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L'ENEL e l'energia nucleare - Perchè il nucleare. La diplomazia del nucleare. Revisione del 25 febbraio 2009.

Entro fine mese (il 24 settembre) il gruppo guidato da Fulvio Conti presenterà la propria offerta per il nuovo impianto nucleare di Belene, in Bulgaria: una partecipazione strategica per aggiudicarsi il 49% di una joint venture che costruirà una centrale da 4 miliardi di euro e che parteciperà anche al finanziamento di tutte le infrastrutture necessarie, per altri 3 miliardi.

La «due diligence » è stata ultimata e l'investimento iniziale per il gruppo italiano, come ha precisato all'agenzia Bloomberg il responsabile Enel per i Paesi dell'Europa Sud-orientale Enrico Viale, sarà di 800 milioni.
Nella «short list» dei candidati, oltre all'Enel, figurano anche la ceca Cez, la belga Electrabel (controllata da Suez al 100%), le tedesche E.On e Rwe e la francese Edf.
La centrale, che sarà dotata di due reattori da 1.000 megawatt ciascuno (con tecnologia russa della seconda generazione), dovrebbe entrare in funzione nel 2013.
 
Nel settore del nucleare l'Enel è già presente in Slovacchia, dove controlla il 66% della Slovenske Elektrarne impegnata nella costruzione della centrale di Moghovce che sarà completata nel 2012, in Russia, attraverso un accordo sottoscritto con l'agenzia federale Rosatom per la fornitura di tecnologie, in Romania, dove punta al completamento dell'impianto nucleare di Cernavoda (che utilizza tecnologia canadese).
Enel è presente anche in Francia, dove, in collaborazione con Edf, è impegnata nel progetto Epr di Flamanville, e presto lo sarà anche in Spagna, dove una volta conclusa l'Opa su Endesa potrà contare sul controllo di 3.000 megawatt di potenza nucleare, generata da reattori con tecnologie americana.
Pertanto Enel è presente nel nucleare con tutti e tre i grandi filoni della tecnologia oggi a disposizione: quella russa, quella francese e quella usa.

Questa notizia è senz’altro incoraggiante perché dimostra che l’industria italiana è aliena dai tabù e dalle prese di posizione viscerali che caratterizzano l’establishment politico.

Chi conosce la disastrosa situazione italiana nel settore elettrico, nel quale impera la completa dipendenza dall’estero, spera che quanto prima tabù e atteggiamenti viscerali possano fare posto alla logica e alla razionalità e si possa iniziare a parlare di energia nucleare anche nel nostro paese.

Eugenio Caruso

06 settembre 2007


Perchè sì al nucleare

In molti paesi, l’energia nucleare continua a dividere opinione pubblica e istituzioni. È essenziale che i governi continuino a muoversi sul sentiero della trasparenza, dell’informazione e della persuasione.
Poiché produce quantità infinitesimali di gas serra, l’energia nucleare è una soluzione possibile per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. La tecnologia nucleare può soddisfare il carico base (fabbisogno elettrico di base) dell’industria, dei trasporti e di molte applicazioni domestiche, con il vantaggio di ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. Inoltre, essa rappresenta una forma di energia sostitutiva che consente di ovviare ai problemi di intermittenza associati alla maggior parte delle fonti rinnovabili. Il lavoro di ricerca e sviluppo in atto a livello internazionale consentirà di costruire nuovi reattori ancora più sicuri,
in grado di sfruttare il potenziale energetico dell’uranio in modo più efficiente, riducendo notevolmente il volume e la tossicità delle scorie. La tecnologia nucleare è sperimentata, competitiva e sicura, e garantisce costi di produzione ampiamente prevedibili. Nella maggior parte dei paesi della Trilaterale (Nord America, Europa, Giappone) è l’unica fonte energetica il cui costo include tutte le esternalità a lungo termine associate alla sua produzione (assicurazione, smantellamento, gestione e smaltimento delle scorie). Nuovi reattori possono essere realizzati e gestiti da società private nel pieno rispetto delle regole di mercato e delle più rigorose disposizioni in materia di sicurezza e di non proliferazione. Al di là dei numerosi paesi che hanno espresso interesse per l’energia nucleare, sono più di 35 – di considerevole peso demografico, economico e geopolitico – quelli che hanno optato e confermato l’uso di questa forma di energia per rispondere al carico base.
COMPETITIVITÀ DELL’ENERGIA NUCLEARE. Anche se richiede elevati investimenti iniziali, il nucleare è una soluzione competitiva per produrre elettricità a basso costo marginale e ampiamente disponibile. Inoltre, considerato il basso impatto delle variazioni del prezzo del combustibile utilizzato, l’energia nucleare può dare un contributo fondamentale alla produzione di elettricità, offrendo nel contempo un’elevata prevedibilità dei costi. Numerosi studi realizzati in tutto il mondo negli anni recenti raffrontano i costi del nucleare a quelli di altre fonti energetiche, comprendendo nel calcolo i costi di costruzione, gestione e manutenzione degli impianti, di smantellamento e approvvigionamento del combustibile. I risultati, scomposti, sono illustrati dalla tabella 1.
Tabella 1 Struttura dei costi delle tecnologie di generazione dell’elettricità

Tipo di costi
Nucleare
Gas*
Carbone
Eolica
Investimenti 50-60% 15-20% 40-50% 80-85%
Gestione e manutenzione 30-35% 5-10% 15-25% 10-15%
Combustibile 15-20% 70-80% 35-40% 0%


* Centrali a gas a ciclo combinato.
Fonte: Calcoli di Areva sulla base di vari studi internazionali.

INVESTIMENTI E COSTRUZIONE. Gli investimenti di capitale rappresentano la voce di costo più alta nel bilancio della produzione di elettricità da fonte nucleare e includono i costi generali (comprensivi degli oneri per la progettazione preliminare
ed esecutiva, le forniture di materiali e la costruzione), nonché i costi di preparazione del sito e gli oneri regolamentari, la formazione degli operatori, gli oneri derivati da eventuali ritardi e da variazioni dei prezzi, oltre agli interessi passivi durante la fase di costruzione (spesso piuttosto lunga), che possono arrivare al 20-30% degli investimenti totali. I costi di investimento, nel complesso, possono rappresentare fino al 60% del costo complessivo dell’energia nucleare. Combustibile. Il combustibile, una delle voci del costo di generazione dell’elettricità, ha un’incidenza significativamente inferiore nel nucleare (4,4 euro/MWh) rispetto
al carbone (da 14,7 a 22,1 euro/MWh) o al gas (da 26,5 a 32,4 euro/MWh). Inoltre, il costo dell’uranio rappresenta soltanto una piccola parte – circa il 25% – del costo del combustibile nucleare e le oscillazioni dei prezzi delle materie prime hanno un impatto
minimo sui costi complessivi di produzione dell’elettricità nucleare. Se, per esempio, il costo del combustibile di base raddoppiasse, il costo marginale dell’elettricità generata da una centrale a gas aumenterebbe del 70-80%, mentre il costo di
quella generata da una centrale nucleare salirebbe appena del 5%. Va anche sottolineato che la diversificazione geografica dei giacimenti di uranio offre maggiori garanzie di disponibilità. L’Agenzia internazionale dell’Energia (AIE) ritiene che “le risorse uranifere siano tali da consentire lo sviluppo di nuove capacità nucleari e che le risorse identificate a oggi siano sufficienti a garantire diversi decenni di funzionamento delle centrali, al ritmo di consumo attuale”. Negli scenari proposti dall’AIE, “la totalità della domanda fino al 2030 potrà essere soddisfatta dalle risorse ragionevolmente sicure a costi di estrazione inferiori a 80 dollari al chilo. Oltre il 2030, un incremento della domanda potrà comunque essere soddisfatto, in base alle stime attuali delle risorse uranifere totali (che comprendono le risorse ragionevolmente sicure, quelle addizionali stimate e le risorse non ancora scoperte)”. Smantellamento. Nella misura in cui esiste un quadro di riferimento di lungo termine, come succede nei paesi sviluppati, lo smantellamento degli impianti nucleari è principalmente un problema di fiducia dell’opinione pubblica. Poiché i fondi sono accantonati durante la vita attiva della struttura – per esempio, 60 anni per un reattore EPR (European Pressurized Reactor) – i costi di smantellamento possono essere correttamente previsti e gestiti, pur variando fortemente da paese a paese in funzione delle diverse politiche o del modello di reattore. Comunque, le politiche di decommissioning nei vari paesi non hanno una grande incidenza sulla competitività economica dell’energia nucleare. Lo smantellamento dei reattori esistenti ha un costo stimato tra i 240 e i 900 euro/kilowatt. Per un reattore EPR di nuova generazione, la francese EDF ha stimato un costo totale pari a 420 milioni di euro. Non è difficile accantonare un fondo per il finanziamento di tale somma nei 60 anni di vita del reattore, destinandovi circa 2,8 milioni di euro l’anno (corrispondenti a circa 0,14 euro per MWh). È anche probabile che tali costi diminuiranno in futuro, con l’accumularsi dell’esperienza di tante operazioni di smantellamento.
COMPETITIVITÀ. In linea generale, se paragonata al carbone e al gas, l’energia nucleare rappresenta la soluzione più competitiva per generare il carico base elettrica. Quattro studi recenti, mettendo a confronto il costo dell’energia nucleare con quello delle centrali a gas a ciclo combinato e quello delle tecnologie basate sulla combustione del carbone, confermano tale maggiore competitività del nucleare, anche senza includere il costo associato alle emissioni di anidride carbonica. Se si aggiunge
anche questo costo, l’energia nucleare – comprensiva dei costi di smantellamento, trattamento del combustibile usato e gestione delle scorie – rappresenta di gran lunga la soluzione più competitiva. Come si è visto, i costi di investimento rappresentano una delle voci principali del costo dell’elettricità nucleare. Secondo un recente studio dell’OCSE, con un costo di investimento medio del 5%, il prezzo dell’elettricità nucleare si colloca a 20-40 euro a megawattora, mentre con un costo di investimento del 10%, oscilla tra 25 e 60 euro/MWh. Ma anche in questa seconda ipotesi, l’elettricità nucleare rimane la soluzione più competitiva in numerosi paesi, come evidenziato dagli studi nazionali compilati dall’OCSE. La percezione del rischio è un altro fattore significativo che influisce sulle decisioni degli investitori. Alcuni studi richiedono per i progetti nucleari un maggiore rendimento degli investimenti e aumentano il fattore di rischio del 3-4% sia nel tasso di interesse che nei costi di investimento. A nostro avviso, la competitività dell’energia nucleare dovrebbe essere valutata in base agli stessi fattori utilizzati per gas e carbone, soprattutto perché essa presenta, oggettivamente, minori rischi in termini di costi marginali dell’elettricità, costo delle emissioni, sicurezza di approvvigionamento e impatto del costo del combustibile. In conclusione, poiché fornisce energia elettrica praticamente senza emettere anidride carbonica, a un costo prevedibile e al riparo dal rialzo dei prezzi dei combustibili fossili, l’energia nucleare presenta dei vantaggi aggiuntivi; è dunque prevedibile che il nucleare continuerà a svolgere un ruolo chiave nel mix energetico, soprattutto alla luce della recente deregolamentazione dei mercati.
GESTIONE DEL COMBUSTIBILE NUCLEARE USATO E DELLE SCORIE. I paesi che utilizzano energia nucleare hanno adottato strategie diverse per la gestione del combustibile usato. Alcuni – soprattutto Francia e Giappone, ma anche Cina, Russia e India – hanno scelto una strategia di riciclaggio che comporta il trattamento e il riutilizzo del combustibile usato per la generazione di nuovo combustibile per i reattori. Il combustibile usato può infatti essere considerato una risorsa poiché contiene materiali – uranio e plutonio – recuperabili attraverso un processo di trattamento e riciclaggio. Altri paesi, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato una strategia “aperta” o once-through: l’uranio estratto dalle miniere viene bruciato una sola volta e, quando è esausto, non viene trattato bensì viene depositato per lo smaltimento definitivo in siti geologici appositamente selezionati. Al mondo esistono quattro impianti per il trattamento di quei rifiuti a fini commerciali, mentre ancora non esistono siti operativi per lo stoccaggio definitivo. Oggi il 20% del combustibile già usato in reattori ad acqua leggera viene poi sottoposto a trattamento; sono ormai vent’anni che il riciclaggio per ottenere il combustibile MOX (ossido misto di plutonio e uranio) funziona su scala industriale. Al contrario, il processo di condizionamento e di smaltimento diretto del combustibile è ancora in fase di sviluppo in diversi paesi e i costi previsti, già pesanti, continuano ad aumentare. Le scorie residue derivate dal processo di trattamento e riciclaggio vengono vetrificate in una matrice stabile, omogenea e durevole, che non contiene alcun materiale fissile soggetto al sistema di salvaguardie dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (AIEA); il loro comportamento a lungo termine (molte migliaia di anni) è prevedibile, contrariamente a quanto avviene con i fuel assembly di combustibile, progettati per essere usati nell’arco di pochi anni. La vetrificazione è un processo industriale ormai sperimentato, sottoposto a specifiche regole industriali e disposizioni di sicurezza stabilite dalle autorità nazionali dei paesi della Trilaterale che utilizzano tale tecnologia. In base al principio secondo cui tutte le scorie di fine ciclo devono essere restituite al paese di origine del combustibile trattato (principio che in Francia è legge), le diverse autorità nazionali hanno anche fissato e implementato disposizioni simili relative al trasporto, all’accettazione, allo stoccaggio e allo smaltimento di questo “vetro”. A nostro avviso, il trattamento e riprocessamento del combustibile usato offre netti vantaggi in termini ambientali e sanitari rispetto allo smaltimento senza trattamento. Anche se non elimina la necessità di trattare le scorie residue – la cui soluzione richiede uno stoccaggio provvisorio ma di lungo termine e lo smaltimento in depositi geologici profondi – il riprocessamento riduce dell’80% il volume delle scorie da smaltire in quei siti geologici e, più o meno nella stessa percentuale, la loro tossicità radioattiva nel lungo termine. Tale scelta garantisce la gestione sicura delle scorie radioattive riducendo gli oneri per le future generazioni, e contribuisce alla sostenibilità e all’accettazione dell’energia nucleare da parte dell’opinione pubblica nel mondo.
LA SOLUZIONE NUCLEARE. Una politica energetica europea equilibrata che punti su una componente nucleare dovrebbe adottare questi requisiti minimi:
• sottolineare l’importanza del contributo che già oggi l’energia nucleare porta agli obiettivi di competitività, sicurezza degli approvvigionamenti e sviluppo sostenibile;
• incoraggiare l’uso immediato di questa fonte per la produzione di energia elettrica nel rispetto dei principi della sussidiarietà;
• aumentare il contributo dell’energia nucleare al mix energetico dell’UE, in vista dell’obiettivo di privilegiare le fonti energetiche a bassa emissione di anidride carbonica, oltre a specifici obiettivi energetici nazionali;
• promuovere un quadro regolamentare stabile che governi la concessione di autorizzazioni, la costruzione, la messa in esercizio e lo smantellamento degli impianti nucleari;
• rafforzare la leadership europea in campo tecnologico e industriale, soprattutto attraverso la partecipazione ad attività internazionali di R&S dedicate ai reattori di quarta generazione, finanziando la creazione in Europa di infrastrutture strategiche di ricerca e la costruzione di siti sperimentali e innovativi;
• rafforzare la R&S tesa a migliorare l’efficienza del ciclo del combustibile, impattando soprattutto sul volume delle scorie finali e sulla loro radiotossicità;
• incoraggiare i governi a partecipare al dibattito e ai lavori a livello internazionale, al fine di definire un approccio multilaterale ai problemi del ciclo (arricchimento e trattamento) che contribuisca allo sviluppo dell’energia nucleare nel quadro di una migliore gestione dei rischi della proliferazione;
• garantire il trasferimento di conoscenze essenziali attraverso programmi di informazione, formazione e istruzione.

Anne Lauvergeon
Anne Lauvergeon è presidente di Areva, il
gigante francese dell’industria nucleare civile.

8 novembre 2007


La diplomazia del nucleare

L’energia elettronucleare sta conoscendo una rinascita. Una trentina di centrali sono in costruzione nel mondo. Un altro centinaio è programmato. Nel 2050, ve ne saranno almeno 5-600 in esercizio, rispetto alle 441 attuali. Cina e India “tirano la volata”. Giappone, Russia, Francia, Canada e Regno Unito si stanno preparando a quello che potrebbe essere l’affare del secolo. Rastrellano ovunque ingegneri e tecnici e ripristinano le capacità produttive delle loro industrie nucleari. Anche gli Stati Uniti sono intenzionati a farlo. Quando cominceranno, il “revival” del nucleare si accelererà. Le nuove centrali saranno realizzate in serie, con le ultime tecnologie disponibili; quindi, i loro costi – sia di costruzione che di decommissioning – diminuiranno. Il nucleare presenta tre grandi vantaggi. Intanto, produce energia elettrica senza bruciare combustibili fossili – dunque, senza emettere gas a effetto serra. Poi, la produce in rilevanti quantità e a costi contenuti, cosa che le fonti rinnovabili – vento, solare, biomasse ecc. – non potranno mai fare. Infine, per i paesi sprovvisti di petrolio e gas naturale, il nucleare è una componente essenziale del mix per realizzare un’adeguata indipendenza energetica. Molti paesi, soprattutto del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale – che stanno rapidamente esaurendo le loro acque tettoniche – pensano di impiegare l’energia nucleare anche per desalinizzare l’acqua marina. I più entusiasti pensano addirittura di costruire mega-acquedotti dal Mediterraneo all’Africa subsahariana, per frenarne la
desertificazione e quindi ridurre l’immigrazione verso Nord di una popolazione in rapida crescita. Qualora ciò venisse realizzato, il numero delle centrali in servizio nel 2050 aumenterebbe ancora. Il ritorno del nucleare comporta un’accresciuta collaborazione internazionale. Data la delicatezza del settore – per gli inevitabili rischi di proliferazione delle armi nucleari e per i riflessi politici ed economici che comportano gli accordi in materia – si è attivata una vera e propria “diplomazia del nucleare”, che influirà sugli assetti geopolitici del futuro. Il nucleare civile può avere, infatti, una notevole influenza su attività che determinano una proliferazione delle armi nucleari. I casi della Corea del Nord e soprattutto dell’Iran stanno avendo un “effetto domino” in due delle regioni strategicamente più delicate del mondo. Nel primo caso, Giappone e Corea del Sud potrebbero decidere di dotarsi di un deterrente nucleare autonomo se diminuisse la loro fiducia nella garanzia di una adeguata difesa nucleare americana. Entrambi dispongono delle capacità tecnologiche e industriali necessarie per realizzarlo in pochi mesi. In Medio Oriente e nel Mediterraneo, ben dodici Stati hanno dichiarato il loro interesse al nucleare civile. Per la sua realizzazione però indispensabile per loro la cooperazione straniera. Il fatto che essi parlino di utilizzazione pacifica dell’energia nucleare è chiaramente una “foglia di fico”. Il nucleare civile può essere un facile ponte verso quello militare. La nuclearizzazione di una regione già tanto instabile aumenterebbe
la probabilità di una guerra nucleare. La capacità di impedire la proliferazione delle armi nucleari da parte degli organismi internazionali a ciò deputati – l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA) di Vienna e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – è molto limitata. Le sanzioni sono “armi spuntate” di fronte alle esigenze di sicurezza degli Stati e alla mobilitazione patriottica che provoca un programma nucleare. Il caso dell’Iran è paradigmatico. Influisce nello stesso senso la competizione fra gli Stati nucleari per ottenere commesse. Attraverso l’esportazione di impianti e di tecnologie, essi tendono ad acquisire influenza politica e vantaggi economici, tra cui quello di stimolare un settore trainante per il proprio sviluppo tecnologico e industriale.
IL NUCLEARE È VERDE. La “rinascita” del nucleare civile nei paesi avanzati è stata stimolata dalle preoccupazioni per l’effetto serra, espresse anche dagli ambientalisti più avveduti – come James Lovelock – o dagli economisti che cercano di valutarne i costi – come Nicholas Stern. Ciò che accomuna le loro tesi è il giudizio che l’effetto serra sia molto più pericoloso rispetto agli incidenti nucleari e più complesso da fronteggiare rispetto alla gestione delle scorie radioattive. Essi si sono anche resi conto che il nucleare produce meno vittime – a parità di energia elettrica prodotta – di qualsiasi altro tipo di fonte di energia primaria e che le perdite di vite umane del più disastroso incidente nucleare che si sia mai verificato – quello di Chernobyl – sono state molto inferiori a quanto la “vulgata ideologico-ambientalista” abbia indotto la gente a credere. Va poi sottolineato il fatto che il nucleare si fa carico delle proprie scorie, a differenza degli altri tipi di produzione di energia elettrica. Solo con il protocollo di Kyoto si è cominciato a tener conto di ciò. Le preoccupazioni espresse nei confronti della CO2 dovrebbero estendersi all’anidride solforosa e ai nitrati, anch’essi dispersi nell’atmosfera in rilevanti quantità nella sola Italia. Inoltre, i trasmutatori atomici, che dovrebbero essere messi a punto fra qualche decennio, ridurranno la vita media dei materiali radioattivi artificiali, come gli attinidi minori, la cui radioattività presenta enormi tempi di dimezzamento. Così, ne sarà possibile il rilascio in condizioni di sicurezza solo dopo qualche centinaio di anni, anziché dopo le migliaia di secoli attualmente necessarie. Infine, con le centrali di “quarta generazione” – a sicurezza superiore o addirittura intrinseca e autofertilizzanti – la sicurezza delle centrali nucleari aumenterà ancora rispetto ai già soddisfacenti livelli attuali, mentre le scorie diminuiranno. Verranno infatti trasformate in combustibile, che sarà poi bruciato dai reattori che lo hanno prodotto. Per questi motivi, molti paesi hanno deciso di utilizzare le tecnologie già disponibili: quelle dei reattori della cosiddetta “terza generazione più”. Essi sono già collaudati e consentono di ottenere parte dei vantaggi delle centrali “di quarta generazione”. Per “ripartire” con il nucleare non si attenderà quindi la messa a punto di queste ultime né la disponibilità delle centrali a fusione. La “quarta generazione” sarà in funzione solo fra tre decenni; per la fusione, l’attesa sarà ancora più lunga: almeno cinquant’anni. Troppi, dato l’incessante aumento dei consumi di energia elettrica nei paesi sia avanzati che emergenti, e date la necessità di accrescere il livello della sicurezza energetica, resa vulnerabile dal fatto che gran parte del petrolio e del gas proviene da regioni geopoliticamente instabili e che entrambi vengono utilizzati da alcuni Stati come strumento di power politics.I costi derivanti dalle “quote Kyoto” faranno aumentare quelli dell’elettricità prodotta con combustibili fossili. Le facilitazioni concesse alle energie rinnovabili per mantenerle sul mercato, gravano già eccessivamente sull’erario. In Italia, dal 1990, sono ammontate a 45 miliardi di euro. Sul bilancio federale tedesco pesano per 4-5 miliardi di euro all’anno. E tutto questo per proteggere delle quote di mercato diversamente inesistenti, data la assoluta mancanza di competitività economica. Quindi, l’elettricità nucleare diverrà ancora più economica di quanto sia oggi rispetto a quella prodotta da altre fonti. Oltre agli ambientalisti, anche gli economisti dovrebbero esserne forti sostenitori. Con il nucleare viene oggi prodotto il 16% dell’elettricità mondiale. Tale quota potrebbe aumentare nel 2050 fino al 20%, esigenze della desalinizzazione escluse. Sarà l’unico modo possibile per rispettare Kyoto.
LA POLITICA ESTERA DEL NUCLEARE. Come prima ricordato, l’attuale risveglio d’interesse per il nucleare non nasce solo da motivazioni economiche, di sicurezza energetica ed ecologiche. Per molti Stati – sicuramente per quelli che dispongono di grandi riserve di petrolio e di gas – deriva soprattutto da ragioni strategiche e politiche. L’entrata nel nucleare civile accorcia enormemente i tempi necessari per dotarsi di un arsenale nucleare. Le armi nucleari garantiscono una capacità di dissuasione non ottenibile in altro modo e realizzabile con un numero ridotto di personale qualificato. I paesi sunniti sono preoccupati dell’aumento della potenza dell’Iran, a cui gli Stati Uniti hanno fatto il “piacere” di eliminare i principali nemici – i talebani a est e Saddam Hussein a ovest. Quando disporrà di armi nucleari, Teheran diventerà egemone nella regione del Golfo e, forse, nell’intera regione islamica. Le regioni arabe sembrano non fidarsi più della garanzia nucleare americana. Temono anzi che gli Stati Uniti si mettano d’accordo con l’Iran per definire – alle loro spalle – nuovi equilibri geopolitici. La “voglia di nucleare” è diffusa anche fuori dal Medio Oriente. Il nucleare è considerato dal presidente venezuelano Hugo Chávez come un elemento centrale per la collaborazione politica ed economica fra i paesi dell’America Latina. La “rivoluzione bolivariana” – che ha raccolto il testimone da Fidel Castro – ne sarebbe facilitata. Verrebbero ridimensionate presenza e ingerenze degli Stati Uniti nel subcontinente. Il nucleare è quindi, per Chávez, lo strumento di una visione politica. Lo fu anche, nel 1957, l’accordo fra Italia, Francia e Germania per la “bomba atomica europea”. Essa avrebbe costituito una premessa necessaria, anche se non sufficiente, per l’integrazione politica e strategica del vecchio continente. Obiettivi geopolitici hanno anche i recenti accordi fra gli Stati Uniti e l’India e fra la Francia e la Libia, nonché quello recentemente annunciato fra la Cina e il Pakistan, che replicherebbe le condizioni concordate fra Washington e Nuova Delhi. L’acquisizione e la cessione di capacità nucleari hanno un forte impatto politico e mediatico, in un certo senso analogo a quello dell’importazione e dell’esportazione di armamenti avanzati. Per il fornitore, gli accordi nel settore nucleare costituiscono importanti strumenti di politica estera, anche perché fanno generalmente parte di “pacchetti” più ampi, che prevedono anche forniture di armi, concessioni petrolifere, ecc. Sono quindi strumenti per acquisire influenza. Per l’acquirente, il possesso di capacità nucleari rappresenta uno status symbol estremamente importante non solo per la propria influenza regionale, ma anche per la politica interna. In genere, infatti, tende ad aumentare il prestigio dei regimi e il consenso dei cittadini. Per inciso, sia per i fornitori che per gli acquirenti vale la logica del “dilemma del prigioniero”: i vantaggi della violazione delle regole previste dal Trattato di non proliferazione (TNP) sono tanto maggiori quanto più gli altri Stati le rispettano. Ne discende una forte tentazione a violarle, tanto più perché le reazioni della comunità internazionale non sono mai molto pesanti. Il caso dell’Iran è un esempio di come il nucleare mobiliti il patriottismo delle masse e di come i governi proliferanti siano in grado di neutralizzare – almeno per tutta una fase – le reazioni della comunità internazionale. Ciò dipende anche dal fatto che esistono divisioni evidenti su come rispondere.
Le preoccupazioni per la proliferazione delle armi nucleari variano grandemente a seconda della natura del regime politico dello Stato che acquisisce capacità nucleari e dei rapporti che si hanno con esso. Avviene esattamente come per le armi, che vengono considerate difensive e stabilizzanti, se lo Stato che le acquisisce è amico; offensive, pericolose e proliferanti in caso contrario.
LA COMPETIZIONE NUCLEARE. Negli ultimi anni, l’irruzione sui mercati internazionali dei paesi emergenti – in particolare della Cina – ha provocato un eccesso di domanda rispetto all’offerta di materie prime, energetiche e non. Il nucleare è un mezzo per assicurarsi i rifornimenti necessari dai paesi produttori. Nella competizione fra gli Stati Uniti e la Cina per le materie prime dell’Africa e dell’America Latina, oppure tra il Giappone e la Cina per il gas indonesiano, oppure ancora fra quest’ultima e la Russia in Asia centrale, si verifica quello che Michael Klare aveva previsto una dozzina di anni fa, ossia che molte competizioni geopolitiche del XXI secolo sarebbero state guerre per le risorse: avrebbero riguardato la sicurezza degli approvvigionamenti di materie prime, soprattutto energetiche. Di conseguenza, la “diplomazia del nucleare” ha aumentato la sua importanza. Il revival dell’elettronucleare ha già indotto le imprese del settore a espandere le loro capacità produttive. I recenti incidenti – peraltro senza conseguenze – avvenuti in Svezia e in Giappone, provocheranno ritardi nell’inizio dei grandi programmi occidentali. Ne è derivata un’ulteriore pressione sui governi perché trovino sbocchi in paesi esteri, in attesa che parta il nucleare nazionale. Tale pressione trova limiti solo nel fatto che, ormai da una ventina di anni, le imprese costruttrici di centrali avevano dovuto ridimensionarsi dopo il boom nucleare degli anni Settanta. Le imprese che appartengono al “cuore oligopolistico mondiale” delle costruzioni nucleari si fanno una concorrenza spietata. Sono considerate strategiche dai rispettivi governi e quindi ne hanno il pieno sostegno, come avviene per l’industria aerospaziale e per quella degli armamenti. Lottano fra di loro per posizionarsi nel modo migliore sul futuro ricco mercato globale sia della costruzione di nuove centrali che del decommissioning di quelle che hanno terminato la loro vita operativa. Le preoccupazioni per la proliferazione derivante dalle forniture di nucleare civile da parte delle imprese occidentali si sono invece attenuate per un fatto spesso ignorato: la comparsa sul mercato di nuovi fornitori, come la Cina, l’India, la Corea del Sud e il Sud Africa. Essi offrono reattori meno sicuri e, soprattutto, meno resistenti alla proliferazione di quelli delle imprese europee, americane, giapponesi e anche russe. Un sistema per contenere la proliferazione delle armi nucleari è quindi saturare per quanto possibile il mercato con le forniture occidentali, più sicure, controllabili e controllate. A esempio, è preferibile che l’offerta di una centrale nucleare alla Libia provenga dalla Francia, anziché dalla Corea del Sud. Ancora più pericolosa dell’aumento dei nuovi fornitori ufficiali è l’esistenza di reti segrete proliferanti, come quella del pakistano Abdul Qadeer Khan, tuttora attiva a Dubai. La proliferazione sembra in questo caso inarrestabile; è particolarmente pericolosa, poiché potrebbe fornire al terrorismo internazionale materiale radioattivo per “bombe sporche”.
LA PISTA LIBICA DELLA FRANCIA E GLI INTERESSI DELL’ITALIA. Due recenti accordi nucleari hanno suscitato notevole interesse. Quello degli Stati Uniti con l’India e quello della Francia con la Libia. Il primo è come al solito accompagnato
da importanti intese sul transfer di armi e di tecnologie strategiche, nonché da un’intesa politica, che potrebbe preludere a una strategic partnership. L’accordo viola il TNP in vari punti e, forse, gli infligge un colpo mortale. In particolare, prevede che il combustibile fornito dagli Stati Uniti possa essere riprocessato in India e garantisce a quest’ultima la possibilità non solo di rifornirsi di combustibile radioattivo, ma anche di accumularne scorte. Esse la metterebbero in condizioni di resistere a un embargo internazionale, adottato qualora l’India facesse un nuovo esperimento nucleare, che ha già rivendicato come proprio diritto.
Ancora maggiore risonanza nell’opinione pubblica italiana ha avuto il recente accordo sulla fornitura da parte della Francia alla Libia di una centrale nucleare per la desalinizzazione. Anch’esso è un esempio della “diplomazia del nucleare”. Ha giocato
sicuramente, da parte libica, il “valore aggiunto” dell’accreditamento internazionale che ne ha ricevuto Gheddafi. Per Sarkozy, l’obiettivo principale era di garantire sbocchi all’industria petrolifera e degli armamenti francese, ma forse anche di sostenere
– con l’imprevista “apertura” in un settore tanto delicato a un paese che fino a qualche anno fa era collocato fra i rogue states – il suo progetto di Unione mediterranea. Il modo con cui il presidente francese ha concluso l’accordo darà certamente un realistico,
salutare scossone all’Europa – in particolare all’Italia, sempre alla ricerca di improbabili concertazioni. La valutazione – anche sotto il profilo dell’interesse nazionale italiano – non può che essere positiva. L’iniziativa francese contrasta il semimonopolio
di paesi extraeuropei su una zona di tanto diretto interesse europeo e italiano. In un certo senso compensa gli accordi in campo nucleare, militare ed energetico russo-algerini. Nonostante le reazioni negative tedesche – le cui imprese nucleari sono strettamente
collegate a quelle francesi – la “diplomazia del nucleare” di Sarkozy è utile a tutti. Andrebbe appoggiata. Sarebbe auspicabile che vi concorressimo con le capacità tecnologiche e industriali nucleari che ancora ci restano. Esse non sono poche, sia in senso assoluto che relativamente ad altri paesi. Lo dimostrano l’attiva partecipazione dell’industria italiana al prolungamento della vita operativa delle centrali francesi, o lo spazio guadagnato dalle nostre imprese nel nucleare dell’Est europeo. Abbiamo una buona esperienza di collaborazione con i francesi, consolidata anche con joint ventures all’estero nel “periodo d’oro” del nucleare italiano, quando avevamo accordi di cooperazione internazionale con ben 26 Stati. Tali capacità sono state in gran parte buttate via. Solo in questi ultimi anni, con la partecipazione al Global Partnership Program del G8 (smantellamento di sommergibili e navi nucleari delle flotta del nord ex sovietica – vera e propria “bomba ecologica” che potrebbe inquinare l’Oceano Artico) e a vari programmi finanziati dalla BERS e altri, nonché con la partecipazione alla costruzione o a interventi migliorativi nelle centrali nucleari nell’Est europeo, l’Italia è riuscita a ricostruire una non trascurabile capacità nucleare. Questa è indispensabile anche per il decommissioning nazionale dei vecchi impianti del ciclo del combustibile e delle centrali elettronucleari. Le attività sono state per ora praticamente limitate alla sola messa in sicurezza – peraltro necessaria per evitare disastri – dei materiali radioattivi esistenti sui vari siti. Il loro smantellamento potrà iniziare solo quando sarà disponibile un deposito nazionale, date le insormontabili resistenze
locali alla costruzione di depositi provvisori – eccetto di quelli indispensabili alla messa in sicurezza – per il timore che divengano definitivi. È questa una realtà spesso bizzarramente ignorata dai responsabili politici e dagli ambientalisti, che però si lamentano dei ritardi del decommissioning. In realtà, vengono costruite nuove infrastrutture, che poi dovranno essere bonificate e demolite. Si tratta quindi più di un recommissioning che di un decommissioning. Nel frattempo, rimangono pressoché inalterati i costi della custodia degli impianti e della gestione della loro sicurezza. Più si ritarda, più aumentano i costi totali. Ma anche questo ha provocato stupore e critiche. L’Italia dovrebbe evitare di essere messa “fuori dal giro” rispetto alla Francia e alla Spagna in un settore così importante del progetto di Unione mediterranea. Lo potrebbe fare, come avvenuto in passato. L’episodio più significativo fu la collaborazione del Comitato nazionale per l’Energia nucleare (CNEN) e di varie imprese italiane con l’Iraq. La sua storia è stata recentemente descritta in un interessantissimo saggio. La strada dell’accordo fu aperta da una missione bipartisan guidata da Nino Andreatta (DC), allora consigliere economico di Aldo Moro, e da Eugenio Peggio (PCI). Ne facevano parte rappresentanti delle principali industrie di Stato: IRI, ENI, ENEL e CNEN. L’accordo – successivamente perfezionato dai ministri Donat Cattin e Stammati – prevedeva la fornitura da parte italiana all’Iraq di laboratori, di una “cella calda” e di tecnologie e apparati nucleari e per la radioprotezione, nonché la partecipazione della nostra industria all’eventuale costruzione di una centrale nucleare da 800 MW. L’Iraq si impegnava dal canto suo a fornire all’Italia 10 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, a considerare con favore l’acquisto di armamenti italiani e a concedere all’ENI diritti di esplorazione su promettenti campi petroliferi. Insomma, facemmo come “sistema paese” qualcosa di molto simile a quello che la Francia di Sarkozy ha fatto con la Libia. C’è da chiedersi che cosa impedirebbe anche oggi di procedere in modo analogo. Certo, data la criticità del nucleare, occorre essere consapevoli dei rischi che si corrono, soprattutto in zone instabili e conflittuali come il Medio Oriente. Subimmo infatti taluni attentati, fortunosamente senza vittime, in particolare a uffici della SNIATechint, che concorreva al progetto. Ai francesi andò peggio. Furono fatti saltare nel 1979, nel porto di Marsiglia, i contenitori destinati al reattore iracheno Osirak, poi distrutto nel 1981 dall’aviazione israeliana. Subirono poi “incidenti” alcuni tecnici iracheni che lavoravano con i francesi. Ma la cultura del rifiuto del rischio e l’applicazione sistematica del “principio di precauzione” sono a loro volta paralizzanti. Una potenzialità italiana, che potrebbe essere considerata anche per estendere l’iniziativa di Sarkozy dalla Libia all’intero Mediterraneo, è rappresentata dal MARS (Multipurpose Advanced Reactor inherently Safe), reattore a sicurezza intrinseca (che anticipa una caratteristica dei reattori di “quarta generazione”). Il MARS ha accentuate proprietà antiproliferanti. Questa caratteristica lo rende particolarmente interessante per l’esportazione in un’area così instabile. La sicurezza del reattore è basata su sistemi interamente passivi, quindi idonei a essere gestiti anche da paesi in via di sviluppo, che non dispongono di maestranze particolarmente qualificate e affidabili. Il MARS – che ha ricevuto la qualificazione dell’AIEA – ha una potenza installata di circa 200 MW elettrici, quindi ideale per impianti di desalinizzazione, per i quali reattori del tipodell’EPR francese o del AP1000 americano hanno potenze decisamente sovrabbondanti. Il MARS si basa su soluzioni particolarmente innovative per quanto riguarda sia la facilità di costruzione e di smantellamento, sia la minimizzazione della produzione di scorie, sia i controlli antiproliferazione. L’Italia non dovrebbe limitarsi a esprimere giudizi agrodolci nei riguardi dell’iniziativa Sarkozy per lo sviluppo del bacino del Mediterraneo. Ancora meno elegante – anche se è vero – è che vada dicendo che siamo stati noi ad avere per primi “l’idea brillante”. Invece, dovrebbe rispondere positivamente, e proporre il MARS come un nostro contributo concreto. Essendo completamente composto da componenti di acciaio smontabili e facilmente trasportabili, potrebbe essere fabbricato da nostre imprese, che posseggono ancora la capacità tecnologica di farlo, ed esportato all’estero. La partecipazione all’iniziativa francese costituirebbe una buona occasione per ridare impulso a un settore in cui una volta eccellevamo e a cui prima o poi torneremo. Lo faremo certamente quando la forza delle cose ce lo imporrà; ad esempio, se la Francia non potrà più fornirci tanta energia elettrica come oggi, oppure se un “cartello” russo-algerino limiterà le nostre importazioni di gas naturale, essenziali per la produzione di un’aliquota così elevata dell’elettricità nazionale.

Carlo Jean Università Luiss

8 novembre 2007


Accordo Italia Francia sul nucleare

A 22 anni dal referendum che ha bocciato il nucleare, l'Italia torna in campo dopo la firma dell'accordo tra Italia e Francia (1) che prevede la costruzione entro il 2020 di quattro centrali nucleari di terza generazione avanzata del tipo Epr (European pressurized water reactor), ossia centrali che appartengono alla classe dei reattori nucleari ad acqua pressurizzata. Quelli di seconda generazione resteranno attivi fino al 2065, mentre i primi impianti Epr sono in costruzione in Finlandia (Olkiluoto), Francia (Flamanville, con la partecipazione dell'Enel) e Cina (Taishan).

Le centrali Epr sono reattori a fissione in cui il nocciolo viene refrigerato utilizzando acqua naturale o leggera (per distinguerla dall'acqua pesante). Una delle principali caratteristiche è la maggiore sicurezza rispetto alle altre centrali della stessa classe. I reattori Epr hanno maggiore protezione: quattro sistemi indipendenti di refrigerazione d'emergenza (ognuno capace da solo di refrigerare il nocciolo del reattore dopo lo spegnimento); contenimento metallico attorno al reattore; contenitore e area di raffreddamento passivo del materiale fuso; doppia parete esterna in calcestruzzo armato spessa 2,6 metri e progettata per resistere all'impatto diretto di un grosso aereo di linea. Dal punto di vista delle scorie, queste centrali non offrono particolari novità, se non la possibilità di processare le scorie in modo da separare le più pericolose, riducendo il volume complessivo. A oggi, appaiono più lontanie nel tempo le centrali di quarta generazione, che secondo gli esperti potranno diventare realtà solo fra il 2030 e il 2040.

Per completare davvero il ritorno dell'Italia al nucleare manca ancora il passo più complicato: la scelta dei siti per le nuove centrali. L'argomento, come ovvio, è delicatissimo, tanto che nel protocollo d'intesa siglato tra Roma e Parigi il capitolo della localizzazione dei primi quattro impianti è stato stralciato. Se il governo vuole mantenere la tabella di marcia prevista però - posa della prima pietra entro cinque anni, avvio della produzione nel 2020 - l'individuazione delle aree dovrà comunque avvenire già entro la fine di quest'anno. La mappa della nuova Italia nucleare allo studio della Commissione Scajola è dunque ancora tutta da scrivere. Il ministro alle attività produttive ha assicurato di avere in tasca un elenco di 34 comuni pronti a ospitare le centrali tra cui uno in Sicilia (pare nel ragusano) e uno in Sardegna. Ma a parte queste new entry, in pole position ci sono le stesse cinque aree - Trino Vercellese, Caorso (Piacenza), Montalto di Castro (Viterbo), Garigliano (Caserta) e Latina - dove vent'anni fa funzionavano le veccchie centrali. E in questi giorni starebbe prendendo quota proprio la candidatura di Montalto per il ritorno al nucleare. Il vantaggio di questi siti? Hanno conservato le licenze necessarie alla costruzione, hanno disponibilità dell'acqua necessaria e hanno un rapporto già "rodato" con il territorio. La strada però non è in discesa nemmeno qui: "Per ora non ci ha contattato nessuno - dice Fabio Callori, sindaco Pdl di Caorso - . Ma la nostra posizione è chiara: il mio Comune non è disposto a un futuro atomico fino a quando non chiuderà con il passato. Prima smantellino la vecchia centrale. Poi ne riparleremo. Ma servono condivisione e incentivi e bisogna far partire i lavori solo quando sarà definito un sito nazionale per lo smaltimento delle scorie e chi pagherà tra decenni la chiusura". I primi quattro impianti previsti dall'intesa Italia-Francia - in teoria se ne potrebbero costruire due nello stesso posto - copriranno circa il 10-12% del fabbisogno energetico nazionale, contro l'obiettivo del 25% del governo. Dove saranno gli altri? L'identikit del "sito ideale" è facile: deve essere vicino all'acqua, preferibilmente al mare ("la portata del Po è in continuo calo", ricorda Callori), immune da rischi sismici e naturali, non lontano da un elettrodotto e da un porto, visto che molti dei componenti delle centrali arrivano pre-assemblati e di notevoli dimensioni. L'Enel una ventina d'anni fa aveva stilato un elenco di candidature che comprendeva un'altra area in Lombardia tra San Benedetto Po e Viadana ("vedremo e valuteremo - ha detto ieri Formigoni - non c'è né un no né un sì preventivo"), il delta del Po, un paio di località in Puglia, Avetrana e Carovigno, la Sicilia sud-orientale e l'isola di Pianosa ("il nucleare non sbarcherà in Toscana", ha promesso Erasmo D'Angelis, presidente della Commissione ambiente della Regione). E Scanzano Ionico in Basilicata era stato indicato come luogo ideale per lo smaltimento delle scorie. Un elenco che conserva ancora una certa attualità. Il problema è quello di sempre: convincere il territorio. "L'accettabilità sociale resta il nodo principale - dice Marco Ricotti, professore di impianti nucleari al Politecnico di Milano - . Puoi costruire una centrale con poca acqua pagandoti le torri di raffreddamento, sfidare i terremoti con progetti anti-sismici come in Giappone. Ma il progetto va condiviso con le realtà locali e incentivato". Tradotto significa che bisogna pagare. La Francia stanzia incentivi per chi accetta il nucleare. Altri paesi garantiscono sgravi fiscali ed energia a prezzi molto bassi.

Nota

(1) Italia e Francia unite sul nucleare. Il premier Silvio Berlusconi e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno firmato a Roma l'accordo che vedrà Italia e Francia più vicine nella produzione di energia dall'atomo. L'intesa - raggiunta a Villa Madama al termine del vertice italo-francese - getta le basi per un'ampia collaborazione in tutti settori della filiera, ricerca, produzione e stoccaggio ed è accompagnato da due «memorandum of understanding» tra i due gruppi elettrici Enel ed Edf. Prevista la realizzazione di almeno quattro centrali di terza generazione nel territorio italiano. L'accordo, secondo il premier che si dice molto soddisfatto per aver raggiunto un risultato concreto, «comporta una politica nucleare condivisa, paritetica e di lungo periodo».

25 febbraio 2009


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