La seguente nota di  inquadramento è stata redatta dal dr. Marco Borgarello, ricercatore di CESI  RICERCA SpA, impegnato nel progetto di ricerca in corso sulla base dell’Accordo  di Programma con il Ministero dello sviluppo economico per l’analisi di scenari  di sviluppo del sistema elettrico italiano.
Il nome di Kyoto, l’antica  capitale del Giappone, è legato a doppio filo all’omonimo accordo che fu  raggiunto nel dicembre del 1997 dai partecipanti alla terza Conferenza delle  Parti e che costituisce una pietra miliare nella negoziazione internazionale  nella lotta ai cambiamenti climatici.
  La rilevanza mondiale del  Protocollo di Kyoto deriva dal fatto che per la prima volta, alla luce delle preoccupazioni  espresse nella conferenza della terra di Rio de Janeiro del ’92, furono prese  due importanti decisioni: la definizione di obiettivi vincolanti di riduzione  delle emissioni di gas serra e l’individuazione di strumenti economici  (Emissions Trading, Joint Implementation Clean Development Mechanism), pensati  per minimizzare gli oneri economici che i Paesi avrebbero dovuto sostenere per  rispettare i vincoli ambientali imposti.
  Su questi due aspetti si sono attorcigliate le trattative  e le negoziazioni che hanno caratterizzato il decennio che è intercorso fra la  firma del protocollo e la sua entrata in forza, avvenuta nel 16 febbraio del  2005.
  Il primo punto, che stabilisce che nel periodo 2008-2012  le emissioni di gas serra debbano essere globalmente ridotte del 5,2% (8 % per  EU; 6,5% per l’Italia) rispetto al livello del 1990, è subito apparso come lo  scoglio più duro da superare.
  Tale aspetto si regge sulla  scelta fatta a Kyoto dai Paesi firmatari dell’accordo di riconoscere una  “comune responsabilità” ai paesi industrializzati e con economie in transizione   e, quindi, di attribuire loro obiettivi di riduzione  vincolanti, “differenziati” sulla base dei diversi contributi emissivi  “fotografati” al 1990. Ai Paesi in via di sviluppo (PVS), per non  comprometterne la crescita, fu deciso di non applicare obiettivi vincolanti,  seppure richiamandoli a contribuire in modo volontario al comune sforzo. Il  vincolo è articolato sulla riduzione complessiva di sei gas (CO2, CH4,  N2O, SF6, HFCs   PFCs), ma gli sforzi di riduzione sono maggiormente concentrati sulla CO2  che, pur avendo fra i sei gas il più basso valore di  effetto riscaldante  (GWP CO2=1,  CH4 =23, … SF6=22200 ), è percentualmente il più  rilevante.
  Associando il paradigma che le emissioni di CO2  sono legate alla produzione di energia e ai principali processi produttivi, è  facile comprendere che l’imposizione di vincoli travalichi i confini ambientali  per come erano sempre stati concepiti prima di Kyoto, e si ripercuota,  viceversa nel complesso mondo dell’economia e, più in generale, delle scelte di  policy. 
  L’imprevista evoluzione delle dinamiche economiche  conseguenti alla globalizzazione dei mercati, nonché lo sconvolgimento di molti  assetti politici, hanno contribuito a rendere ancora più complesso il quadro di  riferimento, portando, nel corso degli anni, ad una profonda discussione sulla  “sostenibilità” delle scelte fatte a Kyoto.
  La seconda “rivoluzione” del protocollo è, di fatto,  l’aver “sposato” il mondo dell’economia con quello dell’ambiente. La filosofia  che sta alla base è molto semplice: l’effetto serra è un problema globale,  quindi, gli effetti delle azioni di riduzione sono indipendenti dal luogo in  cui essi sono portati a termine e, quindi, è più conveniente realizzarli dove costa  meno”. 
  L’obiettivo ambientale è salvaguardato e l’applicazione  della flessibilità può consentire di limitare gli sforzi, anche quelli  economici, solo nei casi dove il rapporto costo beneficio è positivo.
  La possibilità inoltre, di integrare le politiche di  riduzione con l’acquisto di permessi e crediti, assimilabili a riduzioni  equivalenti, lascia ampia facoltà alle imprese di gestire la propria strategia.
  Anche questo concetto, mutuato dai programmi di Emissions  Trading realizzati nella costa atlantica degli USA già prima di Kyoto per  combattere i problemi di “acid rain”, è stato  inizialmente osteggiato. Con il tempo,  tuttavia, i toni scuri si sono sbiaditi al punto che, anche l’Unione Europea,  accanita sostenitrice della “via tradizionale” (uno dei motivi di contrasto con  gli USA è stato il peso da dare ai meccanismi di flessibilità rispetto alle  azioni “domestiche”), ha dato avvio dal 2005 al sistema EU dell’Emissions  Trading, che costituisce un mercato economico in grado di realizzare un volume  di affari di quasi 25 miliardi di USS $ (Dato– Mercato EU ETS anno  2006 - The World Bank)
  Questo passaggio ci permette di concentrare l’attenzione  in un confine più prossimo a noi: l’Europa e l’Italia. La  decisione assunta a Kyoto dall’Unione Europea di  utilizzare l’articolo 3 dell’omonimo protocollo, che consente di conseguire  congiuntamente l’obiettivo di riduzione –   l’Europa ha un obiettivo di riduzione dell’8%, poi ridistribuito  all’interno degli Stati membri con l’accordo di Burden Sharing del 1998 - è sintomatica  dell’atteggiamento e del ruolo che l’Unione  Europea avrebbe giocato e, tuttora svolge, nel panorama internazionale delle  politiche per contrastare i cambiamenti climatici. Ripercorrere le tappe del  cammino sarebbe troppo lungo, ma l’EU si è sempre segnalata, ad esempio in  occasione degli accordi di Bonn (COP6) Marrakech (COP7), per tener vivo lo  spirito di Kyoto, anche a costo di sostenere scelte unilaterali che hanno  generato al proprio interno, l’insorgere di voci di malessere che ritenevano, e  ritengono, che tale posizione  possa  costituire, per i competitor Kyoto-free, un’eccessiva posizione di privilegio,  in un mercato globalizzato, sempre più sensibile alla competitivita’. La  recente decisione, nota con l’acronimo “venti venti venti”, di proporre un  pacchetto di misure e azioni a tutto campo su energia e ambiente, per  consentire all’Europa di raggiungere una diminuzione del 20% delle emissioni di  gas serra degli Stati Membri, incrementabile al 30% in caso di impegno  congiunto post Kyoto ed allargato anche agli agli Paesi, costituisce l’ultimo  tassello di tale politica.
  Per dovere di cronaca, occorre sottolineare che tale  scelta fa seguito ad una serie di pubblicazioni che nell’inverno 2006- 2007  fecero molto scalpore: il Rapporto di Sir Nicholas Stern, la pubblicazione  sintetica del 4th Assessment report dell’IPCC e le comunicazioni EU in  merito ai “Costs of inaction for Europe”.
  I risultati dei modelli economici  e le analisi utilizzate dai diversi approcci e studi, pur con le ovvie  differenze e stime, convergevano sul fatto che l’immobilità nei confronti dei  cambiamenti climatici non potesse essere una via praticabile. Si badi bene, le  analisi non ponevano l’accento esclusivamente sugli aspetti di salvaguardia  della salute pubblica e dell’ambiente, spesso annunciati dalle previsioni  climatologiche con toni apocalittici “day after”, ma prendevano in  considerazione i settori “di mercato” come l’agricoltura e l’uso dell’energia.
  Ebbene, secondo il rapporto Stern  i costi socio economici indotti dai cambiamenti climatici sui settori  potrebbero, nel corso dei prossimi decenni, incidere negativamente sulla  crescita economica dal 5 al 20% sul prodotto interno lordo globale.
  In contrasto, il costo  dell’intervento per ridurre le emissioni di GHG in modo da non determinare  significativi cambiamenti del clima, potrebbe limitare i costi ad una riduzione  del 1% l’anno del GDP.
  L’ampio range di stima dei  costi è determinato, non solo dalle intrinseche incertezze legate alle  valutazioni dei modelli, ma soprattutto dagli scenari di evoluzione della  temperatura che essi assumono come dato per la valutazione dei costi
  Le prime stime, infatti,  assumevano come dato di riferimento l’ipotesi del raddoppio, nel corso dei  prossimi cento anni, rispetto ai livelli pre industriali,  della concentrazione in atmosfera della CO2,  e che questa situazione potesse determinare un incremento medio della  temperatura di 2,5°C, sempre rispetto ai livelli preindustriali. In tali  condizioni, gli impatti diretti dei cambiamenti di clima sull’ambiente e sulla  vita dell’uomo erano stimati, pur con ampie divergenze fra i modelli, con costi  medi variabili di riduzione del GDP quantificabili fra il 5 e l’11%. Più  recenti evidenze scientifiche indicano che il sistema climatico potrebbe avere  una risposta più marcata alle emissioni di GHG, facendo quindi prevedere un  aumento delle  stime dei costi sino ad un  valore riduzione del GDP del 14%. Infine, vi sono le previsioni dei costi degli  eventi estremi, che nell’ipotesi di evoluzione dell’innalzamento della  temperatura sino a 5-6 °C,  potrebbero determinare quasi il raddoppio delle valutazioni dei costi.
  Certo, queste valutazioni consigliano l’intervento, ma non  giustificano l’approccio unilaterale.
  I numeri dicono che se non si pongono freni alle emissioni  dei grandi paesi emettitori, primi fra tutti la Cina e gli USA, l’impegno EU apparirebbe inutile,  oltre che sproporzionato.
  Ma l’EU ha espresso l’intenzione, attraverso i canali  politici, e soprattutto con le forti attrattive della piattaforma di scambio  della CO2, di coinvolgere nelle politiche di lotta ai cambiamenti  climatici anche quei paesi, attualmente non coinvolti. 
  Terminiamo il nostro viaggio in Italia.   La recente pubblicazione  del Fourth National Communication under the  UN Framework Convention on Climate Change da parte del Ministero Ambiente e  Tutela del Territorio e del Mare, come atto formale di “avanzamento lavori”,  dovuto a seguito dell’impegno della ratifica del protocollo di Kyoto, consente  di prender visione del panorama nazionale. L’inventario delle emissioni,  aggiornato al 2005, ci dice che le emissioni di gas serra, tecnicamente  calcolate in CO2 equivalenti, sono del 12,1% superiori a quelle  dell’anno di riferimento di Kyoto: considerando che il nostro target è di  scendere di 6,5%, la distanza dal “nostro Kyoto” diventa di oltre il 18%.
  I pilastri su cui si regge la politica di contrasto ai  cambiamenti climatici sono prevalentemente due: lo schema di emissions trading  che coinvolge i settori produttivi energivori (energia, industria) e  le linee guida per le politiche e misure  nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra,– ex  delibera Cipe in fase di revisione – che  integra le misure di riduzione sui settori esclusi dall’ET, quali trasporti,  residenziale etc.
  Agire solo sul settore ETS senza avere in mente l’intero  piano complessivo di riduzione è sicuramente un pericoloso gioco di equilibrio  che è stato motivo, come noto, della richiesta da parte della Commissione  Europea di rivedere il II PNA nazionale di circa 13 Mt CO2 eq, come  parziale compensazione di azioni di riduzione, previste dal Piano Cipe,  previste per gli altri settori non ETS, (efficienza, rinnovabili, trasporti) e  che la Commissione  ha ritenuto non  completamente  convincenti.
  Relativamente all’ETS, evitando di cadere su un terreno  “franoso” come quello dei criteri di allocazione del PNA II, è utile  riflettere, in chiave nazionale, su quello che emerge dalla proposta di  modifica del sistema ETS Europeo. E’ prevedibile che dal 2013 al 2020, le  allocazioni scenderanno, si dice del 21%, prendendo come anno base il 2005. Le  modalità di assegnazione subiranno una netta rivoluzione: probabilmente il cap,  il livello massimo di gas serra complessivi, sarà centralmente deciso  dall’Unione Europea, come pure la ripartizione tra gli impianti ed i permessi  saranno allocati a titolo oneroso, mediante meccanismo d’asta. I crediti da  progetti di Clean Development Mechanism (CDM) nei Paesi in via di sviluppo, e  di Joint Implementation (JI) potranno essere utilizzati in una misura percentuale  compresa tra il 30 e il 50%, mentre sono esclusi i crediti da progetti di  afforestazione e di riforestazione, per problemi di stima degli assorbimenti di  CO2 e di rendicontazione degli stessi. 
  Certo il 2013 è ancora lontano, ma forse potrebbe essere  l’occasione giusta per affrontare il problema in anticipo, magari anche con  proposte costruttive di modifica al sistema, ma supportati dalla credibilità di  avere  la “contabilità” a posto e di aver  le idee chiare in merito. 
  Infine un’ultima considerazione. La riduzione dei  cambiamenti climatici, oltre che un grave problema economico ed ambientale, è  anche una grande sfida culturale. Indipendentemente dalle posizioni più o meno  favorevoli al protocollo di Kyoto, un uso più consapevole ed attento delle  risorse, un comportamento più rispettoso della natura, a tutti i livelli di  responsabilità, non può che generare benefici, spesso anche a bassi costi. 
 
    Marco Borgarello
    CESI RICERCA
Milano, 29 MAGGIO  2008 
Lista  degli acronimi
COP  -  Conference of the Parties – Conferenze cui partecipano I paesi firmatari della  conferenza di Rio de Janeiro per verificare lo stato di avanzamento degli  obiettivi prefissati dalla conferenza stessa.
GWP – Global Warming  Potential –  è una  misura di quanto una data massa di gas è in grado di contribuire al  riscaldamento globale. Esso è riferisco ad una scala il cui valore 1 è dato  alla CO2. 
GHG – Greenhouse gas 
GDP – Gross Domestic Product (PIL) 
ETS –  Emissions  Trading Scheme 
IPCC -  Intergovernmental Panel on Climate Change – è il comitato scientifico formato  nel 1988 da due  organismi delle Nazioni Unite, la World Meteorological   Organization (WMO) e l'United Nations   Environment Programme (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale.
PNA – Piano Nazionale di Allocazione -