La provvidenza da Seneca al Manzoni.


Marcet sine adversario virtus.
Seneca, De providentia


Prima di commentare il De Providentia di Seneca vorrei ricordare che il Manzoni ha affrontato il concetto di provvidenza divina in molte delle sue opere. Ritengo, pertanto interessante, ricordare il significato che la provvidenza cristiana aveva per il Manzoni per confrontarla con quella stoica senecana.

Le numerose occorrenze della parola provvidenza nei Promessi sposi mostrano come l’interrogativo attorno all’azione di Dio nella storia rappresenti un punto nodale della riflessione manzoniana. Definire quest’opera “il romanzo della Provvidenza” non è pertanto scorretto, essendo innegabile che lo scrittore desiderasse offrire, attraverso il racconto dei casi di Renzo e Lucia, una meditazione sulle vicende umane alla luce della verità cristiana. A riprova di questa osservazione iniziale, si deve leggere il romanzo, abbracciando, com’è necessario, la Storia della Colonna infame, nella quale troviamo, infatti, un passo in cui Manzoni, senza mezzi termini, definisce «bestemmie» e «deliri» «negar la Provvidenza, o accusarla». Secondo il Manzoni, dunque, Dio opera nel mondo a fin di bene. Scorrendo però le occorrenze del vocabolo in questione all’interno del romanzo, notiamo che il discorso si fa complesso e che, nei Promessi sposi, la parola provvidenza viene ad assumere molti significati, essendo usata a proposito o a sproposito dai vari personaggi; a sproposito quando è citata come rimedio ad ogni evento, a proposito quando essa p un atto di fede in Dio.
Leggiamo, per esempio, la pagina nella quale il Governatore di Milano decide di lasciar entrare le truppe dei Lanzichenecchi nel capoluogo lombardo, pur essendo stato avvisato che, in tal modo, si sarebbe potuta diffondere tra la popolazione la peste. Informato del pericolo che si correva il Governatore don Gonzalo, «rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali s’era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza».
La profondità del cristianesimo manzoniano nega ogni semplicistica identificazione dei fatti storici (come le prepotenze, la peste, gli untori) con l’azione di Dio, essendo l’uomo sempre offuscato, nella lettura di questi avvenimenti, dalle proprie idee, dal suo egoismo, dai suoi timori. Il soggetto morale, in sostanza, mosso dalle passioni, rischia di confondere la volontà di Dio con la propria. Manzoni rappresenta questa inclinazione mentale attraverso il personaggio di donna Prassede, la quale «diceva spesso agli altri e a sé stessa [che] tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello».
Possiamo rintracciare un esempio ulteriore di questa distorsione intellettuale, leggendo il capitolo XIV del romanzo, nelle parole di Renzo, alterato, nella sua facoltà di giudizio, dalla baldanza dell’orgoglio di capopopolo e dai fumi dell’alcool all’osteria della Luna Piena: «“Al pane,” disse Renzo, ad alta voce e ridendo, “ci ha pensato la provvidenza”. E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: “ecco il pane della provvidenza!”». Nello sviluppo delle vicende narrative – come sappiamo – tale euforia costerà cara al povero Renzo.
Neppure Lucia pare sempre in grado di discernere la volontà di Dio nella trama degli avvenimenti: nel capitolo XXIV, infatti, la giovane donna attribuisce il forzato esilio di Renzo al volere della Provvidenza, la quale verrebbe così ad aiutarla, separandolo da lei, nell’adempimento del voto di verginità fatto al castello dell’innominato. In realtà, il voto di Lucia non riflette il volere divino e infatti potrà essere dichiarato nullo alla fine della narrazione, da parte di padre Cristoforo, perché nel prendere una decisione riguardo alla sua vita futura la giovane non poteva prescindere dai disegni di Renzo, cui si era promessa.
Dobbiamo chiarire, tuttavia, che se il giudizio umano nella lettura degli accadimenti è spesso turbato dalle passioni o da particolari frangenti, nondimeno, come abbiamo visto all’inizio citando la Storia della Colonna infame, secondo il Manzoni si può, anzi, si deve credere nella Provvidenza. Essa, però, non sarà più l’immediato appagamento di desideri contingenti o una pronta corazza da indossare in caso di pericolo, ma una fonte di fiducia e di speranza per chi è persuaso, nella fede, che Dio collabora attivamente alla felicità delle creature che confidano in Lui, e che anche il male e la sofferenza possono essere accolti e tollerati.
Leggendo I promessi sposi, troviamo tale capacità di abbandono a Dio sulla bocca dei piccoli (in senso evangelico, beninteso), ossia nelle parole del bambino, dell’uomo religioso, del semplice.
Segnaliamo, in questo senso, un’altra occorrenza del nostro vocabolo in margine a Menico: è solo una battuta la sua, un’interiezione comune e tuttavia degna di essere ricordata. Quando il «garzoncello» incontra Renzo, Lucia e Agnese, dopo il fallito tentativo del matrimonio a sorpresa, informandoli di aver trovato nella casa di Lucia i bravi di don Rodrigo, esclama: «Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori» (cap. VIII). Si ricordino inoltre, in tale orizzonte d’idee, le parole di consolazione che padre Cristoforo rivolge agli afflitti Renzo, Lucia e Agnese nella notte in cui stanno per lasciare il borgo nativo: «Vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati» (cap. VIII). In uno dei momenti più dolorosi del romanzo, all’inizio di tante disavventure, incontriamo paradossalmente un’alta professione di fede, dalla quale emerge un nuovo insegnamento del romanzo manzoniano: se un personaggio parla di Provvidenza nelle situazioni più buie, quando sembra non rimanere alcun punto d’appoggio per l’esistenza e il domani pare completamente offuscato dal dubbio, in quel momento il suo discorso è veritiero. La Provvidenza, in sostanza, è certamente a proposito sulla bocca dei personaggi nel momento in cui le loro vicende sembrano essere senza via d’uscita e quando tutte le umane certezze sono crollate.
Nel romanzo troviamo un esempio ulteriore a sostegno di tali considerazioni leggendo i passi in cui Renzo si affida alla Provvidenza, durante la sua fuga da Milano, come analogamente interessante è la nota esclamazione «La c’è la Provvidenza» (cap. XVII), pronunciata nell’istante in cui, una volta oltrepassato l’Adda, Renzo offre a una famiglia indigente il poco denaro che gli era rimasto: la sua fede è così grande, che non teme di perdere quel poco che possiede, rendendosi pertanto strumento della Provvidenza. Il suo gesto presuppone infatti uno spirito di totale affidamento. Peraltro, tanta fiducia e disponibilità verranno presto premiate, quando il cugino Bortolo gli assicurerà il suo aiuto e il suo sostegno anche economico, in ossequio a un limpido precetto morale: «Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene»; al che il giovane risponderà: «L’ho detto io della Provvidenza!» (cap. XVII), mostrando quanto fosse ben riposta la sua speranza. E gli farà eco, al termine del capitolo, lo stesso narratore, confermando che la pronta, affettuosa, accoglienza riservata dal cugino al povero Renzo, transfuga e nullatenente, «fu veramente provvidenza». È importante sottolineare che in questo caso Manzoni non si trincera dietro un personaggio, ma esce allo scoperto, proclamando, sia pur sommessamente, la sua fede nel soccorso divino.
Seguendo le peripezie di Renzo, incontriamo poi altri richiami alla Provvidenza in occasione del suo secondo ingresso a Milano, quando, scambiato per untore, scampa al linciaggio della folla che lo insegue saltando su un carro dei monatti: «Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricever male né farne»; e poco dopo: «Questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l’ebbe per un tratto speciale della Provvidenza» (cap. XXXIV). Questo riconoscimento, senz’altro legittimo e teologicamente corretto, non toglie, tuttavia, che Renzo debba compiere, dal canto suo, una volta giunto nel Lazzaretto, una faticosa purificazione interiore, quando padre Cristoforo, dopo avergli fornito le istruzioni necessarie per ritrovare la sposa promessa, lo esorta alla perseveranza e, nello stesso tempo, alla rassegnazione, dicendogli: «Va ora […], va preparato sia a ricevere una grazia, sia a fare un sacrificio; a lodar Dio, qualunque sia l’esito delle tue ricerche. E qualunque sia, vieni a darmene notizia, noi lo loderemo insieme» (cap. XXXV). Il momento è di certo fondamentale nell’economia del romanzo, essendo Renzo chiamato ad abbandonare ogni cupo proposito di vendetta e a non accampare alcuna “pretesa” nei confronti di Lucia, per disporsi ad accogliere davanti a Dio e grazie a Lui le gioie e le sofferenze.
Solo riflettendo su questo cammino interiore, possiamo comprendere in profondità il finale del racconto manzoniano, ossia il matrimonio dei promessi sposi. Un finale che si può ritenere indubbiamente positivo, poiché, se l’uomo giunge alla consapevolezza che la fiducia in Dio può addirittura raddolcire le sofferenze e renderle utili per una vita migliore, quell’uomo può dirsi senz’altro felice, almeno per quel tanto che è possibile esserlo su questa terra.
La fede nella Provvidenza, per Manzoni, significa dunque sviluppare un pensiero credente e sperante che legge nell’esistente la traccia di un dono e la promessa di un compimento. Nella storia dell’umanità, l’ultima parola non spetta né alla violenza né alla sofferenza. La fiducia nella Provvidenza è la certezza che tutto concorre al bene degli “uomini che Dio ama”.

Il De providentia è il primo dei dialoghi senecani che io tratto per ultimo perchè ritengo che sia quello che meglio ci faccia comprendre l'etica degli stoici. Seneca sostiene che sono gli uomini a chiamarle avversità, esse, in realtà, sono avvenimenti con i quali gli dei mettono alla prova la morale degli uomini. Di conseguenza il saggio accetterà le sventure con animo lieto.
Seneca affronta il problema del perché le disgrazie tocchino agli uomini onesti e buoni, se esiste la provvidenza divina. Esiste, a parere di Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Quindi la realtà è buona e nient’affatto priva di significato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti, mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? La risposta che Seneca si sente di dare a questo angosciante interrogativo è che la sofferenza è esercizio che Dio ci infligge perché la virtù umana possa esistere e fortificarsi; quindi è un bene. Il male, le avversità, il dolore, la sofferenza sono prove a cui l’uomo forte e onesto risponde con fermezza; sono esercizi cui si sottopone anche volentieri, non diversamente dagli atleti, dai soldati, dai gladiatori; perché “senza un avversario la virtù infiacchisce”. E come i padri spartani sono severi coi figli che fanno sudare e anche piangere, così Dio, come un padre che ama fortemente i figli, dice: “Siano sottoposti a fatiche, dolori e danni perché acquistino la vera forza”. Nessuno è più infelice di colui al quale non è mai accaduto qualche male. Perché solo la cattiva fortuna rivela grandi esempi di virtù (come fu il caso di Muzio Scevola), la cattiva fortuna che sveglia le forze dell’animo e lo spinge a sperimentarsi, a plasmarsi, a forgiarsi: “La prosperità tocca alla plebe e alla gente bassa; è proprio dell’uomo grande sottomettere le calamità e i terrori che affliggono i mortali”. Non avere sperimentato il dolore è ignorare rerum naturae alteram partem, l’altra faccia della natura, l’altra parte della condizione umana. La disgrazia, ribadisce, è occasione di virtù; e il veterano della vita sa affrontare mali e sofferenze con serenità e coraggio.
E dunque, esorta Seneca: “Evitate i piaceri, fuggite una felicità che infiacchisce e in cui gli animi si indeboliscono e, se non interviene qualcosa che li metta in guardia sull’umana sorte, marciscono come intontiti da una perpetua ebbrezza.” Perché chi si abitua alla mollezza cadrà al primo soffio di vento; peraltro la sorte ama i più forti e s’accanisce contro di loro per rivelare la loro fortezza: li renderà a poco a poco simili a lei e l’assiduità dei pericoli procurerà loro lo spregio dei pericoli stessi.
Dio o gli dèi – come Seneca dice alternando tranquillamente politeismo tradizionale e tendenze monoteistiche e teistiche – è simile all’uomo buono, che differisce da lui soltanto perché soggetto al tempo. Dio, come un padre spartano, sottopone i figli a dure prove perché li vuole liberi; così noi facciamo coi figli che vogliamo provati e sperimentati. Vuole che l’uomo buono somigli a lui, cioè sia ugualmente imperturbabile. Egli gode delle prove di un Catone, perché ne apprezza l’eroico duello col destino, la virtù pagata con la morte: con la sua mano si è aperta la strada larga della libertà: “Perché gli dei non dovevano volentieri guardare il loro allievo uscire dalla vita in modo così nobile e memorabile?” “Che c’è da meravigliarsi se Dio mette alla prova duramente gli spiriti generosi? Mai la rivelazione della virtù è cosa agevole. La fortuna ci sferza e lacera? Sopportiamo: non è crudeltà, è lotta.” E riportando le parole di Demetrio: l’uomo buono prega di poter conoscere anticipatamente la volontà degli dèi, se fosse possibile, per eseguirla, con tutti i mali che eventualmente comporta. Perché la qualità dell’uomo virtuoso è di offrirsi a Dio, cioè all’ordine delle cose. In definitiva, il fuoco prova l’oro, l’infelicità gli uomini forti (ignis aurum probat, miseria fortes viros)”.

In buona sostanza la Provvidenza manzoniana è una fonte di fiducia e di speranza per chi è persuaso, nella fede, che Dio collabora attivamente alla felicità delle creature che confidano in Lui, e che anche il male e la sofferenza possono essere accolti e tollerati. La Provvidenza senecana è rappresentata da avvenimenti con i quali gli dei mettono alla prova la morale degli uomini; solo l'uomo saggio e virtuoso saprà superare tali prove.

Eugenio Caruso - 23 novembre 2015

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