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L'inchiesta mani pulite


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Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Nell’estate del 1993 divampano le polemiche sull’inchiesta Mani pulite, che sta facendo luce tra l’altro su Enimont e sulla maxitangente da 150 miliardi (entrata nel lessico giornalistico col nome di “madre di tutte le tangenti”), pagata per assicurare ai Ferruzzi una sopravvalutazione di Enimont nell’operazione di vendita della quota Montedison all’Eni. L’inchiesta ha chiamato in causa i nomi più noti della finanza, della politica, dell’imprenditoria pubblica e privata. Il pool del tribunale di Milano, con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, e il nucleo storico dei pm Antonio Di Pietro, Pier Camillo Davigo e Gherardo Colombo sono pionieri di un’applicazione personalistica della giustizia. Si assiste a un’interpretazione flessibile, ma arbitraria, della carcerazione preventiva e allo spostamento del centro di gravità del processo dal dibattimento, come luogo deputato alla verifica delle ragioni dell’accusa e della difesa, alle indagini preliminari, che rappresentano la fase più autoritaria di tutto il procedimento. Il pool di Milano, grazie a queste interpretazioni “flessibili” del codice e all’ampio consenso popolare, sta lentamente dipanando il bandolo della collusione tra partiti, imprese, Governo e sottogoverno e, per la prima volta nella storia della Repubblica, sta mettendo sotto accusa personaggi ritenuti intoccabili.
Craxi tenta un affondo contro il pubblico ministero Di Pietro, accusandolo di oscure trame e preannunziando «assi nella manica» e rivelazioni esplosive, che però non arrivano; parla di «caccia alle streghe», ma i suoi attacchi e le sue accuse non trovano più né un’opinione pubblica disposta ad ascoltarlo, né i poteri politico e istituzionale in grado di sostenerlo. Assicura di essere oggetto di persecuzione politica, ma quando è chiamato a difendersi alla Camera contro l’autorizzazione a procedere per concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti, affermerà: «In quest’aula, e di fronte alla nazione, penso che si debba usare un linguaggio improntato alla chiarezza. All’ombra di un finanziamento regolare ai partiti fioriscono e s’intrecciano casi di corruzione e di concussione che come tali vanno definiti […] Se gran parte di questa materia dev’essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale». Anche l’ammissione del 3 luglio 1992 alla Camera – «Tutti sapevano, tutti tacevano» – è un atto di accusa ma anche una piena confessione.
Di Pietro, quest’uomo che è entrato in seminario da ragazzino, che ha fatto l’operaio in Germania, l’impiegato, il poliziotto e infine il magistrato, ha assunto una funzione mitopoietica nell’immaginario collettivo degli italiani, è diventato l’eroe che, con la daga della legge, scaccia i corrotti che si sono impossessati dello Stato, i politici che hanno ridotto i cittadini a sudditi. Di Pietro durante i dibattimenti «usa un linguaggio rude, da contadino e da poliziotto insieme, evita le sottili formule giuridiche, va sempre al sodo, si presenta come il paladino della legge contro i marpioni della politica. La sua ingenuità è finta; ambiziosissimo, aveva intrecciato legami con la Milano da bere dei socialisti ed era incorso in qualche sbadataggine. Ma conquistò vastissime simpatie e divenne l’uomo di punta del pool guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli» (Montanelli, 2000).
I giornalisti della grande stampa e della televisione, dopo l’unanimità iniziale – quando nessuno poteva immaginare che l’iniziativa dei magistrati milanesi fosse qualcosa di più del solito polverone, destinato presto a diradarsi – da una parte danno risalto alle iniziative dei giudici che colpiscono ora un personaggio di uno schieramento, ora quello dell’altro, dall’altra mostrano un’inossidabile propensione alla difesa d’ufficio del regime, cui devono gloria e successo. Si avvitano su se stessi, combattuti da due forze antagoniste: la necessità di inseguire lo scoop o l’audience e sbattere in prima pagina o in apertura di telegiornale l’indagato di turno, e la paura che un’eccessiva dose di “rivoluzione” possa intaccare situazioni consolidate di potere o rompere quella catena di amicizie e di compromessi che li ha portati al successo. Molti temono di dover sbattere in prima pagina, prima o poi, il “personaggio” che li ha aiutati nella loro carriera.
La gente comune si rende conto che, attenendosi al puro codice di procedura penale, che prevede la carcerazione preventiva come extrema ratio, la magistratura sta operando ai limiti della legalità, ma davanti ai gravi episodi di corruzione che investono le più alte personalità dello Stato, dell’imprenditoria e dei partiti, accetta che vi possano essere deroghe alla stretta osservanza delle regole, specie se queste deroghe sembrano poter essere la base per un’efficace rivoluzione politica nel Paese. Di Pietro, nel suo diario, fa alcune considerazioni che è interessante analizzare; dal 1985 al 1992, presso il Tribunale di Milano alcuni magistrati, dopo aver lavorato in inchieste come “Lombardia Informatica”, “le carceri d’oro”, “le patenti facili” giungono alla conclusione che ogniqualvolta s’indaga sulla Pubblica Amministrazione esce qualcosa di illecito (Di Pietro, 2000). Non si riesce mai a stabilire un quadro d’assieme, ad «accendere il motore» di «Tangentopoli, la città virtuale, fatta di malaffare, di lottizzazioni e di raccomandazioni, dove la gestione della politica è finalizzata agli interessi personali o di parte, piuttosto che agli interessi generali». Si incrimina questo o quell’assessore, ma tutto resta circoscritto. Finché Di Pietro (abile nell’investigazione), Davigo (competente sul fronte degli atti giudiziari) e Colombo (esperto di illeciti amministrativi) elaborano una strategia nuova: indagare presso le segreterie di partito e sui fondi neri che le imprese accantonano per lubrificare la macchina amministrativa. Inoltre, negli ultimi anni sono stati introdotti strumenti operativi che agevolano il lavoro dei pm: la convenzione di Strasburgo del 1991 consente ai magistrati di contattare direttamente i colleghi stranieri saltando il livello politico, così come l’articolo 648 bis permette di effettuare rogatorie non solo su corrotti e corruttori, ma anche su coloro che agiscono da tramite, e di arrivare quindi a banche e banchieri. Tra gli strumenti extragiudiziali, entra in magistratura l’uso dell’informatica, che consente un’operatività su più fronti, prima impensabile. (Ricordo bene quel periodo anche perchè conoscevo bene due personaggi che aiutarono Di Pietro nell'allestire un moderno sistema informatico).
Secondo Di Pietro, il pool si serviva della carcerazione quando aveva acquisito la certezza della colpevolezza dell’inquisito. Lo strumento aveva quindi un duplice scopo: primo, far confessare l’indagato e rimetterlo subito in libertà; secondo, renderlo non più credibile nei confronti dei complici che, in generale, si precipitavano a confessare. «In quel periodo, noi arrivavamo la mattina in ufficio e non potevamo entrare perché c’era la fila delle persone che venivano a confessare». D’altra parte, nel 1989 il sistema politico, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che imponeva di azzerare l’arretrato degli uffici giudiziari, aveva varato un’amnistia per i reati di illecito finanziamento ai partiti. Grazie a questo decreto, molti politici si salveranno e potranno evitare la condanna. Tra il 1989, l’anno dell’amnistia, e il 1992, quello dell’avvio dell’inchiesta Mani pulite, il sistema tangentizio cambia inoltre metodologia. Non è più l’azienda X che paga il partito Y per l’appalto Z, ma la corruzione fa un salto di qualità e diventa “corruzione ambientale”. Ogni partito ha le proprie 15-20 aziende di riferimento che lo finanziano, indipendentemente dal volume di appalti che l’azienda acquisisce. I segretari amministrativi (Citaristi per la DC, Stefanini per il Pds, Balsamo per il Psi) diventano i collettori di un flusso enorme di denaro pubblico. Le varie aziende non si fanno più la guerra per vincere le gare, si mettono d’accordo, i prezzi delle opere salgono e lo Stato paga. Inoltre il reato figura come finanziamento illecito dei partiti, mentre in realtà è di corruzione ambientale, molto più grave per le finanze dello Stato e più difficile da perseguire per i magistrati. Sempre dal diario di Di Pietro leggiamo: «Il sistema politico divideva le tangenti in quattro parti: una andava alla DC, una al Psi; una alle altre forze del pentapartito […] e infine una parte al Pci, di regola sotto forma di lavoro alle cooperative che gravitavano nell’orbita del partito e alcune volte con versamento di vere e proprie bustarelle, per le quali abbiamo sempre proceduto. […] Non è colpa del pool se il Pci ha usato spesso un metodo moralmente discutibile ma penalmente irrilevante. E noi dovevamo attenerci al codice, mica al Vangelo!».
L’inchiesta del pool non risparmia i grandi industriali. Vengono inquisiti decine di dirigenti della Fiat, anche ai massimi livelli come Romiti e Francesco Paolo Mattioli, ma l’azienda mantiene un rapporto corretto con la magistratura e ammette il falso in bilancio. De Benedetti si presenta spontaneamente ammettendo l’illecito finanziamento dei partiti e di essere stato concusso.
Anche gli stilisti Gianfranco Ferré, Giorgio Armani, Krizia ammettono di essere stati vittime di concussione da parte della Guardia di Finanza. E come loro molti altri. Diverso è il comportamento di Berlusconi, che non ammette nessun illecito e considera l’azione della magistratura un complotto politico a opera di comunisti. La vera storia degli avvenimenti che hanno coinvolto Berlusconi in Tangentopoli non sarà, forse, mai scritta. Quello che appare comunque evidente è l’atteggiamento persecutorio tenuto dai magistrati nei suoi confronti. Bastano alcuni esempi: dall’avviso di garanzia per mazzette alla Guardia di Finanza, consegnato durante il G7 di Napoli sulla criminalità, all’accusa di falso in bilancio per l’acquisto del giocatore Lentini, pagato dal Milan in nero, prassi consolidata nel mondo del calcio.
Resta in molti un ragionevole dubbio: Berlusconi è colpevole o vittima di un progetto di delegittimazione? La magistratura non è stata in grado di dare certezze a chi, al di fuori di atteggiamenti giacobini o garantisti, cerca la verità, mettendo ancora una volta a nudo la propria impotenza. Nel suo diario Di Pietro descrive come Berlusconi, mentre da un lato lo alletta con proposte di ministeri e altro, dall’altra gli lancia contro veri e propri siluri destinati alla sua delegittimazione: il dossier Abusi D.P., trovato in casa della ex moglie di Paolo Berlusconi, il “testamento” di D’Adamo, il memoriale di Giancarlo Gorrini, la cassetta fatta registrare da Berlusconi durante un suo incontro con Antonio D’Adamo.
La Procura di Brescia apre una serie di indagini nei confronti di Di Pietro e un’ispezione ministeriale, voluta da Biondi nell’ottobre 1994, indaga su presunte violazioni delle regole processuali da parte del pool di Milano. Il 6 dicembre 1994, a chiusura della sua requisitoria sul processo Enimont, Di Pietro si toglie la toga in diretta televisiva. Il pm si mette fuori ruolo e nel giugno 1995 si dimette definitivamente dalla magistratura. Le ragioni “reali” di queste dimissioni non sono mai state chiarite, quello che è certo è il suo repentino passaggio dalla magistratura alla politica. Dai 27 capi d’accusa contestati l’ex magistrato verrà completamente assolto per insussistenza dei fatti; i famosi «assi nella manica» di Craxi e le «rivelazioni terrificanti» di Berlusconi si riveleranno inesistenti.
Il 14 settembre 1995 Massimo D’Alema, da presidente del Consiglio, riceve un’informazione di garanzia da parte del sostituto procuratore di Venezia, Carlo Nordio. L’accusa è di essere stato al corrente, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, con il segretario Occhetto, di finanziamenti irregolari provenienti dalle “cooperative rosse”. Per Nordio, però, non vale il teorema del “non poteva non sapere”, usato da Di Pietro per accusare Craxi e Berlusconi. Nordio vuole prove e riscontri cosicché, l’11 novembre 1998, i due imputati vengono prosciolti con un memoriale che rinvia a giudizio un centinaio di persone accusate di finanziamenti illeciti al Pci. Nel memoriale si afferma: «È stata acquisita la prova che il Pci-Pds disponeva di persone di assoluta fiducia, incaricate dell’acquisizione di contributi e della loro gestione finanziaria illegale e clandestina, attraverso sistemi di accantonamento e occultamento all’estero di fondi […] È stata acquisita la prova che il Pci-Pds dispone di un immenso patrimonio immobiliare, gestito attraverso cosiddetti fiduciari o mandanti senza rappresentanza, che nel linguaggio corrente si dicono prestanome. La sua estensione è assolutamente incompatibile con le elargizioni ordinarie dei simpatizzanti e ancor più con i bilanci ufficiali del partito […]». D’altra parte il potere delle cooperative rosse era noto alle imprese che operavano con la Pubblica Amministrazione. Alle cooperative veniva destinato il 20% degli appalti banditi dalla PA e dagli enti locali e il Pci vigilava perché questo “patto” fosse rigorosamente rispettato. Nel settembre 1999, The Penguin Press pubblicherà in Gran Bretagna The Mitrokhin Archive. The Kgb in Europe and the West, il memoriale di Mitrokhin, archivista del Kgb per trent’anni. Nel libro si parla dell’attività spionistica effettuata in Italia dal Kgb attraverso il Pci, e del flusso di dollari che il Pcus faceva pervenire ai comunisti italiani. Secondo Valerio Riva, che ha avuto accesso a documenti del Pcus, tra il 1950 e il 1991 il Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie di sinistra ha distribuito in Italia, tramite il Kgb, 899 miliardi al Pci (a lire ‘99), 40 al Psi del periodo frontista, 32,5 allo Psiup, 9,5 alla Cgil, 6,5 alla corrente di Cossutta, 1 miliardo alla corrente di Lelio Basso. Inoltre, secondo i calcoli di Riva, tra il 1950 e il 1987 le società legate al Pci avrebbero incassato attorno ai 6.000 miliardi di lire, con le sole provvigioni di intermediazione per le esportazioni italiane verso l’Urss (Riva, 1999).
Un effetto di “Tangentopoli” sarà, purtroppo, un concatenarsi di suicidi. Nel giugno 1992 Renato Amorese, ex segretario del Psi di Lodi, si spara alla testa dopo aver scritto di sentirsi «fortemente prostrato e consapevole dell’errore commesso» e del disonore procurato alla famiglia. Il 2 settembre 1992 il deputato socialista bresciano Sergio Moroni si uccide con un fucile da caccia; nella sua lettera di commiato fa un’amara diagnosi del sistema nel quale si era trovato invischiato, asserendo che un velo di ipocrisia aveva coperto per lunghi anni l’illecito finanziamento dei partiti, che molti potevano aver approfittato dei finanziamenti per interessi personali, ma respinge per sé la qualifica di ladro. Il 25 giugno 1993 Antonio Vittoria, preside della facoltà di Farmacia di Napoli, si avvelena nel suo ufficio, poiché implicato nella “malasanità” del ministro De Lorenzo e del direttore del Servizio farmaceutico del ministero della Sanità, Duilio Poggiolini; lascerà scritto: «Gli inganni e le adulazioni di questo esercito di ricchi e miseri uomini, le mie debolezze, mi hanno fatto perdere di vista la posta in gioco. Perciò ora pago». Il 20 luglio 1993 si suicida in carcere l’ingegner Cagliari, ex presidente dell’Eni, implicato nello scandalo Enimont; nel corso dei 133 giorni di carcere, egli aveva ammesso che durante la sua gestione, l’Eni aveva versato a DC e Psi 27 miliardi di tangenti. A Di Pietro era bastato. A Fabio De Pasquale, no. Cagliari aveva raccontato a quest’ultimo di tangenti al Psi sulle polizze della Sai di Ligresti per i dipendenti dell’Eni; il magistrato aveva negato la scarcerazione. In una lettera, lasciata a futura memoria, Cagliari scrive: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica». E, dopo una serie di duri attacchi alla magistratura, continua: «Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa giustizia, rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione». La moglie di Cagliari restituirà i soldi che il marito aveva nascosto in Svizzera su conti correnti segreti. Tre giorni dopo il suicidio di Cagliari, Raul Gardini si spara a una tempia nella sua abitazione; stava per essere raggiunto da un avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta Enimont, mentre il gruppo Ferruzzi, da lui pilotato per anni, è avviato verso il crack finanziario. Gardini era un uomo che giudicava normali le imprese forti, rare e rischiose; in un’orgia di onnipotenza aveva affermato: «La chimica sono io». Forse una vita come la sua, così esposta alla trasgressione, non poteva finire diversamente. Tutte queste morti, così ravvicinate e così simili nelle loro ragioni, fanno montare l’indignazione dell’establishment e della sua “corte” nei riguardi dei giudici di Mani pulite e degli organi di informazione; molti parlano di fumus persecutionis. Affermerà Montanelli: «Ad ogni suicidio seguiva un rigurgito di garantismo, e un’ondata di deprecazioni per i metodi di “Mani pulite”. […] L’opinione pubblica pensava a tutt’altro modo. Non la turbava più che tanto né i suicidi, né la galera, né le manette. Voleva vendetta». La gente poi, che alla nascita dell’ente petrolifero di Stato faceva giustamente risalire l’avvio della corruzione pubblica, era particolarmente indifferente alle morti eccellenti o alle galere dei suoi boiardi.
Per concludere è evidente che in Italia, per un lungo periodo, politica e imprese hanno viaggiato su due binari paralleli. Gli accordi stilati tra il mondo della finanza e la classe politica del dopoguerra prevedevano che lo Stato non intervenisse nelle logiche d’impresa e che l’impresa non interferisse con la politica, accettando anche una forte presenza di aziende pubbliche in cambio del sostegno alle aziende private in difficoltà. Per un certo periodo i partiti si sono accontentati delle rimesse provenienti dalle aziende pubbliche. Ma il denaro necessario per mantenere i sempre più costosi apparati di partito, per sostenere le sempre più costose campagne elettorali, per contrapporsi al Pci, foraggiato dall’Urss e dalle sue cooperative, non basta più. Si apre un secondo periodo, i due binari iniziano a intersecarsi e le aziende incominciano a pagare piccole dazioni su ogni appalto pubblico – si va dal 2-3 al 5% del valore dell’appalto – o su ogni atto che richieda un’autorizzazione pubblica. Tra gli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta inizia una nuova fase. Le tangenti salgono vertiginosamente al 10-20% e non servono più solo per il finanziamento dei partiti, ma anche per gli arricchimenti personali di politici e faccendieri. Il patto dei binari separati non è più valido e inesorabilmente, prima o poi, i treni dell’impresa e della politica si scontrano lasciando sul terreno i resti di quella che viene chiamata Prima Repubblica. A proposito del pool di Milano giova ricordare quanto scritto da Montanelli: «Nell’azione del pool di Mani pulite gli incontestabili meriti furono associati a un esibizionismo, un presenzialismo, un decisionismo, una smania di notorietà e di potere che poco si conciliavano con la discrezione cui il magistrato deve attenersi. L’Italia ebbe i magistrati divi, vaganti con scorta da un convegno a una presentazione di libro (loro), da una première a un talk-show televisivo» (Montanelli (2000). Sfortunatamente per il Paese questa smania di protagonismo contagerà molti magistrati in cerca di facile notorietà; non pochi passeranno dalla passerella della magistratura mediatica a quella della politica.

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4 settembre 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.


Tratto da

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www.impresaoggi.com