Le risorse idriche del paese. La giornata mondiale dell'acqua


La ragione è condannata a porsi degli interrogativi ai quali sa di non poter rispondere.
Immanuel Kant


- In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, istituita dall’ONU e celebrata ogni anno, il 22 marzo, l’Istat fornisce un quadro di sintesi delle principali statistiche sulle risorse idriche.
- Nel 2017, a causa della “crisi idrica”, nei quattro principali bacini idrografici italiani (Po, Adige, Arno e Tevere) le portate medie annue hanno registrato una riduzione media complessiva del 39,6% rispetto alla media del trentennio 1981-2010.
- L’andamento dello Standardized Precipitation Index (SPI) per i quattro principali bacini idrografici, segnala che i mesi di maggiore deficit pluviometrico nel 2017 si sono concentrati nella seconda metà dell’anno, con uno stato sempre “estremamente secco”. L’unica eccezione è rilevata nel mese di dicembre nel bacino del Tevere, che risulta “molto secco”.
- Nel 2017, una famiglia su 10 (il 10,1%) lamenta irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua nella propria abitazione e circa una su 3 (il 29,1%) dichiara di non fidarsi a bere l’acqua di rubinetto.
- Nel 2016, la spesa media mensile delle famiglie per l’acquisto di acqua minerale è pari a 10,75 euro e registra un incremento per il secondo anno consecutivo (+4,7% rispetto al 2015). Parallelamente la spesa media mensile per la fornitura di acqua connessa all’abitazione è di poco superiore, pari a 13,59 euro, l’1,5% in più rispetto al 2015.
- Nel 2015, il volume di acqua complessivamente prelevato per uso potabile sul territorio italiano ammonta a 9,49 miliardi di metri cubi. Il 76,3% di questo volume, pari a poco più di sette miliardi di metri cubi, è stato misurato attraverso idonei strumenti, mentre il restante 23,7% è stato stimato dai gestori delle fonti.
- Tra i 28 Paesi dell’Unione europea l’Italia ha il maggiore prelievo annuo di acqua per uso potabile pro capite: 156 metri cubi per abitante.
- In 342 comuni, in cui risiedono circa 1,4 milioni di abitanti (2,4% della popolazione totale), è totalmente assente il servizio di depurazione delle acque reflue urbane.
- Nel 2016, risultano balneabili oltre due terzi (67,9%) dei chilometri di costa monitorati ai fini della qualità delle acque di balneazione; il restante 32,1%, come negli anni precedenti, è soggetto a divieto permanente di balneazione.
- Il 94,0% delle acque di balneazione vanta una qualità eccellente nel 2016, in significativo miglioramento rispetto al 2013 (85,8%). La quota più elevata si registra in Friuli-Venezia Giulia e in Puglia (99,6% contro, rispettivamente, 91,1% e 85,4% del 2013), la più bassa in Abruzzo (76,3%, 53,2% nel 2013).
La crisi idrica del 2017
Il 2017 è stato un anno nel quale si è manifestata un’eccezionale carenza di risorse idriche disponibili, soprattutto in alcune zone del Paese. La scarsità delle precipitazioni del trimestre autunnale 2016, proseguita nel 2017 in concomitanza con le alte temperature, ha avuto naturali effetti sui principali bacini idrografici, con una forte riduzione dei deflussi idrici. La rilevanza di questi fenomeni è quantificabile attraverso lo Standardized Precipitation Index (SPI) e la misura della portata dei principali corsi d’acqua italiani (Po, Adige, Arno e Tevere) rilevata nelle stazioni idrometriche più prossime alla foce. L’indice quantifica, a diverse scale temporali, il deficit di precipitazione e quindi gli effetti che ha sulla disponibilità delle differenti risorse idriche; il calcolo è basato su una lunga serie storica di dati di precipitazione. La scala temporale utilizzata è quella a 12 mesi, che ha riscontro sul livello delle falde acquifere e sulle portate fluviali, considerando come periodo di riferimento il trentennio 1981-2010.
Nel 2017, in tutti e quattro i bacini idrografici, le portate medie annue hanno registrato un decremento rispetto alla media del trentennio di riferimento 1981-2010, con una riduzione media complessiva del 39,6%. I mesi di maggiore siccità, analizzando gli andamenti dello SPI, riguardano soprattutto la seconda metà dell’anno, con condizioni di deficit pluviometrico sempre “estremamente secco”, unica eccezione il mese di dicembre nel bacino del Tevere che risulta “molto secco”. I primi mesi dell’anno, invece, mostrano regimi pluviometrici che vanno da valori “nella norma” a “estremamente secco”; solo il corso del fiume Po si presenta “estremamente secco” a partire dal mese di luglio. Dall’insieme delle analisi si evince, quindi, una forte riduzione dei deflussi idrici come conseguenza degli scarsi eventi meteorici.
Nel 2017, durante tutti i mesi dell’anno si evidenzia nelle portate del Po, alla stazione di Pontelagoscuro, una diminuzione rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, in media del 41,1%, con un picco negativo del 60,6% ad ottobre, passando da 5.173 a 2.040 milioni di metri cubi. Dall’analisi dello SPI è confermata la scarsità delle precipitazioni con regime “estremamente secco”, diffuso nella seconda metà dell’anno.
Sul bacino dell’Adige, alla stazione di Boara Pisani, le portate sono diminuite mediamente di un terzo (-33,2%), registrando decrementi in tutti i mesi dell’anno, a eccezione di agosto e settembre (+0,6% e +14,8%), e passando, rispettivamente, da 428 milioni di metri cubi nel trentennio considerato a 430 milioni di metri cubi nel 2017 e da 443 milioni di metri cubi a 509 milioni di metri cubi. A partire dal mese di maggio il valore dello SPI è risultato sempre “estremamente secco”.
Il regime idrologico del fiume Arno nella stazione di San Giovanni alla Vena denota, nel 2017, un abbassamento generale medio delle portate del 27,3%, con un picco massimo positivo a settembre, e un raddoppio delle portate del 101,8%, passando dai 53 milioni di metri cubi del trentennio a 108 milioni di metri cubi. II mese di ottobre registra il decremento maggiore, pari all’88,2% (da 154 milioni di metri cubi a 18 milioni di metri cubi). Anche in questo bacino si calcolano, a partire da giugno, valori di SPI inferiori a -3 (“estremamente secco”).
Il fiume Tevere, alla stazione di Ripetta, rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, registra una diminuzione costante durante tutti i mesi dell’anno, in media del 39,0%, con il decremento maggiore del 55,3% a novembre, quando la portata media si è più che dimezzata, passando da 484 a 216 milioni di metri cubi. Secondo i valori dello SPI da giugno a novembre risulta una condizione pluviometrica “estremamente secca”, mentre a dicembre si evidenzia un ritorno ad un regime “molto secco”.
Servizio di erogazione dell’acqua alle famiglie
Nel 2017 si attesta al 10,1% la quota di famiglie italiane che lamentano irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua nelle loro abitazioni. Tale valore, il più alto dal 2011, nonostante sia in aumento se confrontato con il trend degli ultimi anni, è ancora distante dai picchi rilevati a partire dal 2002, soprattutto rispetto a quello del 2003 (17,0%). Il disservizio investe in percentuali molto diverse tutte le regioni e interessa 2,6 milioni di famiglie, residenti per la maggior parte nel Mezzogiorno. Le regioni più esposte ai problemi di erogazione dell’acqua nelle abitazioni sono Calabria e Sicilia. Oltre un terzo delle famiglie (il 36,0%) che vivono in Calabria lamenta questa inefficienza, ma la quota è in calo rispetto al 2016 (37,5%). Particolarmente gravosa la situazione in Sicilia, dove non soltanto si registra una quota elevata di famiglie che lamentano irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua (35,9%), ma anche un sensibile peggioramento rispetto all’anno precedente di quasi sette punti percentuali. Rispetto ai valori critici precedenti, la quota di famiglie che lamentano irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua si riduce a quasi un decimo nelle regioni del Nord-est (3,5%) e del Nord-ovest (3,7%).
Le famiglie che dichiarano di non fidarsi a bere l’acqua di rubinetto rappresentano ancora una quota considerevole, nonostante il progressivo miglioramento degli ultimi quindici anni: dal 40,1% nel 2002 al 29,1% nel 2017 (29,9% nel 2016). Tale sfiducia riguarda 7,4 milioni di famiglie e presenta una marcata variabilità territoriale. Le percentuali più elevate si rilevano in Sardegna (54,8%), Sicilia (53,2%) e Calabria (48,9%). Seguono, a notevole distanza, Umbria (37,3%), Molise (33,8%), Toscana (33,1%) e Campania (32,8%). La quota più bassa di famiglie che non si fidano a bere l’acqua di rubinetto si rileva, invece, nel Nord-est (18,6%); di poco superiore la percentuale del Nord-ovest (24,1%).
Consumo di acqua minerale e di acqua potabile
Nel 2016, in Italia la spesa media mensile familiare per consumi finali di beni e servizi si è attestata su 2.524 euro, di cui 448 euro (17,7% del totale) sono stati destinati all’acquisto di “Prodotti alimentari e bevande analcoliche”. All’interno di tale categoria, la spesa media mensile per l’acquisto di acqua minerale è pari a 10,75 euro, registrando per il secondo anno consecutivo un incremento (+4,7% rispetto al 2015 e +8,6% rispetto al 2014), dopo la contrazione del periodo 2008-2014 (-27,1%) (Figura 3). L’incidenza della spesa per acqua minerale su quella alimentare passa dal 2,9% del 2008 al 2,4% del 2016, e dallo 0,5% allo 0,4% sulla spesa media totale familiare. La spesa media mensile per la fornitura di acqua connessa all’abitazione, rilevata a partire dal 2014, nel 2016 è pari a 13,59 euro, ed è aumentata dell’1,5% rispetto al 2015.
Misura dell’acqua potabile
La costante domanda di acqua, i cambiamenti climatici, nonché i trend economici e urbanistici degli ultimi anni rappresentano, anche per l’Italia, rilevanti fattori di pressione sulle risorse idriche disponibili, sempre più ridotte e prossime ai limiti di sostenibilità in alcune aree del Paese. In queste condizioni di diffusa scarsità idrica si rende più pressante l’esigenza di monitorare costantemente la risorsa attraverso informazioni accurate e georeferenziate. Anche nel comparto delle acque per uso potabile, nel percorso che va dal prelievo alla distribuzione, una misurazione efficace garantisce, oltre alla corretta fatturazione per l'utilizzo dell'acqua, le informazioni necessarie per una gestione sostenibile della risorsa e per una rapida individuazione delle perdite, al fine di ridurre al minimo gli impatti negativi sull’ambiente. I dati raccolti durante l’ultima edizione del Censimento delle acque per uso civile consentono di fornire una rappresentazione, aggiornata all’anno 2015, del grado di diffusione della misurazione dei volumi di acqua utilizzati nel ciclo potabile.
I prelievi
Nel 2015 il volume di acqua complessivamente prelevato per uso potabile sul territorio italiano dagli oltre 1.800 enti gestori di fonti di approvvigionamento ammonta a 9,49 miliardi di metri cubi. Il 76,3% di questo volume, pari a poco più di sette miliardi di metri cubi, è stato misurato attraverso idonei strumenti di misura mentre il restante 23,7% è stato stimato dai gestori delle fonti. In assenza dei misuratori, è frequente l’uso della portata massima di concessione come parametro di stima, benché essa non corrisponda al reale valore di prelievo. L’analisi dei dati fa emergere un utilizzo degli strumenti di misura piuttosto variabile sul territorio e correlato soprattutto al tipo di gestione (se specializzata o in economia2) e alla tipologia di fonte. I 375 gestori specializzati hanno contribuito al prelievo del 92,3% del volume complessivo, pari a circa 8,76 miliardi di metri cubi di acqua. Il 79,8% del volume prelevato è misurato.
A seconda della tipologia di fonte, la presenza di misuratori varia in maniera piuttosto evidente. I prelievi da lago naturale o bacino artificiale, che rappresentano il 10,8% del volume complessivo e che per la quasi totalità (99,2%) sono utilizzati da gestori specializzati, sono quelli più misurati: il 97% circa viene infatti misurato e il restante 3% è fornito dal gestore applicando una procedura di stima.
I volumi prelevati da pozzo, che incidono sul 48,0% del totale, sono stati misurati dal gestore della fonte nel 75,3% dei casi.
Per i prelievi da sorgente, da acque marine o salmastre, pari al 36,4% del totale (36,3% da sorgente e 0,1% da acque marine o salmastre), si rileva una minore diffusione della misurazione. L’ente gestore ha, difatti, dichiarato di aver utilizzato procedure di stima per la fornitura del dato annuale nel 27,6% dei casi da sorgente e nel 25,9% dei casi da acque marine o salmastre. Ancora più bassa la quota del misurato nel caso di prelievi da corso d'acqua superficiale, che rappresentano il 4,8% del volume complessivo prelevato e che risultano stimati nel 30,4% dei casi. Nel caso delle sorgenti, dipende principalmente dalla loro frequente localizzazione in alta quota, in zone non facilmente raggiungibili, in cui risulta difficoltosa l’introduzione di strumenti di monitoraggio e la loro manutenzione. Inoltre, soprattutto in inverno, anche laddove gli strumenti siano presenti, può capitare che il contatore si ghiacci e non funzioni, da cui la necessità di effettuare una stima per un periodo dell’anno. Per quanto riguarda i prelievi da corso d’acqua superficiale, acque marine o salmastre, i contatori sono generalmente posizionati all’uscita dell’impianto di trattamento.
La Puglia è la regione in cui è più alto il livello di misurazione dei quantitativi prelevati per uso civile, infatti raggiunge il 99,8% di volumi misurati, percentuale pressoché coincidente con i prelievi effettuati dalle gestioni specializzate attive sul territorio, in prevalenza da pozzo, lago naturale o bacino artificiale. La misurazione è molto diffusa, con livelli superiori al 90%, anche in Emilia- Romagna (97,8%), Sardegna (96,1%), Basilicata (93,8%) e Lazio (92,3%), regioni in cui è molto presente la gestione specializzata delle fonti di approvvigionamento per uso potabile.
Di contro, la regione in cui i gestori delle fonti di approvvigionamento hanno dichiarato un maggiore utilizzo delle procedure di stima nella fornitura dei quantitativi prelevati per uso potabile è la Valle d’Aosta, con appena il 25,9% dei volumi sottoposti a misura; si tratta per lo più di prelievi da sorgenti di alta quota. In questa regione quasi il 90% dei prelievi è gestito in economia. Bassi livelli di misurazione si registrano, a seguire, in Molise (37,8%) e Toscana (40,2%), dove ci sono importanti prelievi da corso d’acqua superficiale.
La distribuzione
Dopo la fase di prelievo dall’ambiente, l’acqua può essere sottoposta a un eventuale trattamento di potabilizzazione e, al netto delle perdite in adduzione e di possibili forniture in comparti non civili (agricoltura, industria), viene quindi immessa nelle reti comunali di distribuzione. Tali reti sono complessivamente gestite, nel 2015, da 2.306 enti che operano in 8.024 comuni (il 99,7% dei comuni italiani). Nel 2015, per garantire il livello di consumo della popolazione, il volume totale di acqua immessa nella rete di distribuzione dell’acqua potabile è pari a 8,32 miliardi di metri cubi. Il servizio di distribuzione è in gran parte affidato ad una gestione specializzata. Infatti 331 enti specializzati gestiscono l’86,4% dei volumi immessi in rete, mentre 1.975 gestori in economia si occupano del restante 13,6%. Nel complesso, il 68,0% del volume di acqua immessa in rete è soggetto a misurazione; tale percentuale sale al 71,9% nel caso di gestori specializzati e scende al 42,9% nel caso di gestori in economia. I volumi di acqua erogati agli utenti per usi autorizzati possono essere classificati in volumi fatturati (misurati e non misurati) e volumi non fatturati (misurati e non misurati). Dei 4,87 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile erogati agli utenti per usi autorizzati le componenti misurate, nel complesso, pesano per l’88,8%, con una percentuale che va dal 61,9% nelle gestioni in economia al 93,3% nelle gestioni specializzate. Il 96,3% del volume erogato viene fatturato e il restante 3,7% è erogato per usi non fatturati (ad esempio, fontanili, lavaggio strade, antincendio).
L’analisi dei volumi fatturati evidenzia che la parte non misurata rappresenta il 4,9% per i gestori specializzati e il 34,5% per i gestori in economia. Questa differenza così considerevole dipende dal fatto che nelle gestioni in economia, a differenza di quelle specializzate, in molti casi non ci sono ancora i contatori all’utenza e la fatturazione viene fatta a forfait, a spina o secondo altri criteri. È anche frequente il caso in cui la lettura dei ruoli non sia aggiornata all’anno di riferimento dei dati richiesti dall’indagine, il che costringe il gestore a effettuarne una stima.
Le perdite idriche di rete
Il confronto tra i volumi di acqua immessa ed erogata consente di valutare le perdite idriche di rete che, ancora nel 2015, rappresentano un’importante criticità da affrontare per gli enti gestori del servizio idrico. Le perdite idriche totali percentuali, aliquota dell’acqua immessa che non arriva agli utenti finali, si attestano al 41,4% a livello nazionale, pari a 3,45 miliardi di metri cubi nel 2015. Nel dettaglio le perdite idriche reali, dovute a corrosione o deterioramento delle tubazioni, rotture nelle tubazioni o giunzioni difettose e inefficienze, risultano pari al 38,3%; mentre le perdite idriche apparenti, riconducibili a consumi non autorizzati ed errori di misura, sono il 3,1% dell’acqua immessa in rete. Con riferimento alle sole gestioni in economia, la percentuale di perdite idriche totali scende al 39,2%, mentre sale al 41,7% per le gestioni specializzate. Se, quindi, i gestori in economia hanno dichiarato mediamente perdite inferiori rispetto ai gestori specializzati, bisogna tener conto che la misurazione delle variabili coinvolte nel calcolo dell’indicatore è meno diffusa che tra gli enti specializzati.
L’analisi delle perdite idriche totali di rete per comune evidenzia le aree del territorio in cui la performance del servizio è meno efficiente. Il 7,5% dei comuni in cui è presente il servizio di distribuzione ha perdite idriche totali molto alte, maggiori del 70%. Tra questi compare anche un comune capoluogo di provincia: Frosinone (75,4%). Le regioni con la quota più elevata di comuni con perdite superiori al 70% sono, nell’ordine, Lazio (30,2%), Friuli-Venezia Giulia (28,0%) e Basilicata (21,4%); a seguire, le regioni che si trovano in maggiore sofferenza sono, per la gran parte, nelle aree del Mezzogiorno. Abbassando la soglia della dispersione a quantità superiori al 50%, si rileva che, comunque, nel 28% dei comuni si perde più della metà dell’acqua immessa in rete. Tra questi figurano, oltre a Frosinone, altri 25 comuni capoluogo di provincia, dei quali cinque sono addirittura capoluoghi di regione: Potenza (68,8%), Campobasso (67,9%), Cagliari (59,3%), Palermo (54,6%) e Bari (52,3%). Perdite gravose e pari ad almeno il 40% anche nelle città capoluogo di regione Catanzaro (49,2%), Firenze (47,1%), Trieste (46,8%), Roma (44,1%) e Perugia (41,4%). Di contro, appena il 6,5% dei comuni italiani dotati di servizio di distribuzione dell’acqua potabile presenta perdite idriche totali uguali o inferiori al 10%. Le regioni più virtuose sono la Valle d’Aosta, con il 31,1% dei comuni interessati da perdite basse e la Provincia autonoma di Trento (23,8%). Macerata è l’unico comune capoluogo di provincia in cui si rilevano perdite inferiori al 10%, avendo raggiunto nel 2015 un valore dell’indicatore pari all’8,6%. Dispersioni contenute anche nei comuni di Mantova (11,6%), Pordenone (11,7%), Monza (12,0%), Foggia (12,9%), Udine (13,7%), Lanusei (13,9%) e Pavia (14,8%), che non superano il 15% di perdite.
Prelievi di acqua per uso potabile nell’Ue
Il confronto internazionale del volume pro capite di acqua che viene annualmente prelevato per uso potabile (freshwater abstraction for public water supply) da corpi idrici superficiali o sotterranei nei 28 Paesi dell’Unione europea, mostra che l’Italia, con 156 metri cubi per abitante, è il Paese con il prelievo maggiore, seguita da Irlanda (135 metri cubi per abitante) e Grecia (131 metri cubi per abitante). Di contro, Malta è il paese in cui il valore dell’indicatore raggiunge il minimo (31 metri cubi per abitante). Prelievi per uso potabile piuttosto contenuti sono effettuati nella maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est.
Depurazione delle acque reflue urbane
Nel 2015 il 95,7% dei comuni italiani (7.705 nell’anno considerato) si avvale del servizio di depurazione delle acque reflue urbane, che può interessare parzialmente o totalmente il territorio comunale. I reflui urbani prodotti e convogliati nella rete fognaria pubblica confluiscono in impianti di depurazione appartenenti ai servizi idrici. In 342 comuni, in cui risiedono circa 1,4 milioni di abitanti (pari al 2,4% della popolazione totale), tale servizio è assente, ossia i reflui urbani non sono collettati in impianti pubblici in esercizio. Le situazioni di maggior criticità si registrano in Sicilia, dove i comuni senza depurazione sono 75 (12,9% della popolazione regionale), in Calabria con 57 comuni (7% della popolazione) e in Campania, con 55 comuni (3,9% della popolazione).
Complessivamente quasi due terzi (62,6%) dei carichi inquinanti di origine civile e industriale (in termini di abitanti equivalenti) è sottoposto a un trattamento di depurazione attraverso servizi idrici pubblici. In tutte le ripartizioni territoriali più della metà del potenziale generato (Abitanti equivalenti totali urbani - Aetu) è depurato.
La quota di origine industriale confluita negli impianti di depurazione delle acque reflue urbane rappresenta a livello nazionale circa il 18%, con punte superiori al 45% in Toscana e al 43% in Sardegna. Nelle Marche e in Puglia si riscontrano i più bassi valori di reflui industriali trattati con quelli civili, rispettivamente il 4,1% e il 2,3%. Con riferimento alle ripartizioni territoriali, il maggior tasso di depurazione si registra nel Nordovest, dove è trattato il 68,2% di tutto il carico potenzialmente generabile all’interno della propria ripartizione. Il meno adeguato risulta, invece, il sistema depurativo delle Isole, che garantisce un trattamento del 51,5% rispetto al potenziale generato. Più in dettaglio, provincia autonoma di Bolzano, Valle d’Aosta, Liguria, Piemonte e Molise realizzano le percentuali maggiori, rispettivamente 99,8%, 76,4%, 75,2%, 74,4% e 72,1%; mentre Sicilia e Marche, con il 48,3% e il 49,8%, presentano quelle minori.
Acque di balneazione marino-costiere
Sulla base dei campionamenti relativi alle ultime quattro stagioni balneari è definita, a livello regionale, la qualità delle acque di balneazione marino-costiere distinta nelle seguenti categorie: eccellente, buona, sufficiente e scarsa. Obiettivo dei monitoraggi previsti è quello di conservare, proteggere e migliorare la qualità dell'ambiente e prevenire l’esposizione dei bagnanti ad agenti inquinanti. L’inquinamento ha diverse cause, ma spesso è dovuto a scarichi fognari abusivi o problemi imputabili a depuratori malfunzionanti.
Prima dell’inizio della stagione balneare, i Comuni emanano le Ordinanze sindacali per informare la cittadinanza sui divieti permanenti e temporanei. I divieti permanenti ricadono nelle aree non adibite alla balneazione per legge (porti, foci di fiumi, zone militari, aree protette) mentre i divieti temporanei (che possono estendersi all’intera stagione balneare nel caso di acque con classe “scarsa”) sono riferiti a periodi d’inquinamento di breve durata. Nel 2016 le coste monitorate ai fini della qualità delle acque di balneazione sono oltre due terzi (67,9%) della linea litoranea italiana (superiore a 9.000 km); il restante 32,1% è soggetto a divieto permanente. Rispetto agli anni precedenti non si riscontrano variazioni significative.
In tutte le regioni, ad eccezione del Friuli-Venezia Giulia in cui le aree di balneazione interessano il 42,2% della costa totale regionale, più della metà della linea litoranea è monitorata, con un’incidenza massima in Basilicata (90,8%) e minima in Liguria (58,9%). In Molise la riperimetrazione delle acque di balneazione, con l’eliminazione di alcune zone come le aree portuali e le foci fluviali, ha portato ad una forte differenza del dato degli ultimi due anni rispetto agli anni precedenti.
Nel 2016 le acque di balneazione con qualità eccellente sono il 94,0% del totale, percentuale in significativo aumento rispetto al 2013, quando erano l’85,8%. Il Friuli-Venezia Giulia e la Puglia sono le regioni con il valore più alto (99,6% contro, rispettivamente, 91,1% e 85,4% del 2013), mentre l’Abruzzo, anche se presenta la quota più bassa (76,3%), conferma il trend di crescita evidenziato già nel 2015.
Il Lazio presenta ancora l’incremento maggiore, passando dal 55,3% del 2013 al 91,1% nel 2016, anche se in lieve flessione rispetto al 2015 (93,2%) per due acque insufficientemente campionate e un aumento delle acque scarse. In Molise, dopo la forte contrazione registrata negli anni 2014-2015, si evidenzia un trend positivo con l’83,7% di costa eccellente sulla lunghezza totale, 3,2 punti percentuali in più rispetto al 2015. L’Abruzzo, che registra il valore percentuale di costa eccellente più basso tra le regioni litoranee, si distingue sia per aver accresciuto del 2,3% le aree soggette ai controlli di qualità, sia per la significativa diminuzione delle acque scarse, dal 9,3% del 2015 al 4,4% del 2016. Le regioni Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Basilicata possiedono esclusivamente coste eccellenti e buone, mentre la Sicilia ha il 5% di acque insufficientemente campionate.
Ancora nel 2016, come nel 2015, le acque di balneazione di qualità scarsa rappresentano l’1% della lunghezza totale delle aree monitorate. In Italia generalmente la stagione balneare inizia il primo maggio e termina il 30 settembre; nel 2016 ha avuto una durata media di 158 giorni, a eccezione della Sicilia (216 giorni), dell’Emilia-Romagna (135 giorni) e del Veneto (126 giorni). Durante la stagione balneare alcune acque di balneazione hanno subito chiusure temporanee o permanenti. Basilicata e Veneto si sono distinte per non aver dovuto attivare alcun divieto di accesso ai bagnanti mentre Sicilia e Calabria sono le uniche regioni in cui nel 2016 alcune aree di balneazione di qualità eccellente e buona, seppur in numero limitato, sono rimaste sempre chiuse.


LOGO ... Le statistiche dell'ISTAT - 11-05-2018


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