La donna nel mondo del lavoro

Le distorsioni che servono
Per far crescere l’occupazione femminile è utile ispirarsi a una legge che ha funzionato, quella delle quote rosa. Le “distorsioni temporanee” da introdurre per sanare quelle esistenti che ostacolano il tasso di partecipazione femminile riguardano numerosi campi, dal mercato del lavoro alla tassazione. Ma occorre anche una battaglia culturale per incentivare le ragazze a scegliere studi scientifici e valorizzare le capacità acquisite con la maternità.
“Perché le donne contano. Promuovere l’equilibrio di genere nelle strategie di politica economica”: questo il titolo del convegno tenutosi presso il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, in collaborazione con l’Aspen Initiative for Europe, l’Ocse e Women Empower the World, il 21 ottobre scorso. “Perché le donne contano. Promuovere l’equilibrio di genere nelle strategie di politica economica”: questo il titolo del convegno tenutosi presso il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, in collaborazione con l’Aspen Initiative for Europe, l’ocse e Women Empower the World, il 21 ottobre scorso.
La domanda insita nel titolo può sembrare banale, ma solo in apparenza. La risposta invece è davvero semplice: le donne contano perché contribuiscono alla crescita. Con più donne inserite nel mercato del lavoro, il tasso di sviluppo è maggiore. L’evidenza empirica lo dimostra, in particolare per un paese come l’Italia.
Se il tasso di occupazione femminile – attualmente al 50,6% – salisse al 60% (il livello medio europeo), la ricchezza per abitante aumenterebbe di circa un punto percentuale l’anno.
Si tratterebbe di un contributo importante per un’economia come la nostra che stenta a ripartire. La crescita è la metà della media europea, e non ha ancora recuperato il livello pre-crisi: rispetto al 2005, il divario accumulato in termini di pil pro capite è di 4 punti con la Spagna, 15 con gli altri partner europei e quasi 20 con la Germania.
L’Italia, peraltro, non solo si posiziona in fondo alla classifica in termini di presenza femminile sul mercato del lavoro (è terz’ultima dopo la Grecia al 46% e la Turchia al 32,5%), ma è anche il paese che negli ultimi dieci anni che ha registrato la performance peggiore: dal 2006 a oggi, il tasso di occupazione femminile è aumentato del 2%, un terzo della media europea e un sesto dell’incremento registrato in Germania. Al sud del paese, la situazione è ancora più preoccupante: solo il 31% delle donne ha un’occupazione (la percentuale scende al 7,6% per le giovani donne). Peraltro, nonostante poco meno della metà delle italiane non abbia un lavoro, il tasso di fecondità è inferiore a quello della media dei paesi sviluppati – 1,29 contro 1,6 – ed è anche in diminuzione (nel 2008 la media era dell’1,34), a dimostrazione che l’occupazione femminile non incide in senso negativo sulla natalità, semmai la favorisce. In Francia, ad esempio, lavora il 60% delle donne e il numero medio di figli è pari a 2.
Alla luce di questi dati, si potrebbe concludere che fino a ora i provvedimenti di politica economica volti a favorire l’occupazione femminile non siano stati molto efficaci. In realtà, una misura che ha funzionato – sebbene in un segmento ristretto del mercato del lavoro – esiste ed è quella sulle quote di genere, più conosciuta come la legge sulle “quote rosa”.
Questa legge, entrata in vigore nell’agosto del 2011 grazie alla tenacia e alla perseveranza di due parlamentari, Lella Golfo (Forza Italia) e Alessia Mosca (Partito Democratico), ha introdotto l’obbligo per le società quotate in borsa (poi esteso anche alle società a controllo pubblico) di riservare al primo rinnovo degli organi sociali almeno un quinto dei posti (un terzo per i successivi rinnovi) al genere meno rappresentato, che attualmente è quello femminile. L’obbligo, però, non è per sempre: vale solo per tre mandati. La legge ha una natura temporanea perché l’obiettivo da raggiungere è quello di non averne più bisogno una volta trascorsi i dieci anni della sua durata.
Dall’analisi dei dati si evince che le quote rosa stanno dando i loro frutti. Il numero di donne presenti nei consigli di amministrazione è salito dal 5% del 2007 al 27 del 2015. Così, almeno da questo punto di vista, l’Italia ha conquistato una posizione in testa alle classifiche: solo la Francia e alcuni paesi del nord, come la Finlandia e la Svezia, fanno meglio.
Nonostante questi risultati, la legge Golfo-Mosca continua a essere criticata: “Un recinto in cui si è voluto circoscrivere la presenza femminile” ha dichiarato di recente il sindaco di Roma, Virginia Raggi. A molti – e a molte – non piace che le donne siano scelte unicamente per rispettare vincoli numerici. Il rischio, secondo i detrattori di questa norma, è quello di far passare in secondo piano criteri come la competenza, il merito e l’esperienza. Se queste critiche in alcuni casi appaiono fondate, resta il fatto che la “persuasione”, strumento utilizzato prima dell’introduzione della normativa, non ha funzionato.
Il successo della Golfo-Mosca dimostra, infatti, che l’unico modo per sanare una situazione “molto distorta”, come quella dei consigli di amministrazione italiani composti prevalentemente da uomini, è quello di introdurre una “distorsione” – ma di segno opposto – come le quote di genere.
Per incrementare l’occupazione femminile in senso lato, e non solo nei consigli di amministrazione, il metodo della “distorsione temporanea” andrebbe dunque replicato. Gli ambiti in cui intervenire perché la situazione di partenza è fortemente sbilanciata a sfavore delle donne sono molteplici: dal mercato del lavoro alla tassazione, alla formazione, ma anche a quello della comunicazione.

donna

La prima distorsione cui fare ricorso potrebbe essere quella dei cosiddetti “mini-jobs”, quei contratti molto utilizzati in Germania in cui si lavora 15-20 ore settimanali per un salario base di 450 euro (ferie, malattie e maternità sono pagate a parte, così come la previdenza sociale è a carico del datore di lavoro che paga il 15% al fondo pensione e il 13% per le malattie).
I mini-jobs furono introdotti nel 2003 dall’allora cancelliere Schröder per riattivare l’occupazione tedesca, ma soprattutto per facilitare l’entrata nel mondo del lavoro delle donne. Da questo punto di vista, la misura è stata efficace. Oggi, su un esercito di oltre 7 milioni di “mini-jobbers” due terzi sono donne, impegnate per lo più nell’assistenza domestica, nella ristorazione, nel turismo, ma anche nelle piccole e medie imprese che necessitano di mano d’opera per un periodo di tempo limitato. Anche grazie a questo tipo di contratti, il tasso di occupazione femminile in Germania è cresciuto nell’ultimo decennio di oltre dieci punti: dal 59,2% del 2004 al 69,5% del 2014.
Diversi analisti leggono in maniera critica questi dati perché sostengono che l’occupazione femminile sia aumentata solo in termini quantitativi e non in termini qualitativi: in effetti, il rischio per le donne di restare intrappolate nella precarietà con un lavoro scarsamente retribuito esiste.
Tuttavia, va considerato che a eccezione dei casi in cui diventare mini-jobber è stata una “scelta”, per molte tedesche, in particolare quelle prive di una formazione professionale, queste tipologie contrattuali sono state l’unica alternativa possibile al lavoro in nero, alla disoccupazione o all’inattività. Per un paese come l’Italia, che ha un tasso di inattività femminile quasi doppio di quello maschile (45,6% contro 25,9%, con picchi del 60% al sud), i mini-jobs possono, pertanto, rappresentare una chiave di accesso al mercato del lavoro.
La seconda possibile distorsione cui fare ricorso per aumentare il tasso di partecipazione femminile è quella della tassazione differenziata per genere. La proposta avanzata nel 2007 dagli economisti Andrea Ichino e Alberto Alesina si fonda sull’evidenza empirica che l’elasticità dell’offerta di lavoro femminile – soprattutto quella delle fasce meno abbienti – sia maggiore di quella maschile. Ciò significa che, a fronte di un incremento della retribuzione, le donne tendono a lavorare più degli uomini: una tassazione minore potrebbe dunque rappresentare un incentivo a entrare nel mondo del lavoro. L’obiezione principale che viene mossa a questa proposta è che il vero ostacolo all’occupazione femminile non sia tanto l’entità della retribuzione, quanto la carenza di servizi di cura. Negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, però, dove questi servizi non abbondano, il tasso di occupazione femminile resta comunque elevato. In queste economie, infatti, il lavoro femminile è facilitato da una più equa distribuzione tra l’uomo e la donna delle mansioni da svolgere in ambito familiare.
In Italia, invece, la distribuzione è particolarmente sbilanciata. I dati Istat rilevano che i tre quarti del carico del lavoro familiare poggiano sulle spalle delle donne. In una situazione cosi “distorta”, introdurre una “distorsione” come la tassazione differenziata può rappresentare una strategia efficace. Un reddito maggiore, derivante da una minore imposizione fiscale, consentirebbe di rafforzare il potere negoziale della donna all’interno della coppia. Anche perché con un maggiore reddito alcuni dei servizi di cura potrebbero essere acquistati direttamente sul mercato.
La distorsione che si verrebbe a creare sarebbe, peraltro, temporanea: una volta raggiunto l’obiettivo anche dal punto di vista culturale, le aliquote potrebbero ritornare ad allinearsi. Proprio come nel caso delle quote rosa, la tassazione differenziata dovrebbe servire a velocizzare un processo che altrimenti sarebbe difficile da mettere in moto.
Anche nel campo della formazione il ricorso a distorsioni temporanee potrebbe servire a sanare una situazione distorta come quella della scarsa presenza femminile nei percorsi di studi scientifici, i cosiddetti percorsi universitari stem (science, technology, engineering, mathematics). I dati ocse pubblicati nel rapporto “Education at a Glance” rivelano che in Italia solo un terzo dei laureati in ingegneria, nelle discipline del settore manifatturiero e della costruzione è di sesso femminile. Eppure queste facoltà dovrebbero essere quelle più richieste, dal momento che garantiscono sbocchi professionali (la disoccupazione per i laureati stem è inferiore al 2%) e guadagni maggiori del 33%.
Parte della responsabilità di queste scelte è da ricercare all’interno della famiglia. Un’analisi dei dati Pisa effettuata dall’Ocse rivela che i genitori italiani sono due volte più propensi a indirizzare i figli maschi verso una carriera stem, nonostante le figlie femmine abbiano conseguito risultati scolastici migliori nelle materie scientifiche. Il cambiamento culturale potrebbe essere velocizzato introducendo tasse universitarie differenziate per genere. Minori tasse servirebbero, infatti, da incentivo per le ragazze a scegliere percorsi di laurea scientifici. Una volta normalizzata la situazione, la distorsione potrebbe venire meno.
Infine, l’occupazione femminile potrebbe essere promossa anche attraverso un cambiamento della comunicazione, a cominciare dal tema della maternità. L’Italia è un paese dove vi è un problema serio nel rapporto maternità-lavoro: secondo l’Istat, nell’ultimo decennio le donne che hanno perso il lavoro dopo la maternità sono aumentate del 40%. Inoltre, in base ai dati Ocse, l’Italia registra il tasso di occupazione minore tra le donne con almeno due figli. Per sanare questa situazione si potrebbe intervenire anche dal punto di vista della comunicazione, presentando la maternità non più come un “ostacolo” al lavoro bensì come un “vantaggio” da sfruttare.
Studi recenti dimostrano, infatti, che l’esperienza della nascita e della cura dei figli consente di acquisire e di mettere in atto una serie di capacità – come la flessibilità, la creatività ma anche l’essere multitasking e buon motivatore – determinanti nella vita lavorativa. È chiaro che far passare il messaggio che essere madre corrisponde ad avere maggiori capacità professionali rischia di discriminare le donne che non lo sono: e tuttavia, sarebbe una “distorsione” – se temporanea – utile per realizzare un cambio di paradigma che stenta ad affermarsi.
Introdurre distorsioni temporanee per promuovere l’equilibrio di genere, in particolare nel mercato del lavoro, può sembrare una strategia dannosa e controproducente. Del resto, anche l’introduzione delle quote rosa fu accompagnata da una valanga di critiche. Eppure, le quote stanno funzionando e stanno riequilibrando una situazione che altrimenti non sarebbe cambiata, almeno non in tempi brevi.
Inutile nasconderlo: il genere ha ancora un’influenza (almeno inconscia) nella selezione e valutazione delle capacità di un candidato. Diversi esperimenti effettuati negli Stati Uniti dimostrano, infatti, che l’unico modo per incrementare la scelta di direttori d’orchestra donna è quella di organizzare selezioni al buio, con la tenda del palcoscenico chiusa. Le distorsioni sono utili perché contribuiscono a velocizzare il processo di cambiamento. Andrebbero quindi accolte con favore. Ciò richiede, tuttavia, da parte del legislatore, un certo coraggio e soprattutto una visione di lungo periodo.

Veronica De Romanis insegna Politica economica europea al Breyer Center for Overseas Studies della Stanford University. Scrive per diverse testate giornalistiche ed è membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi.

Tratto da www.aspeninstitute.it - 21 febbraio 2017

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