Epicuro, Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità.


Non aspetti il giovane a darsi alla filosofia e non si stanchi il vecchio di coltivarla
Epicuro, Lettera a Meneceo

Chi mi segue conosce la mia "devozione" a Seneca e allo stoicismo. Devo però ammettere che una delle fonti del pensiero del filosofo spagnolo è Epicuro, che mi appassiona al pari di Seneca. L'opinione di Seneca sulla felicità deriva, ad esempio, in parte dal pensiero di Epicuro
Per Epicuro, il primo ostacolo che si frappone al raggiungimento della serenità d’animo (l’autentica felicità, quella del saggio) è la paura della morte ma essa per noi non esiste perché non c’è compresenza fra l’uomo e la morte e il godere e il soffrire sono solo nel sentire non nell’assenza di vita.
La Felicità per Epicuro è benessere del corpo e serenità d’animo, in pratica tutto ciò che ci allontana dalla sofferenza e dall’ansia. Il piacere è la causa e il fine di ogni felicità. E’ questo l’asserto che maggiormente ha creato equivoci. Il piacere di cui parla Epicuro non è quello godereccio (questa idea viene imposta ancora agli studenti dei licei), quello che produce e mantiene tensione ma è piuttosto l’assenza di esso, l’assenza del suo bisogno. Solo la Ragione può permetterci una profonda comprensione di ciò che ci è necessario.
Spesso ci affanniamo a rincorrere fantasmi di felicità spinti da condizionamenti che inducono falsi bisogni (il discorso di Epicuro è di una sconcertante modernità e di un ancora più sconcertante razionalità). Il vero piacere è ciò che aiuta l’animo a essere sereno e privo di ansia e solo il saggio e l’esercizio virtuoso riescono a raggiungere tale bene supremo.
Perché se ogni piacere in sé è bene dobbiamo essere consapevoli del fatto che noi uomini non possiamo perseguirli tutti senza una previa considerazione degli utili e dei danni. In questo pragmatismo morale le posizioni di Epicuro e di Seneca hanno un interessante punto di convergenza. “… in fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi. L’inutile è difficile” (Epicuro, “Lettera sulla felicità”) e la riflessione filosofica ci offre la possibilità di essere felici.
E a proposito di ottimismo della Ragione … Seneca, nel De Vita Beata sembra portare all’estremo compimento il pragmatismo insito in ogni razionalismo filosofico. A differenza di Epicuro, per cui piacere e virtù non sono separati, per il filosofo romano Piacere e Virtù non necessariamente coincidono. Ciò che invece può condurci alla Virtù e quindi alla Felicità è la comprensione profonda di ciò che desideriamo veramente e la valutazione della strada attraverso cui possiamo raggiungerlo.
“E’ dunque felice una vita che segue la propria natura” (Seneca). Non è contemplata alcuna ambivalenza o pulsione autenticamente distruttiva e la felicità, così come per Epicuro, consiste nel non oltrepassare un “limite”, una “misura”, nel distacco dai piaceri materiali instabili e dai beni futili, nella capacità di seguire la strada della Natura che indica piaceri semplici ed essenziali, nell’onestà e nella rettitudine.
Virtù è capacità (intesa anche come abilità) di seguire la Ragione. La Felicità è essenzialmente un esercizio della volontà e dell’intelligenza ed è strettamente legata alla meditazione, sia per Epicuro che per Seneca.
Forse amare la Ragione passa attraverso la consapevolezza dei suoi, anzi dei nostri limiti. Forse la ricerca della Felicità deve fare i conti con la ricerca del suo opposto e con l’ambivalenza dei desideri. Forse non è vero che non c’è compresenza tra noi e la Morte che sperimentiamo attraverso continue esperienze di separazione e di lutto. Forse la filosofia ci aiuterà a vivere ma sarà la poesia a salvarci dal dolore insensato.
La Lettera a Meneceo, anche nota come Lettera sulla felicità, è il testo più famoso di Epicuro. Nelle poche pagine che compongono l'epistola, il filosofo affronta i temi centrali della sua filosofia per quanto riguarda l'etica e la metafisica: la ricerca della felicità, la paura della morte, la natura degli dèi, la classificazione dei piaceri.
Dopo l’esordio con l'esortazione a praticare la filosofia, unica vera fonte della felicità, Epicuro passa ad analizzare le cause dell'infelicità, e ribadisce le quattro massime che compongono il cosiddetto tetrafarmaco.
1.Non bisogna temere gli dèi. Epicuro precisa di non negare l'esistenza delle divinità, bensì di rifiutare l’opinione che ne ha il volgo, in quanto «presunzione fallace». Gli dèi sono eterni e beati, e ciò è possibile perché abitano nell'intermundia, cioè lo spazio tra i mondi reali. Avendo sede in un luogo nettamente separato da quello occupato dagli uomini, essi non possono averne esperienza, e quindi non agire sulla nostra vita con punizioni o benefici.
2.La morte è nulla per noi. Non vi è ragione di temere la morte, poiché con la vita scompare anche la capacità di percepire piacere o dolore: «quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c'è, allora noi non siamo più».
3.Il bene è facile a procurarsi.
4.È facile sopportare il male.
Per spiegare le ultime due massime, che riguardano piacere e dolore, Epicuro deve prima analizzare i diversi tipi di desideri e piaceri.
La questione legata ai desideri viene posta da Epicuro come introduzione al tema dei piaceri. I desideri vengono così classificati:
1. desideri naturali, che a loro volta possono essere:
- necessari, cioè essenziali alla vita dell’uomo, che nascono da un dolore fisico, come bere, mangiare ecc.;
- non necessari, come per esempio mangiare cibi raffinati o bere quando non si ha sete;
2. desideri vani, cioè quelli superflui, che anche se non saziati non comportano dolore fisico, come la brama di potere, il desiderio di ricchezze e via dicendo.
Il criterio per discriminare i diversi desideri è la natura, la quale pone dei limiti fisici ben stabiliti. Se dunque si devono assolutamente saziare i desideri naturali necessari, bisogna però avere moderazione con quelli non necessari ed evitare quelli vani, perché inutili e portatori di infelicità.
Solo tenendo presente la precedente classificazione dei desideri è possibile decidere quali azioni compiere, al fine di sopprimere i turbamenti e perseguire una vita beata.
Epicuro parte dalla determinazione della natura dell'uomo, riconoscendo che suo fine e principio è il piacere: il bene consiste nel realizzare questa natura e quindi nel perseguire il piacere. Il piacere, a sua volta, è privazione di dolore: ciò significa che non è possibile aumentarne l'intensità all'infinito, e soprattutto che piacere e dolore sono nettamente opposti. Non tutti i piaceri però devono essere ricercati, ma valutati in base a vantaggi e svantaggi che possono procurare. Il filosofo distingue due tipi di piaceri:
Piaceri mobili (cinetici), ovvero quei piaceri che sorgono nel momento in cui si risponde a un bisogno (bere quando si ha sete),
Piaceri stabili (catastematici), ovvero quei piaceri che nascono dall'assenza del dolore (il piacere che segue la bevuta).
Bene sommo è l'autosufficienza (autarcheia ), ovvero il sapersi accontentare di poco, così da essere liberi dal bisogno, e quindi dal dolore. Il piacere, in ultima analisi, è infatti «assenza di dolore nel corpo, assenza di perturbazione nell'anima». A fondamento della virtù e della felicità è allora la saggezza (phronesis), la quale si orienta di norma verso i piaceri catastematici. La condizione del saggio epicureo, scevro da ogni dolore e turbamento, è pertanto paragonabile a quella di un dio: « vivrai come un dio fra gli uomini. Poiché in niente è simile a un mortale l'uomo che vive fra beni immortali. »
Giova ribadire che al termine del suo libro Seneca fa una distinzione tra ciò che si insegna e ciò che si è. Il filosofo, infatti, era, spesso accusato di predicare la vita semplice, a contatto con la natura e lontana dai lussi, mentre lui stesso era uno degli uomini più ricchi dell'impero. La risposta è che egli guarda le ricchezze con occhio distaccato e se dovesse perderle non verserebbe una lacrima, perchè la sua maggior ricchezza è la virtù.

Eugenio Caruso - 26-07-2015

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