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I capitalisti non sanno pių rischiare?


Altre considerazioni in merito alla querelle
La vicenda Telecom ha indotto alcuni esponenti della coalizione di governo, non solo della sinistra radicale, a definire quello italiano un "capitalismo straccione". Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha parlato additrittura di "capitalismo impresentabile". E questo poiché sarebbe incapace o riluttante a mettere insieme una cordata di imprenditori nostrani per evitare a Telecom la stessa sorte già toccata nel settore delle tlc a Omnitel, Wind e Fastweb. Se guardiamo al passato, il Gotha dell'industria italiana non è stato esente da compromessi con la politica in taluni comparti o da collusioni fra affarismo e politica su altri versanti come ha rilevato Vittorio Merloni.
La definizione di "capitalismo straccione" non è peraltro inedita. Sennonché in passato la si era messa in campo per stigmatizzare un sistema economico chiuso a doppia mandata verso l'esterno, presidiato da forti barriere protezionistiche e assistito in vario modo dallo Stato, quale si era ereditato dall'ordinamento autarchico e corporativo del regime fascista. Tant'è che proprio queste tare originarie, ma date per congenite e imprescindibili dalla sinistra marxista, avrebbero finito, a suo dire, per determinare prima o poi la sclerosi del capitalismo italiano. Anche se poi, in seguito al "miracolo economico" e alla progressiva liberalizzazione degli scambi, l'estrema sinistra politica e sindacale non parlò più di un capitalismo cencioso, sorretto unicamente dalle stampelle dello Stato e dalle rendite di posizione sul mercato interno, essa non smise di sostenere che quello italiano fosse comunque l'anello più debole e vulnerabile del sistema capitalistico occidentale, in quanto lo considerava privo sia di salde fondamenta sia di concrete basi di legittimazione sociale.
Ma, se va riconosciuto che alcuni settori del capitalismo italiano non si erano affrancati del tutto dai peccati d'un tempo e altri ne avessero commessi di nuovi lungo la strada, per errori di valutazione (perdendo così il treno dell'elettronica) o per lotte interne di potere (come nel caso Montedison) è anche vero che la sopravvivenza di certi giudizi altrettanto impietosi quanto indiscriminati sull'establishment del mondo economico era dovuta a due ordini di motivi: da un lato, appunto, a un ostinato attaccamento a vecchi pregiudizi ideologici; dall'altro, alla refrattarietà, per motivi strumentali, a tener conto di una realtà di fatto ampiamente condizionata da vischiosità o da carenze di matrice politica allo sviluppo di un sistema più aperto e di adeguati capitali di rischio.
Non si poteva infatti deplorare, come pur era giusto in linea di principio, che le principali dinastie imprenditoriali si reggessero per lo più su relazioni fiduciarie infrafamigliari e su ristretti patti di sindacato (sotto la regia della Mediobanca di Enrico Cuccia), se nel contempo le coalizioni di centrosinistra badavano a mantenere, quando non a rafforzare, l'altra speculare armatura che blindava e teneva ingessata l'economia italiana (per non parlare di Coop, Mps, Unipol). Poiché, se si volevano eliminare certe "scatole cinesi" e sfrondare le ramificazioni di un sistema oligarchico, occorreva che lo Stato, a sua volta, rinunciasse a detenere, insieme alla proprietà di numerose aziende industriali e di servizi (ancorché non strategiche), pure il controllo dei principali istituti di credito. Su Alitalia e la decantata compagnia di bandiera è meglio alzare un velo di mestizia.
Quanto alla governance delle imprese, ancora agli inizi degli anni 80 l'unica novità consisteva nella riforma adottata nel '74, che aveva introdotto le azioni di risparmio e varato alcune misure intese a migliorare il livello qualitativo e quantitativo delle informazioni di bilancio. Ma non per questo si era giunti a garantire pienamente gli interessi e i diritti patrimoniali dei piccoli azionisti. Neppure si erano poste le premesse di un sistema più ampio e confacente di norme e strumenti operativi che agevolasse lo sviluppo di società finanziarie intermediarie e l'accesso al mercato di capitali. D'altra parte, come tutto questo sarebbe potuto avvenire quando una gran massa di risparmi privati veniva drenata, e avrebbe continuato a esserlo (ai tempi dei Governi Craxi, Fanfani e De Mita ma anche del consociativismo del Pci nel varo di leggi di spesa) da un'idrovora come quella dei titoli di Stato emessi per coprire il colossale buco nero dei conti pubblici, prodotto dalla classe politica della prima Repubblica anche per acquisire clientele di partito e consensi elettorali?
E come tante piccole imprese avrebbero potuto ampliare le loro dimensioni e crescere di statura, se la maggior parte degli istituti bancari, non tanto per i vincoli loro imposti dalla legge del 1936 (allentatisi con l'andare del tempo), quanto piuttosto per conservatorismo burocratico o per forza d'inerzia, continuavano a impiegare i pur cospicui mezzi finanziari di cui disponevano in base a criteri per lo più tradizionali, nei rapporti con le imprese, e quindi a puntare su garanzie di natura eminentemente patrimoniale, senza esercitare alcun ruolo effettivo di orientamento e di stimolo agli investimenti?
Sta di fatto che il passaggio da uno "Stato proprietario" a uno "Stato regolatore" è avvenuto soltanto nel corso degli anni 90 e così pure è accaduto per l'istituzione delle Authority, le liberalizzazioni pur parziali dei mercati e l'avvio da parte delle banche di strategie finanziarie innovative. Per di più, questo mutamento di scenario, imposto dal Trattato di Maastricht, ha incontrato lungo il suo percorso parecchie remore: tant'è che sono risultati spesso determinanti i severi richiami di Bruxelles.
In sostanza, se adesso c'è chi accusa il capitalismo italiano di inerzia per non aver tirato fuori dalla manica una coalizione di imprenditori pronta a rilevare il pacchetto azionario di Telecom, dimentica volutamente quale e quanto peso abbiano avuto, tanto nell'indebolimento del sistema Paese in termini competitivi che nell'essiccazione di molte risorse e potenzialità, anche certe prolungate renitenze di ordine politico a qualsiasi riforma strutturale e più di un ventennio di finanza statale allegra e dissipatrice. E dovrebbe comunque chiedersi se l'italianità delle imprese sia un motivo talmente preminente da far aggio, di per sé, sull'interesse della collettività, degli utenti e dei consumatori, a disporre di servizi più efficienti e di prodotti a prezzi più convenienti.
D'altra parte, arroccarsi nella difesa a oltranza (al punto di cambiare determinate regole del gioco a posteriori, in corso d'opera) di questo o di quel marchio nazionale, non solo risulta anacronistico in tempi di mercato globale e in un regime di concorrenza internazionale. Finirebbe per allontanare dall'Italia, ancor più di quanto non sia già avvenuto purtroppo finora, l'afflusso di investimenti esteri, con il pregiudicare la possibilità di ulteriori acquisizioni italiane all'estero, nonché per danneggiare l'immagine e l'affidabilità del Paese; giova osservare che i più corposi investimenti stranieri in Italia, negli ultimi dieci anni, sono rappresentati dall'acquisizione di gloriosi marchi nostrani.

Querelle tra dinosauri dell'economia e della politica
È ancora botta e risposta tra il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, e il presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo sul capitalismo italiano.  Bertinotti ha lanciato un'accusa netta: «La vicenda Telecom ci dice quanto il capitalismo italiano sia devastato». Immediata la replica di Confindustria, affidata a un comunicato: le parole del presidente della Camera «confermano il clima antiimpresa» dentro la maggioranza, inoltre Confindustria rivendica il merito della ripresa, avvenuta grazie allo sforzo del sistema industriale.
Da Bertinotti è arrivato un distinguo: «Confindustria ha replicato in modo frettoloso. Si confonde — ha precisato il presidente della Camera — un giudizio sul sistema capitalistico, la cui malattia mi sembra evidente, con la capacità imprenditoriale di singole aziende e guide d'azienda di ottenere performance di successo,che sono altrettanto evidenti. Ma tra i due fenomeni c'è una bella differenza».
L'accusa resta, quindi, anche se edulcorata con il riconoscimento del ruolo e del valore delle aziende che sono competitive. E stavolta la replica è arrivata in prima persona da Luca di Montezemolo. Nessun riferimento diretto alle parole di Bertinotti, «non credo che sia giusto né utile rispondersi attraverso la stampa o le interviste», ma una difesa del sistema imprenditoriale del nostro Paese:«Gli imprenditori italiani non agiscono nei salotti ovattati della finanza, ma nei mercati in giro per il mondo, a contatto con i clienti».
Piuttosto il presidente di Confindustria è ritornato sul clima antiimpresa che esiste dentro la maggioranza: «È molto difficile oggi fare impresa in Italia. Il nostro Paese vive di eccellenze, di aziende che vanno in giro sui mercati, la sfida selettiva ci porta in giro per il mondo, sapendo che vince il migliore. Questa è la risposta degli imprenditori italiani». A riprova delle difficoltà che esistono in Italia per chi vuole fare impresa, Montezemolo ha citato l'andamento degli investimenti esteri nel nostro Paese: «Sono ridotti al lumicino. E questo è preoccupante».
Il botta e risposta tra Bertinotti e Confindustria non ha lasciato indifferente il ministro del Lavoro, Cesare Damiano: «Non siamo né contro il lavoro né contro le imprese, lavoriamo perché cresca la competitività del Paese e non vogliamo che questo comportamento vada a scapito della tutela dei diritti. Serve una sintesi».
Mentre sulle stesse posizioni di Bertinotti si è schierato il capogruppo di Rifondazione alla Camera, Gennaro Migliore: «Non vedo un clima antiimprese. Semmai vedo una crisi profonda che attraversa il sistema delle grandi imprese italiane». E Migliore offre una sua lettura anche del ritiro di ATandT dalla partita Telecom: «Sta facendo politica a sua volta. Voleva pagare una certa cifra le azioni di Olimpia, con dentro anche la rete. Nel momento in cui parla di proteggere la rete in quanto asset strategico per il Paese vuol pagare un prezzo inferiore».
Montezemolo, invece, sulla Telecom ha preferito glissare con una battuta: «Che lingua parliamo oggi? Il messicano mi sembra una lingua molto popolare». Ma la sua posizione sui rapporti tra Stato ed economia l'ha ribadita più volte in questi ultimi giorni: troppa invadenza pubblica in vicende che dovrebbero riguardare solo il mercato. Un interventismo che va dalla Telecom ad altri settori, come i servizi pubblici locali. Nel dibattito sul capitalismo italiano, sul ruolo della politica e sulla necessità di competere, è intervenuto ieri anche Gilberto Benetton, in risposta a Bertinotti, dichiarandosi perfettamente d'accordo con Montezemolo.


COMMENTO CONCLUSIVO

La diatriba accesa da Romiti riteniamo sia caratterizzata da mezze verità e mezze bugie. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra hanno sempre avuto un fondo di anticapitalismo ideologico; ciò non ha evitato la creazione, negli anni, di un forte capitalismo di stato che andava a braccetto con il capitalismo privato quando si trattava di andare nelle stanze del potere per chiedere protezioni e favori.
Un economista anglosassone, negli anni novanta, scrisse che la corruzione era il lubrificante necessario per far funzionale l’economia italiana.
Il governo Berlusconi non aveva certamente una connotazione anti impresa, ma da un governo di centro destra la cultura liberale si sarebbe aspettata almeno l’avvio di riforme volte a trasformare l’Italia in un paese liberale:

l’abolizioni degli albi, la riduzione della burocrazia statale, la lotta al lavoro nero, elemento di grave distorsione della concorrenza in Italia, le liberalizzazioni, l’abolizione delle province e dei prefetti e una riorganizzazione significativa dell'amministrazione dello stato, una politica di miglioramento delle infrastrutture nelle aree d’eccellenza del Paese, una netta separazione tra potere politico e potere economico,

ma nulla di questo è stato avviato essendo il governo imbavagliato da partiti statalisti come Alleanza nazionale e Udc.
 Il Paese ha avuto sempre cattivi governi e cattive gestioni dello stato; non bisogna dimenticare che L'Italia è l'unico paese moderno nel quale sono sopravvissuti partiti che, pur dopo abiure più o meno sincere, si rifanno al comunismo e al fascismo.
La fortuna del nostro paese poggia su una classe di imprenditori, liberi da condizionamenti, che con le armi dell’innovazione, della creatività e della capacità di rischiare creano valore per tutto il paese e su una classe lavoratrice che ha sempre fatto il possibile per sostenere e sviluppare le imprese per le quali lavorano.

Eugenio Caruso

26 aprile 2007

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