Italia: vizi e virtù. Le politiche economiche dal 1945 al 1960


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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2.13 Le politiche economiche dei primi quindici anni del dopoguerra
Il successo dell'economia italiana, negli anni cinquanta, va cercato, anche, nella riapertura dei mercati esteri, fortemente voluta da Einaudi. Durate il fascismo, l'industria italiana era rimasta molto arretrata, rispetto al resto dell'Europa, a causa della politica autarchica.
In breve tempo, però, il sistema produttivo italiano può disporre di nuovi processi industriali, importati dall'estero, che, associati a una lunga tradizione di capacità artigianali specializzate e alla sovrabbondanza di manodopera a basso costo, consentono prodigiosi recuperi di produttività.
La prima metà degli anni '50 è ricordata, peraltro, dal movimento sindacale, come quella degli "anni duri". La Cgil vede limitata la propria libertà di organizzazione e di riunione, mentre gli imprenditori approfittano della debolezza del sindacato per procedere a drastiche riorganizzazioni. Gli anni cinquanta vedono, all'interno della Dc, contrapporsi due anime, quella che abbraccia la causa della modernizzazione e del liberismo e quella dell'integralismo cattolico secondo cui la società deve modellarsi sui valori cristiani e rifletterli. Se, a parole, quasi tutti i democristiani affermano di ispirarsi a questi ultimi principi, nella realtà, essi, inizialmente, non si oppongono alla politica liberista di Einaudi. Tale politica ha successo, nei primissimi anni del post-fascismo, grazie al concorrere di quattro elementi:
- in tutti i partiti serpeggia un timore inconscio: tutto ciò che sa di dirigismo e di interventi statali odora ancora di regime fascista,
- dagli stessi liberisti non viene negata quella dose di intervento pubblico di cui l'economia italiana ha sempre goduto,
- le imprese pubbliche sono guidate da buoni manager e da leader carismatici come Enrico Mattei e Oscar Sinigaglia;
- il piano Marshall, consente la ripresa dell'industria pesante e la diffusione di tecniche e modelli organizzativi anglo-sassoni.
L'orientamento dei primissimi anni del dopoguerra è, però, destinato a fallire per il concorrere di un'altra serie di ragioni:
? le aziende del settore bellico privato chiedono il salvataggio e vengono trasferite nel Fim, il Fondo per l'industria meccanica, creato nel 1947 e trasformato in Efim nel 1962;
? lo sviluppo industriale del mezzogiorno appare improbabile con le sole forze del mercato
? nessuno si pone seriamente l'obiettivo di avviare una privatizzare delle aziende in mano allo stato.
Le aziende pubbliche dovrebbero competere sul libero mercato, facendo profitti e assumendo in più l'onere di obiettivi di pubblico interesse. Nella realtà l'impegno di dover far fronte a obiettivi di pubblico interesse è, secondo i manager delle aziende di stato, talmente oneroso che viene attivato per esse il "fondo di dotazione", e cioè, un conferimento di capitale per coprire le perdite di gestione; questo modello di assistenzialismo imprenditoriale sarà una delle cause del degrado delle imprese pubbliche.
Nel sistema produttivo italiano si innesca un circolo perverso: le imprese private obsolete e fuori mercato vengono acquistate dallo stato che le tiene in vita con l'ossigeno dei fondi di dotazione. Il sistema politico riesce in tal modo a conseguire due risultati, l'imposizione del modello programmatorio su quello liberista e la costituzione di un canale diretto di trasmissione delle decisioni politiche verso il sistema economico.
Giorgio Ruffolo, uno degli ideatori della programmazione economica, ripensando agli anni sessanta, dirà, molti decenni dopo, «L'Italia era, dal punto di vista economico, un centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo. Quando si ammalava non si sapeva mai chi chiamare, se il medico o il veterinario. Un Paese …. nel quale il suo capitalismo, non propriamente efficiente dal punto di vista della competitività e dal punto di vista della robustezza industriale, era un capitalismo fortemente sovvenzionato. In quel quadro economico irruppe lo stato e intervenne l'impresa pubblica».
Osserverà Michele Salvati, che la storia dello stato imprenditore «….comincia molto prima della programmazione economica e della nazionalizzazione dell'energia elettrica. È infatti prima che si prendono decisioni fondamentali per la storia economica del Paese, per esempio alla fine della guerra, quando lo stato si trova in mano un'enorme quantità di partecipazioni lasciate in eredità dal capitalismo privato degli anni della grande depressione. …… È da lì che bisogna partire per capire come mai adottammo un modello di partecipazioni statali. Una cosa era certa: il capitale privato non era pronto».
Il punto di riferimento per giustificare la nascita dello stato padrone sta in queste parole magiche: i privati non erano pronti. Ma alla fine della guerra tutto nel Paese era debole e arretrato, ma a tutti vennero date opportunità di ripresa. All'amministrazione pubblica, imbevuta della cultura corporativa, vennero date ampie possibilità di riscatto, e ancora oggi soffriamo per quella fiducia, all'industria di stato, drogata da anni di autarchia e protezionismo, vennero firmate cambiali in bianco, creando mostruosità economiche; all'industria privata no, non si poteva dare alcuna opportunità. Perché? Perché alla fine della guerra i partiti egemoni, la Dc, il Pci e lo Psi erano tutti contrari a un rafforzamento del capitale privato e tutti contrari a una privatizzazione dell'eredità economica lasciata dal fascismo. I marxisti per problemi ideologici, i cattolici per un'antica avversione nei riguardi del capitale privato, simbolo dei peggiori istinti dell'uomo.
De Gasperi si sforza di tenere separate le questioni economiche da quelle politiche, ma la sua azione è condizionata dalle sinistre e da ampi settori della Dc, che tendono a indirizzare l'azione del governo verso una composizione di questioni economiche e di questioni politiche in un unico quadro programmatico (Glisenti, 2000). Alla borghesia industriale viene, peraltro, aperta la porta di un rapporto intimo con il potere politico; questa operazione consentirà alla Dc mezzo secolo di non belligeranza con il capitale privato. Al riparo dello scudo crociato la borghesia capitalista trova l'opportunità per serrare le fila a protezione di posizioni monopoliste. La creazione dello stato imprenditore e la commistione tra politica ed economia portano a due risultati negativi, tarpare le ali a una crescita fisiologica, sia dell'industria privata, che di quella pubblica, mantenere in vita il capitalismo familiare, modello di archeologia economica nei paesi più avanzati. Inoltre, i capitani d'industria e i grandi manager del 1945, Donegani, Olivetti, Marinotti, Cini, Valerio, Valletta, Borletti, Crespi, Volpi, Mattioli, per citarne alcuni, fisiologicamente, scompaiono e con essi declinerà la grande industria, lasciata alle sole cure di Mediobanca, capace di arditi progetti di ingegneria finanziaria (pur disponendo di una modesta potenza finanziaria), ma non in grado di formulare piani di rinnovamento industriale (Colajanni, 2000).
L'interpretazione che, molti anni dopo, Andreotti darà di quel decisivo passaggio dell'economia italiana è il seguente «In realtà, i comunisti, almeno quelli che contavano, non avevano grande fiducia nella proprietà statale dei mezzi di produzione, perché loro conoscevano da vicino quel che noi ancora non conoscevamo» e cioè i fallimenti delle pianificazioni economiche e delle gestioni pubbliche nei paesi comunisti. Lo stesso Bruno Trentin, per lunghi anni segretario della Cgil, sosterrà che i comunisti non avevano mai creduto fino in fondo alla proprietà statale dei mezzi di produzione. Il Pci, d’altronde, governa incontrastato nella "cintura rossa" d'Italia, in Emilia-Romagna. Nella regione che aveva fatto parte dello stato pontificio, anticlericalismo e radicalismo trovano una valvola di sfogo in un legame stretto e fedele con il Pci; il partito conduce una politica saggia e riesce a controllare e a pilotare il movimento cooperativistico, una forte tradizione della regione.
Alla fine degli anni '50, le cooperative diventano uno dei pilastri del potere comunista in Emilia, e costituiranno, per il Pci, una sperimentazione in corpore vili del "capitalismo dal volto umano".
E' opportuno sottolineare, in ogni caso, che tra il '56 e il '63 l'Italia compie, in campo economico, un balzo in avanti senza precedenti. Una ragione di primo piano spetta all'istituzione del Mercato Comune Europeo, dal quale il Paese trae vantaggi in termini di maggiore competitività e modernizzazione. In quegli anni, da Paese tradizionalmente esportatore di prodotti agricoli e dell'industria tessile, diventa importatore di prodotti agricoli (inizia la dipendenza dei ministri italiani dell'agricoltura dalle potenti lobby agricole di Germania e Francia, in cambio di aiuti sostanziosi al Mezzogiorno del Paese) ed esportatore di prodotti metalmeccanici. Protagonista di questa prima fase espansiva è la grande impresa: l'industria automobilistica entra nello stadio della produzione di massa, nascono grandi imprese per la produzione di elettrodomestici, il Paese è uno dei maggiori produttori di semilavorati d'acciaio, si consolida l'industria dei prodotti chimici e petroliferi.
La piccola e media impresa inizia la sua ascesa, specie in Lombardia e in Emilia Romagna; essa, peraltro, deve affrontare il problema della scarsità di capitale e non è ancora in grado di affrontare l'esportazione. La grande impresa è invece favorita dalla tipologia della domanda che si rivolge, prevalentemente, verso prodotti che si prestano alla produzione di massa (acciaio, auto, prodotti chimici e petroliferi, elettrodomestici). Per essa viene a realizzarsi una condizione per cui i volumi di produzione in forte crescita, grazie all'espansione della domanda, associati ad aumenti del costo del lavoro inferiori agli incrementi di produttività, consentono di aumentare i profitti e sostenere gli investimenti attraverso l'autofinanziamento.
Le industrie elettriche sono tra le più dirette beneficiarie di questo processo di sviluppo, grazie alla continua espansione della domanda di energia; la trasformazione della produzione da idroelettrica a termoelettrica e nucleare avviene tempestivamente, le scelte si rivelano corrette e gli investimenti sono cospicui, grazie alla notevole potenza finanziaria di cui dispongono. La loro potenzialità industriale è però sempre limitata e condizionata dal rischio della nazionalizzazione. Un effetto non trascurabile delle politiche economiche del dopoguerra è la trasformazione sociale degli italiani; l’Italia del boom economico è diventata una società di classi medie. L’incremento dei salari, la forte richiesta di manodopera e di specialisti, la nascita di piccole imprese di produzione e servizi hanno elevato il tenore di vita di milioni di italiani, portandone molti dalla povertà delle campagne all’appartamento di proprietà e a comodità prima impensabili. Le drammatiche discriminazioni di classe del periodo prebellico sono in parte scomparse, i ricchi sono pochi e dal punto di vista del reddito insignificanti rispetto alla robustezza della classe media, i poveri rappresentano una minoranza relativamente ristretta.
Vista con l’ottica degli anni sessanta la disuguaglianza estrema del passato poteva apparire come una fase passeggera, tipica dell’immaturità di una nazione da poco costituita e ai primi stadi della sua industrializzazione; ora che l’Italia era matura si pensava che la condizione normale sarebbe stata quella di una società relativamente equa. Non si poteva immaginare che l’ampliarsi del divario di ricchezza tra gli italiani sarebbe iniziato proprio per la responsabilità dei partiti che, lentamente, avrebbero portato uno stuolo di funzionari del pubblico impiego a livelli di reddito vergognosamente alti rispetto al ruolo e alle responsabilità ricoperte, alla corruzione che avrebbe creato enormi ricchezze a scapito del reddito di lavoratori e imprese e al fiume di danaro fatto affluire, quasi senza alcun controllo, verso il mezzogiorno d’Italia, da Roma e da Bruxelles. Si scopre, in sostanza, che per la distribuzione del reddito, contrariamente a quanto descrivono i manuali di economia, le istituzioni, i partiti, le leggine contano molto di più delle leggi di mercato.
2.13.1 Il problema energetico
Nei vari capitoli nei quali descriverò gli scenari economici una voce a se stante la dedico ai problemi energetici, perché la pessima gestione di tali problemi è costata alla nostra economia miliardi di euro e la perdita di produttività che si evidenzierà in modo drammatico nei primi anni del terzo millennio. D’altra parte il settore dell’energia è senza dubbio il più importante nell’economia di ogni paese, anche per i risvolti geopolitici che sottente. La sostenuta crescita degli anni cinquanta fa riemergere un vecchio problema del Paese, la scarsità di fonti d'energia e il sempre crescente fabbisogno energetico della produzione e dei consumi. Vengono sfruttate al massimo le potenzialità offerte dal sistema idroelettrico e vengono costruite centrali alimentate da combustibili fossili, tanto che nel 1952 la produzione di energia elettrica è già raddoppiata rispetto al 1938. Nel 1962, il 70% dell'energia elettrica è prodotta da impianti idroelettrici, ma dal 1962, con il petrolio calato a 10 $/barile e sotto la pressione dell'Eni, che spinge per un utilizzo massiccio degli idrocarburi, la produzione di energia elettrica da tale fonte subisce un'impennata.
Nel frattempo, nel settore privato si manifesta un notevole interesse per l'energia nucleare e vengono effettuati investimenti per valutare la possibilità di avviare un progetto italiano di reattore nucleare. Questo interesse dei privati è anche dovuto al tentativo di allontanare il pericolo della nazionalizzazione delle società elettriche, con la dimostrazione di una volontà dei privati di investire in ricerche a rischio. Il governo istituisce, da parte sua, il Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnrn, successivamente Cnen e infine Enea), con gli obiettivi dichiarati di sostenere lo sforzo dei privati. Nella realtà, la fondazione del Cnrn sarà il cavallo di Troia dello stato e dell’Eni per boicottare le iniziative delle società elettriche private nel settore nucleare.
Peraltro, il mondo della politica ha iniziato a discutere della nazionalizzazione dell'elettricità e l'associazione Amici del mondo è particolarmente attiva per il conseguimento di questo obiettivo. L'attivismo delle imprese private porta, nel frattempo, all'acquisto di tre centrali elettronucleari (Latina, 1958 - Garigliano, 1959 - Trino Vercellese, 1965).

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Eugenio Caruso - 16 marzo 2017


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