Potere digitale e democrazia


Viviamo in una società fondata sui dati. L’utilizzo di dati digitali è così pervasivo, soprattutto ma non soltanto nelle economie più avanzate, da avere generato un nuovo ecosistema. Un flusso ininterrotto di informazioni digitali che cresce in modo esponenziale e influenza la vita quotidiana e ormai anche la politica. Siamo in una sorta di “datacrazia”, ma è eccessivo temere per il futuro della democrazia?
Il quesito non è certo peregrino se si pensa alla potenza di fuoco dei “titani” che fanno enormi profitti con varie forme di business online, e che così facendo hanno conquistato posizioni oligopolistiche. Parte del problema nasce dall’intreccio delicato tra informazioni e processi decisionali, con in mezzo il ruolo dei cittadini-elettori – che sono al tempo stesso consumatori, produttori e utenti in senso ampio. Affinché il cittadino sia un effettivo elemento di controllo e validazione dei processi di selezione delle leadership e delle loro scelte, deve anche essere un elettore il più possibile informato. Dunque, è chiaro che il modo in cui acquisisce informazioni è essenziale. A due settimane dall'esplosione fragorosa del caso Cambridge Analytica, Mark Zuckerberg, dà i suoi numeri. I profili di Facebook usati dalla compagnia inglese per inviare messaggi di propaganda elettorale pro Donald Trump non sarebbero ben 87 milioni.
Verticale e orizzontale: come cambia la democrazia
La specializzazione e la competenza sono ormai contestate, in parte mediante l’accesso diffuso e immediato a un’enorme massa di dati e informazioni, più o meno grezzi. Contestare la competenza significa anche attaccare il concetto della divisione del lavoro, su cui si fondano i sistemi di mercato. Se ciascuno ritiene di poter valutare una questione altamente tecnica e specifica come un “esperto”, la conseguenza è che una qualsiasi opinione, credenza o ipotesi sulla macroeconomia, sui vaccini, e perfino sui buchi neri o le galassie, acquisisce pari dignità. E questa tendenza è davvero forte, per l’effetto combinato di fattori tecnologici – appunto l’esplosione digitale – e di fattori socioculturali – la sfiducia nelle élite di qualunque genere e specie. La ragione alla base di questo secondo fenomeno – la sfiducia nelle élite, assieme alla contestazione di qualunque forma di expertise – è che si è bloccato quasi del tutto, nella percezione comune, l’ascensore socioculturale che consente il ricambio, cioè l’ingresso nelle élite stesse.
Esse sono, per definizione, gruppi ristretti e altamente selettivi. Che infatti sono oggi definiti come “casta”, termine inteso in senso dispregiativo perché iniquo, autoreferenziale, quasi immobile e perfino ereditario. Insomma, il contrario di un ascensore sempre in movimento, con i suoi effetti su quella mobilità sociale che ha retto per decenni la stabilità delle democrazie contemporanee. Più ampiamente, è l’idea della meritocrazia a essere entrata in crisi, inceppando non solo il circuito delle competenze tecniche a supporto delle decisioni politico-amministrative ma perfino lo stesso funzionamento dei meccanismi democratici. Lo vediamo sia nel dibattito che sembra diventato impossibile tra “esperti” e cittadini comuni, sia nel solco che si è creato tra establishment (i “professionisti della politica”) e il resto della società.
Per essere estremamente sintetici, la democrazia liberale è per definizione un sistema fondato su una rappresentanza verticale; la datacrazia è una realtà orizzontale. C’è un nesso molto stretto fra competenza/expertise e democrazia, procedure democratiche e vitalità sociale come valore positivo (non come raggiro). Il nesso si è spezzato; da questa frattura derivano poi risentimento, rabbia e polarizzazione, che a loro volta si nutrono quotidianamente (spesso per via digitale) di incomunicabilità e sfiducia tra diversi settori della società che diventano a compartimenti stagni.
Ciascuno crea la propria cerchia, la trasforma in una “bolla” impermeabile, e la rafforza costantemente grazie a informazioni selezionate proprio per confermare le convinzioni che già si hanno. La società si tribalizza, i gruppi non sono più fluidi, le identità diventano esclusive. Il nuovo modo di accedere a dati e informazioni (il web ubiquitario) rende tutto ciò rapido e intenso, accelerando le spinte centrifughe e la frammentazione. Il meccanismo poi si autoalimenta attraverso il “confirmation bias”: diventa così molto difficile tornare verso una convivenza civica che favorisca la fiducia e la disponibilità ai compromessi. La solidarietà residua tra individui – molto importante per limitare i danni soprattutto nelle fasi di difficoltà o crisi economica – tende a esprimersi soltanto all’interno dei sottogruppi che hanno ormai segmentato la società.
Questo mondo "fake". (Vedi anche un mio recente articolo sull'argomento).
La sfiducia generata dalle famigerate “fake news” rafforza questi due effetti simultanei: crisi della democrazia (cioè della “politics” democratica) e crisi della tecnocrazia (competenze utili alla gestione democratica delle società complesse, cioè le “policy”). È un attacco devastante perché colpisce entrambi i pilastri della governance contemporanea. D’altro canto, le democrazie contemporanee non sono soltanto macchine elettorali e di dibattito politico-parlamentare: sono anche sistemi – così almeno li definiamo – al tempo stesso liberali e di mercato. Assodati gli effetti negativi della frammentazione e della polarizzazione politica, si deve anche potere rivendicare un diritto dei cittadini alla propria “bolla cognitiva”, che in fondo fa parte del diritto alla privacy.
Scegliere la propria cerchia di amici, conoscenti, e fonti di informazioni è una delle libertà che diamo per scontate. Insomma, esiste una linea sottile a separare il pregiudizio ottuso dalla libera ricerca di una propria comunità basata su affinità elettive. Non si può dimenticare, in altre parole, che anche le più piccole comunità legate da interessi comuni o opinioni condivise sono il sale della democrazia, non diversamente dai famosi “corpi intermedi” della vibrante società americana identificati da Alexis de Tocqueville in un’altra epoca (e in un’altra America). Il problema è che la ricerca di una sorta di democrazia diretta e superpartecipativa (la mitica “rete” come sostituto dei normali processi democratico- liberali), produce risultati molto poco incoraggianti in termini di policies. È vero – così sostengono i fautori della “piazza” in alternativa alla “torre” della democrazia rappresentativa – che già i membri della polis ateniese ricoprivano incarichi pubblici a rapida rotazione; ma quel sistema politico gestiva una piccola comunità, una città-stato, e non invece una struttura grande, complessa e iperconnessa come sono le nostre del XXI secolo. Non sembra esistere il sistema elettorale perfetto, ma la democrazia diretta ha comunque molti limiti, se non altro pratici.
L’insoddisfazione verso una specifica legge elettorale o anche un’intera classe politica non è un buon motivo per rinunciare a processi decisionali complessi nel gestire problemi complessi. Intanto, oltre alle indubbie responsabilità degli eletti (o comunque dei nominati a cariche pubbliche), si potrebbe prestare più attenzione alle responsabilità dei cittadini nel conservare la funzionalità della democrazia moderna. Informarsi almeno sulle grandi linee delle decisioni da prendere è un sostanziale dovere legato al diritto di voto.
La mancanza del “vincolo di mandato” nella selezione dei rappresentanti rimane un cardine del processo democratico, svincolando in certa misura la scelta dell’elettore dalle azioni che saranno poi perseguite dall’eletto; ma non sembra logico attaccare la “casta” della politica dopo averla votata, né contestare le sue scelte dopo aver preferito di non votare affatto. E in tale contesto, alcuni cittadini dovrebbero essere ancora più responsabili di altri: si tratta dei professionisti della comunicazione, il cui lavoro è fornire non semplicemente “dati” (cioè, oggi, sostanzialmente flussi digitali) ma “notizie” e chiavi interpretative di queste notizie. Questo compito difficile richiede una capacità di raccontare storie inserite in un qualche contesto.
Ad esempio, i “post” di una qualsiasi “chat” sembrano avere una storia sequenziale, ma in effetti sono tutti collocati in una specie di presente eterno, e sono infatti particolarmente vulnerabili a essere estrapolati proprio perché privi di un contesto chiaro. Quanto più i media tradizionali rinunciano a raccontare storie, tanto più perdono il proprio ruolo privilegiato di collante o mediatore tra le esperienze quotidiane e il “senso condiviso” della realtà. E questo processo sembra essere in corso già da tempo, a giudicare da quanto spesso i grandi mezzi di informazione fanno ricorso proprio ai social media senza intermediare affatto. Certo, nella iperconnessione è difficile orientarsi – figuriamoci orientare altri.
Ovvia dunque la tentazione di lasciarsi trasportare dal flusso, di accompagnarlo e seguirlo. Se però uno degli scopi di chi “crea informazione” è l’analisi a fini di comprensione (magari anche per prepararsi ai possibili eventi futuri), allora va fatto uno sforzo ulteriore e diverso: come sintetizza il sociologo Douglas Rushkoff, quando si è immersi nei Big Data, “l’importante non è vedere molto, è vedere bene”. Bisogna identificare gli schemi ricorrenti e distinguere il “segnale” dal “rumore”: farlo è un’arte, oltre che una tecnica. In sostanza, per un giornalista professionista e per un intellettuale ciò significa a volte dire ai propri “utenti” che sbagliano, che stanno leggendo i dati in modo errato o quantomeno incompleto. Un’operazione che richiede coraggio.
I padroni dei dati.
Una crisi almeno parziale della democrazia moderna è in realtà di gran lunga precedente alla diffusione dei “nuovi media”. Potremmo dire che questo sistema di governo e di convivenza civile è arrivato già stanco e indebolito all’appuntamento con la rivoluzione digitale. Il problema di fondo per le democrazie liberali di mercato – la definizione probabilmente più precisa che dovremmo sempre utilizzare – è quello delle aspettative crescenti che hanno caratterizzato le generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale. Aspettative sia economiche che socioculturali, che hanno portato a una sorta di edonismo diffuso e poi a un vero shock collettivo di fronte al calo delle previsioni di crescita.
La cosiddetta “curva J”, teorizzata da James Davies alla fine degli anni Sessanta, descrive proprio il momento di massimo rischio per la stabilità politica delle democrazie quando, in società già “affluenti”, le promesse (esplicite o immaginate) non vengono mantenute.
Siamo, perlomeno dal 2008 in poi, in una fase di questo tipo. In modo parallelo, è crollata la fiducia nelle istituzioni democratiche come strumenti di giustizia sociale, causando una sorta di svuotamento della democrazia moderna: come ha scritto ad esempio Zygmunt Bauman, abbiamo assistito al divorzio tra potere e politica, per cui il potere “reale” sembra essere migrato altrove, verso organizzazioni e figure non rappresentative e fuori controllo. È su questo sfondo che si devono valutare le nuove forme di potere della comunicazione e dell’informazione anche in rapporto alle decisioni pubbliche.
Il “mercato dei dati” è diventato un elemento cruciale per le moderne economie. E sconta una contraddizione irrisolta: i social network operano in una sorta di spazio “pubblico”, per sua natura aperto e in apparenza libero, originariamente senza regole né paletti; al tempo stesso, si sono evoluti nella ricerca del profitto (dunque in una logica privata e di business) fino a trasformarsi in giganti finanziari e in oligopolisti. Questa tensione è oggi evidente e complica la soluzione dei problemi sociali causati, magari involontariamente, dall’utilizzo estensivo delle nuove forme di interazione digitale. Senza cambiare il modello di business sarà sempre più difficile evitare che i cittadini utenti diventino in misura crescente fornitori inconsapevoli di dati commerciali. O peggio ancora. Un editorialista del “Financial Times”, John Gapper, ha usato l’analogia tra chi approfitta dei social per scopi illegali o quantomeno immorali e qualcuno che inquini un giardino pubblico o minacci dei bambini in un parco giochi. L’accesso libero e senza filtri crea una rete di contatti molto utile a scopi costruttivi ma anche molto vulnerabile, soprattutto perché – meno ancora di un parco giochi per bambini – è una rete non tutelata dai normali strumenti di ordine pubblico. Quando allora Mark Zuckerberg si sorprende dei “cattivi soggetti” che disturbano il funzionamento di Facebook come grande piattaforma aperta, è un po’ come se si sorprendesse che si scommetta in un casinò.
La via d’uscita può essere puramente tecnica? Gli algoritmi come “controllori”, per spersonalizzare la difesa dello spazio “pubblico”?
Le soluzioni non sono affatto semplici. La questione fiscale è parte del problema, ma non è certo tutto il problema: vedremo come finirà il braccio di ferro aperto dalla Commissione europea con i titani del web. I padroni dei dati la fanno troppo facile, con i loro manifesti sul futuro del mondo. E il rischio, alla fine, è che la soluzione sia quasi peggiore del male. Il dilemma è certamente presente nella vita quotidiana di internet – dunque nella vita di buona parte dell’umanità. Non si deve però dipingere un’immagine statica: proprio come in altri ambiti, vi sono dinamiche contrastanti in atto, con forti oscillazioni a esempio tra beni comuni e interessi privati, o tra fasi di grande opportunità per i “piccoli” attori (grazie all’abbattimento delle barriere all’ingresso) e fasi di predominio dei “grandi” attori (grazie alle economie di scala e alla concentrazione delle risorse). Insomma, il progresso tecnologico è comunque un progresso, e non è il caso di farsi prendere dal panico: è bene ricordare che la visione liberale ha sempre dovuto fare i conti con la tensione fra sfera delle libertà pubbliche e sfera privata.
Roberto Menotti
Marta Dassù

www.aspeninstitute.it - 5 aprile - 2018

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