La riformuccia della RAI


Il mio miglior amico è quello che nell'augurarmi del bene, lo augura per il mio interesse
Aristotele, Lettera a Nicomaco

Peccato, peccato, peccato. Le nuove nomine RAI portano il segno di una scelta conservativa, effettuate a cavallo tra vecchia legge Gasparri e una riformetta che modifica solo i poteri del vecchio dg, rendendolo un ad di nomina governativa. Ma che comunque dovrà fare i conti con un cda scelto dai partiti, e una commissione parlamentare di vigilanza sempre invasiva. Renzi non ha creduto che la scadenza del contratto di servizio pubblico, nel 2016, significasse l’occasione per una duplice rivoluzione. La prima: che cosa sia e debba essere in futuro il cosiddetto servizio pubblico. La seconda: quale piano industriale debba darsi l’azienda RAI – che pubblica è e pubblica resta – noi privatizzatoti non demorderemo, ma siamo minoranza assoluta – ma che comunque potrebbe rompere l’equilibrio di stagnazione che contraddistingue l’offerta multimediale italiana, d’informazione e di intrattenimento.
Il primo punto è evidente. A conferma, basta paragonare l’indagine parlamentare britannica avviata un anno e mezzo fa in vista della scadenza della Royal Charter di servizio pubblico assegnata alla BBC. I partiti britannici si sono posti il problema fondamentale: che cosa sia il servizio pubblico e come evitare un’impropria commistione tra informazione di qualità, e logiche e proventi commerciali. Lo hanno fatto a fronte di una BBC che a David Cameron non piace, ma che già da anni ha la sua parte di servizio pubblico, la BBC Public Broadcasting, separata dagli altri servizi d’informazione mondiali e a tema della stessa BBC. Dove per “separata” s’intende che BBC-PB non può usare proventi commerciali ma solo il canone, a differenza delle altre società di BBC che non costituiscono oggetto di servizio pubblico. Mentre i 12 trustees che governano la BBC sono presidenti di grandi banche e aziende private, direttori di grandi musei indipendenti, ex presidenti di grandi gruppi editoriali privati come quello del Financial Times, non uomini dei partiti. Sarà anche per questo, che la BBC in 8 anni ha ridotto i suoi costi del 22%.
Dalla parte opposta di un ideale rappresentazione dei diversi modelli di servizio pubblico radio televisivo, ci sono quelli dei paesi che nel tempo hanno deciso di abolire il canone: come Spagna, Olanda, Polonia. Di fatto, ai partiti e alla politica italiana, neanche questa volta è interessato un fico secco approfondire alcunché delle ragioni industriali, economiche e culturali che hanno prodotto in Europa regimi di servizio pubblico tanto diversi dal nostro. Con tanti saluti alla rottamazione e alla fame d’innovazione.
Poiché però è una pessima abitudine italiana ragionare per pregiudizi, venendo alle scelte industriali e di settore non vogliamo commettere l’errore di giudicare prima di averli visti in azione il nuovo cda, la nuova presidente Monica Maggioni e il nuovo dg di cui si resta in attesa come una sorta di “uomo del miracolo”. Senza troppe speranze, aspetteremo i fatti. Ma ciò non ci esime dal richiamare alcuni colli di bottiglia in attesa di essere risolti, e che sono la dannazione del sistema tv italiano.
Il punto non è l’equilibrio di bilancio della RAI. Sotto questo profilo, la gestione uscente Gubitosi-Tarantola ha chiuso il 2013 con un utile proforma di poco più di 5 milioni, e il 2014 addirittura sfiorando i 58 milioni. Naturalmente quest’ultima cifra è stata resa possibile solo da un’operazione straordinaria, non dal raggiunto equilibrio della gestione ordinaria: la quotazione delle torri di trasmissioni di Rai Way, realizzando così un incasso di 280 milioni e una plusvalenza netta di 228. Mentre l’anno prossimo, come tutti gli anni pari, sarà un bilancio difficile per la RAI a causa dei diritti tv dei grandi eventi sportivi, Olimpiadi ed Europei di calcio, che a proiezioni attuali di bilancio e senza scelte incisive riporterebbero la perdita verso i 150 milioni annui.
Ma ripetiamolo: il problema, per quanto importante, non è l’equilibrio di bilancio. In realtà bisogna aspettarsi che la politica giudicherà il neo super direttore generale innanzitutto dalle nomine alla guida delle testate storiche della RAI, attenta a ogni variazione del bilancino di potere tra vecchia destra e neo-vecchia sinistra. Invece, il nuovo super direttore generale dovrebbe invece stupire tutti, a cominciare dal proprio cda, ponendosi per esempio tre domande “di sistema”.
La prima: ha ancora senso considerare frequenze e satellite – le coordinate tecnologiche della triade Rai-Mediaset-Sky – come l’eterno campo di gioco in cui c’è chi incassa più pubblicità (in regresso da anni) e chi compensa col canone?
La seconda: ha davvero ancora significato che il servizio pubblico sia solo RAI, pur essendo implicitamente già fatta la scelta da parte della politica, e non sia invece interesse primario della RAI stessa estenderlo anche ad altri soggetti?
La terza: cosa può fare la RAI, per assecondare un balzo in avanti rispetto al gap digitale italiano, che finora l’ha vista in realtà prosperare ma che danneggia il paese e per l’azienda disegna un’eterna Roncisvalle di retroguardia?
E’ ovvio che per noi le tre domande avrebbero risposte obbligate. Primo: no, non ha più senso ragionare sulla vecchia tavolozza di frequenze e satellite, perché la sfida è quella degli smart device, della banda larga e del “pago per quel che vedo”: nel 2014 per la prima volta in Italia coloro che hanno visto immagini in streaming su multidevice hanno superato in percentuale coloro che restano fedeli alla vecchia tv. Secondo: sì, la RAI guadagnerebbe essa per prima un ruolo di traino civile e culturale se per prima immaginasse un servizio pubblico affidato per esempio anche a emittenti locali in pool, che restassero indipendenti ma con garanzie per rispondere ai criteri di servizio pubblico, e alle quali “offrire” supporti tecnologici da parte della Rai stessa. Non è affatto detto – se la politica non ci arriva – che la RAI non possa per prima immaginare un servizio pubblico più “tedesco”, cioè offerto anche da reti saldamente locali.
Terzo: i politici si riempiono la bocca della necessità di nuove fiction “italiane” per il mercato internazionale, ma con tutto il rispetto le sfide sono altre e innanzitutto tecnologiche. L’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali, dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di apparati ricettivi e decoder. I nuovi formati e linguaggi che sono necessari – nell’informazione e nell’intrattenimento – in un mondo in cui il ricevente pagante ha strumenti capaci di isolare ogni singolo dettaglio dell’immagine. La sfida tecnologica è la più importante. E’ quella battuta dai newcomers: Netflix, Discovery e via proseguendo.
L’anno scorso, abbiamo assistito a una cosa senza senso. La RAI ha quotato le sue torri per raddrizzare il bilancio a cui Renzi aveva inflitto un taglio di 150 milioni. Ma industrialmente l’operazione doveva essere del tutto diversa: mettere assieme le torri Rai, Mediaset e di Telecom Italia, con una ricaduta nazionale di efficientamento industriale e non di effimero beneficio finanziario per ciascuno dei tre sfiancati players, a fatturato calante da anni. Invece, apparentemente il governo ragiona in un modo singolare. Le grandi aziende telcom in Italia sono ansanti, e la politica le considera al guinzaglio – e talora le minaccia, come avviene per Telecom Italia – invece di usare per prima la RAI pubblica in un’ottica di accelerazione nazionale della banda larga e della strategia multi-device.
Naturalmente, speriamo di sbagliarci. Magari è la volta buona, che la RAI di questa nuova stagione ci lasci senza parole. Siamo pronti a metterci tutta la necessaria cenere sul capo e anche sulla lingua, se per buona sorte accadesse davvero. Ma dovessimo scommetterci sopra, allora no, non lo faremmo.

Oscar Giannino -da www.brunoleoni.it - 06-08-2015

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