L'infanticidio e la sindrome di Medea.


Discendi nel cuore dell'ira, svegliati dal torpore, Medea, fa che sgorghino dal fondo del tuo petto i tuoi impulsi di un tempo.
Seneca, Medea

Nella società odierna non è infrequente imbattersi in casi di madri che uccidono i propri figli. Gli psicologi hanno individuato una serie di cause scatenanti questo gesto. L'infanticidio altruistico. La madre compie l’omicidio per sottrarre il/i figli ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per preservarlo da reali o presunte difficiltà. Impulsi irrazionali e convinzioni religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un gesto irreversibile, forse incubato da tempo. Il fattore scatenante della dinamica omicida non è necessariamente di carattere patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale pregressa. Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni di adattamento sociale: un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere fra i detonatori di questo terribile atto, spesso, privo di segni premonitori. Figlicidio a elevata componente psicotica Il figlicidio a elevata componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum, scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale. Figlicidio di un figlio indesiderato In questi casi la madre si ritrae dal bambino perché frutto di una relazione extraconiugale o per immaturità, in quanto ancora adolescente. Si tratta di madri che negano la gravidanza. Altre non li accettano per motivi economico-sociali, di “onore” personale e familiare. Inoltre il rifiuto materno può aver luogo perché i figli non sono accettati, o al contrario desiderati dai loro mariti o conviventi. Non mancano episodi di madri che odiano i figli poiché li ritengono responsabili del loro abbruttimento fisico, o della costrizione di un ruolo frustrante. Figlicidio per vendetta e gelosia contro il marito o il compagno Questo omicidio anche plurimo dei figli, perpetrato per motivi sentimentali, psicologici, di rado a causa di interesse, viene attribuito alla madre abbandonata o tradita che si vendica del marito o del compagno uccidendone la prole. Eros e Thanatos, amore e morte si saldano in questo dramma, definito “Complesso di Medea”, che come spesso capita ha per epilogo una strage di innocenti. Oltre al desiderio di vendetta, nella “Sindrome di Medea” agiscono anche sentimenti quali la gelosia e l’invidia.
Nel mondo antico le varie culture che si sono succedute hanno avuto un personale ed esclusivo rapporto per quanto concerne il rapporto tra i genitori e i figli. Lo storico greco Diodoro Siculo narra che gli egiziani ritenevano che i genitori, donando la vita ai figli non commettono alcun delitto se gliela tolgono, o ancora che Greci e Spartani assegnavano il diritto di vita e di morte sui neonati agli anziani della tribù.
Il mondo romano riprese molte consuetudini del mondo greco: Cicerone, Tacito e Seneca, ad esempio, hanno spesso lodato le leggi che ordinavano di uccidere i bambini malformati e solo nel IV sec. d.c. gli imperatori romani ordinarono di allevare e nutrire i propri figli, condannando a pene severe l’infanticidio.
Il mondo greco e romano è accomunato, per quanto riguarda il rapporto tra genitori e figli, dalla figura di Medea, figlia del Sole, sacerdotessa e maga.
Medea, la straniera, preferisce uccidere, piuttosto che sopportare l’idea di essere abbandonata. La rabbia e il desiderio di vendetta nei confronti di Giasone coinvolge i figli che decide di uccidere.
“E’ fatale che muoiano, e se debbono morire, sarò io che darò loro la morte, io stessa, che li ho partoriti” (Euripide).
La figura di Medea, come di altre donne della tragedia greca, è stata portata nel mondo romano da Seneca, attraverso la tragedia. La Medea di Seneca fu rappresentata tra il 61 e il 62 d. C. La tragedia presenta l'innovazione tecnica dell'uccisione dei figli da parte della protagonista sulla scena e davanti agli occhi degli spettatori, contrariamente a quanto si usava nel dramma antico, in cui i fatti luttuosi, anziché essere rappresentati, venivano narrati da un nunzio. Già nel prologo la figura della protagonista è delineata, non molto come una donna tradita, abbandonata dallo sposo, quanto come una maga dal carattere demoniaco, desiderosa di una tremenda vendetta. È questa una differenza tra la Medea di Seneca e quella di Euripide. Quest'ultimo infatti la descrive come una donna disperata nel suo dolore. Ma diverso è anche l'atteggiamento di Giasone, il marito. Infatti mentre in Euripide Giasone è convinto delle sue azioni e disprezza Medea supplice, in Seneca invece, l'eroe è in preda all'angoscia e si dichiara costretto a prendere tale decisione, per amore dei figli. Giasone ripudia Medea, che per amor suo aveva tradito il padre e la patria e ucciso il fratello e che a lui aveva dato due figli; ripudiando Medea, Giasone può sposare Creusa, figlia di Creonte re di Corinto. Folle di rabbia e di gelosia, Medea ricorre alle sue arti magiche e provoca la morte di Creonte e della figlia. Poi, per punire Giasone nel modo più efferato, uccide i figli, prima di scomparire in cielo, su un cocchio trainato da draghi alati. La Medea di Seneca non poteva prescindere dal modello euripideo, ma doveva fare i conti anche con la Medea di Ovidio. Purtroppo la perdita totale dell’unica tragedia ovidiana ci impedisce di valutare la portata del suo influsso su quella di Seneca.
In ogni caso, dalla Medea di Euripide quella di Seneca prende nettamente le distanze. Euripide aveva esaltato l’humanitas di Medea, la sua dignità di madre e di moglie tradita, il suo ruolo di vittima, prima, di carnefice, poi: per Seneca, invece, Medea è la maga tessala, che la natura demoniaca ha posto in stretto contatto con gli spiriti del male. Sin dall’inizio del dramma, di Medea balza in primo piano il furore, che la rende implacabile nel suo desiderio di vendetta, perseguito con lucida follia. Parimenti stravolto risulta il personaggio di Giasone, che in Euripide contrapponeva alla disperata umanità di Medea l’arroganza e il disprezzo dell’uomo convinto di aver preso la decisione giusta e rinfacciava all’eroina tragica i vantaggi da lei ottenuti grazie all’aiuto offerto nella conquista del vello d’oro. Di fronte al mutevole atteggiamento dei protagonisti, anche il coro finisce per assumere posizioni antitetiche: quello euripideo biasima Giasone per il tradimento, che non può considerare come un atto improntato a giustizia; quello di Seneca si schiera contro Medea, le rinfaccia la sua condizione di donna straniera, ne condivide la condanna all’esilio, che, solo, potrà allontanarla da Giasone.
Io dalla lettura dei due splendidi capolavori della letteratura mondiale sono più vicino alla Medea di Euripide, perchè più donna, più umana; la Medea di Seneca nasce dalla cultura stoica e appare più come un demone furioso guidato da spiriti del male, anche se, la cronaca di infanticidi porta l'analisi ad optare più per questo secondo caso.


Eugenio Caruso - 18-05-2015

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