Cosa dovrebbe fare la Cina


Bisogna servirsi della natura come guida: è lei che la ragione consulta e segue
Seneca, De vita beata


Travolto dalla paura di una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008, l’Occidente chiede ai regolatori pubblici della Cina di tagliare i tassi, comprare titoli coi soldi pubblici, pompare liquidità alle banche, fare qualunque cosa purché la caduta di Shanghai s’interrompa e non si trasmetta alle piazze mondiali. E’ quel che la banca centrale cinese ha fatto: ha tagliato i tassi per la quinta volta dal novrembre scorso e per la settima volta da metà 2012, di 25 punti base sui depositi in modo che il valore degli asset finanziari indirettamente si apprezzasse; ha ridotto la riserva che le banche cinesi sono obbligate a detenere presso la banca centrale, in modo che la liquidità complessiva di sistema aumenti; ha venduto dollari per una ventina di miliardi e comprato yuan, per evitare pressioni ribassiste sulla moneta. E le borse occidentali sono rischizzate verso l’alto.
La domanda è: questa è la strada giusta? E’ figlia delle dure lezioni accumulate dal 2008 in avanti? O è pura disperazione? Per rispondere a queste domande, bisogna dichiarare coma la si pensa. Diffidare di chi in economia spaccia verità assiomatiche. Può avere cattedre e Nobel, ma, tra i Nobel, Krugman e Stiglitz la pensano all’opposto rispetto a Robert Lucas o Edmund Phelps, e non parliamo poi degli anni luce che li separano da Friedman o Hayek. Ergo dichiariamo le premesse in base alle quali le mosse della banca centrale cinese appaiono più figlie della disperazione che della lezione sin qui appresa.
La lunghissima serie positiva della Borsa americana che esplose con il default di Lehman è stata figlia di troppi anni di politiche monetarie accomodanti della FED di Greenspan, dopo la crisi asiatica di fine anni Novanta e quella delle dot.com a inizio anni Duemila. L’oceano di liquidità monetaria figlia di politiche monetarie troppo lasche gonfia le bolle finanziarie e immobiliari, perché con le borse che guadagnano a ritmi imparagonabili ai rendimenti del capitale nell’economia reale, è ovvio che il denaro poco caro prenda sempre più la via della finanza facile.
Alla crisi, non si è risposto affatto allo stesso modo dovunque, come ripetono in molti. E’ di gran moda, e piace molto a keynesiani e statalisti, dire che la risposta è stata quella di politiche monetarie ancor più accomodanti, a tassi praticamente negativi, e di acquisto massiccio di asset finanziari da parte delle banche centrali, il cosiddetto quantitative easing effettuato dalla Fed in tre lunghe fasi (oggi siamo alla fine della terza, sempre più ridotta, e il mondo attende che la FED alzi i tassi).
Questa è stata per così dire la condizione di emergenza garantita da una politica monetaria che, di fronte a una crisi americana cioè mondiale, si è inoltrata in acque sino allora ignote. Ma sotto questa cornice – a cui si è aggiunto molto dopo il QE della BCE, dall’inizio di quest’anno a settembre del 2016, volto a sostenere più che altro i titoli pubblici abbassandone l’onere, mentre i governi dovrebbero fare riforme per ridare equilibrio alle loro finanze pubbliche– in realtà ciascuno si è comportato in modo diverso, per affrontare i guai reali, cioè l’esistenza di debiti non sostenibili.
Gli USA hanno salvato alcuni giganti finanziari coi soldi pubblici, per vederseli poi in larga parte restituire, e hanno fatto la stessa cosa con due giganti dell’auto, GM e Chrysler, ma nel frattempo hanno fatto fallire centinaia di banche minori, addossandone le perdite ad azionisti e obbligazionisti. Il Regno Unito ha fatto la stessa cosa degli Usa con alcuni grandi banche, ma non con le imprese. In Europa sulle banche ciascuno si è comportato a modo suo, ma qui la parola d’ordine è “nessun fallimento” – vedi il caso MPS – e solo ora faticosamente siamo ai primi passi di una vera Unione bancaria.
Altri paesi, come l Svezia in crisi negli anni Novanta, hanno concentrato in mano pubblica debiti insostenibili da gestire, per attenuarne l’effetto sull’economia reale. Altri, come il Giappone, da 20 anni tengono i tassi bassissimi e sostengono pubblicamente in tutti i modi l’economia, ma non separando debiti buoni dai debiti cattivi anche l’attuale premer Abe si trova nei guai dopo 2 decenni di crescita asfittica.
Mettiamola così. Per chi è scettico sul fatto che banche centrali e finanza pubblica possano evitare che i mercati abbassino i prezzi per far svaporare le bolle, e per tornare finalmente a far orientare i capitali verso l’economia reale, le risposte alle mega crisi finanziarie possono avere al massimo come risposta immediata politiche monetarie interventiste. Ma l’essenziale è metter rapidamente mano a riforme profonde, lasciando ai mercati il diritto-dovere di fare i prezzi. Per tornare il più rapidamente possibile a politiche monetarie meno discrezionali possibili: l’esatto opposto di quel che oggi s’invoca dai banchieri centrali. Anche perché altrimenti più durano le politiche monetarie lasche, meno i governi riformano, e più la liquidità torna a gonfiare nuove bolle. Questa è la ragione per cui negli USA i Krugman sono perché la FED non rialzi i tassi, e per cui in Europa gli statalisti contano sul fatto che il QE di Draghi duri in eterno, invece di pensare a unificare davvero i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi europei in nome di una maggiore produttività.
Torniamo alla Cina. Il partito comunista cinese guidato da Xi Jinping nel suo ultimo congresso ha indicato la strada di aprire l’economia cinese a forme sempre più vicine al mercato. Chi ieri ha brindato all’intervento della banca centrale cinese preferisce forse dimenticare che gli squilibri di cui vive la bolla finanziaria e immobiliare cinese sono tutti figli dell’eccesso d’interventismo pubblico, non del suo contrario. Da anni e anni la banca centrale cinese aumenta l’offerta monetaria tra i 3 e i 5 punti più di quanto non cresca nelle innattendibili statistiche ufficiali il PIL. Da decenni, l’economia è cresciuta grazie agli investimenti pubblici che erano quasi la metà del PIL, e la montagna d’investimenti pubblici senza rendimento economico ha generato sovraccapacità gigantesca.
Fino all’altro ieri l’Occidente ha chiesto alla Cina di lasciare lo yuan libero di fluttuare sul mercato invece che regolato nel cambio dalla banca centrale. Di dissodare le banche pubbliche i cui libri sono pieni di asset ipervalutati e in realtà oggi senza prezzo, a cominciare dall’immobiliare. Di chiudere gradualmente il marginal lending, e cioè che società finanziarie non soggette ad alcuna valutazione spingessero oltre centomila cinesi senza risparmi a credere freneticamente nella Borsa anticipando loro i liquidi per investirvi (tutta gente che oggi rischia ovviamente il disastro). Che senso può avere oggi chiedere alla Cina l’esatto opposto, e cioè che Stato e banca centrale continuino a pompare soldi pubblici?
Direte voi: problemi loro, l’essenziale è che non diffondano crisi e instabilità nei mercati di tutto il mondo. Risposta sbagliata. Perché l’economia reale si prende le sue rivincite. Se la banca centrale cinese ha aspettato, prima di assumere le decisioni di ieri, è perché sa per prima che intervenire l’avrebbe costretta a dei controsensi. Quando si svaluta una moneta è perché i flussi di capitale escono dal paese, e di conseguenza per contenere il fenomeno occorre alzare i tassi e non abbassarli, come l’Occidente ieri ha invece caldamente spinto la Cina a fare. Se l’obiettivo è di pompare più liquidità attraverso le banche – e a questo serve abbassare la riserva obbligatoria – è un controsenso comprare al contempo yuan, perché significa diminuire la liquidità che si vorrebbe crescesse. In più, da quel che sappiamo la banca centrale cinese non è proprio l’esempio di un istituto liberista: detiene già asset nei suoi libri pari al 60% del valore del Pil cinese. Il doppio, in percentuale, di quanto abbia la Fed rispetto al PIL USA, dopo tre lunghe fasi di quantitative easing.
In conclusione: no, la riposta di ieri cinese non è quella più adeguata alle ormai gravi contraddizioni dell’economia cinese, è solo un pezza a colori. Chiesta dall’Occidente per bloccare la paura. Sarebbe meglio – e molto più stabilizzante per i mercati mondiali – che l’Occidente offrisse alla Cina una finestra spalancata per fare dello yuan una valuta di riserva visto il peso che la Cina ha nel mondo, a patto di sapere entro quanto verrà lasciato al prezzo di mercato, perché ciò consentirebbe a Pechino di contare sugli acquisti di molte altre banche centrali. Chiedendo alla Cina nel frattempo di fare in grande scala quanto fece la Svezia negli anni Novanta, cioè avviare un enorme processo di scouting sui troppi debiti insostenibili e sui troppi asset dichiarati a un valore che non esiste. Che lo Stato cinese si concentri su quello, mentre attua una vera vigilanza sulle sue banche e chiude nel tempo alla possibilità che oltre un terzo della sua intermediazione finanziaria sia operata da chi non è soggetto ad alcuna regolazione.
Un enorme programma pluriennale cinese di stabilità e pulizia finanziaria, da assumere come priorità inernazionalmente condivisa perché la Cina resti una locomotiva mondiale, continui ad assorbire sempre più esportazioni mondiali ad alto valore aggiunto per le sue centinaia di milioni di nuovi consumatori, e dipenda sempre meno da un proprio export forte per un basso costo della manodopera destinato comunque ad alzarsi.
In larghissima misura, è il compito del nuovo presidente degli Stati Uniti che succederà ad Obama, sempre che sia interessato a un mondo stabile. L’Europa ha già i suoi enormi guai da risolvere. Al massimo possiamo essere una media potenza cooperante. Ma dovremmo per primi chiedere all’America in questi giorni di non commettere l’errore di chiedere ai cinesi solo misure figlie della disperazione a breve termine.

Oscar Giannino - da www.leoniblog.it

27 agosto 2015



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