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Italia: vizi e virtù. Antifascismo e revisionismo


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

copertina 3

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2.5 Antifascismo e revisionismo
2.5.1 Lotta partigiana e antifascismo
Nei giorni che precedettero la fine della seconda guerra mondiale, il numero di partigiani o comunque di uomini che presero le armi crebbe rapidamente, si passò infatti da circa 70.000 uomini a 300.000.
In realtà mentre si costituivano i Comitati di Liberazione nelle varie città in cui si estendeva rapidamente l'occupazione tedesca, i primi gruppi di ribelli erano già in fase di organizzazione spontanea nelle regioni più impervie dell'Italia settentrionale e centrale, con collegamenti minimi con le strutture clandestine politiche cittadine a causa della confusione generale seguita all'8 settembre e al totale fallimento delle gerarchie del Regio Esercito, che rifiutarono di organizzare unità volontarie per attaccare i tedeschi e che, in parte si arresero con i loro comandi senza combattere o si dispersero. I primi raggruppamenti partigiani si costituirono nelle Prealpi e nel Preappennino per facilitare gli approvvigionamenti dalla pianura e per poter disporre di aree arretrate di sicurezza in alta montagna. Organizzati e comandati in un primo momento da giovani ufficiali inferiori e sottufficiali dell'esercito in dissoluzione, questi primi gruppi, costituiti da poche decine di elementi, vennero rafforzati dai primi capi politici che salirono in montagna per prendere parte alla lotta e organizzarla. Nel tempo peraltro si assisterà ad una progressiva politicizzazione di molti ufficiali inferiori dell'esercito e a una militarizzazione dei capi politici comunisti e azionisti, sempre più concentrati sull'organizzazione tecnica e sull'efficienza della guerra partigiana contro i nazifascisti. Le motivazioni dei primi gruppi di partigiani, calcolati alla metà di settembre in 1.500 uomini, furono complesse e legate principalmente all'odio verso i tedeschi e il fascismo, al rifiuto di accettare il disastro e l'umiliazione nazionale, alla fedeltà, presente in molti ufficiali, all'ordine costituito rappresentato dalla Monarchia, alla necessità di sottrarsi alla cattura e alla deportazione, alla paura delle vendette dei fascisti, alle motivazioni politiche di palingenesi sociale degli elementi comunisti e azionisti ed infine anche a sentimenti di avventurosità giovanile. Importante fu inoltre il ruolo giocato dagli ufficiali inferiori Alpini che, ritornati delusi e furenti contro i tedeschi ed il Regime dalla campagna di Russia che era costata loro tante perdite, costituirono nuclei di comandanti combattivi ed esperti della guerra in montagna. Elemento fondamentale di coesione tra i partigiani fu l'antifascismo, il rifiuto totale della disastrosa "guerra fascista" subalterna all'alleato tedesco; il disprezzo e la critica radicale al Regio Esercito e soprattutto agli ufficiali superiori considerati inetti e imbelli. In particolare tra le formazioni garibaldine comuniste e tra i giellisti si diffuse un netto rifiuto delle gerarchie militari compromesse con il fascismo, e di tutte le formalità di gradi, divise, ordini, rituali, tipici degli eserciti. La disciplina era basata soprattutto sulla coesione, sulle motivazioni e sull'autoconvincimento, mentre il soldo assegnato ai partigiani era molto limitato ed uguale per tutti. I capi delle formazioni partigiane venivano selezionati sul campo e ottenevano ruolo e comando sulla base delle capacità mostrate e del consenso dal basso di tutti i membri combattenti delle formazioni con procedure completamente estranee alla rigida gerarchizzazione degli eserciti regolari, indipendentemente dal grado eventualmente posseduto in precedenza nel "disciolto" esercito. Accanto al comandante militare tutte le formazioni partigiane, tranne i reparti autonomi, avevano un "commissario politico" con parità di grado, che condivideva la responsabilità operativa e assumeva soprattutto la funzione di rappresentante politico incaricato dell'istruzione e dell'assistenza morale e pratica dei combattenti. Il rifiuto del "fallito" Regio Esercito da parte della grande maggioranza dei partigiani non permise una vera coesione morale tra i combattenti della Resistenza e i reparti dell'Esercito faticosamente costituiti al Sud per combattere a fianco degli Alleati, considerati dai partigiani, nonostante la retorica propagandistica dispiegata non solo dalle autorità regie ma anche dagli stessi partiti del CLN, modesti resti di un'istituzione completamente screditata. Alla metà di settembre i nuclei più forti di partigiani erano nell'Italia settentrionale, circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell'Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, di cui 300 raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo. In Piemonte le formazioni si costituirono nelle valli alpine, specialmente nelle Alpi Marittime: In Val Pesio sorsero le formazioni autonome del capitano Cosa; in val Casotto iniziarono ad organizzarsi le efficienti formazioni autonome guidate dal maggiore degli Alpini Enrico Martini "Mauri"; nelle colline di Boves salirono i reduci della IV Armata guidati da Ignazio Vian; in Valle Gesso si costituì la formazione Italia Libera per iniziativa di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Benedetto Dalmastro da cui nasceranno le formazioni dei giellisti. Altre formazioni autonome si formarono in Val d'Ossola sotto la guida di Alfredo e Antonio Di Dio, fratelli e ufficiali effettivi, in val Strona con Filippo Beltrami, in val Toce con Eugenio Cefis e Giovanni Marcora e in val Chisone, guidati dal sergente alpino Maggiorino Marcellin "Bluter". Le formazioni gielliste e delle Brigate Garibaldi si organizzarono a Frise (unità gielliste con Luigi Ventre, Renzo Minetto, Giorgio Bocca, tutti ufficiali degli Alpini); a Centallo (autonomi e giellisti organizzati da altri tre ufficiali alpini tra cui Nuto Revelli), in valle Po, dove, sotto la guida di Pompeo Colajanni "Barbato", ufficiale di cavalleria comunista, si organizzò una forte formazione garibaldina con Giancarlo Pajetta, Antonio Giolitti, Guastavo Comollo; in val Pellice (giellisti); nel Biellese (nuclei di comunisti con vecchi antifascisti come Guido Sola, Battista Santhià e Francesco Moranino "Gemisto"); soprattutto in Valsesia dove si costituirono le formazioni comuniste garibaldine guidate da combattenti prestigiosi come Vincenzo Moscatelli "Cino", Eraldo Gastone "Ciro". Altri nuclei di partigiani si costituirono in Lombardia nel Varesotto, dove il colonnello Carlo Croce organizzò sul monte San Martino un gruppo di soldati sbandati; nella Valsassina, nelle valli bergamasche. Nel Veneto e in Friuli la situazione era ancor più confusa: nella provincia di Gorizia era attiva fin dal 1941 la crescente resistenza slovena. Si formarono numerosi gruppi cattolici tra cui quello di Mario Cincigh, e azionisti (con Fermo Solari e Alberto Cosattini), mentre i comunisti, guidati da capi come Giovanni Calligaris, Mario Lizzero, Otello Modesti, Giovanni Padoan "Vanni" e Ferdinando Mautino "Carlino" cominciarono a costituire le formazioni garibaldine che avrebbero poi dato vita alla Divisione Natisone. Non mancarono nemmeno i liberali, come Francesco Petrin che dopo aver condotto un'intensa propaganda antifascista ed assistenza agli alleati prese parte attiva alla guerra di liberazione nella brigata G. Negri di Padova. Nel resto dell'Italia occupata dai tedeschi si organizzarono altri gruppi in Emilia e in Romagna, guidati dal comunista Arrigo Boldrini "Bülow" e da Silvio Corbari, operaio meccanico di Faenza ed ex calciatore, la cui "banda" divenne famosa e temuta per le sue arrischiate incursioni contro le basi nemiche. In Toscana sorsero "bande" sul passo dei Giovi e sul monte Morello, in Umbria (con la partecipazione di ex-prigionieri slavi); nelle Marche, sotto la guida di Spartaco Perini alcune centinaia di uomini si radunarono al colle San Marco; infine in Abruzzo al bosco Martese confluirono militari sbandati e volontari comunisti e giellisti, mentre Ettore Troilo iniziò costituire la sua "banda Patrioti della Maiella" che il 5 dicembre 1943 avrebbe attraversato le linee del fronte entrando a far parte dello schieramento alleato e participando con distinzione a tutta la campagna d'Italia lungo il versante adriatico. Le decisioni politiche prese soprattutto dai dirigenti del Partito comunista a Roma ebbero decisiva influenza sulla crescita del movimento: Pietro Secchia, "Botte"o "Vineis", ex operaio biellese, comunista fin dalla fondazione del partito, imprigionato dal regime fascista dal 1931, liberato da Ventotene il 19 agosto 1943, venne incaricato, durante una riunione tenuta a Roma il 10 settembre 1943, di recarsi a Milano, per organizzare insieme ad altri dirigenti del PCI inviati al nord, la guerra partigiana. Secchia raggiunse Milano in treno il 14 settembre dopo essere passato per Firenze e Bologna ed aver raggiunto Cino Moscatelli a Borgosesia, per diffondere le direttive del partito tra numerosi militanti provenienti dall'antifascismo attivo[42]. Tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo "Italo", già dirigente delle Brigate Internazionali in Spagna, partirà per il nord per affiancare Secchia nella organizzazione e direzione del movimento di resistenza[43]. Fin dal novembre 1943 i comunisti poterono costituire a Milano la prima struttura organizzativa unificata: il comando generale delle Brigate Garibaldi con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico; i componenti iniziali del comando furono, oltre a Longo e Secchia, Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini[44]. Le altre organizzazioni non costituirono comandi unificati ma si assistette comunque ad una proliferazione di Brigate, Divisioni e Gruppi di divisioni, in realtà costituite da poche migliaia di uomini e con strutture organiche rudimentali. Pietro Secchia ha messo in evidenza nelle sue opere storiche dedicate alla Resistenza alcuni elementi che egli ritiene fondamentali per comprendere la natura e la forza del movimento partigiano: egli sottolinea come la Resistenza ebbe successo soprattutto per la tenace, faticosa e determinata attività di minoranze cresciute negli anni della deprimente e durissima militanza antifascista prima della guerra. Secchia rifiuta la semplicistica definizione di "popolo in armi" e l'interpretazione del fenomeno come "epopea miracolosa"; secondo il dirigente comunista la Resistenza fu opera soprattutto di avanguardie, di quadri, che furono in grado di raccogliere e organizzare importanti masse di giovani. Secchia documenta come su 1.673 nomi di dirigenti importanti del movimento partigiano circa il 90% fossero militanti che erano già stati condannati al carcere, al confino o all'esilio dal regime fascista; egli quindi evidenzia questo rapporto di continuità e colleganza tra la militanza antifascista organizzata e il movimento partigiano. Finita la guerra in molti chiesero l'integrazione di tutti i reparti partigiani (o di quelli militarmente più validi) nell'esercito regolare, prevalse invece la linea del disarmo eseguito fra molti contrasti sotto la direzione del Ministro dell'interno Mario Scelba. Nel frattempo l'Italia, soprattutto al nord, divenne teatro di violenze generalizzate: da un lato ebbero luogo vendette sia politiche che personali che portarono all'omicidio di decine di migliaia di fascisti e non, dall'altro la liquidazione e il disarmo del movimento partigiano attuata dal governo. Le stime delle vittime delle violenze del periodo si stimano, secondo uno studio di Giorgio Bocca, in 3.000 persone solo a Milano e fra le 12 e le 15.000 in tutta l'Italia del Nord, altre stime fanno salire questa cifra fino a 50-70.000 persone o addirittura 300.000.
Per molti anni dopo la guerra valse la "leggenda" che l'Italia fosse stata liberata dal fascismo grazie alla lotta partigiana, come se i morti degli alleati che realmente ci liberarono avessero meno importanza. I partigiani venivano descritti tutti come valorosi, onesti e liberatori. Da quella leggenda nasce in Italia l'antifascismo postbellico quasi come una categoria del pensiero per cui "chi non è antifascista è fascista". Purtroppo è sull'«ortodossia antifascista» che si disegna una dogmatica descrizione del fascismo come «strumento del capitale» che ha creato la patologica negazione dell'elementare realtà di un fascismo di massa causato da molteplici ragioni che storici come De Felice hanno esaminato gridando nel deserto. La menzogna ha alimentato la sinistra per tanti anni. Ogni legittimazione, a partire da quella del nuovo Stato italiano, ha avuto come marchio quello dell'antifascismo nella sua versione depurata da ogni falla, ogni frattura, ogni errore, ogni orrore. «Il trasformismo di massa» fu dell'intera classe dirigente, politici, burocrati, professori universitari, magistrati, militari, industriali, vissuti con pieno agio all'ombra del fascio, i quali si trasferirono senza colpo ferire nella «repubblica democratica nata dalla resistenza». Il riciclaggio silenzioso è stato in seguito il sistema prescelto da ogni gruppo sociale e politico in vena di cambiamento: zitti zitti piano piano, si cambia senza riconoscerlo, scivolando via. L'arco costituzionale, l'unità democratica, il centro sinistra... Tutte queste espressioni sono di fatto la casa dei buoni a fronte della quale perfidi nemici disonesti, vere carogne sempre di destra, tramano per un nuovo fascismo. «L'inautenticità si instaurò nel cuore della repubblica» per esaltare la collettiva «trasformazione democratica» sostiene Ernesto Galli della Loggia. Il finale cui si arriva, percorrendo molto bene tutta la storia recente, suggerisce che adesso è ora di restituire all'Italia «la dimensione stessa del proprio passato... perché possa esserci un futuro». Ma resta il peso schiacciante di ciò che è stato, e che si legge in ogni riga della maggioranza della stampa italiana, nell'atteggiamento di ancora troppi intellettuali, politici o, semplicemente, cittadini.
2.5.2 Il revisionismo
Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la storiografia e la cultura italiane erano divise da barriere ancora molto rigide e una ricerca che contraddicesse l'interpretazione storiografica prevalente del fascismo, di Mussolini e della guerra di liberazione, si esponeva a forti critiche e pesanti polemiche; lo storico venne accusato dalla sinistra di giustificare il fascismo e di eccessiva adesione al personaggio oggetto del suo lavoro. D'altra parte, le sue ricerche, poi riconosciute da buona parte degli accademici come serie e scrupolosamente documentate, furono spesso piegate (con evidenti forzature delle tesi defeliciane) dai seguaci delle teorie revisionistiche al fine di negare le responsabilità storiche del fascismo. Il mondo antifascista reagì accusando De Felice di "revisionismo" e accomunandolo spesso a storici invisi e considerati anch'essi revisionisti. De Felice reagì, da una parte ribadendo le sue tesi in libri discussi ma sempre di tono "scientifico", dall'altra, con articoli che pubblicò su Il Giornale, o in alcune interviste rilasciate a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, utilizzando il mezzo giornalistico per aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti. In definitiva il lavoro svolto da De Felice permise l'inizio di un nuovo modo di porsi riguardo allo studio degli anni del fascismo, affrancando quest'ultimo "dagli stereotipi e dalle secche dell'antifascismo di maniera".

Uno dei più importanti scrittori e storici del periodo post bellico è Giampaolo Pansa che a me piace ricordare perchè le sue analisi sono illustrate all'interno di romanzi che rendono quelle analisi più "reali".
Negli anni della sua collaborazione al quotidiano la Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Nel settore dei saggi storici la sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti, Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I gendarmi della memoria. I suoi libri sul revisionismo gli procurarono molte critiche da parte della sinistra e offese da parte di colleghi del Gruppo Editoriale l'Espresso atteggiamenti che lo costrinsero ad abbandonare il Gruppo.
Il libro di Giampaolo Pansa che più fa arrabbiare gli "antifascisti è La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti. Infatti, mai in maniera così netta come nell'Introduzione al volume (di cui pubblico un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.
"Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiarò fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiutò di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provocò una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile."

"De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Togliatti veniva chiamato il Migliore, ma per molti era il Peggiore perché s’inchinava davanti ai Stalin. L'editore Feltrinelli non è stato eliminato dai servizi segreti, si è ucciso nell’inseguire la chimera di una rivoluzione proletaria. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat". Sono alcuni dei giudizi che troviamo in Sangue, sesso, soldi. Un titolo che fotografa la natura profonda dell’Italia che abbiamo costruito dal 1946 in poi. Giampaolo Pansa la racconta con la lucidità del testimone e la forza del narratore capace di evocare con secca efficacia personaggi, ambienti, vizi e virtù, tragedie e commedie di sessant’anni di vita italiana. Soltanto lui poteva scrivere una storia controcorrente come questa, dove la cattiveria allegra gli consente di evitare la spocchia delle narrazioni accademiche e la palude di una storiografia al servizio della politica. Sangue, sesso, soldi è un libro anarchico e sorprendente. La scena è occupata anche da sconosciuti, donne e uomini che presentano le loro storie private. E ci aiutano a intravedere un’Italia ormai al di là dei sessant’anni, una signora matura che ha creato molto e peccato tanto. Le traversie, gli amori, le nefandezze della Repubblica vengono narrati da una prospettiva insolita che ne rivela i lati ambigui e smentisce le ricostruzioni di comodo.
Alcuni stralci del libro
"La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un'Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un'Italia che sembrava destinata a diventare all'istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent'anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. C'è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch'io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell'ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch'esso bianco, pantaloni corti di panno ruvidogrigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c'è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c'era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un'opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l'Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. ......Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei. Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l'insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s'indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. (...) L'Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945. .......Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell'ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l'Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un'Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. (...) Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s'impara in quattro e quattr'otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent'anni di dittatura scopre l'asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell'Italia che all'inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti. In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s'inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. Perché ho deciso di ripercorrere sessant'anni di vita italiana? (...) A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant'anni. Mi inquieta l'avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo lungo e a diventare sempre più pesante. Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta.".
Il passato che torna "(...) Ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all'interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. (...) Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l'attenuante dell'età. Ho scoperto che, con l'avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all'adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L'aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L'avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell'Aquila e Il sangue dei vinti. Un'esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti di storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un'immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti.
I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l'alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l'accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell'Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall'amianto.
Revisionista? " SÌ Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l'etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s'intende l'opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Alcide De Gasperi ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell'Unione Sovietica. L'aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo.
Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero - il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un'invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa. L'editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell'inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com'era lui. L'avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori. Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l'hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me.".

Eia Eia Alalà (sottotitolo Controstoria del fascismo) è il titolo di un altro romanzo/saggio di Giampaolo Pansa, edito da Rizzoli nel 2014. Si tratta di un romanzo che può definirsi "storico" in quanto tratta, attraverso il racconto in forma autobiografica, il periodo storico vissuto dall'Italia, e in particolare dalla Lomellina, nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale e quella della seconda. La finzione consiste nel fatto che il protagonista narra in forma epistolare, rivolgendosi alla figlia Paola, gli eventi verificatisi in quel periodo, dei quali egli fu osservatore e, molto parzialmente, protagonista.
Il romanzo inizia con lo scrittore che, in prima persona, narra di essere stato contattato da una ex compagna di liceo, Paola Magni, avvocato di fama a Milano, la quale gli propone di trarre un romanzo dalla narrazione che il padre Edoardo le ha fatto e che lei ha registrato e poi trascritto, sulle vicende vissute nel periodo fra le due guerre mondiali. Il padre di Paola inizia così la narrazione in prima persona, come se scrivesse alla figlia Paola.
Edoardo Magni, classe 1890, era l'unico figlio di Ermete, un ricco proprietario terriero, che abitava a Casale Monferrato e che possedeva una grossa tenuta agricola nella zona di confine fra Piemonte e Lombardia, in Lomellina. Prestato con onore il servizio militare, come ufficiale, nella prima guerra mondiale, era rientrato a casa e dopo un periodo di inattività, aveva iniziato ad occuparsi anche lui dell'azienda agricola, subentrando a poco a poco al padre nella conduzione dell'azienda. In quel primo periodo spadroneggiavano nelle campagne i socialisti, che, attraverso scioperi violenti ed intimidazioni personali, cercavano d'imporre il loro potere sui proprietari terrieri. Sorsero così, per reazione, i primi movimenti di squadrismo fascista, appoggiati finanziariamente dai proprietari terrieri, che si vedevano a poco a poco togliere il controllo sui propri stessi beni. Edoardo è un giovane disilluso, che parteggia per l'ascesa al potere di Mussolini, ma senza partecipazione attiva alla politica, limitandosi a sostenete il nascente movimento con contributi in denaro. Ben lontano dal cercar moglie, ma molto attratto dalle donne, passa da un'amante all'altra, intrattenendo relazioni quasi esclusive e piuttosto durature con ognuna di esse, per periodi di più anni, alla fine dei quali sono sempre loro a lasciarlo per una relazione più stabile, cioè il matrimonio.
Prima la bella vedova Rosa Ferraresi, maestra elementare a Mortara, poi la giornalista del Popolo d'Italia Anna Lorenzetti, quindi la contabile e collaboratrice diretta di Cesare Forni, Elvira Cognetti, e infine l'ebrea Marianna Levi. Nel periodo tra le ultime due riesce a sposarsi, grazie anche alle pressioni del padre Ermete, con una giovane di buona famiglia, Camilla De Michelis, che gli dà una figlia, Paola appunto, ma che sparisce presto dalla scena del romanzo, lasciandolo vedovo. È attraverso i colloqui con le amanti, sempre ben informate, spesso più di lui, che si snodano le vicende storiche di quel periodo: vengono descritte le vicende dei protagonisti politici del tempo, locali ma anche nazionali, quali i socialisti Giuseppe Rampini e Umberto Ricolfi, i fascisti Cesare Forni, Cesare Maria De Vecchi, Giovanni Passerone, Francesco Giunta, il marchese Cesare Carminati Brambilla, Aldo Finzi e altri e, sullo sfondo, sempre Benito Mussolini.

In particiolare, Edoardo Magni stringe un patto di alleanza e di amicizia con Cesare Forni, del qule è interessante conoscere la storia.
Nato nella più potente famiglia di latifondisti lomellini studia ingegneria presso il Politecnico di Torino senza terminare gli studi. Di carattere irrequieto e ribelle, partecipa alla prima guerra mondiale, guadagnandosi il grado di capitano nel corpo dei Bombardieri, reparto che, al pari degli Arditi, era destinato alle azioni più pericolose. Nel 1919, convinto dall'allora capitano Cesare Maria De Vecchi, aderisce allo squadrismo fascista, di cui diventa rapidamente un esponente di spicco, fondando anche un giornale, Il Trincerista. Nel frattempo, trasferitosi a Mortara, centro politico ed economico della Lomellina di allora, crea un autentico esercito personale, composto da centinaia di squadristi, in maggioranza reduci. In breve, è riconosciuto quale ras incontrastato dell'intera provincia di Pavia. Le sue squadre imperversano soprattutto in Lomellina, con azioni di estrema violenza e spregiudicatezza. Nel 1921 diventa membro del Comitato Centrale del PNF in rappresentanza della Lombardia. Mussolini gli affida il coordinamento di tutte le squadre di Lombardia e Piemonte nei giorni della Marcia su Roma. Popolarissimo tra gli squadristi, dopo la Marcia su Roma e la presa del potere, viene considerato sempre più come un personaggio scomodo quindi come un vero e proprio dissidente. In ciò giocano due fondamentali fattori: le sferzanti accuse di Forni nei confronti del fascismo cittadino, del dilagante arrivismo di molti gerarchi e "gerarchetti", e la diffidenza verso di lui mostrata da un Mussolini ormai definitivamente schierato dalla parte degli ambienti tradizionalmente conservatori e dei potentati economici. A emarginare ancor di più il Forni dall'ormai consolidato potere fascista sono i suoi violenti attacchi contro la nuova classe dirigente del partito. A tal proposito sfida in un duello alla sciabola l'allora segretario politico Francesco Giunta, beniamino di Mussolini, duello che ha luogo nell'aprile del 1923 a Roma e viene sospeso dai padrini quando entrambe i duellanti restano feriti. Altro motivo di scontro è il mancato rispetto dei patti agrari da parte dei latifondisti pavesi, molti dei quali vedono nel fascismo la possibilità di ristabilire le condizioni di sfruttamento del periodo d'anteguerra. Cesare Forni la pensa diversamente, giungendo a contrastare personaggi quali il conte Brambilla di Semiana. Per circa due anni Forni assume il ruolo di potenziale e diretto rivale di Mussolini alla guida del fascismo, al punto di presentare, in occasione delle elezioni del 1924, per il rinnovo del Parlamento italiano una propria lista elettorale, in alternativa al Partito fascista, denominata Fasci Nazionali, e per questo Mussolini non lo perdona. Il 12 marzo 1924 Cesare Forni è gravemente ferito alla stazione centrale di Milano in un'azione squadrista, ordinata dal Duce, e messa in atto da parte di Dumini, Volpi, Malachia, i consorziati nella cosiddetta Ceka Fascista. Gli stessi che di lì a poco avrebbero ucciso Giacomo Matteotti. Il 26 aprile 1924 si svolgono le elezioni e Cesare Forni risulta eletto unico deputato della sua lista. Cesare Forni rimane comunque fedele a Mussolini, supponendo che il Duce non fosse al corrente delle azioni dei gerrachi, e vota più volte la fiducia al suo governo, compresa quella richiesta dal Duce dopo il delitto Matterotti. Tuttavia, deluso e politicamente ormai del tutto ai margini, getta la spugna, ritirandosi a vita privata. Nel romanzo/saggio Edoardo Magni resta sempre un amico fedele del Forni che viene sempre aiutato economicamente, nelle sue battaglie prima contro i rossi e successivamente contro il degrado del fascismo.

L'ultima parte del libro è dedicata alla persecuzione contro gli ebrei innescata dal decreto legge del 17 novembre 1938 e inasprita dalle norme successive. Nel 1934, poco dopo la nascita della figlia Paola, la moglie Camilla assume una bambinaia ebrea, Ester Segre, studentessa universitaria costretta a lavorare a causa di ristrettezze economiche della famiglia. Incuriosito dalla sua religione, Edoardo le chiede spesso informazioni sulla religione ebraica e sulle abitudini del suo popolo, finché Ester non lo accompagna a visitare il ghetto di Casale e qui gli presenta una sua amica, Marianna Levi, segretaria del direttore della Eternit e ottima conoscitrice delle vicende del suo popolo. Presto i due divengono amanti. Intanto Edoardo rimane vedovo e il governo emette le leggi razziali. La situazione di Marianna e dei suoi correligionari si fa sempre più difficile e diventa critica con lo scoppio della guerra e poi con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Edoardo, che si era rifiutato di licenziare la bambinaia ebrea, prende sotto la sua protezione anche Marianna, trasferendola con sé nella casa della sua tenuta agricola. Riesce a impedire l'intervento dell'autorità fascista corrompendo e poi ricattando il commissario di polizia di Casale, competente per territorio al rastrellamento degli ebrei. Si snoda così il racconto delle vicende dei correligionari di Marianna, avviati via via verso il campo di transito di Fossoli, per il successivo trasferimento ad Auschwitz e ad altri campi di concentramento nazisti, dai quali non faranno più ritorno.
Il romanzo/saggio si chiude con la fine della guerra, della Repubblica Sociale Italiana e l'evacuazione dei militari tedeschi e con il congedo di Marianna da Edoardo. La donna infatti, sconvolta da ciò che ha visto durante il periodo di guerra riguardo ai suoi correligionari casalesi e afflitta da una specie di complesso di colpa nei loro confronti per essere sopravvissuta, non riesce più a sopportare di rimanere nei luoghi ove sono state commesse tante nefandezze verso persone che conosceva fin da bambina e, nonostante la proposta di matrimonio fattagli da Edoardo, decide di lasciare l'Italia per trasferirsi in Israele. A questo proposito tempo fa lo stesso Pansa scrisse in un articolo " ... Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia."

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17 gennaio 2017

 

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www.impresaoggi.com