tra le prime
S’aggira ed or tra l’ultime; alfin l’empio
Vi salta in mezzo, e una ne divora,
E ne van l’altre impaurite in fuga:
Così davanti a Ettore e a Giove
Fuggían percossi da divin terrore
Tutti allora gli Achei. Restovvi il solo
Micenéo Periféte, amata prole
Di quel Copréo che un giorno al grande Alcide
Venne dei duri d’Euristéo comandi
Apportatore. Di malvagio padre
Illustre figlio risplendea di tutte
Virtù fornito Periféte, ed era
E nel corso e nell’armi e ne’ consigli
Tra’ Micenéi pregiato e de’ primieri.
Ed or qui diede di sua morte il vanto
Alla lancia d’Ettór. Chè mentre indietro
Si volta nel fuggir, nell’orlo inciampa
Dello scudo, che lungo insino al piede
Dalle saette il difendea. Da questo
Impedito il guerrier cadde supino,
E dintorno alle tempie in suono orrendo
La celata squillò. V’accorse Ettorre,
E l’asta in petto gli piantò, nè alcuno
Aitarlo potea de’ mesti amici,
Del teucro duce paurosi anch’essi.
Abbandonato delle navi il primo
Ordin gli Achivi, come ria gli sforza
Necessitade e l’incalzante ferro
De’ Troiani, riparansi al secondo
Alla marina più propinquo; e quivi
Nanzi alle tende s’arrestâr serrati
Senza sbandarsi (chè vergogna e tema
Li ratteneano) e alzando un incessante
Grido a vicenda si mettean coraggio.
Anzi a tutti il buon Nestore, l’antico
Guardïan degli Achivi, ad uno ad uno
Pe’ genitor li supplica: Deh siate,
Siate forti, o miei cari, e di pudore
Il cor v’infiammi la presenza altrui.
Della sua donna ognuno e de’ suoi figli
E del suo tetto si rammenti; ognuno
Si proponga de’ padri, o spenti o vivi,
I bei fatti al pensiero: io qui per essi
Che son lungi vi parlo, e vi scongiuro
Di tener fermo e non voltarvi in fuga.
   Rincorârsi a que’ detti: allor repente
Sgombrò Minerva la divina nube,
Che il lor guardo abbuiava, e una gran luce
Dintorno balenò. Vider le navi,
Videro il campo e la battaglia e il prode
Ettore e tutti i suoi guerrier, sì quelli
Che in riserbo tenea, sì quei che fanno
Pugna alle navi. Non soffrì d’Aiace
Il magnanimo cor di rimanersi
Con gli altri Achivi indietro, e impugnata
Una gran trave da naval conflitto
Con caviglie connessa, e ventidue
Cubiti lunga, la scotea, per l’alte
De’ navigii corsie lesto balzando
A lunghi passi, simigliante a sperto
Equestre saltator che giunti insieme
Quattro scelti destrier gli sferza e spigne
Per le pubbliche vie: maravigliando
Stassi la turba, ed ei sicuro e ritto
Dall’un passando all’altro il salto alterna
Sui volanti cavalli; a tal sembianza
Alternava l’eroe gl’immensi passi
Per le coperte delle navi, e al cielo
La sua voce giugnea sempre gridando
Terribilmente, e confortando i suoi
Delle tende e de’ legni alla difesa.
E nè pur esso di rincontro Ettorre
Tra’ Teucri in turba si riman; ma quale
Aquila falba che uno stormo invade
O di cigni o di gru che lungo il fiume
Van pascolando; a questa guisa il prode
Di schiera uscito avventasi di punta
Contra una nave di cerulea prora.
Lo stesso Giove colla man possente
Il sospinge da tergo, e gli altri incita,
E un novello vi desta aspro certame.
Detto avresti che fresca allora allora
S’attaccava la mischia, e che indefesse
Eran le braccia: l’impeto è cotanto
De’ combattenti con opposti affetti.
Nella credenza di perirvi tutti
Pugnavano gli Achei; nella lusinga
Di sterminarli i Teucri, e in faville
Mandar le navi. Ed in cotal pensiero
Gli uni e gli altri mescean la zuffa e l’ire.
   Ettore intanto colla destra afferra
D’una nave la poppa. Era la bella
Veloce nave che di Troia al lido
Protesilao guidò senza ritorno.
Per questa si facea di Teucri e Achei
Un orrido macello, e questi e quelli
D’un cor medesmo, non con archi e dardi
Fan pugna da lontan, ma con acute
Mannaie a corpo a corpo, e con bipenni
E con brandi e con aste a doppio taglio,
E con tersi coltelli di forbito
Ebano indutti e di gran pomo; e altri
Ne cadean dalle spalle, altri dal pugno
De’ guerrieri, e scorrea sangue la terra.
Dell’afferrata poppa Ettor tenendo
Forte il timone colle man, gridava:
Foco, o Teucri, accorrete, e combattete;
Ecco il dì che di tutti il conto adegua,
Il dì che Giove nelle man ci mette
Queste navi, a Ilïon contra il volere
Venute degli Dei, queste che tanti
Ne recâr danni per codardi avvisi
De’ nostri padri che mi fean divieto
Di portar qui la guerra. Ma se Giove
Confuse allor le nostre menti, or egli,
Egli stesso n’incalza all’alta impresa.
   Disse, e i Teucri maggior contro gli Argivi
Impeto fêro. Degli strali allora
Più non sostenne Aiace la ruina,
Ma giunta del morir l’ora credendo,
Lasciò la sponda del naviglio, e indietro
Retrocesse alcun poco ad uno scanno
Sette piè di lunghezza. E qui piantato
Osservava il nemico, e sempre oprando
L’asta, i Troiani, che di faci ardenti
Già s’avanzano armati, allontanava,
E sempre alzava la terribil voce:
Dánai di Marte alunni, amici eroi,
Non ponete in obblío vostra prodezza.
Sperate forse di trovarvi a tergo
Chi ne soccorra, o un più saldo muro
Che ne difenda? Non abbiam vicina
Città munita che ne salvi, e nuove
Falangi ne fornisca. In mezzo a fieri
Inimici noi siam, chiusi dal mare,
Lungi dal patrio suol. Nell’armi adunque,
Non nella fuga, ogni salute è posta.
   Così dicendo, colla lunga lancia
Furïoso inseguía qualunque osava
Da Ettore sospinto avvicinarsi
Colle fiamme alle navi. E di costoro
Dodici dall’acuta asta trafitti
Pose a giacer davanti alle carene.

Traduzione di Vincenzo Monti (I nomi greci sono stati tradotti nei rispettivi nomi latini)

ERA (Giunone)

Era (in greco antico: Hera), era una dea della religione dell'antica Grecia, figlia di Crono e Rea. Nella religione dell'antica Grecia Era era una delle divinità più importanti, dea del matrimonio, della fedeltà coniugale e del parto, Era era considerata la sovrana dell'Olimpo e i suoi simboli sono la vacca ed il pavone. Nella religione romana la sua figura corrisponde a quella di Giunone. Appena nata, da bambina, fu brutalmente ingoiata dal padre insieme ai fratelli ma grazie a uno stratagemma di Zeus e Poseidone, anche lui salvato dalla madre nascondendolo in un branco di cavalli, il padre rigurgitò i figli. Fu allevata nella casa di Oceano e Teti e poi nel giardino delle Esperidi (oppure secondo altre fonti, sulla cima del monte Ida) sposò Zeus. La sua continua lotta contro i tradimenti del consorte diede origine al tema ricorrente della "Gelosia di Era" che rappresenta lo spunto per quasi tutte le leggende e gli aneddoti relativi al suo culto. Era veniva ritratta come una figura maestosa e solenne, spesso seduta sul trono mentre porta come corona il "polos", il tipico copricapo di forma cilindrica indossato dalle dee madri più importanti di numerose culture antiche. In mano stringeva una melagrana, simbolo di fertilità e di morte usato anche per evocare, grazie alla somiglianza della sua forma, il papavero da oppio. Omero définì la dea boopide ovvero dagli occhi bovini per l'intensità del suo regale sguardo. Era, molto gelosa dei tradimenti del marito, odiava soprattutto Eracle, suo figliastro in quanto Eracle era il preferito di Zeus. La natura umana dell'eroe portò Era ad odiare tutto il genere umano: conosciuta come la più vendicativa fra gli dèi, spesso usava gli uomini come autori del suo volere distruttivo. Era sceglieva i suoi guerrieri spedendo loro delle piume di pavone, animale a lei sacro. I templi di Era, costruiti in due dei luoghi in cui il suo culto fu particolarmente sentito, l'isola di Samo e l'Argolide, risalgono all'VIII secolo a.C. e furono i primissimi esempi di tempio greco monumentale della storia (si tratta rispettivamente dell'Heraion di Samo e dell'Heraion di Argo). Il nome "Era" potrebbe avere numerose diverse etimologie contrastanti l'una con l'altra. Una prima possibilità è di metterlo in relazione con "hora" (stagione), e di interpretarlo come "pronta per il matrimonio". Alcuni studiosi ritengono che possa significare "padrona" intendendolo come un derivato femminile della parola "heros" (signore). C'è chi propone che significhi "giovane vacca" o "giovenca", in conformità con il comune epiteto a lei riferito di boòpis, "dall'occhio bovino". La voce "E-Ra" è comunque già presente nelle più antiche tavolette micenee. Tutto questo indica però che, a differenza di quanto accade per altri dèi greci come Zeus e Poseidone, l'origine del nome di Hera non può essere ascritta con sicurezza né alla lingua greca né in genere ad una lingua indoeuropea. Alcuni aspetti del suo culto sembrano suggerire che Hera sia in realtà una figura sopravvissuta, con alcuni adattamenti, da antichi culti minoici e pelasgici e si rifaccia ad una "grande dea madre" adorata in quelle culture. L'importanza di Hera fin dall'età arcaica è testimoniata dai grandi edifici di culto che vennero realizzati in suo onore. Il culto di Era, adorata come "Era di Argo" (Hera Argeia), fu particolarmente vivo nel suo santuario che si trovava tra le città-stato micenee di Argo e Micene, dove si tenevano le celebrazioni in suo onore chiamate Heraia. L'altro principale centro dedicato al suo culto si trovava nell'isola di Samo. Templi dedicati ad Era sorgevano anche ad Olimpia, Corinto, Tirinto, Perachora e sulla sacra isola di Delo. Nella Magna Grecia, a Paestum, quello che per lungo tempo fu creduto essere il tempio di Poseidone, negli anni cinquanta si è scoperto che in realtà era un secondo tempio dedicato ad Era. Inoltre vi era un tempio dedicato alla dea anche a Capo Colonna, il tempio di Hera Lacinia. Nella cultura greca classica, gli altari venivano costruiti a cielo aperto. Era potrebbe essere stata la prima divinità a cui fu dedicato un tempio dotato di un tetto chiuso, che fu eretto circa nell'800 a.C. a Samo, e fu successivamente sostituito dall'Heraion, uno dei templi greci più grandi in assoluto. I santuari più antichi, per i quali vi sono meno certezze circa la divinità a cui erano dedicati, erano realizzati secondo un modello Miceneo chiamato "casa-santuario". Gli scavi archeologici di Samo hanno portato alla luce offerte votive, molte delle quali risalenti all'VIII e VII secolo a.C., che rivelano come Era non fosse considerata soltanto una dea greca locale di ambiente egeo: attualmente il museo raccoglie statuette che rappresentano dèi, supplici e offerte votive di altro tipo provenienti dall'Armenia, da Babilonia, dalla Persia, dall'Assiria e dall'Egitto, a testimonianza dell'alta considerazione di cui godeva questo santuario e del grande flusso di pellegrini che attirava. Sull'isola Eubea ogni sessant'anni si celebravano le Grandi Dedalee, dei riti dedicati ad Era.
Nelle raffigurazioni ellenistiche il carro di Era era trainato da pavoni, una specie di uccello che in Grecia è rimasta sconosciuta fino alle conquiste di Alessandro: Aristotele, l'istitutore di Alessandro si riferiva a quest'animale come all'"uccello persiano". Il motivo artistico del pavone fu riportato molto più tardi in voga dall'iconografia rinascimentale, che fondeva tra loro le figure di Era e Giunone. In epoca arcaica, un periodo durante il quale ad ogni dea dell'area egea era associato il "suo" uccello, veniva associato ad Era anche il cuculo che appare in alcuni frammenti che raccontano la leggenda dei primi corteggiamenti alla vergine Era da parte di Zeus.
Nei tempi più antichi la sua associazione più importante era quella con il bestiame, come dea degli armenti, venerata specialmente nell'isola Eubea detta "ricca di mandrie". Il suo epiteto più comune nei poemi omerici, "boopis", viene sempre tradotto "dall'occhio bovino" dal momento che, come i Greci dell'età classica, la nostra cultura rifiuta la più naturale traduzione "dal volto di vacca" o "dall'aspetto di vacca": un'Era dalla testa bovina come il Minotauro verrebbe percepita come un oscuro e spaventoso demone. Tuttavia sull'isola di Cipro sono stati trovati dei teschi di toro adattati ad essere usati come maschera, il che suggerisce un probabile antico culto dedicato a divinità con un simile aspetto. La melagrana, antico simbolo dell'arcaica Grande Dea Madre, continuò ad essere usato come simbolo di Era: molte delle melagrane e dei papaveri da oppio votivi trovati negli scavi di Samo sono realizzate in avorio, materiale che resiste all'usura del tempo meglio del legno, con il quale dovevano essere invece comunemente realizzati. Al pari delle altre dee, Era veniva ritratta mentre indossava un diadema e con un velo sul capo.
Si dice che Era, durante la guerra di Troia, fosse schierata dalla parte dei greci, a causa del suo odio per Paride e per Afrodite. Prima parte del libro IV dell'Iliade «...Dice accigliato Zeus: -Atena ed Era parteggiano per Menelao, sì: ma si limitano a guardare e a sorridergli. Tu invece, Afrodite, sei scesa a salvare Paride che, pure, era stato sconfitto e meritava quindi la morte. Sono stanco di questa guerra. Finiamola. Concediamo Elena a Menelao, e sia finita. Subito Era ribatté:-No!Non voglio che ci sia pace, fino a quando Troia non sarà distrutta! -Ma che ti hanno fatto di male , Priamo e i suoi figli, che tu li voglia vedere distrutti? Bada, Era, se vuoi che Troia perisca, un giorno sarò io che vorrò vedere annientata una città che t'è cara! -E sia! Se vuoi-afferma l'inesorabile Dea-distruggi pure Atene o Sparta o Argo mie dilette città: non mi opporrò al tuo volere! Ma tu non opporti al mio [volere]!...»
Era era la patrona del matrimonio propriamente detto e rappresenta l'archetipo simbolico dell'unione di uomo e donna nel talamo nuziale, tuttavia non è certo famosa per le sue qualità di madre. I figli legittimi nati dalla sua unione con Zeus sono Ares (il dio della guerra), Ebe (la dea della giovinezza), Eris (la dea della discordia), Efesto (dio del fuoco e dei metalli) ed Ilizia (protettrice delle nascite). Alcuni autori ancora aggiungono a questa lista i Cureti e anche le tre Cariti. Era, resa gelosa dal fatto che Zeus era diventato padre di Atena senza di lei (infatti l'aveva avuta da Metide), per ripicca decise di mettere al mondo Efesto senza la collaborazione del marito. Entrambi però rimasero disgustati al vedere la bruttezza di Efesto e lo scagliarono giù dall'Olimpo. Una leggenda alternativa dice che Era mise al mondo da sola tutti i figli che tradizionalmente sono attribuiti a lei e Zeus, e che lo fece semplicemente battendo il suolo con la mano, un gesto di grande solennità nella cultura greca antica.
Efesto si vendicò del rifiuto subito dalla madre costruendole un trono magico che, una volta che ella vi si sedette, non le permise più di alzarsi. Gli altri dèi pregarono più volte Efesto di tornare sull'Olimpo e liberarla, ma egli rifiutò ripetutamente. Allora Dioniso lo fece ubriacare e lo riportò sull'Olimpo incosciente, trasportandolo con un mulo. Efesto accettò di liberare Era, ma solo dopo che gli fu concessa in moglie Afrodite. Era era la matrigna dell'eroe Eracle, nonché la sua principale nemica. Il nome di Eracle significa letteralmente "gloria di Era", e il motivo di ciò ha avuto varie spiegazioni, sin dall'antichità: forse perché fu a motivo delle persecuzioni di Era che Eracle dovette compiere le sue imprese ed ottenere la gloria, o forse perché fu allattato dalla dea, che può dunque vantarsi di avere allattato un eroe così forte. C'è anche un'altra spiegazione: dopo che Era fece impazzire Eracle, che fuori di sé uccise i propri figli, l'eroe si recò all'oracolo di Delfi, dove la sacerdotessa d'Apollo gli ingiunse di andare a Tirinto dal cugino Euristeo, dove avrebbe dovuto servirlo e compiere tutte le imprese che lui gli avrebbe imposto, e ciò l'avrebbe dovuto fare per la gloria di Era, e da allora in poi si sarebbe chiamato "Eracle", cioè "gloria di Era".
Quando Alcmena era incinta di Eracle, Era tentò di impedirne la nascita facendo annodare le gambe della puerpera. Fu salvata dalla sua serva Galantide che disse alla dea che il parto era già avvenuto, facendola desistere. Scoperto l'inganno, Era trasformò Galantide in una donnola per punizione. Quando Eracle era ancora un bambino, Era mandò due serpenti ad ucciderlo mentre dormiva nella sua culla. Eracle però strangolò i due serpenti afferrandoli uno per mano, e la sua nutrice lo trovò che si divertiva con i loro corpi come fossero giocattoli. Quest'aneddoto è costruito attorno alla figura dell'eroe che stringe un serpente per mano, esattamente come la famosa dea che teneva in mano i serpenti dell'epoca minoica.
Una descrizione dell'origine della Via Lattea dice che Zeus aveva indotto con l'inganno Era ad allattare Eracle, per renderlo immortale: quando si era accorta di chi fosse, lo strappò via dal petto all'improvviso e uno schizzo del suo latte formò in cielo la striscia di luce biancastra, che ancor oggi possiamo vedere, e che perciò è chiamata "Via Lattea". Un'altra versione afferma che fu Ermes ad avvicinare Eracle al seno di Era, che era addormentata, per fargli bere il latte che lo avrebbe reso immortale. A causa di un morso di Eracle, però, la dea si svegliò e, togliendo repentinamente il seno di bocca ad Eracle, uno spruzzo del suo latte ne fuoriuscì formando la Via Lattea. Gli Etruschi dipinsero un Eracle adulto e già con la barba attaccato al seno di Era.

L'origine dela Via Lattea del Tintoretto
era 1

Era fece in modo che Eracle fosse costretto a compiere le sue famose imprese per conto del re Euristeo di Micene e, non contenta, tentò anche di renderle tutte più difficili. Quando l'eroe stava combattendo contro l'Idra di Lerna lo fece mordere ad un piede da un granchio, sperando di distrarlo. Per causargli ulteriori problemi, dopo che aveva rubato la mandria di Gerione, Era mandò dei tafani per irritare e spaventare le bestie, quindi fece gonfiare le acque di un fiume in modo tale che Eracle non potesse più guadarle con la mandria, costringendolo a gettare nel fiume enormi pietre per renderlo attraversabile. Quando finalmente riuscì a raggiungere la corte di Euristeo, la mandria fu sacrificata in onore di Era. Euristeo avrebbe voluto sacrificare alla dea anche il Toro di Creta, ma Era rifiutò perché la gloria di un simile sacrificio sarebbe andata di riflesso anche ad Eracle che l'aveva catturato. Il toro fu così lasciato andare nella piana di Maratona diventando famoso come il Toro di Maratona.
Alcune leggende dicono che Era alla fine si riconciliò con Eracle, dato che l'aveva salvata dal gigante Porfirione che tentava di stuprarla durante la Gigantomachia, e la dea, per farsi perdonare dei tormenti dati all'eroe, gli concesse anche come moglie sua figlia Ebe.
Aneddoti sulla gelosia di Era
Una volta, Zeus convinse una ninfa di nome Eco a distrarre Era dai suoi amori furtivi. Quando Era scoprì l'inganno condannò la ninfa a non aver più una voce propria e a poter, da allora in poi, soltanto ripetere le parole altrui. Un giorno, Eco incontrò Narciso, il suo vero amore che, sentendosi ripetere le ultime parole che diceva si offese e la lasciò lì a morire per amore.
Latona
Quando Era venne a sapere che Latona era incinta di 2 gemelli e che il padre era Zeus, con un incantesimo impedì a Latona di partorire facendo sì che ogni terra ove si recasse risultasse ostile nei suoi confronti. Latona trovò l'isola galleggiante di Delo, che non era né terraferma né una vera e propria isola ed era troppo inospitale per poterla peggiorare. Su questa partorì mentre veniva circondata da cigni. In segno di gratitudine Zeus fissò Delo, che da allora fu sacra ad Apollo, con quattro pilastri. Vi sono anche altre versioni della storia. In una di queste Era rapì la figlia Ilizia, la dea della nascita, per impedire a Latona di cominciare il travaglio, ma gli altri dèi la costrinsero a lasciarla andare. Alcune leggende dicono che Artemide, nata per prima, aiutò la madre a partorire Apollo, mentre un'altra sostiene che Artemide, nata il giorno precedente.
Callisto e Arcade
Callisto, una ninfa che faceva parte del seguito di Artemide, fece voto di restare vergine, ma Zeus si innamorò di lei e assunse l'aspetto di Apollo (secondo altre versioni di Artemide stessa) per adescarla e sedurla. Era allora, per vendicarsi del tradimento, diede a Callisto le sembianze di un'orsa. Tempo dopo Arcade, il figlio che Callisto aveva generato con Zeus, quasi uccise per errore la madre durante una battuta di caccia e Zeus, per proteggerli da ulteriori rischi, li mise in cielo trasformandoli nelle due costellazioni dell'orsa minore e dell'orsa maggiore. La caratteristica di queste due costellazioni è che non tramontano mai.
Semele e Dioniso
Dioniso era figlio di Zeus e di una mortale. Era, gelosa, tentò di uccidere il bambino mandando dei Titani a fare a pezzi Dioniso dopo averlo attirato con dei giocattoli. Nonostante Zeus fosse riuscito infine a scacciare i Titani con i suoi fulmini, erano riusciti a divorarlo quasi tutto e ne era rimasto solo il cuore salvato, a seconda delle versioni della leggenda, da Atena, Rea, o Demetra. Zeus si servì del cuore per ricreare Dioniso, ponendolo nel grembo di Semele (per questo Dioniso diventò conosciuto come “il due volte nato”). Le versioni della leggenda sono comunque molte e varie.
Io
Un giorno Era stava per sorprendere Zeus con una delle sue amanti, chiamata Io, ma Zeus riuscì ad evitarlo all'ultimo, trasformando Io in una giovenca bianca. Era, tuttavia, ancora insospettita, chiese a Zeus di darle la giovenca in dono. Una volta ottenutala, Era la affidò alla custodia del gigante Argo, perché la tenesse lontana da Zeus. Il re degli dèi allora ordinò ad Ermes di uccidere Argo, cosa che il dio fece addormentando il gigante dai cento occhi grazie al suono del suo flauto e poi tagliandogli la testa. Era prese gli occhi del gigante e, per onorarlo, li pose sulle piume della coda del pavone, il suo animale sacro. Quindi mandò un tafano a tormentare Io, che cominciò a fuggire per tutto il mondo conosciuto, fino a giungere in Egitto dove, dopo aver partorito il figlio Epafo, riacquistò forma umana.

Era, con il pavore alei sacro, e Argo. Dipinto di Rubens.
era 2

Lamia
Lamia era una regina della Libia della quale Zeus si era innamorato. Era per vendicarsi trasformò la donna in un mostro, e uccise i figli che aveva avuto da Zeus. Una diversa versione della leggenda dice che Era le uccise i figli e Lamia si trasformò in un mostro per il dolore. Lamia venne anche colpita da Era con la maledizione di non poter mai chiudere gli occhi, in modo che fosse per sempre condannata a vedere ossessivamente l'immagine dei suoi figli morti. Zeus, per consentirle di riposare, le concesse il potere di cavarsi temporaneamente gli occhi e poi rimetterli al loro posto.
Gerana
Gerana era una regina dei Pigmei che si vantò di essere più bella di Era. La dea, furibonda, la trasformò in una gru e proclamò solennemente che gli uccelli suoi discendenti sarebbero stati in eterna lotta contro il popolo dei Pigmei.
Tiresia
Tiresia era un sacerdote di Zeus: quando era giovane si imbatté in due serpenti arrotolati tra loro e, con un bastone, uccise il serpente femmina. Fu allora improvvisamente trasformato in una donna e, cambiato sesso, divenne una sacerdotessa di Era, si sposò ed ebbe dei figli (tra i quali Manto). Altre versioni dicono invece che diventò una famosa ed abile prostituta. Passati sette anni, Tiresia trovò altri due serpenti intrecciati e questa volta uccise il serpente maschio, recuperando il suo sesso originario. A questo punto, dato che era stato sia uomo che donna, Era e Zeus lo convocarono per chiedergli, visto che aveva vissuto entrambi i ruoli, se durante il rapporto amoroso provasse più piacere l'uomo o la donna. Zeus sosteneva fosse la donna, Era naturalmente l'opposto. Quando Tiresia si mostrò propenso a confermare le tesi di Zeus, Era lo accecò infuriata. Zeus allora, non potendo rimediare a ciò che la consorte aveva fatto, per compensarlo del danno gli diede il dono della profezia. Una versione diversa della leggenda di Tiresia dice che fu invece accecato da Atena per averla vista mentre faceva il bagno nuda, e Zeus gli diede la profezia per le suppliche di sua madre Cariclo.

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Eugenio Caruso - 31 - 10 - 2021

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