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La seconda presidenza di Prodi all'Iri


Nessuno è troppo giovane o troppo vecchio rispetto alla salute dell'anima.
Epicuro, Epistola a Meneceo


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Con il ritorno di Prodi all’Iri, riprende anche il flusso monetario: 2.100 miliardi di crediti di imposta, vanamente sollecitati da Nobili, 3.000 miliardi per la siderurgia, che Prodi aveva già impegnati nel lontano 1987, e infine la possibilità, concessa all’Iri, di sostituire i debiti verso le banche con un importo presso la Cassa depositi e prestiti, fino a 10.000 miliardi di obbligazioni emesse dal Tesoro e sottoscritte dall’Iri. Queste avrebbero restituito capitale e interessi con i proventi delle privatizzazioni.
Data la necessità di produrre liquidità, nel settembre 1993 l’Iri affida alla Lehman Brothers l’incarico del collocamento in Borsa delle azioni della Comit e alla Goldman Sachs (della quale Prodi era consulente prima di far ritorno all’Iri) delle azioni del Credit. Sotto le acque limacciose degli intrecci tra politica ed economia si svolgono le grandi manovre tra chi opta per il nocciolo duro e chi per la public company; degno di nota un intervento di Giorgio La Malfa, che afferma: «Al professor Prodi non riconosco alcun titolo di privatizzatore di aziende, e tantomeno di risanatore dell’Iri. Quel che gli riconosco è invece un preciso ruolo politico: il presidente dell’Iri non è un tecnico, ma un fior di democristiano. La spartizione continua». Al fine di evitare la costituzione di un nucleo di controllo, Ciampi impone per la vendita delle banche il limite del 3% al possesso azionario per ogni soggetto. Intanto Prodi prosegue l’azione di Nobili volta alla vendita della Sme, che era stata smembrata; deve poi essere venduta la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica), gruppo valutato nel marzo 1993 dal Credito Italiano tra i 900 e i 1.350 miliardi. Prodi convince il consiglio di amministrazione ad abbandonare la strada dell’asta competitiva, sulla quale si stava muovendo Nobili, e a procedere per trattativa privata. La finanziaria lucana di Carlo Saverio Lamiranda, la Fisvi, infatti si è fatta avanti offrendo 310 miliardi per il 62,12% delle azioni possedute dall’Iri. Nonostante il basso prezzo, sembra difficile che la Fisvi possieda i 310 miliardi offerti, più i 200 miliardi per l’Opa sul resto delle azioni. Secondo il Corriere della Sera del 13 ottobre 1993, «la voce insistente è che la Fisvi abbia l’appoggio di potentati politici, più esattamente della sinistra democristiana campana». In realtà la Fisvi, prima di fare l’offerta per tutto il gruppo Cdb, aveva organizzato la vendita della Bertolli alla Unilit, con il consenso del consiglio di amministrazione dell’Iri, per la somma di 253 miliardi. Il contratto di vendita della Cdb impegnava la Fisvi ad assicurare la continuità produttiva del gruppo nel suo insieme, ma di fatto l’Iri aveva acconsentito che la Fisvi smembrasse il gruppo prima ancora di averlo pagato. Cirio e De Rica finiscono, successivamente, nelle mani del finanziere Sergio Cragnotti.
L’operazione, che presenta molti lati oscuri, è inquinata anche dal fatto che Prodi, dal 1990 al 1993, è stato membro dello staff dirigenziale che decide le strategie di acquisizioni della Unilever. Secondo il perito del sostituto procuratore Geremia, che aveva aperto un procedimento penale nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Iri: «È innegabile, e documentato, che la Unilever e la Unilit (la filiale italiana) hanno inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l’Iri e gestito l’acquisto del settore olio (la Bertolli) in epoca precedente alla stipula del contratto definitivo fra Fisvi e Iri». Secondo il perito, se l’Iri avesse fatto da sola l’operazione concessa alla Fisvi, vendere cioè separatamente le tre società del gruppo, avrebbe potuto incassare 700 miliardi. Il 22 dicembre 1997 il gip Eduardo Landi non concede il rinvio a giudizio di Prodi, che ha finalmente realizzato il sogno agognato fin da studente: diventare presidente del Consiglio (Pini, 2000). Prodi è sempre stato molto vicino ai poteri finanziari mondiali Goldman Sachs, Unilever, George Soros, il grande speculatore sulla lira, ma Prodi è un uomo d’onore e antepone sempre gli interessi del Paese a quelli dei potentati finanziari.
Il 18 aprile 1993 gli italiani sono chiamati alle urne per decidere, con voto referendario, delle sorti del ministero delle Partecipazioni statali e ne decretano la fine; non molti, probabilmente, al di là della voglia generalizzata di cambiamento, hanno capito che quel voto segna una data storica per l’economia del Paese. Nel dicembre 1993 si procede alla vendita del Credito Italiano che, nelle intenzioni di Prodi, dovrà diventare una public company. Il prezzo per azione viene stabilito da Goldman Sachs a 2.075 lire, per una valutazione della banca pari a 2.700 miliardi, contro la valutazione di 8-9.000 miliardi fatta da Merrill Lynch all’epoca di Nobili. Per Cuccia è un gioco da ragazzi mettere insieme un gruppo di investitori che, sommando il 3% delle azioni di ciascuno, acquisiscono il controllo della banca. Si realizza pertanto il tanto deprecato nocciolo duro che non è costretto, però, a pagare il premio di maggioranza e non è tenuto all’obbligo dell’Opa.
Per la Comit, Prodi e il presidente della banca, Sergio Siglienti, escogitano il collocamento delle azioni a Wall Street, per cercare di realizzare, questa volta, una vera public company e aggirare l’ostacolo Cuccia. Ma Ciampi spinge per accelerare i tempi e vendere la banca prima delle elezioni del 27 marzo 1994. Le azioni vengono quindi cedute sul solo mercato nazionale e, come il Credito, anche Comit risulta, alla fine, controllata da azionisti amici di Mediobanca. Successivamente, Siglienti commenterà: «Due sono le versioni sempre circolate: il presidente dell’Iri era d’accordo con Cuccia; Prodi era ingenuo o qualcosa di più […] Io propendo per la seconda interpretazione». Fu un fatto positivo che le banche vedessero la costituzione di un nucleo di azionisti di riferimento coordinati da Mediobanca, quello che il cittadino non può accettare è che due gioielli del sistema bancario italiano siano stati ceduti per poco più di mille miliardi, con una perdita secca di diverse migliaia di miliardi per le casse dello Stato. Tra l’altro, in seguito, sia Credit sia Comit si mostreranno poco acquiescenti ai voleri di Mediobanca e seguiranno ciascuna un destino diverso, la prima dando luogo a Unicredit e la seconda entrando nel gruppo Intesa Bci.
Nonostante l’ottimismo che Prodi riversava quotidianamente attraverso i media, al 31 dicembre 1993 la massa dei debiti dell’Iri raggiunge la cifra di 75mila miliardi, contro un patrimonio netto di 20mila miliardi. All’endemica crisi finanziaria si somma inoltre il peggioramento del conto economico, a causa della vendita delle aziende che producevano utili. Dopo la vittoria del centro-destra, il 27 luglio 1994 Prodi viene sostituito da Michele Tedeschi, un dirigente con 35 anni di anzianità nell’istituto. Nei confronti di Berlusconi peserà il sospetto di un’eccessiva acquiescenza verso le posizioni di Alleanza Nazionale: Pietro Armani, ex vicepresidente dell’Iri, il sottosegretario al bilancio Antonio Parlato e il vicepresidente del consiglio Giuseppe Tatarella non erano certamente fautori delle privatizzazioni.
Tedeschi resta comunque fedele al suo azionista, il ministro del Tesoro Lamberto Dini, ma soprattutto a Mario Draghi, che vuole proseguire la politica di privatizzazioni iniziata dal suo mentore, Guido Carli. Tedeschi, durante i Governi Dini e Prodi, avvia la vendita di centinaia di piccole aziende, smantella la siderurgia, vende al Tesoro la partecipazione Iri nella Stet per 14.530 miliardi e manda a casa Fabiano Fabiani, padre-padrone di Finmeccanica. La finanziaria, nonostante controlli aziende ad alta tecnologia come Alenia, Agusta, Ansaldo, Hartman and Braun, Mannesmann, Elsag Bailey, continua ad accumulare debiti.
Il 24 gennaio 1997 il Tesoro licenzia Biagio Agnes ed Ernesto Pascale e mette a capo di Telecom Italia Guido Rossi. Nell’ottobre 1997 il Tesoro decide la privatizzazione del colosso telefonico con un’offerta pubblica e con la costituzione di un nucleo stabile di controllo (Ifil, Credit, Imi e Generali), che detiene l’8% delle azioni; i media insinuano che la Fiat voglia impossessarsi di Telecom, detenendo solo lo 0,6% del capitale. Nel giugno 1997 Prodi, da primo ministro, sostituisce alla testa dell’Iri Tedeschi con Gian Maria Gros-Pietro (dal 1995 vicepresidente del comitato scientifico di Nomisma), al quale affida il non facile incarico di liquidare l’istituto in un triennio e di rimodellare, attraverso le privatizzazioni, un capitalismo nazionale. La tentazione di pianificare e programmare è un virus che non abbandona mai i democristiani di sinistra. Alla fine del 1999 Gros-Pietro viene trasferito al vertice dell’Eni e Piero Gnudi lo sostituisce, portando alla definitiva liquidazione dello storico istituto.
Un discorso a parte merita il caso della Sgs Ates, un’azienda dell’Iri che produce microchip e debiti. La Stet, che controlla la Sgs, affida a un “cacciatore di teste” l’incarico di trovare un nuovo numero uno per l’azienda. Viene così individuato Pasquale Pistorio, un siciliano responsabile delle attività internazionali della Motorola. Pistorio, senza clamori e senza farsi condizionare dai partiti, conclude una fusione con la francese Thomson e crea la STMicroelectronics, una multinazionale che scala i vertici delle classifiche mondiali delle imprese tecnologiche.

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27 luglio 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.


Tratto da

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www.impresaoggi.com