La privatizazione dell'Eni


La necessità è un male, ma non c'è alcuna necessità di vivere nella necessità.
Dal gnomologio vaticano epicureo


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il 3 agosto 1992 l’Eni dice addio alla giunta, longa manus dei partiti; il consiglio di amministrazione è costituito da Cagliari, presidente, Giuseppe Ammassari, del ministero dell’Industria, e Bernabè, il più anziano in servizio dei sette direttori centrali. Cagliari deve piegarsi alle direttive del Governo e cedere le leve del comando a Bernabè. Il nuovo amministratore delegato dell’Eni si trova a dover sbrogliare una matassa di ben 335 aziende, per lo più in perdita e operanti nei settori più disparati, e partire con un rosso di bilancio, nell’esercizio 1992, di oltre 800 miliardi. Bernabè ha però in mente un progetto ben chiaro di privatizzazione; tagliare tutto ciò che non ha niente a che vedere con il core business dell’azienda (petrolio e chimica) e portare sul mercato l’Eni nella sua interezza e non le varie controllate, come auspicato dal management di queste. Il processo di privatizzazione dell’Eni trova tuttavia ostacoli enormi; dirà lo stesso Bernabè: «Perché la presunta irrealizzabilità del processo di privatizzazione era quasi un elemento scritto nel Dna di politici e manager. Era nella loro mappa genetica considerare il sistema pubblico come qualcosa di inattaccabile» (Roddolo, 2000).
Con fatica, con determinazione e con la consulenza degli advisor Merrill Lynch, Ubs e FinComit, Bernabè avvia il percorso di dismissione delle aziende non strategiche; prima le minori, poi man mano quelle più importanti, affrontando di volta in volta discussioni infinite sul ruolo strategico o no dell’impresa da dismettere, con il fronte compatto del management interno. Ricorderà Bernabè: «Stavano combattendo ferocemente contro di me, ma soprattutto contro la privatizzazione che metteva in discussione il meccanismo di legittimazione del loro potere e cioè il rapporto con la politica. La svolta per il processo di privatizzazione in Eni sarebbe venuta con Tangentopoli, che difatti avrebbe eliminato i maggiori ostacoli al cambiamento. Alla luce dei risultati delle indagini e dei successivi processi diventarono, infatti, più chiari a tutti, anche a quelli che legittimamente avevano dei dubbi, i veri motivi della resistenza al rinnovamento. E sono convinto che Mani pulite si possa a ragione considerare il momento di svolta anche per un altro motivo. Dopo il ciclone Tangentopoli, il sistema politico non vorrà, infatti, mettere le mani nell’Eni. Cercherà, al contrario, di dissociarsi completamente dal “cane a sei zampe” per non rischiare di essere coinvolto in quanto stava accadendo. Per lasciare, insomma, al management la piena responsabilità» (Roddolo, 2000).
Se il pool di Milano mette sotto scacco i reali centri di comando dell’Eni, Bernabè cavalca l’onda dello sconquasso per effettuare un drastico rinnovo dirigenziale, allo scopo di operare liberamente sui fronti del recupero di efficienza, delle dismissioni e della privatizzazione. Il risultato è che in meno di un anno l’Eni viene alleggerita di 90 società e di 350 posti di consigliere d’amministrazione. Nel 1994 Bernabè viene duramente attaccato da Tatarella – vicepresidente del Consiglio del Governo Berlusconi – che ne chiede le dimissioni (l’Msi è contrario alle privatizzazioni perché vede allontanarsi quel modello corporativo che più si avvicina all’economia dello Stato fascista). Ma i risultati positivi che iniziano a evidenziarsi – nel 1994, per la prima volta nella sua storia, l’Eni realizza 2.500 miliardi di utile netto – mettono Bernabè al sicuro dagli attacchi politici. Ricorda egli stesso: «Se io mi fossi dimesso perché era cambiato il Governo avrei dato un segnale chiaro e inequivocabile che l’Eni rimaneva una società delle partecipazioni statali. Al contrario, volevo a tutti i costi riaffermare il principio che l’Eni era ormai una società dove la natura privatistica era un fatto reale» (Roddolo, 2000). Lo stesso segnale non lo daranno Romano Prodi e Claudio Dematté, che si dimetteranno, rispettivamente, dall’Iri e dalla Rai.
Con il Governo Dini, il 28 novembre 1995 viene messa sul mercato la prima tranche di azioni Eni, pari al 15% dell’intero pacchetto azionario, a 5.230 lire per azione; a fine anno l’utile netto è di 4.327 miliardi e le società dismesse sono diventate 140. Con il Governo Prodi, nell’ottobre 1996 viene fatta un’offerta pubblica di vendita per un altro 16% di azioni e il 1996 si chiude con un utile netto di 4.450 miliardi, mentre le società dismesse dal gruppo hanno raggiunto quota 230. Nel luglio 1997, con la terza tranche (a 9.288 lire per azione), restano in mano del Tesoro il 51% delle azioni. Nel giugno del 1998, con la vendita della quarta tranche (a 11.430 lire per azione) il pacchetto in mano allo Stato scende al 35%, quota più che sufficiente per detenerne il controllo; l’utile netto è di 4.502 miliardi e raggiunge i 5.538 miliardi nel 1999. Nel 2010 è ancora in mano del Tesoro il 30,3% delle azioni e l’utile netto è di 6,32 miliardi di euro. L’Eni non è più un dinosauro economico capace di drenare denaro pubblico, ma una moderna multinazionale che produce utili per il Tesoro e per tutti gli azionisti e il cui business, con sedi in tutto il pianeta, si estende dagli idrocarburi (è il quinto gruppo petrolifero mondiale) alla chimica, all’energia, alle rinnovabili, alla ricerca (con il suo quartier generale presso lo storico Centro Donegani di Novara).

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12 agosto 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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