La prima presidenza Prodi all'Iri.


Quel che conta è da dove cadi, più che dove.
Seneca, Tieste


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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La prima presidenza di Prodi all'Iri
Nel corso degli anni sono apparsi molti saggi che hanno descritto la storia dell’Iri, il più gigantesco dei dinosauri di Stato, non per nulla chiamato dagli addetti ai lavori Apatosauro. Indubbiamente, però, il periodo che appare più oscuro, e interessante allo stesso tempo, è quello che va dalla prima gestione Prodi fino alle privatizzazioni. Saggi, chiaramente agiografici, tendono a mostrarci la gestione di Prodi come efficace per le sorti dell’istituto, altri dimostrano invece una gestione disinvolta e orientata alla furbizia nel nascondere perdite e debiti, giocando tra l’istituto, le finanziarie e le controllate dalle finanziarie. Interessanti sono le rivelazioni di Massimo Pini, membro del comitato di presidenza dell’Iri dal 1986 al 1992 (Pini, 2000).
Prodi, uomo di De Mita e dalle giuste frequentazioni, nel 1980 fonda un istituto di studi e ricerche economiche, Nomisma, finanziato quasi completamente dalla Bnl, all’epoca presieduta dal socialista di sinistra Nerio Nesi. Nominato presidente dell’Iri, Prodi resta presidente del comitato scientifico dell’istituto. Dal 1983 si trova, però, a essere indagato per commesse stipulate da Nomisma con aziende del gruppo Iri. Nel 1988 viene assolto in quanto «l’idea che le commesse siano state affidate perché a richiederle erano il presidente dell’Iri e il suo assistente [Massimo Ponzellini, segretario del comitato scientifico di Nomisma N.d.A.], alle società collegate, è verosimile, ma non assume gli estremi di reato». Sempre nel 1983, Nomisma firma un’importante commessa con il dipartimento della cooperazione del ministero degli Esteri. Anche in questo caso si arriva a un procedimento penale contro Nomisma: sono rinviati a giudizio due esponenti del ministero, mentre Prodi e il fido Ponzellini sono assolti in istruttoria. Il giudice istruttore afferma però: «Nomisma non vanta alcuna competenza specifica nel settore di ricerche affidatole, anzi ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti». Secondo il giudice Antonio Casavola, Nomisma «è una società che permette l’affermarsi di studiosi provenienti, prevalentemente, dall’ambiente universitario, e non è infrequente costatare il loro passaggio, dopo un’esperienza in Nomisma, all’Iri o alle società collegate, allo scopo di ricoprire cariche di presidenti o di amministratori delegati». Non per nulla nell’ambiente delle partecipazioni statali Nomisma era chiamata “Nomine”.
Insediatosi ai vertici dell’Iri nel novembre 1982, Prodi annuncia propositi di riforma: nomine professionali, accordi internazionali, sviluppo dei settori avanzati, dismissioni, quotazioni in Borsa. Secondo i calcoli di Franco Bechis su Milano Finanza, «Prodi, all’Iri, lottizzò come un democristiano». Nel suo periodo di presidenza fa approvare 170 nomine, delle quali 93 riguardano democristiani di sinistra, 23 socialisti e 20 esponenti di area laica. Le 34 nomine di natura tecnica riguardano le banche, per le quali valevano criteri diversi di cooptazione. D’altra parte, Prodi deve dare conto delle proprie decisioni ai boiardi dell’Iri, che sono più potenti dello stesso presidente (Ettore Bernabei, Fabiano Fabiani, Umberto Nordio, i grandi banchieri pubblici), a Riccardo Misasi, plenipotenziario di De Mita, a Carlo Fracanzani ministro delle Partecipazioni statali, a Cirino Pomicino, potente presidente della Commissione bilancio della Camera.
Ettore Bernabei, in particolare, già direttore generale della Rai dal 1961 al 1974, e quindi amministratore delegato di Italstat dal 1974 al 1998, era una specie di superministro occulto della Repubblica; quando c’era da compiere una missione delicata, spesso i capi della DC ricorrevano a lui e anche i rappresentanti degli altri partiti non disdegnavano il suo aiuto. In Rai la sua azione era stata fondamentale per consegnare la gestione dell’ente alle sinistre (DC in particolare). In Italstat il suo potere era aumentato; il mandato politico era quello di fare della società, attraverso le controllate, il volano di nuovi investimenti per le grandi costruzioni infrastrutturali, in collaborazione con i costruttori privati. L’Italstat era la controllante di una decina di società, tra le quali le più importanti erano Italstrade (che costruiva strade) e Condotte (che costruiva porti, dighe, grandi infrastrutture); entrambe erano fonti di finanziamento per partiti o correnti di partito. Italstrade era l’azienda che aveva salvato il partito socialista di Nenni dalla bancarotta, finanziandolo fino al 1964, quando, entrati al Governo, i socialisti avevano trovato altre fonti di finanziamento.
Quando Prodi annuncia trionfalmente che l’Iri, nel 1985, è in utile di 12,4 miliardi si riferisce solo al conto economico, ma la Corte dei Conti mette in chiaro che la realtà è ben diversa. «Il complessivo risultato di gestione dell’Istituto, per il 1985, cui concorrono […] sia il saldo del conto profitti e perdite sia gli utili e le perdite di natura patrimoniale, corrisponde a una perdita di 980,2 miliardi, che si raffronta a quella di 2.347 miliardi del 1984». Lo statuto dell’Iri prevede, infatti, che utili e perdite di natura patrimoniale non vadano inserite nel conto economico: si tratta di uno dei trucchetti che consentono ai presidenti dell’istituto di giocare alle tre tavolette con i conti e gettare fumo negli occhi agli inesperti. Nota, inoltre, la Corte dei Conti che le perdite nette del bilancio consolidato sono di 1.203 miliardi nel 1985 e di 2.737 miliardi nel 1984.
A fine 1985 Prodi tenta di vendere, con trattativa privata, la finanziaria Sme – nella quale erano confluite Motta, Alemagna, Star, Cirio e altre società alimentari – alla Buitoni di Carlo De Benedetti. L’Iri, per il 64% del pacchetto azionario, avrebbe incassato poco più di 497 miliardi, da pagarsi a rate. All’annuncio della trattativa si solleva un putiferio di contestazioni, in particolare da parte di Craxi, che promuove da parte sua una cordata per la Sme e l’operazione viene bloccata. Tra il 1993 e il 1996 le aziende del gruppo Sme saranno vendute a diversi acquirenti, per un incasso complessivo di circa 2.400 miliardi. Pur considerando l’inflazione, il valore attribuito dal mercato alla Sme è stato ben superiore al prezzo concordato tra Prodi e De Benedetti. Quando il 29 aprile 1968 Aldo Moro pone la prima pietra dello stabilimento Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, il commento di Gianni Agnelli, che interpreta quell’operazione come un atto di ostilità nei confronti della Fiat, è il seguente: «Una pazzia […] Un’operazione clientelare in grande stile, nient’altro». La storia confermerà la correttezza dei giudizi di Agnelli: nel 1985 le perdite consolidate del gruppo Alfa Romeo sono pari a 1.685 miliardi e mettono in crisi la stessa controllante, la finanziaria dell’Iri, Finmeccanica, che tra il 1979 e il 1986 ha iniettato nell’Alfa Romeo 1.281 miliardi e, di questi, ben 615 nel biennio 1985-1986. Nel 1986, la Ford fa un’offerta per l’acquisto del gruppo automobilistico, ma il “partito” della Fiat riesce a contrastare l’operazione; il gruppo torinese offre 8.000 miliardi, tra prezzo d’acquisto, assunzione dei debiti e grossi investimenti per il rilancio. Il presidente di Finmeccanica, Franco Viezzoli, afferma che un confronto tra l’offerta Ford e quella Fiat è difficilmente attuabile, cosicché la Fiat s’impossessa dell’Alfa Romeo. Nella realtà l’Iri si trova nell’impossibilità di usare l’arma della concorrenza tra due contendenti, e la Fiat, pagando 1.750 miliardi a rate (meno 700 miliardi di debiti finanziari che si accolla l’Iri), si impossessa dell’ultimo marchio automobilistico italiano non ancora nelle sue mani. (Pini, 2000).
Un altro incubo per i bilanci dell’Iri è rappresentato dalla siderurgia. Oscar Sinigaglia, dal 1945 al 1953 presidente di Finsider (la solita finanziaria che controlla le società operative), si era posto l’obiettivo di fornire all’industria italiana l’acciaio di cui aveva bisogno a bassi prezzi, anche nella convinzione che i privati non ne fossero in grado. Il Paese diventa uno dei massimi produttori di acciaio nel mondo, ma i faraonici progetti dell’Iri hanno fragili basi finanziarie e poggiano su un sistema produttivo antieconomico. La principale società operativa, l’Italsider, nel 1970 ha debiti pari al doppio dei ricavi; nel 1981 viene ricostituito il capitale sociale bruciato dai debiti, con una rivalutazione dei cespiti pari a 2.500 miliardi. Nel 1983 Prodi fa approvare un piano di risanamento che prevede un’iniezione di liquidità che, sommandosi a quella del 1981, porta entro il 1985 al gruppo siderurgico la bella somma di 13.159 miliardi. Eppure nel 1987 il gruppo perde ancora 100 miliardi al mese. Tutti i Paesi europei stanno, nel frattempo, riducendo la produzione siderurgica. L’assemblea dell’Iri, nel 1987, approva sia il bilancio di Finsider, che chiude con 835 miliardi di perdite, sia la nomina di Mario Lupo e Giovanni Gambardella a presidente e amministratore delegato di Finsider. Il lavoro di Gambardella porta in un anno alla messa in liquidazione volontaria della Finsider, alla nascita dell’Ilva, all’emersione di migliaia di miliardi di perdite e alla polemica sulla sparizione delle stesse dai conti dell’Iri (Pini, 2000); nel corso della sua vita travagliata Finsider ha bruciato più di 25.000 miliardi di lire. Ma il risanamento della siderurgia è scritto solo sulla carta, cosicché, come afferma Pini, «le conseguenze sia degli errori che dei rimedi escogitati da Prodi andarono a ricadere sul suo successore, Franco Nobili».
La Stet è la più ricca delle finanziarie dell’Iri, non solo perché controlla la Sip, l’azienda statale dei telefoni, ma, secondo la peggiore delle prassi monopolistiche, anche le aziende fornitrici della Sip, come l’Italtel e la Sirti. Nel 1985 la Fiat, che vuole rafforzare la propria presenza nel settore delle telecomunicazioni, propone la costituzione di Telit, dalla fusione tra la Telettra e l’Italtel. L’operazione non riesce perché l’Iri propone come amministratore delegato Marisa Bellisario (a.d. dell’Italtel), sostenuta dal Psi, mentre Fiat ne vuole uno estraneo all’influenza dei partiti; nella realtà lo scontro verte su chi – Stet o Fiat – debba controllare la nuova società. Nel 1989 l’Italtel è venduta alla AT and T americana; nel quadro dell’accordo complessivo la Stet rileva dall’Iri il 26% del pacchetto azionario di Italtel per 440 miliardi. Nel progetto elaborato da Prodi e Fiat, l’Iri ne avrebbe incassati solo 210 (Pini, 2000). C'è chi ancora si chiede il perchè dell'enorme debito del paese??

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25 giugno 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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