Quando l'impresa è a un bivio, quale strategia scegliere?

L’immagine dell’opera intrapresa deve essere già chiara da lontano.

Pindaro


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1. Premessa

La casa editrice Tecniche Nuove ha pubblicato, recentemente, un libro dal titolo Che fare se una strategia non funziona?, nel quale sono analizzati sei casi di imprese che si trovano dinanzi ad un bivio e devono prendere una decisione strategica fondamentale per la loro sopravvivenza
Gli autori presentano ciascuno un caso e affidano poi la definizione della migliore strategia a quattro “superesperti”; l’interesse del libro nasce proprio dalle analisi che i quattro esperti conducono in ciascun caso, analisi, che rispecchiano diversi approcci metodologici, e che mettono in evidenza le difficoltà che il top management di un’azienda deve affrontare nel caso in cui siano richieste importanti e vitali scelte strategiche.
Naturalmente, spesso le opinioni degli esperti consultati per i singoli casi sono una l’opposta dell’altra e allora?
Questa constatazione ci porta ad affermare un dato di fatto, quando un imprenditore deve prendere una decisione può consultare i più grandi esperti, ma alla fine  è lui solo che deve prendere una decisione.
Il libro è scritto con brio e ciascun caso è riportato sotto forma di piacevole racconto, seguendo uno dei principi dell’oratoria greca quello della narrazione.

2. Il caso della Sargon Corporation (John Strahnich)

Jack Marlowe, presidente e Hal Hestnes, CEO della Sargon, da anni stanno modellando una nuova identità per la Sargon, da piccolo fornitore nel settore della difesa a produttore diversificato. I settori di mercato della Sargon ora comprendono elettrodomestici, sistemi frenanti, componenti per telecomunicazioni e sistemi di riconoscimento vocale; inoltre la Sargon ha acquisito recentemente la Cyberan, un produttore di router e hub per reti aziendali, operazione accolta molto freddamente a Wall Street.
Per realizzare i piani di diversificazione Marlowe e Hestnes attingono agli utili della Arcell, l’unità elettrodomestici del gruppo che considerano la “vacca da mungere”, diretta da Charlie Crescent. Questi è fortemente critico nei confronti dei suoi capi perché ritiene che sottraendo liquidità alla Arcell viene meno la possibilità dell’innovazione tecnologica con il rischio di perdere una caratteristica che distingue i prodotti della Arcell, la qualità; Crescent, inoltre ha presentato un piano di sviluppo della Arcell in mercati esteri.
Marlowe e Hestnes si trovano di fronte al più classico dei bivi strategici, la matrice di Bruce Henderson che definisce la priorità degli investimenti. Secondo la matrice le società diversificate dovrebbero investire sulle “star” mentre le “cash cow” dovrebbero servire per fare liquidità. Fino agli anni novanta non c’era discussione ma, oggi, situazioni come quella della Sargon richiedono molta attenzione.

I quattro esperti consultati sul caso vedono un esempio fallito della strategia di crescita.
Il primo sostiene che il management della Sargon dovrebbe riflettere sui meriti intrinseci dei vari business e cercare di capire in che modo aiutare ciascuno a creare il massimo valore possibile, senza penalizzare un business a favore di un altro.
Il secondo sottolinea che la Sargon dovrebbe chiarire se vuole essere una società di portafoglio, il cui obiettivo primario è quello di generare cassa comprando e vendendo società (in tal caso Marlowe e Hestnes dovranno preoccuparsi solo degli aspetti finanziari e non della gestione) o una controllante a valore aggiunto, in modo che l’insieme crei più valore della somma delle parti grazie ad un’abile creazione di sinergie interne.
Il terzo concorda con il primo sulla falsità della teoria delle cash cow che finanziano business emergenti. Egli sottolinea, infatti, che, oggi, i più efficienti fornitori di capitali sono i mercati finanziari; ciascuna attività della Sargon dovrebbe avere una propria autonoma credibilità sulla base della quale la Sargon possa reperire i relativi finanziamenti.
Il quarto ipotizza che i rapporti tra i dirigenti della Sargon possano essersi logorati, dopo tanti anni di collaborazione, e suggerisce che la Sargon ricorra a risorse esterne per risolvere il proprio problema.

3. Il caso della DataClear ( Walter Kuemmerle)

Greg McNally, solo alcune settimane prima aveva convocato un meeting per celebrare il successo della DataClear nel rastrellare almeno cinque milioni di dollari con la vendita del suo primo prodotto, ClearCloud, un potente pacchetto per l’analisi dei dati.
In occasione della riunione, McNally aveva illustrato la strategia della DataClear che consisteva nell’ampliare il mercato del ClearCloud dai settori delle telecomunicazioni e dei servizi finanziari a quelli della chimica, della petrolchimica e della farmaceutica.
Questo meeting celebrativo era avvenuto prima che Susan Moskowski, manager brillante e di successo, gli portasse la notizia, appresa da una rivista specializzata, che una società britannica, la Visidat, stava testando un suo nuovo pacchetto per l’analisi dei dati da lanciare nel giro di qualche settimana.
La Moskowski sostiene che per controbattere la concorrenza occorra  lanciarsi immediatamente sul mercato mondiale o partendo da zero o associandosi con operatori locali, anche per la mancanza di competenze, in DataClear, dei mercati esteri.
McNally si trova di fronte ad un serio bivio: scegliere la strada della globalizzazione, oppure rafforzarsi sul mercato interno ampliando l’area dei settori di competenza?
Nel frattempo nella DataClear si era fatta avanti l’ipotesi di un accordo con la Berno un piccolo distributore di software in Norvegia che aveva un’ottima clientela europea nel settore dei servizi finanziari.
Il parere dei quattro esperti.

Il primo è entusiasta della prospettiva di espansione a livello globale e sostiene che la DataClear non deve limitarsi ad operare sul mercato statunitense. L’azienda dovrebbe prendere in considerazione l’idea di possibili alleanze, ma non con una piccola impresa ma con un partner delle dimensioni della SAP.
Il secondo e terzo esperto suggerirebbero a McNally di mantenere la sua azienda sulla rotta attuale, rafforzando i rapporti sul mercato interno con società che abbiano succursali sui mercati esteri, occasione questa che consentirebbe alla DataClear di accedere ai mercati internazionali senza svenarsi.
Il quarto esperto è a meta strada, egli ammette che la DataCLear debba espandersi a livello internazionale, ma ritiene che la sfida non sia così urgente da giustificare reazioni di panico e che le società che hanno avuto successo con la globalizzazione sono sempre partite da una posizione di mercato interno forte e difendibile.
Tutti concordano che la società, per sostenere la sfida della concorrenza, debba, prioritariamente, rafforzarsi dal punto di vista finanziario.

4. Il caso della Advaark (Thomas J. Waite)

L’agenzia pubblicitaria Advaark era nata da sette anni quando, cioè, Ian Rafferty e Gorge Caldwell avevano lasciato un gigante della pubblicità dove avevano lavorato per dieci anni. La loro fama e i premi accumulati con la multinazionale avevano portato subito alla Advaark alcuni clienti di alto profilo. Grazie alle ispirazioni lunatiche e alle idee non convenzionali di Rafferty e alle analisi acute e alla capacità organizzativa di Caldwell la Advaark aveva un enorme successo; fatturava 550 milioni di dollari ed aveva 400 dipendenti.
Incidentalmente, un giorno, Caldwell scopre che  un loro cliente importante, la GlobalBev, aveva deciso di entrare nel settore delle bevande energetiche con la Nirvoza, grazie ad un suggerimento di Rafferty e che sempre su suggerimento di Rafferty, senza aspettare la risposta del mercato al lancio di Nirvoza, la GlobalBev aveva in mente di entrare nel settore degli snack.
Caldwell scopre pertanto che Rafferty aveva fatto un’incursione nella consulenza strategica relativa al lancio di nuovi prodotti, mentre la Advaark si era sempre occupata dell’esecuzione creativa di campagne pubblicitarie, settore nel quale aveva raggiunto l’eccellenza.
Il chiarimento tra i due soci porta ad uno scontro di opinioni, quella di Caldwell secondo cui la Advaark deve limitarsi ad operare nel settore nel quale sono consolidate le loro competenze (qualche anno prima l’idea di Rafferty di lanciarsi nella pubblicità interattiva si era rivelata un fallimento), e quella di Rafferty, che intravede nella consulenza strategica una fonte di reddito facile e la possibilità di un’offerta più completa ai clienti, che secondo lui desiderano avere un unico interlocutore.

L’idea è allettante ma per Caldwell essa avrebbe potuto appena compensare i possibili svantaggi. Ad esempio le società di consulenza strategica non avrebbero più mandato i loro clienti alla Advaark, divenuta loro concorrente, inoltre la Advaark avrebbe dovuto reclutare o formare nuovi professionisti.

La Advaark deve cercare di aggredire un nuovo mercato espandendo i propri servizi o deve concentrasi su ciò che sa fare meglio? La risposta a quattro esperti.

Il primo ricorda “Quante società sono andate in rovina perché hanno trascurato i rischi che correvano i loro core business mentre seguivano nuove opportunità” e suggerisce alla Advaark di concentrarsi nel business della pubblicità.
Il secondo è di parere opposto e suggerisce alla Advaark di perseguire il customer equity. La Advaark dovrebbe accrescere il valore dei propri clienti seguendo il loro ciclo di vita e adeguando la propria attività ai loro desideri.
Il terzo è d’accordo con il secondo, ma per motivi diversi. A suo parere il rischio della Advaark è quello della rottura dell’intesa tra i due soci, pertanto Caldwell dovrebbe dare a Rafferty la possibilità di provare, sia pure riducendo al massimo i rischi, poiché, spesso, la validità di una strategia è meno importante del talento delle persone; “ Il più delle volte, ho riscontrato che a determinare il risultato finale sono le capacità delle persone, più della bontà della strategia”.
Il quarto è un rigido sostenitore dell’indirizzo strategico focalizzato sul core business; secondo lui sia la Advaark che la GlobalBev stanno cadendo nella trappola del falso entusiasmo.

5. Il caso della Paragon Tool (Paul Hemp)

La Paragon Tool è un fiorente produttore di macchine utensili e, operando in un settore a forte concorrenza, ha sempre investito in iniziative di crescita e di sviluppo. Questi sforzi hanno ridotto notevolmente i margini della società, ma il CEO, Nikolas Anaptyxi è convinto che serviranno a porre le basi per una futura prosperità.
In questo momento la Paragon sta considerando l’acquisizione della MonitoRobotics, società che possiede, in esclusiva, una tecnologia per il controllo del funzionamento di robot industriali e con la quale la Paragon ha sempre avuto buoni rapporti di collaborazione.
L’acquisizione, che consentirebbe quasi di raddoppiare il fatturato della Paragon, potrebbe trasformare, secondo il parere del CEO, un produttore a crescita lenta in una società tecnologica in rapida crescita, un fornitore di prodotti in un fornitore di soluzioni, potrebbe, inoltre, rafforzare la divisione servizi in difficoltà e consentire di stabilire uno standard nella comunicazione tra macchine.
Ma William Littlefield, CFO della Paragon, non è così sicuro. A suo parere, questa scelta comporterebbe tutti i rischi delle acquisizioni e farebbe scendere ulteriormente gli utili.
In molti settori le imprese si trovano spesso ad affrontare questo tipo di dilemmi. Fino a che punto la Paragon deve sacrificare utili immediati in vista di utili futuri? A questa domanda rispondono quattro esperti.

Il primo esperto sostiene che Anaptyxi dovrebbe seguire il suo istinto ed effettuare l’acquisizione, prima di tutto perché può essere una mossa giusta e, in secondo luogo, perché è lui in prima persona ad esserne convinto.
Il secondo sostiene che la metodologia adottata dai venture capitalist dovrebbe essere adottata anche dal management delle imprese. Tale metodologia prevede che l’acquisizione di una società si dimostri redditizia nell’arco di tre anni. Il suo parere è che per quanto riguarda l’acquisizione della MonitoRobotics non vi siano sufficienti garanzie al riguardo. Inoltre, sostiene che, dopo anni di ricerche sulle acquisizioni, la risposta al quesito è che nel 75% dei casi le acquisizioni non riescono a creare valore per gli azionisti.
Secondo il terzo esperto l’acquisizione è una scelta ovvia. Secondo lui è più una questione di riposizionamento che di crescita, e il nuovo posizionamento presenterebbe un potenziale sufficiente per giustificare le perdite temporanee.
Il quarto esperto solleva dei dubbi sul rigore delle analisi fatte dal CEO, inoltre teme che Littlefield, rispettato e prudente, possa dimettersi con la conseguenza di far suonare un campanello di allarme a Wall Street.

6. Il caso della TopTek (Ford Harding)

La TopTek, casa produttrice di software, da nove mesi ha acquistato la Rossberg Lee, un’impresa di consulenza e integrazione di sistemi, già partner della TopTek in diverse occasioni. Le due imprese erano convinte che l’unione sarebbe stata vantaggiosa per entrambe. La TopTek sperava di aumentare le vendite di software, un sottoprodotto naturale dell’attività di consulenza della Rossberg, la Rossberg era convinta di poter vendere, meglio, soluzioni chiavi in mano. La nuova organizzazione, nata dalla fusione, aveva dedicato risorse allo sviluppo di tali “soluzioni”, ossia di pacchetti standard di prodotti e servizi, anche personalizzati secondo le esigenze del cliente. Nonostante le ottime premesse il management della nuova società doveva ammettere che le due imprese lavoravano meglio quando erano partner di due società indipendenti.
Prima della fusione le vendite della società di consulenze erano effettuate dalle stesse persone che fornivano assistenza ai clienti. Le vendite della TopTek, invece, erano affidate a venditori professionisti dell’azienda, tutti molto competenti. Ora venditori e consulenti cercano di lavorare insieme ma la cosa non funziona.
Secondo i venditori, i consulenti non sarebbero in grado di vendere creme solari nemmeno ad una colonia di nudisti, secondo i consulenti, i venditori spingono il cliente verso l’acquisto senza ascoltare i loro bisogni e senza cercare, quindi, di vendere soluzioni. Inoltre si creano fastidiose sovrapposizioni di venditori e consulenti che possono irritare il cliente. In più, i consulenti si lamentano che tutte le commissioni di vendita vanno ai venditori.
Il CEO della TopTek, John Vaunt, ritiene che il problema, e anche la sua soluzione, risieda nel sistema di retribuzione. Se si riuscisse a fare in modo che tutti fossero in grado di vendere la gamma completa dei prodotti, tutti potrebbero guadagnare di più. Egli ritiene che l’incapacità dei venditori di effettuare il cross selling con prodotti di altre divisioni della stessa impresa sia un problema abbastanza frequente che, spesso, limita la possibilità di crescita di un’impresa.
Il dilemma è vendite incrociate o vendite separate?

Il primo esperto critica il CEO della TopTek per la sua miopia. Secondo l’esperto, Vaunt “sta cadendo nella trappola che cattura molti CEO che non operano in prima linea: affidarsi al sistema retributivo per far funzionare le cose”. La TopTek farebbe meglio a dedicare le sue risorse alla formazione dei  venditori.
Il secondo esperto ritiene che occorra una trasformazione culturale e fa una distinzione tra venditori “cacciatori”, sempre in cerca di nuovi affari, e venditori “contadini” che coltivano rapporti per raccogliere i frutti  a lungo termine. Siano cacciatori o siano contadini i venditori devono, però,  adeguarsi alla nuova mission della TopTek, quella di vendere soluzioni.
Il terzo esperto fornisce al CEO della TopTek consigli utili su come studiare incentivi atti a promuovere i comportamenti voluti, ma lo invita ad affrontare direttamente alcune questioni più importanti e profonde, per capire meglio il sistema impresa nato dopo la fusione.
Il quarto sostiene “Il management della TopTek deve saper gestire le tensioni tra venditori e consulenti ma, nel contempo, deve riconoscere che qualche attrito è inevitabile, e non è necessariamente un male”.

7. Il caso della Rose (Daniel B. Stone)

La società Rose Partyware produce un’ampia varietà di articoli in carta: piatti, coppette, tazze, tovaglioli, tovaglie, coccarde, nastri di carta crespa e così via, per compleanni, festeggiamenti e altri eventi sociali. Tom Rose, da quando aveva preso la guida della società l’aveva fatta sviluppare, fino ad occupare oltre trecento dipendenti e l’impresa era diventata un’istituzione nella cittadina che ospitava la sede centrale. Inoltre la Rose aveva acquistato nuove macchine di stampa, che personalizzate per le esigenze della Rose, consentivano la realizzazione di prodotti molto apprezzati dai consumatori e da tutti i rivenditori. Grazie alle innovazioni introdotte nel processo di stampa  e a una rete di relazioni commerciali consolidate Rose è una delle imprese protagoniste del settore.
Come nei casi precedenti, ad un certo punto la Rose si trova ad un bivio.
Da una parte Tom Rose e Cassie Martin, assunta recentemente come Direttore marketing, puntano a vendere i prodotti della società sotto il marchio Rose. Questa strategia cozza contro l’esigenza di impiegare una notevole quantità di soldi. La Cassie, infatti, prevede una serie di azioni: test di pubblicità e di promozione, frequenti trasmissioni del messaggio pubblicitario almeno per i primi due anni, pubblicità incalzante nei periodi festivi, articoli da pubblicare su riviste per genitori, sposi, ragazzi e altri, presenza in ogni evento importante. Secondo la Cassie i costi aggiuntivi potrebbero essere finanziati da un piccolo aumento di prezzo di tutti gli articoli (un 6-7%), aumento che sarebbe giustificato dalla forza del marchio. Il direttore finanziario è contrario perché, secondo lui, “Quando la gente deve acquistare quello che serve per una festa fa un rapido confronto e sceglie sempre il prodotto meno costoso”. I vantaggi sarebbero diversi: il marchio potrebbe trainare un ulteriore sviluppo del fatturato e, inoltre, esso darebbe un forte senso di identità ai dipendenti.
Dall’altra c’è la presenza di un grosso cliente, l’impresa Party, forte di 300 punti vendita e che contribuisce al 20% del fatturato della Rose, che vuole assicurarsi i servizi della Rose per un lavoro rigorosamente “dietro le quinte”, per la produzione di una nuova linea di prodotti con un proprio marchio che il rivenditore intende offrire nella gamma del suo vasto assortimento. Il rischio è che parte dei prodotti della Rose potrebbero essere cannibalizzati dal marchio del rivenditore; comunque se la Rose non accettasse di effettuare questa fornitura il grosso cliente passerebbe alla concorrenza. Hank Lewis, account manager nazionale, opta per questa soluzione e sostiene che quando La Party sarà uscita con il proprio marchio, anche altre lo potrebbero fare, servendosi sempre della Rose, rigorosamente dietro le quinte.

Il primo esperto interpellato ritiene che la Rose dovrebbe accettare l’offerta della Party e collaborare con il suo cliente nello sviluppo dei prodotti; la Rose potrebbe chiedere alla Party di poter gestire l’intera categoria di prodotti nei suoi punti vendita.
Il secondo è di parere diametralmente opposto “La Rose farebbe un autogol se contribuisse alla costruzione del marchio del rivenditore, pur guadagnando nel breve termine.” Il suo giudizio lapidario è il seguente “Non esiste categoria di prodotti per la quale il marchio non sia importante. Il marchio è qualcosa di familiare in un mondo sempre più ostile, e piatti e bicchieri di carta, per quanto umili non fanno eccezione”.
Il terzo assume una posizione intermedia; egli ritiene infatti  che l’unica vera strategia della Rose sia quella di perseguire sulla strada della qualità e la qualità rappresenterà per la Rose il suo vero marchio.
Il quarto sostiene che la Rose dovrebbe impegnarsi per realizzare un proprio brand e sottolinea l’importanza che tale scelta avrebbe per consolidare lo spirito aziendale.

In questo ultimo caso mi sia concesso di aggiungere il mio modesto parere. Oggi il 30% degli scaffali della grande distribuzione sono carichi di prodotti realizzati da aziende rigorosamente “dietro le quinte” che producono con il marchio dell’impresa di distribuzione. In generale, si tratta di ottimi prodotti, eventualmente con un packaging modesto, ma venduti a prezzi decisamente competitivi. D’altra parte conosco alcune di queste imprese che operano “dietro le quinte” che fanno fatturati di tutto rispetto.

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J. Kirby, J. Strahnich, P. Hemp, W. Kuemmerle, T.J. Waite, F. Harding, D.B. Stone, Che fare se una strategia non funziona? Tecniche Nuove 2006 – Edizione Originale The management dilemmas series: When your strategy stalls,  Harward Business School Publishing Corporation, 2005


Recensione di
Eugenio Caruso
02/01/2007




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