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Lo sciopero nei servizi pubblici


Chi dice che non è ancora giunta l'età per la filosofia o che l'età è già passata, è simile a chi dice che non è ancora giunta o è già passata l'età per la felicità.
Epicuro, Lettera a Meneceo

L’Italia non era maglia nera europea negli scioperi, finché ha fornito dati comparabili. In questo silenzio dal 2009, pesa il fatto che nel frattempo abbiamo invece strappato il record degli scioperi nei servizi pubblici. Se consultate le tabelle regolarmente aggiornate ed elaborate dall’ETUI, l’European Trade Union Institute che essendo espressione della confederazione europea dei sindacati non è sospettabile di essere fonte “padronale”, troverete che negli anni 2000-2008 Francia, Spagna e Danimarca battevano l’Italia, con oltre 100 giorni di sciopero l’anno per mille dipendenti pubblici e privati rispetto a una media europea di 53, e l’Italia che da quota 300 del 2002 era scesa verso la media europea. Dal 2009, l’Italia svanisce nei dati comparati. Sappiamo che nel 2008-2013 la media europea è scesa fino a 32 giorni per mille dipendenti l’anno, e che la Francia è ancora in testa con il doppio di giornate perse rispetto alla media nel 2013. Ma il dato italiano non è comparabile ufficialmente, perché dal 2009 l’Italia non fornisce più i dati nella versione standard europea, e lo stesso istituto europeo sindacale se ne rammarica. Quel che però sappiamo, mettendo insieme le relazioni ufficiali nazionali delle diverse istituzioni che si occupano di scioperi nei servizi pubblici essenziali, è che in questo campo abbiamo un triste record. Nel 2014 sono state proclamati nei diversi servizi pubblici essenziali 2.084 scioperi. Con 17 scioperi generali nazionali, contro i 7 del 2013. Sono stati 331 gli scioperi proclamati nel solo trasporto pubblico locale, 182 nel trasporto aereo, 143 in quello ferroviario.
Che cosa fare? La risposta è nota, si tratta di farlo. Aggiornare radicalmente su un paio di punti essenziali la legge 146 del 1990, che continua a costituire la cornice legislativa di fondo in materia di garanzia del diritto di sciopero stesso, contemperandola con procedure di raffreddamento, mediazione, e dall’altra parte diritti dei cittadini. Come più volte abbiamo scritto, la legge rinvia in realtà a decine di atti autoregolatori per specifico settore e a intese aziendali in materia, come sempre avviene nel nostro ordinamento, in cui la politica ha deciso di non dare mai attuazione all’articolo 39 della Costituzione con una legge quadro su diritti e doveri dei sindacati. Come ormai è evidente, però, dalla quotidiana realtà dell’esperienza di grandi città italiane a cominciare da Roma, non è dalla sussidiarietà, cioè dal libero accordo tra sindacati e parti, che può venire la risposta normativa di garanzia sui due punti che vanno cambiati.
Prima però vediamo quali analogie e anomalie ci sono nel diritto di sciopero tra Italia e altri paesi. In Italia lo sciopero è un diritto attribuito direttamente ai lavoratori, non ai sindacati. Non è così altrove, in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, dove è un diritto dei sindacati. Dalla differenza, discendono obblighi e procedure diverse: più facili a stabilirsi quando si tratta di un corpus di diritti-doveri delle organizzazioni, assai più scivolose come nel caso italiano, quando bisogna riferirsi alla collettività di lavoratori però intesi come individui.
Anche questo spiega la difformità dei divieti in Europa, in materia di sciopero. L’Italia per esempio consente lo sciopero “politico” – di qui gli scioperi generali e di categoria contro il governo – ma in realtà i paesi a consentirlo sono pochissimi, solo gli scandinavi (meno la Svezia però) e l’Irlanda. Il picchettaggio – solo verbale, cioè senza violenza – non è comunque consentito in Austria, Spagna, Svezia, Paesi baltici, Olanda e Polonia. Lo sciopero di solidarietà verso altri lavoratori o categorie è consentito in Italia, ma non in Olanda, Regno Unito, Lussemburgo e Lettonia. In teoria, è norma generale – tranne che in Francia, questo spiega la sua elevata quota di scioperi – il cosiddetto “principio di pace”, per il quale non si sciopera durante la vigenza di un contratto sottoscritto. Dovrebbe valere anche in Italia ma in realtà non vale per nulla, perché da noi gli scioperi li proclamano a raffica le organizzazioni sindacali – grandi in alcuni casi come la FIOM nel settore meccanico, o autonome piccole e piccolissime nei servizi pubblici locali – che le intese non le sottoscrivono. E il problema diventa allora quello delle sanzioni. In teoria, in nessun Paese Ue è consentito sostituire gli scioperanti – se lo sciopero è legale – con lavoratori in somministrazione: in realtà in Uk e Finlandia e in altri paesi dove non c’è risconoscimento costituzionale esplicito del diritto di sciopero è successo, con grandi contese legali. Molto diversa è la regolazione del preavviso: in Europa si va dalle sole 24 ore ai 14 giorni prima dell’inizio dell’azione.
In Germania, la libertà di diritto di sciopero è basata sulla giurisprudenza, non sulla Grundgesetz, l’equivalente della nostra Costituzione. Ma poiché lo sciopero è un diritto sindacale, può essere indetto solio dai sindacati che hanno il requisito numerico per poter sottoscrivere il contratto relativo. Si è appena modificata la norma nazionale che, per esempio nel trasporto ferroviario, limita il diritto a sottoscrivere il contratto a sindacati che abbiano la maggioranza assoluta degli iscritti. La protesta di un sindacato minoritario che non ha tali numeri ha portato al blocco del trasporto ferroviario nazionale per giorni e giorni. In Italia non sarebbe possibile, perché le norme di autoregolazione nei protocolli sottoscritti dai sindacati del trasporto ferroviario escludono esplicitamente scioperi protratti generali di quel tipo. Da noi deve essere garantita un’offerta minima di servizio per fasce, che cambia dal trasporto ferroviario nazionale a locale. Ecco perché i giornali tedeschi mentre Deutsche Bahn era ferma invidiavano l’Italia. Ma in Germania i sindacati sono anche responsabili direttamente in caso di scioperi che fossero giudicati illegali, e in quel caso devono pagare i danni: molto più salati dei 320 mila euro irrogati l’anno scorso in totale alla nostra asfittica Autorità Garante del diritto di sciopero.
In Francia il diritto di sciopero nel pubblico impiego è garantito da una legge ad hoc del 1963, mentre quello nel settore privato si basa su casistica giurisprudenziale. Ciò spiega la bassissima sindacalizzazione del settore privato Oltralpe, e quella invece altissima nel settore pubblico. Il “favore” francese verso i dipendenti pubblici non ha posto in legge garanzie ai cittadini e a chi usufruisce dei servizi pubblici- come accade nel caso italiano sia pur in fonti normative di livello inferiore come i codici di autoregolamentazione e le intsese aziendali. Il governo francese ha “facoltà” di opporre dei limiti agli scioperi pubblici ma caso per caso con propri decreti: e naturalmente quando le piazze si riempiono per i governi diventa difficile farlo, e questo spiega gli scioperi pubblici a oltranza oltralpe al sostegno delle sinistre che, in Italia, almeno in quelle forme non sarebbero possibili.
Qual è allora il problema Italiano? Dal punto di vista dei requisiti minimi dei servizi da offrire in caso di sciopero legale, in realtà nei sevizi pubblici siamo più tutelati in Italia che in Germania e Francia. Da noi il problema, riguarda i criteri attraverso i quali si fissa la rappresentanza dei sindacati nel settore pubblico, e le procedure attraverso le quali indire gli scioperi.
Quanto alla rappresentanza, nel settore privato Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori. E’ al settore pubblico che va esteso questo meccanismo, raffinandolo per le specifiche di settore.
Quanto alle procedure per proclamare lo sciopero, va introdotto un criterio che oggi vige in 17 paesi su 28 europei: cioè il voto dei lavoratori. Certo, non c’è in Francia né Spagna, ma c’è in Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio – nei servizi pubblici – di un voto preventivo favorevole del 51% dei lavoratori, e non dei delegati che rappresentano la maggioranza sindacale – verremo a capo di situazioni impazzite come quella dell’ATAC a Roma, dove a bloccare la Capitale sono le 9 sigle su 13 che non firmano a differenza dei confederali il nuovo piano industriale, per poi fare propaganda scioperante a spese dei cittadini e dell’economia nazionale ( in questo, hanno ragione i sindacati confederali che protestano contro Renzi che non puntualizza la responsabilità del sindacalismo autonomo). E per chi non rispetta le regole, sanzioni in solido pesantissime. Il governo Renzi promette da inizio anno di muoversi in tale direzione. Vedere per credere, nel frattempo italiani e turisti continuano a subire danni intollerabili.



Oscar Giannino da www.brunoleoni.it - 27-07-2015

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www.impresaoggi.com