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Abolire le province?


Di Giuseppe Portonera

1. Premessa: un azzardo del legislatore ordinario
Uno degli obiettivi dichiarati della riforma costituzionale Renzi-Boschi era quello di risolvere uno dei classici temi della storia politica italiana: l’abolizione delle province. Essendo queste, infatti, indicate dall’art 114 Cost. quali enti costitutivi della Repubblica – al pari di comuni, città metropolitane, regioni e Stato – si rendeva necessario un intervento sul testo della Costituzione per ultimare il cammino di riforma orientato alla loro progressiva “soppressione”. Un passo fondamentale in questo senso è stato compiuto con la legge n. 56/2014 (di seguito: riforma Delrio), approvata in via definitiva dal Parlamento il 3 aprile 2014, che ha disposto la trasformazione delle province in enti di “secondo livello” (definiti di “area vasta”) e contestualmente la riduzione delle loro competenze. Si deve notare, in via preliminare, che il legislatore ha adottato, in questo caso, una “curiosa” modalità di normazione: anziché procedere prima a riforma del dettato costituzionale e solo successivamente all’adeguamento della legislazione ordinaria, ha deciso di operare in maniera inversa, lasciando quindi che la posteriore riforma costituzionale avesse il ruolo di mero “suggellamento” di quanto già deciso in via ordinaria. Com’è noto, però, la riforma costituzionale Renzi-Boschi, che espungeva dalla Costituzione ogni riferimento alle province, è stata bocciata in sede di referendum confermativo, lo scorso 4 dicembre.
Ciò ha posto un evidente problema di coordinamento tra intenzioni dichiarate e risultati conseguiti. Il legislatore ordinario ha, in questo senso, compiuto quello che non sembra eccessivo definire un vero e proprio “azzardo”: non foss’altro per il rispetto della gerarchia delle fonti, è opportuno infatti che in prima battuta si modifichi l’ordinamento costituzionale e solo dopo si proceda ad adeguare la legislazione ordinaria. Agendo al contrario, come ha fatto in questo caso, si finisce per mettere il carro davanti ai buoi: con i risultati, di confusione e approssimazione che si vorranno evidenziare in questo focus.
2. Lo stato dell’arte dopo la riforma Delrio: l’assetto istituzionale delle province
Come su indicato, la Camera dei deputati ha approvato definitivamente la riforma Delrio il 3 aprile 2014. A seguito di ciò, le province sono diventate enti di “secondo livello”: a norma del comma 54, suoi organi sono:
i) il presidente;
ii) il consiglio provinciale;
iii) l’assemblea dei sindaci.
La modifica più rilevante operata dalla riforma ha riguardato le modalità d’elezione degli organi dell’ente, non più “diretta” attraverso suffragio popolare, ma “indiretta”. Il presidente – che rappresenta l’ente; convoca e presiede il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci – viene infatti votato dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia (comma 58), deve essere a sua volta un sindaco (comma 60) e resta in carica quattro anni (comma 59), a meno che nel frattempo non cessi dalla sua carica di sindaco (in quel caso è prevista la decadenza automatica da presidente: comma 65). Sono eleggibili i sindaci della provincia il cui mandato non è in scadenza, cioè quelli distanti almeno 18 mesi dalla data delle elezioni (comma 60). Il presidente è organo monocratico, non più assistito da una giunta provinciale (può solo nominare un vicepresidente scelto tra i consiglieri provinciali e assegnare deleghe “operative” ai membri del consiglio provinciale, ai sensi del comma 66).
Il consiglio provinciale – che è organo di indirizzo e controllo – è composto dal presidente della Provincia e da un numero variabile di componenti, dipendente dalla popolazione della provincia. Resta in carica due anni (comma 68) ed è anch’esso frutto di un’elezione “indiretta”, che vede i sindaci e i consiglieri comunali dei comuni della provincia quali elettori attivi e passivi (comma 69). Anche qui, la cessazione dalla carica comunale comporta la decadenza da consigliere provinciale.
L’assemblea dei sindaci, costituita dai sindaci dei comuni appartenenti alla provincia, ha poteri propositivi, consultivi e di controllo; approva i bilanci e si occupa dell’approvazione e modifica degli statuti.
A norma del comma 84, gli incarichi di presidente della provincia, di consigliere provinciale e di componente dell’assemblea dei sindaci sono esercitati a titolo gratuito.
Questi primi cenni alla disciplina in esame confermano che la riforma ha in maniera approfondita (anche se non si capisce quanto “consapevole” realizzato, più che una ristrutturazione temporanea e transitoria dell’ente, in vista della sua successiva abrogazione per via costituzionale, una sua differente organizzazione.
3. I costi delle province
Quello dei costi è sempre stato uno dei temi più battuti per giustificare la soppressione delle province italiane. L’Istituto Bruno Leoni ha stimato il guadagno di una loro eliminazione completa in 2 miliardi di euro. Si tratta di stime basate su dati del 2009 e che non possono, quindi, tenere conto dei notevoli tagli dei trasferimenti dallo Stato centrale, da allora intercorsi. Appare quindi più opportuno prendere in considerazione un dato temporalmente più recente: torna utile, in questo senso, la stima fornita dal ministro Maria Elena Boschi, secondo cui la decostituzionalizzazione delle Province avrebbe comportato risparmi nell’ordine di 320 milioni di euro.
Anche chi ha assunto come ragionevole la cifra indicata, ha fatto notare che la maggior quota di questi risparmi sono già stati assicurati proprio dalla riforma Delrio, che ha eliminato i costi del personale politico (stimati in circa 115 milioni di euro/anno, riallocato le funzioni amministrative e disposto il riassorbimento dei dipendenti in altri enti. Per l’ex commissario alla spending review Perotti, i risparmi si sarebbero già quindi manifestati e sarebbero stati, in ogni caso, indipendenti dal processo di riforma costituzionale.
È da registrare che la modalità di normazione scelta dal legislatore ha influito anche sul tema della quantificazione dei “costi” delle province, rendendone più complessa una definizione: proprio sulla base del processo di riordino istituzionale avviato dalla riforma Delrio e in vista del loro (preventivato) definitivo superamento, è stata disposta – nella legge di stabilità 2015 – la riduzione sostanziosa delle risorse a disposizione delle province, nella forma di un prelievo a favore dello Stato centrale che va da un miliardo di euro nel 2015 a due nel 2016 a tre nel 2017.
Paradossalmente, quindi, un ente che sarebbe dovuto sparire dal nostro ordinamento è ora, invece, a seguito della sua mancata decostituzionalizzazione in squilibrio strutturale.
4. Il personale delle province
Sulla definizione dei costi dei nuovi enti di area vasta pesa inoltre il processo di ricollocamento dei dipendenti dei vecchi enti provinciali (la legge di stabilità 2015 ha, infatti, disposto la riduzione del 50% del personale delle province e del 30% di quello delle città metropolitane).
Ai nuovi enti di area vasta è rimasto assegnato:
1) il personale destinato alle funzioni fondamentali (a norma dei commi 85, 86 e 88);
2) il personale impegnato nelle funzioni eventualmente riassegnate a province o città metropolitane;
3) il personale di polizia provinciale necessario all’assolvimento delle funzioni fondamentali;
4) il personale dei centri per l’impiego, che sarà ricollocato solo in sede di attuazione del riordino delle funzioni in materia di servizi per l’impiego e le politiche attive del
5) il personale in attesa di collocamento a riposo (entro il 31/12/2016) con normativa precedente alla riforma Fornero.
Il 3 febbraio 2017 è stato annunciato il completamento del trasferimento del personale in eccedenza: secondo i dati disponibili, l’operazione ha complessivamente riguardato 16.007 dipendenti, dei quali:
• 7.185 ricollocati direttamente dalle regioni;
• 2.564 (di cui 2.192 con i requisiti pre-Fornero) con i requisiti per il pensionamento entro il 31 dicembre 2016;
• 5.505 con funzioni connesse al mercato del lavoro;
• 720 ricollocati secondo il decreto ministeriale 14 settembre 2015 (che regola il transito dei dipendenti della Croce Rossa Italiana, nonché dei corpi e servizi di polizia provinciale per lo svolgimento delle funzioni di polizia municipale).
I dipendenti delle province sono quindi passati dai 42.329 (dato 2014 13 ) a 26.322. Benché si tratti di un numero in linea con la stima effettuata nel 2014 da SOSE e Nomisma (secondo cui circa 27 mila dipendenti sarebbero stati sufficienti a gestire le funzioni fondamentali dei nuovi enti di area vasta), ci sembra opportuno avanzare qualche riserva sull’opportunità, ancora una volta, delle modalità scelte per il ricollocamento del personale, pensato in vista di una graduale scomparsa dell’ente provinciale che, tuttavia, non è avvenuta, rendendo lo stesso sempre più una scatola costituzionale “vuota”.
5. Le funzioni delle province
L’ultima notazione ci permette di introdurre un altro tema ampiamente valorizzato dai fautori della soppressione delle province: quello della scarsa rilevanza delle funzioni loro assegnate. Data la loro storica collocazione intermedia tra il comune e la regione, esse hanno da sempre scontato una debole definizione delle funzioni “proprie”, dovendosi piuttosto accontentare di competenze residuali ritagliate dalle attribuzioni agli enti sotto e sovra-ordinati.
Ciò si spiega anche in riferimento alla genesi dell’istituzione provincia nell’ordinamento costituzionale: la Seconda sottocommissione in Assemblea Costituente (che si occupò di “ordinamento costituzionale dello Stato”), sulla spinta di Luigi Einaudi e Costantino Mortati, respinse la posizione di chi – come Emilio Lussu – aveva caldeggiato un’abrogazione tout court delle province, esprimendosi, invece, in favore di un « quid medium » (come ebbe a definirlo il futuro Presidente della Repubblica nel suo intervento in sottocommissione il 31 luglio 1946) o di un «consorzio» tra i vari municipi che insistono su un medesimo territorio, «più ristretto della [...] provincia e con carattere più omogeneo», da collocare tra il comune e la regione.
Com’è noto, il progetto della sottocommissione fu però ribaltato dalla Commissione dei 75, che decise di inserire le province – di derivazione franco-sabauda – tra gli enti locali in cui si sarebbe ripartito il territorio nazionale, insieme a regioni e comuni. Il tema dell’abolizione delle province, tuttavia, era ben lontano dall’essersi sopito: al momento dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale, esso si ripropose con più vigore; ciò nonostante, non se ne fece nulla. Anzi: la legge n. 142/1990 – dando attuazione ai principi delle autonomie locali scolpiti in Costituzione all’art. 5 – sembrò rinvigorire la posizione delle province. Oltre a offrirne una definizione istituzionale (come «ente locale intermedio tra Comune e Regione» che «cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale»), la legge ne confermò le pre-esistenti funzioni, aggiungendovi anche un ruolo di programmazione in materia economica e urbanistica. Siffatta qualificazione – confermata dal d.lgs. 267/2000 – è stata infine recepita direttamente in Costituzione, attraverso la legge costituzionale n. 3/2001.
Ma si è trattato soltanto di un colpo di coda:
nonostante i proclami di segno opposto, il legislatore ordinario ha infatti continuato sulla via della progressiva spoliazione di competenze “pesanti” dell’ente provincia, in favore di più “fumose” attività. La riforma Delrio – dopo la “falsa partenza” del Governo Monti – si è inserita sul medesimo percorso. I commi 85, 86 e 88 della riforma hanno individuato le cosiddette “funzioni fondamentali” attribuite agli enti di “area vasta”. Tutte le altre competenze, previamente riconosciute alle province, sono state trasferite ai comuni e alle regioni (il processo di riordino segue il disposto dei commi 89 ss. ), in coerenza con i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione e sulla base delle indicazioni che sono state definite nell’Accordo sancito in Conferenza unificata l’11 settembre 2014.
6. Conclusione: le conseguenze della riforma Delrio. Un insegnamento
Come dichiarato in premessa, la riforma Delrio non ha fatto altro che accentuare le criticità evidenziate nei paragrafi precedenti: da un lato, non potendo abolire le province per via ordinaria, essa si è limitata a confermare in apparenza il processo di “svuotamento” delle loro competenze, affiancandovi in più degli enti “gemelli” come le città metropolitane; dall’altro, autorizzando una serie di pesanti interventi fiscali, ha finito per compromettere l’esercizio delle funzioni di un organo che è ancora costituzionalmente necessario. Si può poi sospettare che la mancata remunerazione degli incarichi politici provinciali non stimolerà gli amministratori locali a investire tempo e risorse, in maniera adeguata, nella gestione dell’ente di “area vasta”; e la loro elezione indiretta potrebbe porre qualche interrogativo sotto il profilo dell’efficacia del controllo democratico e diffuso del loro operato.
In conclusione, ci si potrebbe chiedere cosa abbia spinto il legislatore a operare in questo modo: vista l’enfasi posta sui risparmi derivanti dal taglio dei costi politici, forse la motivazione va cercata nel tentativo di offrire all’elettorato una risposta pronta ed efficace sul tema della cosiddetta “casta”. Ma una riforma del genere, nel concentrarsi esclusivamente sui costi degli emolumenti degli amministratori, ha finito per trascurare l’impatto dei costi “istituzionali” che derivano dalla confusione e, al tempo stesso dalla staticità, del quadro istituzionale.
A voler essere ottimisti, quindi, non resta che pensare che un effetto, la riforma in esame, l’abbia prodotto: insegnare la lezione che le riforme necessitano di un loro ordine, non necessariamente coincidente con la ricerca del facile consenso elettorale. A mettere il carro davanti ai buoi, si rischia di restar fermi.

Tratto da www.leoniblog.it - 28 febbraio 2017

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