Negli anni novanta si torna a parlare di federalismo


Oh quant'è bello non far ombra a nessuno, nutrirsi di cibi non infidi, sdraiati sulla nuda terra.
Seneca, Tieste


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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SI TORNA A PARLARE DI FEDERALISMO
Agli inizi degli anni Novanta il federalismo, riportato nella discussione politica dalla Lega, viene bollato come antistorico, il localismo viene chiamato razzismo. La forte reazione alla Lega di tutta la stampa è anche un fenomeno viscerale da attribuirsi al non aver saputo prevedere né il fenomeno, né il suo successo. Decine di politologi, opinionisti, storici, sempre pronti a proporre scenari strategici e saggi d’alta politica, si sono sentiti defraudati dal semplice pragmatismo del signor Brambilla, e non hanno potuto fare altro che deriderlo. Affermava Confucio: «Quando la mano indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Osserva Bruno Vespa: «Occorre riconoscere che, senza Umberto Bossi, questa parola sarebbe rimasta un’esclusiva degli studiosi di Carlo Cattaneo.
È necessario, d’altra parte, notare che le istanze federaliste prendono rapidamente piede nelle valli bergamasche e Bossi non fa altro che seminare in un terreno già fertile. Nel 1454, infatti, quando la pace di Lodi mise fine alle guerre e guerricciole tra il ducato di Milano e la Repubblica di Venezia, le popolazioni della Lombardia veneta ebbero una larghissima autonomia che il Senato veneto si guardava bene dal ridurre o intaccare: le comunità lombarde potevano avere proprie truppe, non pagavano tasse alla Serenissima e avevano i propri ambasciatori; ma, nei momenti di necessità, i bergamaschi non facevano mancare a Venezia uomini e denaro. Inoltre il Lombardo-Veneto non ebbe mai grande simpatia per la monarchia sabauda, tant’è vero che durante la Prima guerra mondiale gli alpini della regione non andavano all’assalto al grido di “Avanti Savoia!” ma con il nome del proprio battaglione. Alla caduta del fascismo, istanze autonomiste e separatiste serpeggiarono nel comasco e nel varesotto. Per finire, due fini intellettuali come Gianfranco Miglio e Ettore Albertoni tenevano vivo l’ideale federalista e iniziarono a porre le basi teoriche per uno Stato federalista.
Se spicchiamo un salto storico e ci portiamo all’anno Duemila, ascoltando i discorsi di gran parte dei professionisti della politica – da Veltroni a Fini, da Rutelli a Casini – che solo pochi anni prima avevano sviluppato il teorema federalismo uguale a egoismo, razzismo e incultura e svillaneggiato la Lega, si ha la sensazione che da bambini siano stati tirati su a pane e federalismo. Lo citano a proposito e sproposito, ma per molti di loro non è altro che un vuoto slogan elettorale. Se spicchiamo, infatti, un altro salto e ci portiamo al 2010 vediamo, ad esempio, che le intenzioni di Fini e Pier Ferdinando Casini sul federalismo erano coerenti con un’ipotesi di rinnovamento che non portasse modifiche nei rapporti di forza nel Mezzogiorno, dove Fini e i cosiddetti finiani e l’Udc hanno il loro bacino elettorale.
Per concludere mi piace ricordare cosa dice Enzo Cheli, professore di Diritto costituzionale, giudice costituzionale e, successivamente, presidente dell’Autorità per le telecomunicazioni: «Tre premesse per un tema sterminato come quello del federalismo. La prima è che nella scienza costituzionalista il tema delle autonomie si inquadra nella teoria delle forme di Stato, dal momento che l’autonomia esprime una dimensione che si collega, da un lato, al rapporto tra popolo e Stato e, dall’altro, al rapporto tra territorio e Stato. La seconda premessa è che, nella teoria delle forme di Stato, l’autonomia è una qualità che tende, in particolare, a caratterizzare la forma dello Stato democratico. Se da un punto di vista formale il fondamento dello Stato democratico viene individuato nell’attribuzione della sovranità al popolo, sul piano sostanziale la qualità democratica di un ordinamento viene misurata sul grado di “vicinanza” tra governanti e governati, sul modo in cui il potere risulta diffuso nella società e articolato in una pluralità di centri di decisione politica, così da realizzare, appunto, un determinato sistema di autonomie. Nell’esperienza comune questo sistema finisce, dunque, per rappresentare una sorta di indice, di misuratore del tasso di democraticità dei vari ordinamenti. La terza premessa è che, rispetto alla teoria delle forme di Stato, la nozione giuridica di autonomia viene, nella sostanza, a coincidere con la nozione politologa di pluralismo. […] le autonomie che assumono rilievo maggiore sono, come è noto, quelle che attengono al pluralismo sociale […] al pluralismo politico […] e al pluralismo istituzionale» .

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9 giugno 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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