Alberto Beneduce e la fondazione dell'IRI

INVENTORI E GRANDI IMPRENDITORI

In questa sottosezione illustro la vita di quei capitani d'industria e/o inventori che hanno sostanzialmente contribuito al progresso industriale del mondo occidentale con particolare riguardo dell'Italia.

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beneduce 1

Alberto Beneduce
Caserta, 29 marzo 1877 - Roma, 26 aprile 1944
Nonostante le modeste condizioni della famiglia, si laurea nel 1902 in discipline matematiche a Napoli; nel 1904 è assunto al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, nella sezione preposta alle statistiche.
Nel 1910 collabora con il Commissariato dell’Emigrazione e con il Consiglio Superiore di Statistica, di recente istituzione. Nel corso dello stesso anno consegue la libera docenza per l’insegnamento di Statistica e Demografia; l’anno successivo predispone le operazioni per il compimento del quarto censimento demografico e del primo censimento industriale nazionale. Entra a far parte della direzione del «Giornale degli economisti» e, a partire dal 1911, abbandona il campo delle ricerche demografiche per dedicarsi ai nuovi interessi nel campo della finanza, mentre si avvicina agli ambienti politici di orientamento radicale e social-riformista. Sempre nel 1911 Francesco Saverio Nitti lo chiama a collaborare al progetto di fondazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni (Ina). Nel 1914 ottiene la cattedra universitaria presso l’Istituto Superiore di Studi Commerciali di Genova.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale aderisce alle posizioni interventiste e sostiene, con Bissolati e Nitti, i gruppi democratici che auspicavano lo schieramento a fianco delle democrazie occidentali. Si occupa dei problemi economico-finanziari connessi alle necessità belliche e collabora con Bonaldo Stringher, allora Direttore Generale della Banca d’Italia, all'istituzione del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, lo strumento destinato ad aiutare finanziariamente le imprese industriali nella congiuntura di guerra. Prima volontario e poi ufficiale in un reparto combattente del Genio, Beneduce lascia il fronte per assumere nel 1916 l’incarico di Consigliere delegato dell’Ina.
Nel novembre del 1919 è eletto Deputato e aderisce al gruppo social-riformista. Come Presidente della Commissione Finanza e Tesoro della Camera ha una parte importante nella formulazione della legislazione economica e finanziaria dei governi Nitti e Giolitti. Entra infine a far parte del Governo costituito da Bonomi nel luglio 1921, con la carica – di recente istituzione – di Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale.
Tra il 1919 e il 1922 l’attività politica di Beneduce è particolarmente intensa, a causa della sua partecipazione a numerose commissioni e all’assunzione di diversi incarichi speciali. È infatti membro della Commissione di Vigilanza sugli Istituti di Emissione, della Commissione per la Difesa della Valuta Italiana, del Comitato per i Trattati di Commercio, e delle missioni ufficiali alle Conferenze internazionali di Bruxelles (1920) e di Genova (1922), indette per discutere i più urgenti problemi economico-finanziari del dopoguerra; collabora inoltre con Stringher alla costituzione dell’Istituto nazionale dei cambi con l’estero, di cui diviene Consigliere di amministrazione nel 1919. In questo periodo Beneduce si allontana dai programmi socialisti e sostiene la necessità dell’intervento diretto dello Stato nell’economia attraverso adeguati strumenti finanziari e istituzionali di stimolo e controllo dello sviluppo. Sostiene inoltre la necessità di una normalizzazione dei rapporti finanziari internazionali attraverso forme di collaborazione fra i governi che consentano di sostenere i programmi di ricostruzione post-bellica e di sviluppo industriale.
Tra il 1921 e il 1922 Beneduce segue con preoccupazione l’evoluzione della lotta politica in Italia, in particolare dopo la “marcia su Roma” e il conferimento a Mussolini dell’incarico di formare il Governo. In questi anni oscilla tra un giudizio assolutamente negativo sul fascismo e la speranza che il movimento rientri nella legalità. È all’ipotesi di collaborazione con il fascismo che guarda a partire dalla seconda metà del 1925, di fronte al rafforzamento del regime e alla dispersione dell’opposizione democratica.
L’esperienza sui problemi di finanza interna e internazionale e la posizione che occupa nella politica dei finanziamenti delle imprese elettriche e telefoniche quale organizzatore degli enti pubblici – è a capo dal 1919 del Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop) e dal 1924 dell’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità (Icipu) –, gli offrono l’occasione per avviare i contatti con esponenti del governo: grazie all’appoggio dell’allora Ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, nel 1926 Beneduce assume la Presidenza della Società per le strade ferrate meridionali (Bastogi), società finanziaria di primaria importanza nel settore elettrico; nel 1927 lo stesso Volpi lo incarica di collaborare con Stringher alla predisposizione delle complesse operazioni finanziarie necessarie all’interno e all’estero per attuare la riforma monetaria e la politica di rivalutazione della lira del dicembre 1927.
Le competenze tecniche economico-finanziarie di Beneduce e la fedeltà dimostrata al Governo fascista accrescono il suo prestigio personale e gli fruttano la fiducia di Mussolini, al punto che diviene il consigliere del Duce in materie finanziarie, nonostante sia mal tollerato da diversi ambienti politici e governativi fascisti.
In questi anni Beneduce si trova a occupare una posizione nevralgica per la vita economica del Paese, controllando il credito all’industria attraverso l’operato dei due enti finanziari pubblici (Crediop, che agisce nel settore delle opere di bonifica, stradali, portuali, ferroviarie, di elettrificazione ferroviaria, dei trasporti marittimi e delle opere pubbliche realizzate dai Comuni e dalle Province; Icipu, che opera a favore di imprese impegnate nella produzione e distribuzione di energia elettrica e dei servizi telefonici) e di una società finanziaria privata di grande importanza come la Bastogi.
Le soluzioni proposte da Beneduce nella gestione del credito industriale sollecitano un largo ricorso al mercato finanziario attraverso emissioni di titoli obbligazionari. Questa impostazione rappresenta un’innovazione importante, in un’epoca in cui il mercato dei titoli a reddito fisso e a lungo termine è ancora dominato quasi esclusivamente dai titoli di Stato. Intorno al 1930 la politica di finanziamento industriale che Beneduce propone contrasta, però, con la prassi seguita dalle maggiori banche ed industrie italiane, in gravissima difficoltà per le conseguenze della politica di rivalutazione – “quota novanta” – e le ripercussioni della crisi mondiale iniziata nel 1929.
A cominciare dal 1930 molte imprese, per la crisi industriale, appaiono in condizioni di dissesto, e le banche interessate alla loro sopravvivenza non possono avviare un’azione di smobilizzo, che porterebbe alla svalutazione del patrimonio in misura tale da compromettere la loro stessa sopravvivenza. Dopo il fallimento del tentativo di superare la crisi con apposite società di smobilizzo (concentrandovi le partecipazioni industriali prima detenute dalle banche) e la costituzione dell’Istituto mobiliare italiano (Imi), l’intervento dello Stato nell’economia nazionale colpita dalla crisi è avviato da Beneduce con la costituzione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), nel 1933, insieme alla definizione di un nuovo assetto dei rapporti tra banche e industrie attraverso il “risanamento bancario” nel 1934 e, infine, a una vera e propria riforma degli ordinamenti bancari del Paese nel 1936. Con la costituzione dell’Iri e la regolamentazione bancaria si interviene sulle modalità di gestione del credito industriale esercitato da larga parte del sistema bancario fin dalla guerra mondiale, sull’ ingerenza delle banche nella direzione delle imprese, e sui rapporti di reciproco controllo esistenti tra banche e industrie, che si erano accentuati e diffusi nel primo dopoguerra.
Per Beneduce in quel difficilissimo frangente lo Stato deve mettere a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite e compiere le operazioni di salvataggio, acquisendo però i titoli e le proprietà industriali delle banche e provvedendo, per proprio conto, alla loro gestione e al successivo smobilizzo. Egli è inoltre convinto assertore della separazione tra credito ordinario e credito industriale. Il nuovo Istituto per la ricostruzione industriale, presieduto dallo stesso Beneduce, si propone di realizzare un esteso intervento d’urgenza attraverso l’attività di due sezioni: la Sezione finanziamenti e la Sezione smobilizzi. Su quest’ultima viene a gravare la parte più rilevante e determinante dell’intervento, cioè il riordinamento complessivo dei rapporti tra lo Stato, l’istituto di emissione, le banche e le imprese.
La riforma sancisce la scomparsa della cosiddetta “banca mista”, vietando alle banche di credito ordinario di operare nel settore del credito industriale. L’Iri rileva tutte le posizioni attive degli istituti di credito e della Banca d’Italia e si trova così a detenere partecipazioni in un gran numero di imprese, nei settori bancario e finanziario, elettrico, telefonico, armatoriale, siderurgico, meccanico, chimico, tessile, immobiliare, agricolo. All’indomani del risanamento bancario è avviato lo smobilizzo mediante vendita ai privati di numerose partecipazioni azionarie. Il caso di maggior rilievo è rappresentato dalla cessione a un sindacato privato – costituito dalle società Pirelli, La Centrale, Montecatini, Assicurazioni generali, Edison, Fiat – del pacchetto azionario di controllo della Bastogi. Con queste operazioni la posizione di Beneduce nella vita finanziaria italiana risulta ulteriormente consolidata. Nel 1936 è presidente dell’Iri, del Crediop, dell’Icipu, dell’Istituto per il credito navale, membro del Consiglio d’amministrazione dell’Imi, del Comitato centrale amministrativo del Consorzio per sovvenzione su valori industriali e dell’Istituto nazionale dei cambi; nel settore privato è presidente della Bastogi e membro del Consiglio di amministrazione delle società che ad essa fanno capo.
Solo con un provvedimento del giugno 1937 l’Iri assume il carattere di ente permanente e di organo della politica industriale dello Stato e, quindi, una fisionomia diversa da quella iniziale. Da quel momento l’attività di smobilizzo rallenta: vengono anzi acquisite nuove partecipazioni e diviene prevalente e primaria la funzione di organizzazione, integrazione e gestione delle partecipazioni dello Stato in imprese industriali. Gli ordinamenti finanziari e l’assetto della proprietà dei capitali dell’industria qualificano da quel momento, in Italia, un tipo di economia “mista” di iniziative pubbliche e private. Nonostante sia gravemente malato dal 1936, Beneduce mantiene la presidenza dell’Iri fino al 1939, anno in cui viene nominato Senatore: in quella occasione gli venne conferita la tessera di iscrizione al Partito nazionale fascista, al quale non aveva mai aderito formalmente, limitandosi a manifestare la sua personale devozione al Duce.
Poco dopo la nomina a Senatore, Beneduce lascia le cariche pubbliche e si dedica alla gestione della Bastogi, che detiene, da sola o in compartecipazione, posizioni di rilievo in numerose imprese, controlla le tre società elettriche operanti nel Mezzogiorno e nelle Isole, e possiede uno dei maggiori pacchetti azionari della Montecatini; dispone inoltre di consistenti quote di minoranza nelle società Italcementi, Sade, Edison, Sip, Valdarno, e di maggioranza nelle società Sabiem, Stigler, Cgs, Meccanica di Arezzo e in altre minori imprese. Beneduce muore a Roma nell’aprile 1944. Beneduce fu un grande economista ma anche, in parte, responsabile di quella deriva che ha portato all'ingerenza della politica nella vita ecoconomica del Paese.
Risorse bibliografiche
F. Bonelli, ad vocem, in DBI, VIII, 1966; F. Bonelli, Alberto Beneduce (1877-1944), in I protagonisti dell’intervento pubblico, a cura di A. Mortara, Milano, Ciriec-F. Angeli, 1984, pp. 329-356; «Poca carta e molti colloqui». La Bastogi negli anni Venti e Trenta, in «Archivi e imprese», 2 (1991), n. 4, pp. 44-58; Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, Atti della giornata di studio per la celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione dell’Iri (Caserta, 11 novembre 1983), Roma, Edindustria, 1985; M. Franzinelli-M. Magnani, Beneduce: il finanziere di Mussolini, Milano, Mondadori, 2009.
Storia della QUOTA NOVANTA
Nel 1926 l'attenzione del ministro Giuseppe Volpi (che aveva appena sostituito Alberto De Stefani) si concentrò sui problemi di svalutazione che avevano afflitto la moneta nazionale, deprezzandone il valore di circa il 20% rispetto al periodo antecedente la Grande Guerra. In quel momento il cambio era di 153 lire per una sterlina e l'obiettivo di raggiungere Quota 90, promosso da Mussolini durante il discorso di Pesaro del 18 agosto 1926, sembrò subito azzardato. « La nostra lira, che rappresenta il simbolo della Nazione, il segno della nostra ricchezza, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa. » (Mussolini durante il discorso di Pesaro del 18 agosto 1926) Ma dall'opera di risanamento della Lira dipendeva l'esito delle trattative avviate con Washington per ottenere prestiti utili al risanamento della situazione finanziaria italiana. La situazione era complicata anche da problemi internazionali: scisso da tempo il cordone ombelicale con la finanza tedesca, si stava esaurendo anche l'apporto degli investitori francesi. Già da qualche anno si erano creati motivi di tensione: da una parte Mussolini temeva che un'intesa con Parigi potesse irritare i britannici e che l'egemonia francese potesse ostacolare i piani di espansione nel Mediterraneo. A loro volta i francesi mostravano molto più interesse a riallacciare i rapporti con l'industria tedesca. L'uomo chiamato al compimento del progetto e dell'operazione di rivalutazione della lira fu Giuseppe Volpi, che dal 1925 al 1928 fu ministro delle finanze. La politica adottata da Volpi scartò la possibilità di far ricorso a inasprimenti finanziari, puntando piuttosto sulla riduzione della domanda interna, la restrizione del credito e l'abbassamento dei salari. Il regime voleva evitare di trovarsi nella stessa situazione avutasi in Germania all'indomani del crollo del marco nel 1923. Inoltre il regime intendeva assicurarsi in questo modo i consensi della piccola e media borghesia, che riuscì in effetti a migliorare almeno in parte il proprio potere d'acquisto. I provvedimenti decisi dal governo operarono per un calo delle esportazioni. Venne lanciata la battaglia del grano ed il pane doveva essere d'un tipo unico, con la farina abburattata con un tasso dall'80% all'85%; la benzina doveva essere miscelata con alcool ricavato con gli scarti della viticoltura; la siderurgia doveva impiegare, di preferenza, minerali italiani; i giornali, per risparmiare cellulosa, dovevano diminuire a sei le loro pagine. Assieme alle molte misure economiche vi fu il prestito del Littorio, propagandato con tutti i mezzi. Il risultato fu soddisfacente: 3 miliardi e 150 milioni. Alla fine di giugno del 1927 il dollaro arrivò a 18,15 e la sterlina a 88,09: valori che oscilleranno, ma che consentiranno di poter affermare di aver raggiunto "quota 90" (vale a dire una sterlina per 90 lire), indicata da Mussolini come l'obiettivo da perseguire. La riduzione dei salari è sancita, in ottobre dal 10% al 20%. Da alcune parti, tuttavia, si lamenta che la discesa dei prezzi non è così pronta come quella dei salari; tuttavia, la lira ritornò all'interno del Gold Exchange Standard. Le ripercussioni furono differenti per i vari settori. A subire i colpi più gravi della politica deflattiva furono soprattutto l'edilizia e le piccole imprese produttrici di beni di consumo, mentre continuò la tendenza espansiva nell'ambito della grande industria. Implicazione immediata della rivalutazione della moneta è la riduzione dei prezzi e dei salari, causata dalla scarsa circolazione del denaro che provocò una temporanea stagnazione della produzione. La stabilizzazione della lira a quota 90 suscitò reazioni contrastanti negli ambienti industriali. La Confindustria si era dichiarata più volte a favore di una stabilizzazione della moneta, ma lo stesso Volpi desiderava un allineamento a una quota più bassa (100-110 Lire per sterlina), mentre i principali consorzi industriali (ad esempio la FIAT) avrebbero optato per una Lira a quota 120, nel timore che una lira più forte avrebbe potuto danneggiare le esportazioni. « la squisita sensibilità delle nostri classi lavoratrici ha permesso al segretario generale del partito on. Turati di annunziare al duce che i lavoratori di Padova e i contadini del bresciano aderivano alla diminuzione delle loro paghe in ragione del 10 per cento. Anche nel pavese e nel bolognese i lavoratori hanno accettato la medesima misura delle paghe », mentre scrive, in giugno, il Corriere della Sera: « il salariato fa questo ragionamento molto semplice: se il costo della vita va giù del 5%, e i miei salari van giù del 10%, chi gode della differenza? »

Eugenio Caruso - 10 maggio 2017


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