L'intervento dello stato in MPS. L'opinione di Oscar Giannino

Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto per attivare lo scudo bancario autorizzato dal Parlamento. Cioè per attivare contemporaneamente le garanzie di liquidità necessarie a istituti di credito in crisi, volte a evitare ogni eventuale crisi da ritiro dei depositi, e per sottoscriverne aumenti di capitale. Naturalmente, si comincerà dall’intervento pubblico per l’aumento di capitale “precauzionale” del Monte dei Paschi. E’ infatti fallito il tentativo di aumento per 5 miliardi effettuato con criteri e soggetti di puro mercato. Anche se gli oltre 2,4 miliardi raccolti da conversione di obbligazioni, date le condizioni, non è stato un risultato disprezzabile.
Viene dunque il momento di un intervento pubblico che in realtà a molti è sembrato da tempo scontato. La sua delicatezza è molto elevata. Se verrà effettuato con rispetto delle regole europee e con limpida chiarezza verso i grandi fondi internazionali, potrebbe essere la svolta agli occhi del mercato dopo anni di colpevole sottovalutazione dei guai del sistema bancario italiano. Una svolta non solo per MPS, anche per le diverse banche italiane alle prese con rilevanti problemi. Prima di questo, però, vanno richiamate alcune considerazioni.
Perché la svolta è tardiva. Molto, troppo tardiva. E i guai di MPS hanno storia lunga.
Primo. Se la ex terza banca italiana è arrivata a questo, l’origine prima dei guai è la politica e anzi un partito. Si è consentito per troppi anni che la politica senese controllata da quello che oggi si chiama Pd esercitasse, attraverso la Fondazione MPS, la guida della banca. La tracimazione da cui inizia il tracollo, il prezzo stellare di acquisizione di Antonveneta poco prima della crisi post Lehman del 2008, non sarebbe stata concepibile senza lo scudo che la politica offriva a quell’operazione, e al management che la condusse. Anche nel caso di Siena, come in troppe banche italiane, i regolatori hanno consentito per anni un canale di funding obbligazionario meno oneroso di quello riservandoli a investitori istituzionali, ai quali si sarebbe dovuto pagare un prezzo più elevato di quello offerto invece facendo sottoscrivere montagne di obbligazioni – come in nessun altro paese avanzato – a piccoli risparmiatori e clienti. Spesso in cambio di mutui e prestiti.
Secondo. Quando il problema senese esplose, nell’autunno 2012, gli interventi di Stato nelle banche erano praticati da mezza Europa, perché non vi era regolazione comune del meccanismo pubblico di intervento bancario. Ci fu chi chiese ai governi in carica allora, Monti prima e Letta poi, di attivare interventi nel sistema italiano attraverso i finanziamenti europei – il nostro alto debito pubblico e lo spread non consentiva interventi solo nazionali, come quelli praticati altrove – e programmi internazionalmente vigilati. Ma la politica italiana rifiutò, per non far apparire l’Italia come un paese sottoposto a vincoli simili a Spagna, Portogallo e Irlanda. In più, il desiderio evidente era di non farlo per una banca impestata per colpa del Pd. Si iniziò a ripetere il mantra delle banche italiane tra le più solide al mondo. I fatti, cioè l’esplosione dei crediti deteriorati fino a 360miliardi e la raffica di aumenti di capitale deliberata non appena la vigilanza bancaria divenne europea nel 2014, si sono incaricati di smentire quella tesi. Il governo di destra e poi quello tecnico preferirono impiccare MPS – in crisi di redditività sempre più evidente – al pagamento fino a oltre il 9% annuo dei Tremonti e dei Monti bonds. Altro errore. Si poteva allora azzerare la Fondazione, pubblicizzare e pulire la banca, per poi rapidamente ricederne il controllo al mercato. Sarebbe stato meglio: ma il consociativismo politico l’ha impedito. E per questo sono stati bruciati 10 miliardi di capitale inutilmente raccolti da Siena a più riprese sui mercati, la banca ha bruciato la credibilità dei suoi manager e perso pozzi di miliardi di depositi, ben 20 solo in questo 2016. Costano, le palle che vi hanno raccontato politici, regolatori e media, costano care.
Terzo. Nel 2014 fu definita la direttiva europea per il risanamento e la risoluzione bancaria – la BRRD – proprio per impedire che gli Stati continuassero asimmetricamente a salvare banche coi soldi del contribuente, e introducendo il principio della compartecipazione al risanamento di azionisti e obbligazionisti, fino ai depositanti oltre 100mila euro. Sarebbe entrata in vigore a gennaio 2016, ma politica e regolatori italiani non se ne diedero per inteso. Partì anzi una massiccia campagna che imputava ai tedeschi l’imposizione di regole anti italiane. Ancor oggi il coro dei giornali italiani considera un vanto per l’Italia affossare e aggirare quelle norme. Io penso l’esatto opposto. A novembre 2015 con le 4 banche risolte abbiamo fatto finta di scoprire che gli obbligazionisti erano chiamati – secondo una precisa gerarchia relativa ai diversi tipi di titoli – a convertire i propri titoli in azioni e a vederli azzerati nel valore, fino a concorrere all’8% delle passività della banca finita in risoluzione. Classi dirigenti serie avrebbero dovuto saperlo da due anni, e regolarsi di conseguenza. Invece abbiamo preferito dar vita a un sistema di mutualizzazione che vede le banche migliori accollarsi gli oneri di quelle peggiori, ed è iniziato a diventare evidente che rinviare la soluzione dei problemi delle banche più compromesse comportava oneri maggiori per l’intero sistema. I 100 miliardi di prestiti in meno, che ancor oggi mancano alle imprese italiane rispetto al 2007, sono diventati un macigno per la ripresa italiana. Ma le classi dirigenti italiane preferiscono prendersela coi tedeschi, e troppi giornali si adeguano suonando la grancassa.
Quarto. Sette mesi fa, la vigilanza europea ha chiarito dopo gli stress test che MPS non poteva più aspettare, aveva bisogno di un aumento di capitale entro fine anno e di liberarsi del più dei suoi crediti deteriorati. Ancora una volta, politica e regolatori hanno pensato di prender tempo, ritardare e diluire. Hanno guardato al calendario politico interno cioè al referendum, sperando a fine dicembre di ottenere poi una proroga dalla BCE. Altro errore, la proroga non c’è stata. E il governo per primo ha preferito comunque la via di un aumento di mercato, il più della cui fattibilità – a cominciare da un prestito ponte di 6 miliardi per garantire i tempi lunghi della cessione di NPL - era garantito in cambio di enormi commissioni da JP Morgan. Non sapremo mai su che basi reali Costamagna, messo da Renzi ai vertici della CDP, abbia convinto Renzi che Jp Morgan avrebbe fatto il miracolo. Tutti hanno scritto per mesi, raccogliendo gli spifferi delle fonti ufficiali, che per l’aumento di capitale c’era la fila di fondi internazionali, in primis del Fondo Sovrano del Qatar. Bubbole. Alla fine non si è presentato nessuno. Ed eccoci al punto finale. L’intervento su MPS, che sarà il primo ma non l’ultimo della serie. Potrebbero seguirne molto probabilmente diversi: sulle due banche venete, le 4 banche risolte, e diverse altre minori. A seconda di come questi interventi avverranno, si capirà se l’esperienza negativa maturata ha dato frutti o se si ripeteranno pasticci che potrebbero essere ancor più gravi. Il mecccanismo d’intervento in una banca solvibile – qual è ancora MPS – e di profilo sistemico, che se manchi di realizzare aumenti di capitale sul mercato può avere rilevanti conseguenze a catena, è precisamente indicato dalla direttiva europea. A seconda di come il MEF deciderà di procedere alla conversione delle obbligazioni subordinate, del prezzo che offrirà rispetto al loro valore nominale se le acquista lui prima della conversione, o del meccanismo di ristoro proposto ai piccoli risparmiatori in caso di conversione e di caduta verticale del valore dell’azione rispetto al nominale del bond convertito, si lancerà un messaggio decisivo ai mercati. Se le cose saranno fatte bene, con la garanzia di liquidià alle banche da subito e con prezzi di cessione dei crediti deteriorati non troppo lontani dalle stime di mercato, allora è del tutto possibile che MPS per prima, oggi valutata una frazione incredibilmente bassa rispetto ai suoi asset residui, possa riprendersi. Naturalmente , bisogna che lo Stato tornato azionista indichi fin da subito termini temporali limitati per la sua presenza nel capitale, diciamo non oltre i 18 mesi, stabilisca zero dividendi e stop a retribuzioni e premi ai manager come quelli che abbiamo scandalosamente continuato a vedere in Italia, e renda il piano industriale di aumento della redditività meno azzardato di quello presentato da Viola prima e Moreli poi. Infine, diciamola tutta. I mercati e i grandi fondi credono che a questo punto lo Stato eserciterà la sua presenza , a Siena e altrove, proprio per guidare il consolidamento bancario che è necessario, cioè inducendo grandi fusioni bancarie. Delicate, perché fondere banche diroccate implica aumenti di capitale ancora maggiori. Ma necessari. Se poi guardiamo all’oceano di piccole banche italiane, cioè appare assolutamente imprescindibile.
L’amarezza è che si sia arrivati a questo con 20 miliardi di debito pubblico in più, pagato dal contribuente. Con troppi consociativismi politici, e tra politica e regolatori. E troppi media compiacenti con la grande collusione all’origine della crisi bancaria. Ora non si può più sbagliare. Lo diciamo purtroppo sapendo che, in Italia, troppe volte si riesce a sbagliare comunque.

Oscar Giannino - 29-12-2016

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