Usa ed Europa a confronto per combattere l'ISIS


Moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte di vita.
Seneca. Lettere morali a Lucilio

Quest'anno segna il ventesimo compleanno della rivista Aspen Institute Italia, fondata da Giuliano Amato e da molte altre delle persone che ancora siedono nel board dell’Istituto. Questo riportato su IMPRESQA OGGI è un articolo particolare, che ripropone alcuni dei saggi e delle conversazioni pubblicati in passato; aggiungendovi nuove analisi sul futuro. Come si potrà vedere, emerge il carattere di una rivista dedicata anzitutto a riflettere sulle sorti dell’Occidente nel contesto globale.
Per Europa e Stati Uniti, il primo ventennio a cavallo degli anni Duemila segna il passaggio all’età della Grande Incertezza. Fattori economici e tecnologici, crisi internazionali, pressioni demografiche e migratorie, sfida del terrorismo islamista si combinano producendo questo risultato: la vulnerabilità delle democrazie occidentali, dominate da una sfiducia crescente fra cittadini ed élite. La risposta è che, proprio nella fase della Grande Incertezza, resta essenziale salvaguardare il rapporto fra un’Europa che rischia la disgregazione e un’America che sogna l’introversione. Non sarà affatto semplice. Perché Europa e Stati Uniti devono seriamente ripensarsi.
In che direzioni? Dopo uno shock come il 13 novembre di Parigi, gli europei devono finalmente considerare la sicurezza come una scelta concreta, costosa (la sicurezza è un bene pubblico che richiede investimenti, con conseguenze inevitabili anche sugli accordi fiscali nell’ue) e terribilmente seria. Per più di mezzo secolo, le circostanze storiche ci hanno abituato a delegare ad altri – in gran parte agli alleati americani – la protezione dei nostri cittadini. È ormai chiaro, in modo drammatico, quanto ciò non sia più possibile. Da questo punto di vista, la decisione di attivare per la prima volta, su richiesta francese, la clausola di “difesa reciproca” contenuta nei Trattati europei (articolo 42.7), è stata una decisione politicamente importante. È un simbolo: gli europei hanno riconosciuto così che “l’aggressione armata” al territorio di uno dei loro paesi (questo l’innesco di un articolo che ricorda, nelle ambizioni ma non ancora nelle implicazioni, l’articolo 5 della nato) è un attacco all’Europa nel suo insieme.
Dalla Francia – il cui parlamento mandò a monte, nel 1954, la nascita della Comunità europea di Difesa – è venuta quindi una richiesta esistenziale. Se la risposta dei suoi partner non resterà soltanto sulla carta (per ora è così), ciò potrebbe segnare il passaggio verso un continente capace di unirsi, invece che dividersi nuovamente, di fronte a una minaccia comune. Lo scenario della disunione sembra oggi più forte che mai, come risultato della crisi finanziaria prima, della pressione migratoria poi, e infine degli attentati in Europa – a nome dell’isis, più che di Allah. Ma se è vero che l’Europa si fa e si disfa attraverso le crisi, tutto ciò potrebbe invece determinare gli incentivi per costruire un’Unione che regga alle sfide di oggi, non di ieri. Confederale e più flessibile come impianto generale, anche per tenere la Gran Bretagna ancorata al mercato unico (una Gran Bretagna in bilico tra collaborazione più stretta sulla sicurezza e Brexit, a pochi mesi dal suo referendum); ma anche più integrata sul piano economico all’interno della zona euro (unione bancaria, unione fiscale, investimenti nei beni pubblici comuni). Certamente serve un’Unione con una politica di sicurezza ben più cooperativa – in questo caso dire integrata è decisamente troppo visti gli istinti comunque “sovranisti” di Parigi e Londra e la prudenza in materia di difesa di Berlino. A grandi linee, questa è l’Europa di cui avremmo bisogno; al posto di quella di oggi ma anche di illusorie soluzioni nazionali o locali. Se questa via fallirà, la disgregazione europea investirà anche gli Stati nazionali (dal Regno Unito alla Spagna).
Costruire l’Unione della sicurezza richiede varie condizioni: dallo scambio di intelligence al controllo delle frontiere esterne europee – fino a impegni militari condivisi. Nessun attore politico coerente è mai riuscito, ricordiamolo, a sopravvivere a confini labili; e neppure a un atteggiamento esclusivamente difensivo, cioè senza capacità di agire all’esterno con una strategia degna di questo nome (politica e militare). Una vera Unione della sicurezza impone poi un ripensamento selettivo delle relazioni con la Russia (parte necessaria della coalizione anti- isis). E ha come premessa una radicale revisione della politica occidentale nel Mediterraneo allargato. La guerra del preteso Califfato del “Siraq” fa parte – va capito anzitutto questo – di una sorta di guerra dei trent’anni nel Medio Oriente post-Pax americana. È una guerra fatta di scontri fra sciiti e sunniti, fra parti diverse del mondo sunnita, e fra potenze regionali in competizione (Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo). Guerra civile interna al mondo musulmano e guerre per procura, dallo Yemen alla Siria. Avere chiaro questo punto è essenziale. Lo è altrettanto essere consci che il fronte europeo-occidentale è un fronte collegato: sconfiggere lo Stato islamico in Medio Oriente, attraverso una coalizione che deve includere Usa, Russia e potenze regionali, resta una condizione necessaria per battere il terrorismo islamista in Europa. Una condizione necessaria e al tempo stesso non sufficiente, se priva di una visione politica a lungo termine che sembra ancora mancare, sia per ciò che riguarda i futuri equilibri mediorientali (la revisione di alcuni confini novecenteschi potrebbe essere una soluzione?), sia per quel che riguarda il rapporto con le comunità islamiche in Europa (come si costruisce una integrazione reale?).
La strategia di sicurezza dell’ue deve insomma uscire da una fase “infantile” per occuparsi finalmente di “hard policy”, in cui rientrano scelte politiche difficili, fra cui la fine delle ambiguità sui nostri presunti alleati del Golfo (con massicci flussi illegali di denaro verso i movimenti jihadisti). Lo stesso vale per la scelta degli avversari e per i necessari compromessi (in discussione con Mosca e con Ankara, per restare al nodo cruciale della Siria).
Perché l’occidente sia nel nostro futuro, non solo nel nostro passato – come rientra negli interessi di entrambe le sponde dell’Atlantico di fronte al disordine globale – è decisivo che l’America voglia fare la sua parte. La convinzione è che gli Stati Uniti siano comunque rimasti, e rimarranno ancora, il perno di un sistema globale ormai privo peraltro di egemonie indiscutibili. In sostanza, non abbiamo mai creduto al declino assoluto e terminale della potenza americana, né all’ascesa inevitabile dei brics. Ciascuna delle nuove potenze soffre infatti di gravi carenze istituzionali e squilibri interni, il cui superamento non è affatto assicurato, come stanno a dimostrare le oscillazioni dei tassi di crescita e la “middle income trap” in cui si trova perfino la Cina.
Ma è in corso un’evoluzione profonda, e senza esiti scontati, del ruolo che gli Stati Uniti stessi intendono esercitare. Dai primi anni Duemila sono cambiate l’autodefinizione e la percezione esterna del “perno americano” su scala globale. Non solo perché Washington guarda ormai verso l’Asia, più che verso il vecchio Occidente (per quel che vale, lo conferma per ora la logica degli accordi commerciali, con la firma prioritaria del tpp – Trans-Pacific Partnership – rispetto al ttip, il nuovo accordo economico transatlantico che trova peraltro resistenze in Europa); ma anche perché Barack Obama è arrivato alla Casa Bianca (due volte) spiegando che l’America deve ora occuparsi soprattutto di sé per potere ancora essere forte e credibile all’estero.
Questo presidente ha in effetti incarnato il passaggio da una visione espansiva a una difensiva (potremmo dire conservativa) del ruolo americano. La fine della Pax americana in Medio Oriente ha lasciato dei vuoti di potenza; in assenza di un “balance of power” credibile fra attori regionali che in parte si combattono e in parte sfruttano la disgregazione dei vecchi confini statuali. Si aggiunge l’evidente crisi di sfiducia delle nostre società verso se stesse – e di cui è sintomo la crescita di pulsioni che definiamo, a ragione o torto, populiste. Il “soft power”, insomma, non è più vero potere se non poggia su un sostegno convinto dei cittadini, visto che si nutre anzitutto di percezioni, credibilità e reputazione. Se questa è la sfida complessiva, se minacce esterne e rischi interni si combinano, Europa e Stati Uniti devono riuscire nell’ordine a governare in modo molto più efficiente se stessi, a non perdere un rapporto reciproco preferenziale e a offrire un compromesso accettabile alle nuove potenze.
La democrazia liberale di mercato necessita, da molti punti di vista, di riforme sostanziali. Di un profondo ripensamento. Per interpretare le tendenze e i cambiamenti – magari intuendo anche qualche altro “cigno nero” – vanno prefigurati non solo gli sviluppi geopolitici ma anche alcuni temi trasversali, come le nuove tecnologie, con il loro impatto economico e sociale, o le grandi trasformazioni demografiche – ora esplose sotto forma di flussi migratori massicci e concentrati anche sull’Europa. Il mondo è letteralmente in movimento.
E in questa era di Grande Incertezza, è utile “prevedere” il passato mentre si scommette sul futuro.

16 dicembre 2015

EDITORIALE da www.aspeninstitute.it

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