GB: i laburisti sulla strada di Syriza e Podemos.


Partecipiamo alle sventure degli amici non piangendoci sopra, ma dandosi da fare.
Dal gnomologio vaticano epicureo


Per spiegare la novità della politica britannica conviene fare qualche passo indietro, ritornando al 15 giugno scorso. Sono passate alcune settimane da quando è iniziata la campagna per eleggere il nuovo leader del Labour, ed ecco che un semisconosciuto parlamentare che si chiama Jeremy Corbyn viene scelto come candidato da un manipolo di parlamentari che appartengono all’ala sinistra del partito. Una candidatura di testimonianza?
L’ultimo arrivato nella competizione per succedere a Ed Miliband è un backbencher (deputato senza incarichi) che non ha esperienze di governo, e all’apparenza non si cura troppo della propria immagine. Dalle prime foto che appaiono sulla stampa internazionale si direbbe che abbia l’aspetto di uno di quei signori inglesi che vanno a godersi la pensione in Spagna o in Portogallo. Altro che Cool Britannia! Per partecipare alla consultazione aperta ai non iscritti (ebbene sì, anche a Westminster fanno le primarie) il meschino ha perfino bisogno di ottenere il sostegno di ben quindici parlamentari che non appartengono alla sinistra, ma mostrandosi fedeli alle tradizioni sportive d’oltremanica, offrono generosamente il proprio voto per “allargare il dibattito”. Insomma questo Corbyn sembra proprio l’odd man out, la volpe zoppa che ben presto verrà sbranata dalla muta scatenata dai media sulle tracce del gruppo da cui potrebbe un giorno venir fuori il prossimo Primo ministro del Regno Unito.
Passano alcune settimane, siamo al 15 luglio, e arriva la prima sorpresa. Unite, il sindacato che è anche il più importante finanziatore del Labour, annuncia il proprio sostegno per Corbyn. Seguito a ruota da altre organizzazioni dei lavoratori, come Cwu e Unison. Già, perché il New Labour aveva abolito il voto collettivo delle Trade Unions, ma questo non impedisce certo agli iscritti, o comunque ai simpatizzanti dei sindacati, di registrarsi per partecipare al voto. Qualcuno comincia a pensare che forse l’ultimo arrivato che nessuno prendeva sul serio potrebbe avere qualche chance. La sensazione si rafforza quando, il 20 luglio, Corbyn vota in Parlamento contro il Welfare Bill proposto dal governo Conservatore. L’indicazione del Partito è di astenersi. Diversi parlamentari, e persino un candidato alla leadership, non sono convinti che sia una buona idea, ma alla fine nessuno, tranne l’odd man out, ha il coraggio (o l’astuzia) di disobbedire. Risultato: chi vorrebbe un Labour meno subalterno rispetto ai Conservatori comincia a guardare con interesse crescente a Corbyn. Uno capace di andare contro gli apparati per “fare la cosa giusta”. A questo punto la faccenda si fa seria. Come si dice da quelle parti: when the going gets tough, the tough get going. Entra in campo Tony Blair, che il 22 luglio tiene un discorso (ripreso dall’«Unità» e dal «Corriere della Sera») in cui mette in guardia gli elettori che potrebbero avere la tentazione di votare per un candidato di sinistra.
L’ex Primo ministro, il cui istinto si è un po’ appannato con il passare degli anni, si avventura su un registro che non è mai stato il suo forte, l’umorismo: “if your heart is with Corbyn, get a transplant”. Una battuta che suona fastidiosamente patronising se rivolta a un pubblico di adulti in possesso dei diritti civili. Non contento, Blair interviene ancora altre due volte, seguito da buona parte delle figure di spicco del New Labour. L’effetto di questo sbarramento di fuoco, che riceve ampio rilievo anche in Italia, è catastrofico. Se il 22 luglio, quando Blair si lascia andare al suo umorismo cardiologico, Corbyn risulta già in testa, in un sondaggio YouGov, con il 43% delle preferenze, una ventina di giorni dopo, grazie al contributo dei reduci del New Labour, è balzato al 53% e destinato a crescere ancora. Forse è ancora presto per concludere che “il resto è storia”, ma circa il 59% dei consensi, più di quanti ne abbia mai ricevuti Blair, e 15.000 nuovi iscritti per il partito a poche ore dall’annuncio della vittoria di Corbyn, sono senza dubbio risultati non disprezzabili per l’odd man out che correva per esserci, non per arrivare primo.
Se si osserva con una certa attenzione, senza farsi condizionare troppo dalle proprie preferenze politiche, non è difficile spiegare quali fattori potrebbero aver contribuito a un successo così massiccio e inatteso. Un ruolo molto importante l’ha avuto l’economia. Corbyn ha rotto nettamente con l’orientamento del New Labour ad assecondare le tendenze del capitalismo senza metterle mai in discussione, nemmeno in linea di principio. Un atteggiamento che ha finito per oscurare alcune policies egualitarie messe in atto anche dai governi Blair. Durante la campagna, una certa ironia ha provocato a un certo punto il fatto che gli altri quattro candidati sembrassero litigare soprattutto sulla questione di chi incarnasse la tendenza più “pro business” del Labour. Non c’è bisogno di essere un bolscevico per rendersi conto che, per un partito che si dice di sinistra, tanto zelo nel sostenere il Capitale appare eccessivo. Soprattutto in un momento in cui a Downing Street c’è uno dei governi più amichevoli nei confronti del business della storia recente. Alle persone che l’hanno votato, Corbyn è apparso verosimilmente l’unico candidato che prendesse sul serio il problema posto dalle crescenti diseguaglianze e dal declino economico della classe media. Vale la pena di sottolineare che la piattaforma economica di Corbyn contiene anche proposte che, come ha sostenuto Lord Skidelsky (anche lui tutt’altro che un bolscevico), sono in sintonia con la revisione profonda in corso, da parte di diversi economisti, di alcune delle assunzioni che hanno guidato le scelte di policy degli ultimi anni, in particolare dopo lo scoppio della crisi economica. Un’altra voce che si è levata per difendere Corbyn dall’accusa di essere eccessivamente radicale è quella, ben nota nel nostro Paese, di Mariana Mazzucato, che ha firmato un documento insieme a decine di altri economisti. Così come non bisogna trascurare il fatto che alcune tra le proposte di Corbyn hanno un certo consenso popolare, in particolare quella di rinazionalizzare le ferrovie (secondo un sondaggio YouGov avrebbe il favore dell’84 % degli elettori del Regno Unito, e la cosa non meraviglia affatto).
Certo è molto difficile immaginare che il Labour vinca le elezioni politiche esclusivamente su una piattaforma di riforme economiche radicali. A differenza di Cameron e Osborne, che hanno deciso di scommettere sul ruolo di Londra come hub finanziario, Corbyn non sembra avere un’idea chiara del futuro del Regno Unito in un mondo caratterizzato da una competizione globale sempre più dura. Senza proposte credibili sul piano della crescita, e con le misure espansive di tipo keynesiano tradizionale che si presentano ardue da praticare nel contesto attuale, il programma del Labour corre il rischio di rimanere a livello delle ipotesi di scuola. Anche il sostegno di alcuni sindacati, terrorizzati dalla legislazione sfavorevole messa in cantiere dai Conservatori, non appare sufficiente per superare questo problema. Maggioritario nel partito, e tra i simpatizzanti, Corbyn corre il rischio di rimanere ai margini della politica britannica. Specie se dovesse dar seguito ad alcune delle idee che in passato ha espresso in politica estera. Sotto questo profilo c’è qualcosa di vero nel commento di Andy MacSmith che ha scritto che il problema di fondo della leadership di Corbyn sarà fare i conti con i vincoli posti dalla necessità di ampliare i consensi del partito senza tradire i principi cui fino a ora è stato fedele dalla posizione, sotto questo profilo comoda, di backbencher. Oltretutto, sapendo di non poter contare sulla lealtà dei parlamentari centristi, che saranno pronti a ricordargli tutte le volte in cui in passato ha votato contro le indicazioni del partito.
Stiamo dunque per assistere al suicidio del Labour come sostengono i nostalgici di Blair? È presto per dirlo. Come mostra il caso Tsipras, la politica riserva spesso sorprese. Quel che è certo, è che da Londra arriva un segnale molto forte per tutti i partiti della sinistra europea. Gli anni Novanta sono finiti. Viviamo tempi nuovi. Incerti, difficili, duri, talvolta cattivi. Limitarsi a riproporre meccanicamente le ricette di un’epoca di relativa prosperità, in cui si poteva aver fiducia nel fatto che ci fosse enough and as good per ciascuno è un’illusione pericolosa.

Mario Ricciardi - da www.rivistailmulino.it - 16 settembre 2015

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