ISTAT: un terzo degli italiani a rischio povertà o esclusione sociale

Nel 2002 Jeremy Rifkin uno dei massimi pensatori della nostra epoca scrive La fine del lavoro. Nella prima parte del libro l'autore espone la sua tesi: prima delle rivoluzioni industriali, più del 90% della popolazione americana si occupava di agricoltura. Nella prima rivoluzione industriale grandi masse di lavoratori lasciano l'agricoltura per andare a lavorare nelle fabbriche. Attualmente solo il 3% della popolazione usa si occupa di agricoltura, ma grazie alle macchine agricole, la domanda è ampiamente soddisfatta dalla produzione. Nella seconda rivoluzione industriale, le macchine e l'automazione prendono il posto dell'uomo nell'industria manufatturiera, e le masse di lavoratori lasciano le fabbriche per spostarsi nel terziario e adottare il computer come strumento di lavoro. Ora siamo nel corso di un'altra rivoluzione industriale, nella quale l'incredibile progressione della potenza di calcolo dei moderni elaboratori, pone in esubero un crescente numero di lavoratori. A seguito di questo, la realtà che l'autore evidenzia è che le masse di lavoratori che escono dal terziario, entrano a far parte del mondo della disoccupazione.
La tesi esposta, viene sviluppata nel libro con numerosi esempi e approfondimenti che spaziano in tutti i settori merceologici. Viene fornita una valutazione degli impatti sociali ed economici delle rivoluzioni industriali passate e di quella in corso e viene affrontata la tematica dell'instabilità dei posti di lavoro odierni e la conseguente insicurezza dei lavoratori. Di grande efficacia è la sezione del libro che illustra l'attuale necessità nel mondo della produzione, di un minor numero di lavoratori, ma con elevata specializzazione. Per illustrare questo concetto, l'autore ripercorre il passaggio dalla catena di montaggio della Ford dei primi decenni del XX secolo, alla lean production (produzione leggera e flessibile) della Toyota degli anni settanta. Nella catena di montaggio, ogni operaio si occupa di un ruolo ripetitivo, e a bassa specializzazione. La catena produce un solo modello di autoveicolo, e il passaggio a un nuovo modello richiede un ingente investimento sulla catena di montaggio. Data la complessità della catena di montaggio, i guasti dei singoli stadi di lavorazione erano frequenti e hanno importanti ripercussioni sul numero di autoveicoli prodotti per unità di tempo. Nella lean production le autovetture sono costruite da sofisticati robot guidati da un numero limitato di tecnici con elevata specializzazione. Il passaggio a un nuovo modello di autoveicolo richiede una più semplice riprogrammazione delle macchine. Il controllo sulla qualità è più accurato e i guasti nella produzione sono meno frequenti e con minori rallentamenti nel numero di autovetture prodotte.
La richiesta di lavoratori specializzati ha posto il problema di avere pochi lavoratori sovraccarichi di lavoro, e molti altri disoccupati o sottoccupati. La crisi dei mutui subprime (mutui a elevato tasso per clienti a rischio) del 2007 è stato il primo avvenimento che ha consentitio di validare l'ipotesi di Rifkin. Infatti un gran numero di lavoratori americani ha perso il lavoro o si è trovato sottoccupato non potendo quindi pagare le rate del proprio mutuo. (Non escludo, ovviamente, anche l'effetto della bolla speculativa). Il mondo del lavoro sta procedendo verso una segmentazione tra una classe acculturata e sovraoccupata e una classe a basso livello di istruzione adibita a compiti marginali e quindi a bassa retribuzione. Lo stesso processo si sta realizzando in Italia e gli ultimi dati ISTAT lo confermano.
Nel 2016 c'è stata «una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d'acquisto delle famiglie (riferito al 2015), ma anche un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale». È quanto rileva l’Istat presentando i dati sulle condizioni di vita e di reddito nel 2016.
Il reddito netto medio annuo per famiglia, esclusi gli affitti figurativi, è pari a 29.988 euro, circa 2.500 euro al mese (+1,8% in termini nominali e +1,7% in termini di potere d'acquisto rispetto al 2014). Metà delle famiglie residenti in Italia percepisce un reddito netto non superiore a 24.522 euro l'anno (circa 2.016 euro al mese: +1,4% rispetto al 2014). Il reddito mediano cresce nel Mezzogiorno in misura quasi doppia rispetto a quella registrata a livello nazionale (+2,8% rispetto al 2014), rimanendo però su un volume molto inferiore (20.557 euro, circa 1.713 mensili. La crescita del reddito è più intensa per il quinto più ricco della popolazione.
Ma quasi uno su tre, il 30%, delle persone residenti in Italia, è a «rischio di povertà, esclusione sociale» registrando un peggioramento rispetto all'anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Per l’istituto «aumentano sia l'incidenza di individui a rischio di povertà (20,6%, dal 19,9%) sia la quota di quanti vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1% da 11,5%), così come quella delle persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (12,8%, da 11,7%)». Secondo l'Istat, nel 2016 erano 18,136 milioni le persone a rischio povertà o esclusione sociale. Numeri che vedono gli obiettivi prefissati dalla Strategia Europa 2020 «ancora lontani: la popolazione esposta a rischio di povertà o esclusione sociale è infatti superiore di 5.255.000 unità rispetto al target previsto». Per l'esattezza, il 12,1% (in crescita rispetto all'11,5% dell'anno precedente) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, mostra cioè almeno quattro dei nove segnali di deprivazione previsti.
Il Mezzogiorno resta l'area territoriale più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015). Il rischio è minore, sebbene in aumento, nel Nord-ovest (21,0% da 18,5%) e nel Nord-est (17,1% da 15,9%). Nel Centro un quarto della popolazione (25,1%) permane in tale condizione. Le famiglie con cinque o più componenti si confermano le più esposte al rischio di povertà o esclusione sociale (43,7% come nel 2015), ma è per quelle con uno o due componenti che questo indicatore peggiora (per le prime sale al 34,9% dal 31,6%, per le seconde al 25,2% dal 22,4%).
L’ Istat rileva un aumento del reddito medio per nucleo familiare e una crescita del reddito più intensa per il quinto più ricco della popolazione, trainata dal sensibile incremento della fascia alta dei redditi da lavoro autonomo, in ripresa ciclica dopo diversi anni di flessione pronunciata. Quindi, esclusi gli affitti figurativi, si stima che il rapporto tra il reddito equivalente totale del 20% più ricco e quello del 20% più povero sia aumentato da 5,8 a 6,3. L'indice di Gini in Italia è pari a 0,331, sopra la media europea di 0,307 e nella graduatoria dei Paesi dell'Ue l'Italia occupa la ventesima posizione. Distribuzioni del reddito più diseguali rispetto all'Italia si rilevano in Portogallo (0,339), Grecia (0,343) e Spagna (0,345). L'indice di Gini è più elevato nel Sud e nelle Isole italiane (0,349) rispetto al Centro (0,322), al Nord-ovest (0,310) e al Nord-est (0,282).
Il costo del lavoro dal 2006 al 2015 mostra un andamento crescente segnato dalla riforma delle aliquote fiscali e contributive nel 2007, a cui è seguito un costante incremento del carico contributivo e delle imposte soprattutto per la crescita delle addizionali regionali e comunali. Nel 2015 il costo del lavoro risulta pari in media a 32 mila euro e la retribuzione netta che resta a disposizione del lavoratore rappresenta poco più della metà del totale del costo del lavoro (54%, pari a 17.270 euro). La parte rimanente (46%, ossia 14.729 euro) costituisce il cuneo fiscale e contributivo. La componente più elevata è costituita dai contributi sociali dei datori di lavoro (25,4%), il restante 20,6% risulta a carico dei lavoratori: il 14%, sotto forma di imposte dirette e il 6,6% di contributi sociali. Il costo del lavoro è più elevato al Nord. Il costo del lavoro è circa il 75% di quello dei dipendenti e la retribuzione netta è pari al 79,3% di quella maschile.
Dal 2006 al 2015 la pressione fiscale e contributiva sui redditi lordi da lavoro autonomo ha un andamento altalenante, fino ad assestarsi su una media di 22.952 euro. Dopo il prelievo fiscale e contributivo il reddito autonomo scende al 67% del reddito iniziale: le imposte sono il 16,4% mentre i contributi sociali, finalizzati al conseguimento delle prestazioni previdenziali e assistenziali, sono il 16,6% del reddito totale. Anche nel lavoro autonomo le differenze di genere sono piuttosto rilevanti: i redditi lordi delle lavoratrici sono pari in media a 17.799 euro contro i 26.008 euro dei lavoratori e sono marcate anche le differenze territoriali: nel Nord-ovest i redditi da lavoro autonomo e anche i contributi sociali (rispettivamente 26.504 euro e 4.384 euro) risultano mediamente più elevati.

Eugenio Caruso - 7 dicembre - 2017

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