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Fallimento dell'espropriazione dell'ILVA


La filosofia non accolse Platone perchè nobile, ma lo rese nobile
Seneca. Lettere morali a Lucilio
Renzi l’ha ribadito ieri con tono deciso: il governo italiano deluderà chi (leggi: Europa, India e Cina) punta alla chiusura dell’ILVA di Taranto. E il ministro Guidi ha firmato ieri stesso il decreto con il quale parte la gara per rilevarla. Tempi stretti: manifestazioni d’interesse da presentare entro il 10 febbraio. L’obiettivo è di comporre un quadro certo di nuovi azionisti entro la prima metà del 2016, come fissato dal nono decreto legge succedutosi negli ultimi tre anni e mezzo intorno alla tormentosa vicenda dell’imponente acciaeria tarantina. Un tempo, il primo impianto siderurgico europeo. Da quando – nel luglio 2012 – è cominciata la via giudiziaria dell’esproprio senza indennizzo ai soci privati, che l’avevano rilevata da uno Stato dilapidatore nell’acciaio di 27mila miliardi di lire solo negli ultimi 15 anni pre-privatizzazione, è invece diventata la storia di un clamoroso insuccesso di Stato. Un insuccesso-bis, dopo l’enorme distruzione di valore realizzata dallo Stato proprietario prima della privatizazione.
In nessun paese avanzato esiste l’analogia di un processo per disastro ambientale ad acciaieri privati – nel mondo, dagli Usa alla Germania alla Polonia alla Cina e all’India, l’acciaio si produce ancora con il carbone – che “parta”, ancor prima del processo, con l’esproprio dell’azienda. L’Italia si è inventata il codice penale come via sostituiva al diritto di proprietà, e ora ne paghiamo le conseguenze. Intendiamoci: l’accusa che muove la magistratura, la morte cioè di 174 persone tra il 2005 e il 2014, pretende un processo senza esclusione di responsabilità. Ma a tre anni e mezzo dagli arresti lo Stato non è arrivato neanche all’udienza preliminare. Nel frattempo l’impianto è in agonia. E abbiamo sommato quattro conseguenze una più grave dell’altro. Il colossale falò di risorse – nazionale, non solo aziendale – avvenuto grazie all’esproprio di Stato. Una procedura d’infrazione europea. Una pesante sberla da parte della magistratura elvetica. E aver fatto venire la tentazione a tutti i concorrenti mondiali di considerare chiusa la partita e finita la produzione italiana.
I danni sono ingentissimi. Tre mesi fa la Svimez ha stimato nei primi 2 anni e mezzo in almeno 10 miliardi di euro le conseguenze negative già accumulatesi. Una perdita secca di investimenti fissi lordi pari a 2,19 miliardi di euro. Una caduta dell’export di 4,45 miliardi di euro. Un aumento dell’import estero di acciaio per 1,78 miliardi, che nei primi mesi del 2015 è ulteriormente salito del 25%: da settembre scorso ormai importiamo più acciaio di quel che produciamo. Una perdita cumulata di consumi delle famiglie – 11.600 mila dipendenti a Taranto che salgono a 17 mila con l’indotto, 800 a Novi Ligure e 1.400 a Genova – pari a 1,45 miliardi di euro. E i 10 miliardi si superano sommando i 2,5 mliardi di patrimonio netto aziendale bruciati nei primi due anni e mezzo, a cui non sappiamo quanto altro sommare visto che su questo i commissari straordinari tacciono. L’azienda è stimata oggi perdere dai 35 ai 50-60 milioni al mese. A questi ritmi, seguendo il modello di stima SVIMEZ le risorse bruciate saranno pari a un punto di PIL.
La procedura d’infrazione europea per aiuti di Stato è arrivata due settimane fa, ma era pendente da mesi. Esattamente un anno fa, il governo faceva scrivere ai giornali di una newco imminente con intervento di privati italiani ed esteri e ruolo di garanzia di Cdp, che sarebbe partita sulla base di 800 milioni di garanzie pubbliche e 1,2 miliardi di capitale fresco da riversare all’attuazione dell’AIA e delle bonifiche. Quel miliardo e due doveva provenire dai conti privati dei Riva in Svizzera. Peccato che la magistratura elvetica tre settimane fa abbia – più che comprensibilmente – negato l’esproprio, sulla base dell’assoluta mancanza di garanzie che la devoluzione all’ILVA espropriata potesse essere considerato un atto legittimo, in assenza di qualunque condanna dei Riva stessi. Alla rogatoria chiesta dalla magistratura italiana, molti anche in Italia si erano interrogati sul carente presupposto di legittimità, ma il governo era rimasto sordo e aveva ritenuto di procedere. Dopo il no elevetico, ecco che gli esposti presentati a Bruxelles dai concorrenti europei dell’ILVA si sono tradotti in una procedura d’infrazione formale: a presentare gli esposti in prima fila i tedeschi di Wirtschaftsvereinigung Stahl, l’organizzazione che raggruppa gli imprenditori tedeschi dell’acciaio, ma anche la stessa Eurofer, l’associazione di siderurgici europei che ha visto la Federacciai italiana presieduta da Antonio Gozzi finire in assoluta minoranza. Nel mirino, 250 milioni pubblici di prestito bancario, poi altri 400 milioni di prestito ponte, e gli 800 milioni che il governo pensava di affiancare al miliardo e duecento milioni dei Riva. Inutile dire che, agli occhi dei concorrenti europei, chiudere l’ILVA definitivamente significa risolvere una bella fetta dell’eccesso produttivo di acciaio di cui soffre l’Europa nella frenata dei mercati mondiali. Con tanti saluti a Taranto, al nostro Sud disastrato, e alla ripresa italiana che a parole dovrebbe stupire il mondo.
Se questo riguarda il passato, a questo punto ci sono almeno quattro punti rilevanti per guardare al futuro, prendendo sul serio il governo. Primo: la gara di evidenza pubblica riguarda l’affitto a tempo degli impianti o la loro completa proprietà, separandoli nettamente in entrambi i casi dal passato e dai relativi contenziosi? Apparentemente, sembra che il bando riguardi più la rpima che la seconda ipotesi. Secondo: l’aggiudicazione riguarda l’ILVA com’è, oppure l’azienda divisa in pezzi? Terzo: quale sarà il ruolo di CDP nella nuova cordata, a sostegno con garanzie o con capitale diretto, e in che misura? E sin qui siamo alla cornice finanziaria- gestionale.
Ma la vera domanda è un’altra. Che modello produttivo s’intende seguire per ILVA , nel momento in cui si cercano partner italiani – i soliti nomi che già un anno fa si ritrassero di fronte ai rischi di contenzioso, Marcegaglia, Arvedi, Amenduni – e fondi di private equity, ed eventualmente anche gruppi siderurgici stranieri che diano garanzie di non voler ridurre significativamente la produzione? Gli impegni alla de-carbonizzazione dell’acciaio assunti alla COP21 di Parigi non verranno adottati da Cina, India e verosimilmente neanche dagli Usa. Ma se volessimo prenderli sul serio, il passaggio dal carbone al gas per alimentare il ciclo continuo dell’acciaio significherebbe investimenti imponenti, nell’ordine di un paio di miliardi almeno, per alcuni anni: in parallelo alle bonifiche previste dall’AIA che lo Stato protrae temporalmente nell’attuazione, e magari salva anche i nuovi entranti dal condurle in proprio! A quel punto sarebbero Eni o Enel, coinvolte nella partita per le rispettive dotazioni di gas, soprattutto puntando all’Eni che in teoria ne ha eccedenze stimate nello stesso Mediterraneo? Il presidente della regjone Puglia Emiliano un mese fa ha scritto al governo lanciando esattamente questa palla. Il governo non gli ha risposto.
Vedremo se dopo tre anni e mezzo lo Stato ha capito la lezione dal suo fallimento. O si prepara a nuovi, devastanti pasticci. Ma una cosa è sicura. Senza un ragionamento in grande e senza competenze siderurgiche serie al posto dei commissari giudiziari che ne sono sprovvisti e si è ben visto dal risultato, senza un’impostazione combattiva sinché si vuole ma anche capace seriamente di reggersi di fronte alle obiezioni europee, Taranto, la Puglia, il Sud e l’Italia porteranno a casa un danno che da disastroso diventa permanente.

Oscar Giannino da www.leoniblog.it

8 gennaio 2016

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www.impresaoggi.com