Il sacco del Nord di Luca Ricolfi

La transizione verso il “federalismo fiscale” (quale che sia il significato che queste parole assumeranno, a transizione conclusa) ci consente di fare i conti con il Sud in una dimensione nuova. Bisogna andare oltre l’oleografia giornalistica della “questione meridionale”, cercandone la dimensione più prettamente istituzionale. E provando a immaginare vie d’uscita che siano coerenti con un modello federale. Luca Ricolfi ci prova nel suo libro, Il sacco del Nord (Guerini, 2010, pp.272, € 23,50) - ben sapendo che la lettura risulterà indigesta ai pochi ottimisti sul futuro del nostro Paese. Il saggio non è soltanto un tipico esercizio nella scomposizione e ricostruzione di numeri affidabili per leggere il Paese. Ha anche un netto impianto programmatico, che viene trasfuso in un progetto di ricerca ambizioso: il passaggio dalla “contabilità nazionale” per come la conosciamo, ad una “contabilità nazionale liberale” che dia un quadro un po’ più coerente dell’Italia. Giova mostrare qual è la differenza tra contabilità nazionale ufficiale e contabilità nazionale liberale. Su questa distinzione si basa, infatti, il modello di Ricolfi.
Consideriamo un sistema economico capitalistico, formato da due soli settori, il settore market, che produce e vende sul mercato merci per un valore aggiunto totale pari a 100 e la PA, che preleva una frazione del valore aggiunto, diciamo 40 sotto forma di tasse T e che, con questo gettito, paga i propri dipendenti (Wp) per produrre un paniere di servizi immessi gratuitamente nell’economia. Al settore market restano 60 che vanno in parte ai lavoratori sotto forma di salari (W=50) e in parte ai capitalisti sotto forma di profitti (U=10). Il reddito totale è Y= W+U+Wp=100. Ora qual è, invece, secondo gli schemi della contabilità nazionale standard il reddito Y prodotto da questo sistema economico? Secondo la visione dell’economia classica (Smith, Ricardo, Marx), la risposta sarebbe 100 e, invece, per la contabilità nazionale è 140, perché anche la PA produce qualcosa; questo qualcosa può essere valutato solo al prezzo di costo, dunque 40. Quindi il settore market produce 100 perché questo è il valore effettivo della sua produzione, mentre il settore pubblico, o non market, produce 40, perché questo è il valore imputato al suo prodotto; quindi per la contabilità standard Y=100+40. Non è difficile notare il doppio conteggio di una parte del reddito prodotto.
Il fattore parassitismo P. Ora, osserva Ricolfi, immaginiamo due territori ugualmente popolosi, uno chiamato Formica e uno Cicala. Formica ha un prodotto market pari a 120 e Cicala ha un prodotto market pari a 80; il prodotto complessivo dei due territori è, quindi, 200. Le tasse incidono per il 50% cosicché ai produttori di Formica restano 60 mentre a quelli di Cicala restano 40. La PA incassa dunque 60+40=100. Ma come fa la PA a spendere i 100 incassati? Un modo può essere spendere 30 in Formica e 70 in Cicala, assumendo un esercito di dipendenti pubblici incaricati di erogare i servizi essenziali: sanità, scuola, ordine pubblico e giustizia. Per la contabilità nazionale ufficiale i due territori producono lo stesso ammontare di reddito (Formica 120+30=150), (Cicala 80+70=150). In realtà la situazione è molto diversa: Formica produce il 50% in più di cicala (120 contro 80), mentre Cicala si appropria di una quota più che doppia di risorse comuni, provenienti dalla tassazione (70 contro 30). Entrambi i territori hanno un settore parassitario che vive di redditi derivati, ma nel territorio Cicala il settore parassitario pesa molto di più: 70/80=0,875 contro lo 0,25=30/120 del territorio Formica. E’ questo uno dei quattro aspetti che la contabilità nazionale non vede e che la contabilità che si ispira agli economisti classici vede e considera fondamentale prendere in considerazione. Nella contabilità liberale la distinzione tra settore produttivo e settore improduttivo è cruciale proprio perché senza di essa diventa impossibile descrivere e quantificare due fenomeni cruciali e interconnessi: il parassitismo e l’interposizione pubblica. Ma come tracciare il confine? Non è semplice ed esistono diverse soluzione. Giova però sottolineare che grazie all’introduzione del tasso di parassitismo P, e grazie agli indici dell’interposizione pubblica ad esso connessi molti aspetti, che nelle pieghe della contabilità standard restano nascosti, diventano immediatamente visibili. Ad esempio  si può vedere; quando un sistema economico-sociale diventa soffocante perché P è salito troppo, quando un paese vive al di sopra dei propri mezzi, perché il suo reddito disponibile eccede il reddito da esso prodotto, quando un territorio sembra produrre reddito, ma in realtà consuma reddito prodotto da altri territori.
Il fattore evasione fiscale E. Nel dibattito economico una variabile della quale si parla spesso e che assomiglia a una telenovela senza finale è quella dell’evasione fiscale rappresentata da E, rapporto tra gettito evaso e gettito versato. Tutte le volte che il governo deve trovare i fondi per coprire delle spese ipotizza di accentuare la “lotta all’evasione”, ma i risultati di questa lotta restano “oscuri” finché oscura resta l’entità del fenomeno. Eppure la conoscenza precisa del valore dell’economia sommersa è un elemento fondamentale per una corretta comprensione del bilancio nazionale. A esempio una pressione fiscale del 45% può essere il risultato di una pressione dello 0% sull’economia sommersa e del 55% sull’economia regolare, dato fondamentale per capire quanto è soffocata dalle tasse l’economia emersa e per capire qual è il differenziale di tassazione tra due territori del paese. Nonostante il suo prezioso potere informativo E non entra in alcun modo nella contabilità nazionale. Esistono alcune stime dell’Istat sul valore di E ma sono stime sempre vecchie di 4/5 anni. Questa carenza della contabilità nazionale è tanto più grave se si pensa che il Pil stimato dall’Istat, in ottemperanza alle indicazioni di Eurostat, include l’economia emersa e quella sommersa Pil=Pile+Pils, anche se l’Istat non fornisce il valore dei due addendi. Nella contabilità liberale si introduce il concetto di reddito comandato Yc, cioè il reddito che ciascuno potrebbe tenersi se pagasse interamente le tasse. Nella contabilità nazionale il reddito totale prodotto in un territorio si divide in reddito versato al fisco e reddito trattenuto. Il reddito comandato è invisibile. Nella contabilità liberale il reddito totale prodotto in un territorio si divide in tre parti. 1. Reddito che il cittadino paga al fisco (gettito effettivo). 2. Il reddito che il cittadino trattiene per sé pur dovendolo al fisco (gettito evaso). 3. Il reddito che il cittadino trattiene per sé legittimamente nel senso che è quanto gli resterebbe in tasca se pagasse correttamente le tasse. Ma come può fare un stato per stabilire quanto reddito lasciare al cittadino per non essere vessatorio? E come fare per stabilire se esistono differenze di tassazione tra due territori dello stesso paese? Solo conoscendo il fatidico valore di E che sfugge alla contabilità nazionale.
Il fattore sottoproduzione e spreco della PA, S. Consideriamo due territori A e B con gli stessi parametri economici, la stessa popolazione, insomma identici in tutto fuorché in un parametro: in A la spesa pubblica è G e i servizi pubblici funzionano perfettamente, in B la spesa pubblica è G ma i servizi pubblici sono in uno stato deplorevole. Diciamo che A spende G e produce G, mentre B spende G e produce G/2 perché c’è un problema di sottoproduzione in ambito pubblico. I cittadini di A vivono meglio dei cittadini di B perché in B c’è un problema di dissipazione di risorse e di spreco. Pur sembrando strano, la contabilità nazionale non tiene conto di questo importantissimo elemento perché il reddito prodotto dal settore pubblico è considerato coincidente con i costi G sostenuti e non con la qualità dei servizi. E’ possibile risalire alla qualità fornita dai servizi pubblici? Sì. Con la ben nota metodologia delle best practices usata abitualmente nelle imprese. Questa metodologia consente di assegnare a ogni unità territoriale un indice S di sottoproduzione e spreco che misura di quanto potrebbe essere ridotta la spesa (a parità di output) o di quanto l’output è inferiore a quello potenziale (a parità di spesa). La conoscenza di S consente di ottenere due obiettivi, quello di riorganizzare i servizi di bassa qualità e quello di consentire alla contabilità liberale di conoscere il prodotto totale effettivo di B. In tal modo la contabilità liberale accetta di valutare il valore dei servizi pubblici al valore del loro costo, ma si riserva la possibilità di scalare dal costo il valore di S, pertanto il prodotto totale effettivo di un territorio è Y*=Ym+ Cp (1-S).
Il fattore livello dei prezzi, L. Di ogni regione la contabilità nazionale fornisce reddito, consumi, investimenti e altre variabili ma non il livello generale dei prezzi e il costo della vita. Nella contabilità liberale di questa informazione non si può fare a meno per calcolare una variabile chiave: i consumi delle famiglie espressi in termini reali. Per passare dai consumi delle famiglie nominali (Cf) a quelli reali (CRf) è indispensabile conoscere il livello medio dei prezzi (L) di beni e servizi CRf=Cf/L, dove L ha la funzione di svalutare o rivalutare i consumi nominali (quelli della contabilità nazionale) secondo la zona considerata. Secondo studi passati (Luigi Campiglio) e recenti (Banca d’Italia e Istat) i prezzi al Sud sono inferiori tra il 17% e il 25% (in base al paniere) rispetto a quelli del Nord. La percentuale è più alta per un paniere riguardante famiglie a basso reddito è più bassa per il paniere di famiglie ad alto reddito. Le differenze di prezzo contano enormemente se si vuole fornire una ricostruzione accurata degli squilibri territoriali.
Perché i quattro parametri analizzati non entrano nella contabilità nazionale? Il tasso di parassitismo P non interessa dal momento che, a differenza degli economisti classici, i contabili nazionali non prevedono una distinzione tra settore produttivo e settore improduttivo. Il tasso di evasione E potrebbe essere valutato correttamente, ma i contabili non lo prendono in considerazione perché l’Europa non ce lo chiede; d’altra parte in nessuna parte dell’Europa esistono differenziali veri o presunti tra territori diversi del Paese. Per calcolare il tasso di sottoproduzione e spreco S occorrerebbero analisi approfondite e di settore su una moltitudine di organizzazioni pubbliche. I contabili nazionali non hanno certamente l’interesse ad occuparsi di un argomento tanto complesso, eppure Ricolfi e i suoi collaboratori un tentativo, sia pure rozzo, lo hanno fatto. Il parametro riguardante il livello dei prezzi L è il più semplice da valutare ma, stranamente, Istat e Banca d’Italia dànno scarse informazioni sulla dinamica dei prezzi e solo per alcune città campione.
La contabilità liberale parte da una descrizione completa degli scambi che avvengono tra produttori market, servizi pubblici, pensionati e assistiti, interposizione pubblica. Gli scambi sono regolati dalla seguente master equation.
Ym+V+D= (Yc+Ye) +((Wp +ACQ) +BB)+DK –TTp
Dove
Ym Pil del settore market
V Vendite sul mercato dalla PA
D Disavanzo/avanzo corrente della PA
Yc Reddito comandato
Ye Reddito evaso
Wp Stipendi pubblici
ACQ Acquisti di beni e servizi da parte della PA
BB Benefici di ritorno
DK Servizio del debito netto
TTp Tasse sui redditi del settore improduttivo(stipendi pubblici e pensioni)

Ricolfi prende in considerazione il 2006.
Il Pil del settore market Ym era, nel 2006, 1.287 miliardi; ponendo pari a 100 questo valore esaminiamo le altre componenti. Il reddito comandato Yc è 52,4, quindi lo stato preleva 47,6; da parte loro i produttori trattengono 10,0 sotto forma di evasione fiscale e contributiva (Ye) e, pertanto, cedono 47,6-10,0=37,6 sotto forma di imposte dirette, indirette,  contributi sociali e trasferimenti. Qui entra in gioco il coefficiente E che è molto diversificato da regione a regione. Dunque il reddito realmente disponibile dai produttori è 52,4+10,0=62,4 e la sua distribuzione territoriale dipende dall’E territoriale. Ora che cosa se ne fa lo stato di quel 37,6?. Seguiamo la master equation.
Ym+V+D= (Yc+Ye) + ((Wp +ACQ) +BB)+DK –TTp
100+1,4+(-1,6) = (52,4+10,0) + ((12,7+9,2) + 22,3) + 4,6 -11,4
Lo stato paga i suoi dipendenti Wp per 12,7 ed effettua acquisti sul mercato ACQ per 9,2 per fornire servi gratuiti ai cittadini. Qual è il valore nominale di questa attività di servizio: (Wp+ACQ) meno quella frazione V che viene pagata dai cittadini (ticket a esempio) e che è pari a 1,4; quindi il valore nominale è 12,7+9,2-1,4=20,5. Ma qual è il valore reale? Qui entra in gioco il coefficiente S ovvero il tasso di sottoproduzione e spreco. Il valore effettivo dei servizi forniti dallo stato sarà pertanto Yp* = (Wp+ACQ) (1-S) –V. Secondo Ricolfi il valore di S medio nazionale è 0,25; pertanto Yp*= (12,7+9,2)  (1-0,25) – 1,4=15,0 (il valore dello spreco nel 2006 equivale  a 70 miliardi di euro).
Proseguiamo nell’analisi della master equation; BB rappresenta quello che la PA eroga sotto forma di contributi e prestazioni sociali e il loro peso è di 22,3. Quindi, riassumendo, il settore dei servizi pubblici costa 20,5, quello delle prestazioni sociali e dei sussidi 22,3 per un totale di 42,8. Ma le tasse pagate dal settore market erano solo 37,6 c’è quindi una differenza di 5,2 che può essere spiegata con le altre voci della master equation. TTp le tasse pagate dal settore improduttivo sono pari a 11,4, c’è poi il saldo degli interessi pagati sui titoli di stato del debito pubblico DK che pesa 4,6; la differenza 11,4-4,6=6,8 copre lo squilibrio di 5,2 e lascia un piccolo attivo 6,8-5,2=1,6 (sempre dati 2006). Questo attivo (che quasi sempre è un passivo) è il risparmio di parte corrente della PA cambiato di segno, ossia D (deficit).
In sintesi la master equation vede alla destra tutte le risorse  del sistema: Pil market (Ym) + vendite della PA (V) + ricorso al deficit di bilancio (D).  A destra sono indicati gli impieghi: reddito comandato (Yc), reddito evaso (Ye), spese per la produzione di servizi  (Wp+ACQ), spese per i benefici di ritorno (BB), spese per pagare gli interessi sul debito (DK),  tutti questi impieghi sono al lordo perché parte di questi impieghi sono pagati dalle tasse TTp dei beneficiari di tali spese.
A questo punto è possibile quantificare il tasso di parassitismo P = (Wp+BB+DKL)/Ym, che, nel 2006, è stato pari al 39,6%.

Scegliere qualcosa di apparentemente freddo e neutrale come fa Ricolfi, è una mossa polemica. Però effettivamente l’ossessione con cui Ricolfi viene a patti è peculiarmente “liberale”, dai tempi di Frédéric Bastiat.
Ricolfi si getta nel mare della contabilità nazionale alla ricerca di “quel che non si vede”. Per avere una credibile “identikit di un territorio”, spiega, bisogna conoscere il tasso di evasione, E, per distinguere fra esazione fiscale potenziale e reale, il tasso di spreco, S, della pubblica amministrazione, per conoscere il prodotto totale effettivo di un territorio, il livello dei prezzi, L, per conoscere i consumi reali delle famiglie in un territorio, e il tasso di parassitismo P . Quest’ultimo, come già visto, è il rapporto fra la spesa pubblica corrente e il prodotto del settore market: e risulta cruciale per capire quale è il “peso dello Stato” in un Paese. Ricolfi, per inciso, a differenza di Bastiat non ritiene che il settore improduttivo (cioé pubblico) non possa dare un contributo al buon funzionamento di un sistema sociale. Ma si rende conto che oltre una certa soglia il “parassitismo” del settore pubblico “uccide” la parte produttiva di un sistema sociale: esattamente come troppi parassiti distruggono il corpo che li ospita. Considerazioni se possibile aggravate dal fatto che la stima di Ricolfi suggerisce che “il 25% della spesa pubblica non genera prodotto ma dissipa risorse”.
La master equation, che descrive gli scambi tra i diversi soggetti economici del paese diventa particolarmente interessantese applicata alle singole regioni del paese.
In questo quadro, se si guardano i diversi territori che compongono l’Italia, si arriva alla conclusione che “il sacco del Nord sottrae ogni anno almeno 50 miliardi alle regioni più produttive del Paese”. “Come cambiare?”, per citare un libro del primo pensatore di rango a fare propria un’analisi di questo tipo, ovvero Gianfranco Miglio. Ricolfi tende a condividere il rassegnato realismo di Vilfredo Pareto: “la spoliazione non incontra spesso una resistenza molto efficace da parte degli spogliati: ciò che finisce talvolta per arrestarla è la distruzione di ricchezza che ne consegue e che può portare la rovina del Paese”.
Quello che colpisce maggiormente del lavoro di Luca Ricolfi è la sua valutazione del tenore di vita tra Sud e Nord. Secondo Ricolfi, prendendo in considerazione tutti i parametri della contabilità nazionale liberale risulta che il tenore di vita del cittadino del Nord vale 26.714 euro, quello del cittadino del Sud 30.138 euro, circa il 13% in più. In conclusione il divario tra Nord e Sud c'è, ma a favore del Sud.
Il capitolo conclusivo de “Il sacco del Nord” lascia spazio a scarse speranze. Se siamo dove siamo è perché abbiamo fatto scelte che producevano benefici immediati per certi gruppi politici, e costi di lungo periodo per i contribuenti. Come invertire questa tendenza senza promettere solo lacrime e sangue? Con proposte che spingano gli improduttivi a farsi produttivi. Per esempio una “No Tax Region” al Sud, che cerchi di sviluppare lo spirito imprenditoriale attraverso incentivi che appaiano uno scambio equo per una robusta sforbiciata all’intermediazione pubblica. Ma la strada è stretta, e tutta in salita. I risultati del lavoro di Ricolfi, per alcuni sorprendenti, per altri scontati, ci fanno capire le ragioni vere che sottendono l'atteggiamento di molti avverso al federalismo. I famosi gap economici tra Nord e Sud si reggono, da anni, su una montagna di falsità o verità non dette, a chi giova aprire questo pericoloso vaso di Pandora?

Eugenio Caruso

1 marzo 2011

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