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Il prezzo della prosperità

Non solo i paesi poveri, ma anche le nazioni ricche corrono il rischio di disgregarsi, come è successo a tanti imperi del passato. Sono cinque i fattori di destabilizzazione – il calo demografico, il commercio globale, l’aumento del debito pubblico, il declino dell’etica del lavoro e del patriottismo – e purtroppo l’America li registra tutti.
“It’s morning in America”: così recitava l’inebriante slogan che accompagnò la campagna per la rielezione del presidente Ronald Reagan nel 1984. I cartelloni pubblicitari raffiguravano gli ospiti di un matrimonio intenti a lanciare il riso a una coppia di sposi sorridenti, un giovane fattorino che tirava un giornale fresco di stampa su una veranda e un contadino che arava il suo campo sotto un sole splendente. Quattro anni prima, Reagan si era insediato alla Casa Bianca con l’inflazione che viaggiava a due cifre, i prezzi del petrolio schizzati alle stelle e un tasso di disoccupazione paurosamente vicino all’11%. Nel 1984, con l'economia usa così disastrata, Reagan sbaragliò il suo rivale Walter Mondale (conquistando 49 dei 50 stati) perché lo slogan “It’s morning in America” suonava veritiero. Gli americani disoccupati trovavano lavoro, i prezzi del petrolio diminuivano e il paese sembrava più ottimista.
Anche il presidente Barack Obama ha ereditato un’economia disastrata. E oggi, quando parla a un microfono, può vantare un tasso di disoccupazione sceso al 4,9% e un mercato azionario con punte da record. Il problema è che pochi americani credono alle belle notizie. Il 73% della popolazione statunitense – una percentuale da primato – ritiene che il paese sia “sulla strada sbagliata”. E la quasi maggioranza dei millennials dichiara ai sondaggisti che “il sogno americano è finito”. Più che un “morning in America”, sembra essere un “mourning in America”, un momento di lutto.
Il presidente si è presentato agli elettori come un “conciliatore” e ha sbandierato il suo passato di “organizzatore di comunità”, ma la sensazione è che gli Stati Uniti oggi siano più divisi. Il retaggio di Obama comprende anche la campagna presidenziale del 2016 per la scelta del suo successore, la sfida elettorale più avvelenata dagli anni Sessanta, quando l’allora ministro della Guerra (democratico) definì il repubblicano Abraham Lincoln una “scimmia dalle braccia lunghe”.
In effetti, indicatori elementari come il tasso di disoccupazione e l’andamento del mercato azionario non danno conto del reale stato di salute del paese inteso come corpo politico. Nel mio ultimo saggio, The price of prosperity, sostengo che le nazioni sono esposte al rischio di disgregazione tanto dopo una fase di prosperità quanto dopo una fase di depressione, e metto in rilievo cinque fattori di destabilizzazione delle nazioni ricche.
Molto è stato scritto a proposito dei paesi poveri che si disgregano. Prendete un mappamondo, fatelo girare e fermatevi sul Sud Sudan, sull’Iraq e sulla Siria. Anche le nazioni ricche, tuttavia, possono disgregarsi. Chi di voi ha mai conosciuto un Asburgo o un Ottomano? Eppure, nel XIX secolo, l’impero ottomano e quello asburgico controllavano enormi porzioni del mondo moderno, dai castelli di Praga a quello di Dracula in Transilvania, dal porto egiziano nel quale Alessandro Magno fondò la sua biblioteca ai giardini pensili di Babilonia. Questi imperi, come le antiche Sparta, Roma e Venezia, non crollarono per effetto della povertà o di una rovinosa depressione, ma a seguito di periodi di prosperità.
Gli Stati Uniti seguiranno la sorte degli imperi defunti? Il timore è proprio questo. La domanda da rivolgere al presidente Obama non è: “Ha aiutato l’economia?”, ma: “Ha fatto qualcosa per contrastare i fattori di destabilizzazione delle nazioni ricche?”. Temo che il popolo americano abbia tutte le ragioni per sentirsi preoccupato, perché la risposta è “no”.
Quali sono i cinque fattori di destabilizzazione che colpiscono i paesi ricchi e che il presidente Obama non ha cercato di contrastare?

Il calo dei tassi di natalità. Quando un paese diventa più ricco, la sua popolazione fa meno figli. Oggi negli Stati Uniti ci sono più campi da golf che ristoranti McDonald’s. E non perché gli americani preferiscano i prati ben curati all’hamburger: il fatto è che 40 milioni di baby boomers cercano un posto dove poter camminare e fare esercizio fisico. L’americano medio mette al mondo 1,89 figli: un numero inferiore al tasso di sostituzione necessario per mantenere stabile la popolazione, pari a 2,1 (il dato tiene conto di malattie, mortalità infantile, guerre ecc.). Altri paesi hanno già registrato variazioni ancora più marcate. In Giappone si vendono più pannoloni per anziani che pannolini per neonati. I tedeschi parlano di schrumpfende Stadt, un “restringimento” della Germania. In Italia, nel 2014 i morti sono stati il 17% in più rispetto ai nati, e il numero di neonati è sceso al livello più basso dai tempi di Garibaldi. Non si tratta però di un fenomeno solo contemporaneo, risalente agli anni Sessanta. Dai dati storici risulta che il trend di calo delle nascite si manifesta in quasi tutte le società caratterizzate da una classe media in espansione. Lo stesso fenomeno, per esempio, si verificò nelle antiche Sparta e Atene. Nel primo secolo dopo Cristo il geografo Strabone raccontava che visitando l’Acropoli aveva notato più statue che persone. Il rapporto statue/persone è un indicatore interessante da tenere a mente. Nell’era del narcisismo online, potremmo considerare il rapporto avatar/persone: gli avatar stanno avendo la meglio?
Dalla mia ricerca si evince la seguente regola di massima: In epoca moderna (postindustrializzazione), se una nazione registra un tasso medio di crescita annua del pil superiore al 2,5% per due quarti di secolo consecutivi (due generazioni), il tasso di fecondità scende a un livello appena superiore al tasso di sostituzione, ovvero a 2,5 figli per donna. Se il pil continua ad aumentare per la terza generazione consecutiva, il tasso di fecondità tenderà a scendere al di sotto del 2,1 e la popolazione avrà bisogno dell’immigrazione per mantenersi stabile.
Perché il fatto che la classe media mette al mondo meno figli è così importante? Per mantenere un tenore di vita elevato, i cittadini devono avvalersi dei servizi di nuovi lavoratori – che si tratti di operatori ospedalieri o di semplici idraulici. Di qui il bisogno di immigrati. Questi ultimi, tuttavia, possono destabilizzare la cultura dominante. Per i paesi in questione si prospettano dunque due scenari: un crollo della ricchezza relativa o uno sfilacciamento del tessuto culturale. Insomma: prosperità uguale meno figli, uguale più immigrati, uguale nuovi attriti. Ovviamente, non ci si poteva aspettare che Obama esortasse gli americani a fare più figli. Durante la sua amministrazione, tuttavia, i giovani hanno avuto più difficoltà a uscire dalla casa dei genitori per sposarsi o per intraprendere un’esperienza lavorativa.

Il commercio globale. Le nazioni non possono crescere e mantenere la propria ricchezza senza scambi commerciali con l’estero. I paesi che si chiudono in una bolla isolata marciscono, come una pianta in un terrario mal arieggiato. O come una fetida prigione: un’immagine che descrive benissimo la Corea del Nord. I sudcoreani – che nel commercio ci credono – sono 17 volte più ricchi, vivono 10 anni di più e risultano più alti di diversi centimetri rispetto ai loro vicini. La Corea del Sud sforna gli schermi ultrapiatti Samsung e fior di cantanti K-pop. La Corea del Nord sforna minacce di attacchi nucleari.
Il commercio ha però anche un lato negativo. Il libero mercato non è un mercato indolore. E dovremmo riconoscere che quando un paese apre i suoi mercati, c’è qualcuno che ci rimette. Ormai è difficile trovare un paio di scarpe prodotte negli Stati Uniti. Nel 2015 il presidente Obama ha visitato il quartier generale della Nike, in Oregon, per spiegare che un nuovo accordo commerciale internazionale sarebbe stato un vantaggio per gli americani. Se Obama avesse buttato l’occhio sul suo orologio per regolarsi coi tempi del discorso, probabilmente non avrebbe letto la scritta “made in usa”. Gli Stati Uniti non hanno più una fiorente industria orologiera, avendo ceduto il passo prima agli svizzeri, poi ai giapponesi, quindi ai cinesi e infine ancora agli svizzeri. A lungo andare, il commercio con l’estero stravolge i costumi e il carattere di una nazione. Un leader vincente deve battersi a favore dell’apertura dei mercati e di maggiori opportunità di export, ma in modo tale da non intaccare il sostegno dell’opinione pubblica. Le politiche commerciali di Obama sono state confuse: non ha creato una larga base di consenso all’intensificazione degli scambi commerciali, né è stato di grande conforto a chi ha perso il lavoro. Facciamo qualche esempio. Quando entrò in carica, nel 2009, sulla sua scrivania c’erano tre accordi di libero scambio già negoziati – con Colombia, Panama e Corea del Sud – in attesa della sua firma. Ma l’attesa si è prolungata: alla fine Obama ha firmato quegli accordi quasi tre anni dopo il suo insediamento. Ma l’ha fatto in sordina, privatamente, lontano dalle telecamere, evitando ogni annuncio pubblico. In base alle previsioni dei suoi economisti, gli accordi in questione avrebbero creato o salvato 70.000 posti di lavoro, ma Obama si è comportato come se se ne vergognasse. Qualche mese dopo ha cominciato a parlare del Partenariato transpacifico (tpp), l’accordo commerciale tra Stati Uniti, Canada e dieci paesi dell’area pacifica (Cina esclusa). Obama difende le ragioni dell’accordo, ma ha fatto pochissimi proseliti, persino all’interno del suo gabinetto. In veste di segretario di Stato, Hillary Clinton aveva definito il tpp il “gold standard” degli accordi commerciali; da candidato alla presidenza, lo condanna.

L’aumento del debito. Tra i turisti che passano frettolosamente davanti al National Debt Clock, vicino Times Square a New York – con le cifre sul monitor in continuo aggiornamento e ormai oltre quota 19.000 miliardi di dollari – molti si chiedono: come può un paese ricco come gli Stati Uniti avere tanti debiti sulle spalle? La risposta sta in quello che io definisco il “paradosso del furto”. Di solito, quando una famiglia si arricchisce ha minori probabilità di incorrere in uno stato di grave indebitamento, insolvenza o bancarotta. Una famiglia compresa nel 5% superiore della scala del reddito accumula in genere la metà dei debiti contratti dalla famiglia-tipo del restante 95% (considerando il rapporto debito/reddito). Dove sta, dunque, il “paradosso del furto”? Nel fatto che per le finanze dei singoli paesi spesso è vero il contrario: le nazioni più ricche possono accumulare, in proporzione, più debiti rispetto a quelle più povere. Mentre infuriava la Grande Recessione del 2010, paesi in via di sviluppo come il Messico e la Russia presentavano livelli di indebitamento più bassi rispetto agli Stati Uniti, al Giappone e alle economie dell’eurozona. Se gli Usa avevano accumulato un debito pari a circa il 75% del pil, la Russia era esposta solo per il 10%. E non dimentichiamo che le finanze pubbliche possono alimentare le ostilità internazionali. Perché nel febbraio 2014 Vladimir Putin ha potuto contemporaneamente mostrare i muscoli in Crimea, farsi beffe delle condanne delle Nazioni Unite e incitare i separatisti russi in Ucraina, e i rendimenti dei titoli di Stato russi sono aumentati di appena lo 0,55% nei due mesi successivi, dal 4,65% al 5,2%? Perché la Russia – nazione assai meno agiata degli Stati Uniti – non aveva un debito estero alto quanto quello di Washington e dei suoi “ricchi” alleati. Ora, non dico che sia meglio vivere in un paese povero che in un paese ricco, o che i governi poveri siano più onesti. Non lo sono, e molti di essi finiscono per incappare in crisi debitorie. Dobbiamo tuttavia fare i conti con il paradosso del furto e domandarci: perché le nazioni più ricche tendono ad accumulare più debiti? Perché seguono questa logica? Tre sono le ragioni più evidenti.
Primo, perché le nazioni ricche possono indebitarsi di più. Le banche e i compratori di obbligazioni sono più disposti a prestar loro denaro, trattandosi di debitori che in genere onorano gli impegni presi. Una nazione ricca dispone anche di asset reali da costituire in garanzia: treni, aerei, introiti da pedaggi, ferrovie ecc. Paesi più deboli, come la Mongolia ad esempio, non emettono molto debito in valuta nazionale (il tugrik), perché pochi prestatori l’accetterebbero come collaterale; infatti, la Mongolia promette di ripagare i suoi debiti in dollari statunitensi.
Secondo, come già rilevato, le nazioni ricche tendono ad accumulare più debiti per via del calo dei loro tassi di fecondità. Hanno meno bambini e più anziani che vivono più a lungo. E con il rapporto pensionati/lavoratori in aumento, devono accedere a un maggior numero di beni pur non producendoli materialmente. In un caso estremo come quello del Giappone, il rapporto debito/pil è schizzato dal 50% circa del 1980 al 245% di oggi. Se il tasso di fecondità scende al di sotto del tasso di sostituzione, ripagare il debito accumulato diventa pressoché impossibile.
Terzo, quando una nazione diventa più ricca, il “patto” generazionale tende a sfilacciarsi. Chi è che fa le spese del paradosso del furto? I giovani. Consideriamo il caso di due americani: un baby boomer che compie 65 anni nel 2016 e un neonato appena portato a casa dall’ospedale. Il primo riceverà 327.000 dollari in più, sotto forma di prestazioni di Social Security e copertura Medicare a vita, rispetto a quanto pagato in tasse federali. Il secondo dovrà farsi coraggio: pagherà in tasse federali 421.000 dollari in più rispetto al massimo che potrà ricevere sotto forma di prestazioni sociali. Tra il 2009 – quando il presidente Obama si insediò alla Casa Bianca – e il 2015, il governo federale ha contratto debiti per 7.500 miliardi di dollari. I suoi predecessori avevano accumulato complessivamente un rosso di 10.600 miliardi.

Il tramonto dell’etica del lavoro.
Quando una nazione ricca comincia a disgregarsi, la gente non soffre la fame. Semplicemente, smette di alzarsi presto la mattina per preparare la colazione. Tutti i suoi abitanti hanno un comodo letto su cui dormire, ma scarseggiano quelli che hanno un valido motivo per alzarsi. Se la fiducia viene meno e il debito sale, l’etica del lavoro ne risente. Il dipartimento del Lavoro statunitense rileva ogni mese il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, cioè la percentuale di adulti che vogliono lavorare. Ebbene, negli ultimi 17 anni, quel tasso è sceso al 63% circa; al momento, è inferiore al livello di fine anni Settanta. Nello stato di West Virginia oggi lavora meno di un adulto su due: sostanzialmente la stessa proporzione di quarant’anni fa. La probabilità che un giovane statunitense tra i 18 e i 24 anni si trasferisca in un altro stato è crollata del 40% rispetto agli anni Ottanta. Questa mentalità stanziale affligge non solo gli americani laureati, ma anche quelli che non hanno conseguito un diploma di istruzione superiore. È un altro paradosso del nostro tempo: gli autoctoni si ritrovano circondati da stranieri, ma sono meno propensi a esplorare il loro stesso paese e il resto del mondo. In altre parole, stanno diventando dei pantofolai. La percentuale di giovani che vivono a casa con i genitori è quasi raddoppiata tra il 1980 e il 2008, prima della Grande Recessione. È questo il vero movimento Occupy di cui dovremmo seriamente preoccuparci. La Generazione Y si sta trasformando in una Generazione A come Apatici? Dal 1980 a oggi la percentuale di adolescenti che svolgono lavoretti estivi o part-time dopo la scuola è precipitata. Nel 1994 due terzi dei teenager lavoravano d’estate. Già nel 2007 lo faceva meno della metà. Questo drastico mutamento non è circoscritto a un gruppo di adolescenti in particolare (bianchi, ricchi, neri, piccoli, grandi, dropout o studenti universitari). Tutti hanno sostanzialmente incrociato le braccia.
Il decadimento dell’etica del lavoro è contagioso. Chi non lavora non paga le tasse sul reddito. E chi le paga cova risentimento. La frammentazione sociale porta gli individui a comportarsi in modo disonesto e a puntare a facili ricchezze o comode scappatoie. Una clamorosa inchiesta giornalistica ha rivelato come praticamente tutti i dipendenti a tempo indeterminato della Long Island Railroad avessero chiesto e ottenuto il sussidio di invalidità al momento del pensionamento. Il procuratore distrettuale di Manhattan ha spiegato che “in molti casi i dipendenti, dopo aver dichiarato di essere troppo debilitati per stare in piedi o per fare le scale, una volta andati in pensione si sono dati attivamente al golf, al tennis, al ciclismo e all’aerobica”.

Il declino del patriottismo.
Per sopravvivere alle sferzate di un’economia in rapido cambiamento, un paese dovrebbe trasmettere ai suoi figli e agli immigrati il senso della sua identità nazionale e i riti e le tradizioni che possono tenerlo unito. Le società che non lo fanno sono destinate a morire. Gli intellettuali sono soliti disdegnare il patriottismo e invitare i concittadini a non credere che il loro paese sia superiore agli altri. Ecco il pericolo che vedo profilarsi quando la naturale aspirazione di una nazione a sentirsi migliore viene soffocata: gli individui introiettano le ambizioni di superiorità e diventano più narcisisti. Negli Stati Uniti il patriottismo scende mentre il narcisismo sale. Un tempo nelle scuole pubbliche la giornata cominciava non solo con il “giuramento di fedeltà” ma anche cantando inni come America the Beautiful. In molti istituti, questa e altre canzoni sono state soppiantate da slogan mirati a rafforzare l’autostima affissi sui muri, del tipo: “ognuno è una star!”. Eroi tradizionali come Cristoforo Colombo, i padri pellegrini e George Washington sono stati degradati a predoni, anziché apprezzati come simboli di intraprendenza, libertà religiosa e coraggio. Oggi la Magna Charta – quasi un testo sacro della libertà – è sconosciuta a pressoché la metà della po114- polazione britannica. Secondo quanto riferito da un professore dell’Università di Cardiff, solo il 20% circa degli studenti universitari del Regno Unito è in grado di citare un primo ministro del XIX secolo. Alla maggior parte di essi, nomi come Disraeli e Gladstone non dicono nulla. E negli Stati Uniti meno di uno studente universitario su quattro è in grado di stabilire un nesso tra James Madison e la Costituzione americana. Ma non disperiamo: il 99% sa benissimo che Beavis and Butthead è un cartone animato. Una memoria condivisa e la celebrazione di festività comuni sono tra gli strumenti più efficaci per contrastare l’entropia delle nazioni. Un paese che non ha consapevolezza della propria storia diventa una massa di persone, anziché una nazione. E tenere insieme una nazione multiculturale è ancora più difficile. Il reaganiano “morning in America” funzionò così bene perché evocava un senso della storia. Reagan celebrò una serie di ricorrenze storiche che univano gli americani al di là delle differenze. Nel giugno del 1984, in un discorso per il quarantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, si lasciò anche scappare una lacrima. Aveva radunato sulle scogliere di Pointe du Hoc una folla di anziani, molti dei quali erano arrivati fin lì appoggiati a un bastone o su una sedia a rotelle. Erano i rangers superstiti dell’esercito – i “ragazzi di Pointe du Hoc” – che da giovani o giovanissimi si erano arrampicati su per quelle aspre e ripide scogliere sotto la pioggia mortale di proiettili delle mitragliatrici tedesche. Quei ragazzi non avrebbero rischiato la vita se avessero pensato che la Storia era una sciocchezza e che le pagine di eroismo della loro nazione erano semplice propaganda. Le storie che avevano appreso da scolari avevano infuso in loro il coraggio di arrampicarsi e la forza di avanzare attraverso il sangue dei loro compagni. Le nazioni moderne non arriveranno alla fine di questo secolo se non avranno il coraggio di abbracciare il loro passato e condividerlo con i propri figli.

Todd G. Buchholz
Aspenia 74 2016
Todd G. Buchholz, ex direttore della politica economica alla Casa Bianca e amministratore delegato dell’hedge fund Tiger, insegna a Harvard. Il suo ultimo libro, The price of prosperity: why rich nations fail and how to renew them, è stato inserito tra i must-read dal Wall Street Journal. - 13 ottobre 2016


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www.impresaoggi.com