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Inferno Canto IX. Gli eretici

PREMESSA

Virgilio rassicura ancora una volta Dante che non bisogna avere paura di queste creature infernali. Dopotutto anche il poeta latino aveva raccontato la profondità dell’inferno nell’Eneide e anche in quell’occasione non era stato facile. Questi mostri sono sì terribili, però in alcun caso possono opporsi alla volontà di Dio. Mentre Virgilio terminava il suo discorso, all’improvviso dalla sommità delle mura fortificate della città di Dite comparvero tre Furie che erano mostri con sembianze di donna e chiome formate da serpenti. Queste donne si opponevano all’ingresso di Dante nella città di Dite, dilaniandosi con le unghie, battendosi selvaggiamente e gridando in maniera terrificante. In loro aiuto queste donne chiamarono un altro mostro, la Medusa. Medusa era una delle Gorgoni, tre donne infernali con serpenti al posto dei capelli, ed aveva il potere di trasformare in pietra chiunque la guardasse negli occhi. Per questo motivo Virgilio invitò Dante a coprirsi gli occhi con le mani, affinché non rimanesse vittima del suo incantesimo. In poche parole erano diversi i mostri infernali che si opponevano al viaggio di Dante e Virgilio (Pluto, le Furie e Medusa). All’improvviso un fragore di uragano tuonò per l’aria. Era un angelo meraviglioso che avanzava sereno sulla palude Stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi. L’angelo, senza degnare di uno sguardo i due pellegrini, giunto davanti alla porta della città di Dite, la toccò con un piccolo scettro ed essa si aprì immediatamente. Prima di ritornarsene in cielo, l’angelo rimproverò duramente i diavoli per essersi opposti ai voleri di Dio e ricordò che Cerbero fu punito per aver ostacolato Ercole quando scese negli inferi. Virgilio e Dante entrano nella città di Dite e davanti a loro si apre uno spettacolo insolito: una pianura piena di tombe scoperchiate e arroventate dalle fiamme. In queste tombe, consumate dal fuoco eterno, si trovavano le anime degli eretici, cioè coloro che o in parte o totalmente non credono alla religione. Quindi si tratta di un concetto relativo in quanto per un cristiano è eretico chi o non crede ad alcune realtà del cristianesimo o professa un’altra religione. Nella mitologia greca e latina lo Stige era uno dei fiumi infernali che, estendendosi in nove grandi meandri, formava una palude, detta Stigia, che costituiva un ostacolo per arrivare al vestibolo dell’oltretomba. Le Furie erano figlie di Gea generate col sangue di Urano mutilato dal figlio Crono. Esse erano chiamate Aletto, Tisifone e Megera e vengono rappresentate con capelli di serpenti verdi. Simboleggiavano i rimorsi ed avevano il compito di tormentare e punire gli autori dei delitti. Medusa, delle tre Gorgoni era l’unica mortale ed aveva il potere di pietrificare chiunque guardasse il suo volto. Il giovane Perseo con uno stratagemma riuscì ad ucciderla, le tagliò la testa e la regalò a Minerva che la pose sul suo scudo. Per Dante la Medusa rappresenta la disperazione della salvezza che pietrifica l’anima e la rende incapace di sottrarsi al peccato. Per questo motivo Virgilio fa coprire gli occhi a Dante affinché possa proseguire nel suo cammino di salvezza.

Dante, Inferno Canto IX. Il canto presenta un crescendo di immagini che è stato definito "teatrale", con una rappresentazione dell'azione ben calibrata grazie ai personaggi che entrano in scena uno dopo l'altro.
All'inizio Dante è preoccupato perché vede tornare Virgilio sconsolato dal colloquio con i diavoli, i quali in risposta alle parole del "duca" (che Dante non sente) gli sbarrano la porta delle mura della città di Dite. Virgilio è vago, e si ferma ad aspettare qualcosa: sa che loro attraverseranno comunque la città e forse sta preannunciando l'arrivo di qualcuno inviato da Dio che aprirà loro il passo. Virgilio però è titubante (proprio lui che rappresenta la ragione usa un "se non.." lasciato a metà), e non vede l'ora che arrivi colui che un Tale (Gesù Cristo, che non viene mai nominato nell'Inferno, o forse Beatrice, che si era mossa in aiuto di Dante?) ha sollecitato.
Dante, che in questo canto parla molto spesso "da scrittore" al lettore, fa notare che si era ben accorto della titubanza e del discorso iniziato e non finito, ma anzi sostituito da un altro della sua guida, e si intimorisce del senso probabilmente peggiore che Virgilio aveva voluto nascondergli.
Allora Dante, che, come si è visto sul finire del canto precedente, è pieno di paura perché non vede via d'uscita, chiede un po' ingenuamente, ma molto realisticamente, se lui, Virgilio, fosse mai arrivato in fondo all'Inferno, usando però una garbata perifrasi: "Vi è mai alcuna delle anime del Limbo, quelle che penano perché non vedono Dio, che scenda in fondo alla triste fossa infernale?"
Virgilio risponde allora rincuorando Dante e gli spiega che è una cosa molto rara, ma che egli stesso è sceso fino al cerchio più stretto, il nono (il "cerchio di Giuda"), inviato dalla maga Erictho o Eritone, che lo incaricò di andare a prendere un'anima da riportare in vita, al tempo in cui Virgilio era morto da poco. Per questo egli, non solo è già entrato nella città, ma sa bene il cammino per arrivare fino al punto più fondo e oscuro, che è anche quello più lontano dal cielo.
Il riferimento a Eritone prende spunto dalle Pharsalia di Lucano, ma è molto rielaborato con aggiunte originali di Dante. In Lucano Eritone è una fattucchiera in grado di rianimare i morti. Essa aveva richiamato un defunto alla vita affinché esso, con il potere di preveggenza tipico di chi ormai abita l'oltretomba, rivelasse a Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo. Non c'è nessun riferimento al fatto che un'altra anima dovesse accompagnare il morto resuscitato, né tantomeno che questa fosse Virgilio, quindi è tutta farina del sacco dell'Alighieri. Semmai si potrà riscontrare come anche la Sibilla nell'Eneide, guidando Enea nell'oltretomba, dichiarasse di conoscere già quel mondo per esserci già discesa (Eneide, VI 565). In ogni caso bisogna prendere le distanze dalla figura medievale del Virgilio Mago, che Dante non concepiva, e che semmai in questo caso evoca solo un'atmosfera soprannaturale e fantastica sulla quale il canto è imperniato. In ogni caso le gesta di Eritone fanno da spunto a Dante per altri brani del canto, anche se Dante non la cita più: in Lucano si trovano infatti le Erinni che abitano lo Stige, Medusa scacciata dalla minaccia di un dio che la sconfigga, il sepolcreto dove abita Eritone: tutte immagini che si ritrovano nei versi successivi.
Virgilio continua a parlare di come sia normale incontrare resistenza alle mura di Dite, ma Dante ormai non lo ascolta più perché è attratto da un'altra visione sconvolgente. Adesso il poeta ci fa mettere a fuoco un'altra direzione, la torre infuocata che già aveva notato all'approssimarsi alle mura, sulla quale si alzano tre furie infernali. Esse sono le Erinni, "di sangue tinte", con corpi e atteggiamenti femminili (membra e atto) e circondate o vestite da serpenti verdi. Altri serpenti poi hanno per capelli, avvinghiati alle tempie, e vengono subito riconosciute come le serve (meschine, dal provenzale mesquì) di Persefone, la regina dei lamenti eterni dell'Inferno. Virgilio le indica: all'angolo sinistro (canto come cantuccio) Megera, a destra Aletto, che piange, e Tesifone nel mezzo. Come le donne ai funerali esse si disperano, si graffiano il petto e si battono i palmi delle mani.
Dante è piuttosto terrorizzato e si stringe a Virgilio, quando le Erinni si precipitano minacciose verso i due: "Vieni Medusa, la Gorgone, così lo possiamo pietrificare... facemmo male a non vendicare l'assalto di Teseo a Cerbero quando scese nell'Inferno, perché ora i vivi non son più scoraggiati ad avventurarsi nel regno dei morti". A queste parole Virgilio intima a Dante di chiudere gli occhi e mette le sue stesse mani a tappare con sicurezza le pupille del discepolo.
A questo punto Dante si rivolge di nuovo a lettore, dicendogli di "mirare", cioè guardare il senso nascosto ("la dottrina che s'asconde") sotto il velo dei versi "strani": un chiaro invito a cogliere l'allegoria della prossima scena, che è tutt'altro che chiara ancora oggi.
Intanto quello che accade "sopra al velame" è che dalla palude proviene un fracasso, che come il vento impetuoso che fracassa i rami degli alberi nel bosco e fa fuggire le pecore e i pastori, così Dante vede, con gli occhi liberati dalla protezione di Virgilio, uno che viene su per la palude senza bagnarsi. Le anime dei dannati fuggono alla sua presenza, come fanno le rane che scappano tutte quando si avvicina una biscia, e questo essere miracoloso procede diretto scacciando i fumi che ha davanti al viso con la sinistra, perché con la destra regge una verghetta. Non si preoccupa di niente, solo i vapori gli disturbano la vista ("sol di quell'angoscia parea lasso", v. 84), e allora Dante lo riconosce come colui "dal ciel messo", che oggi viene indicato come l'angelo o come il messo celeste. Esso tocca la porta e l'apre toccandola appena con la verghetta, mentre rimprovera i diavoli che sono tutti spariti. Gli ricorda anche come Cerbero, che voleva impedire il passaggio di Ercole nell'inferno, porti ancora i segni della lotta perduta contro l'eroe sostenuto dalla volontà divina. Fatto questo il messo si volta e se ne va, con arie d'urgenza, senza curarsi minimamente dei due poeti.
Dopo la descrizione della scena è lecito domandarsi quale fosse il senso allegorico che Dante ha voluto inculcarvi e che riteneva così importante da fare un richiamo esplicito al lettore di cercarlo. La questione è tutt'altro che semplice e, a differenza per esempio delle allegorie della selva oscura, qui gli studiosi non sono arrivati ad alcuna conclusione definitiva. Alcuni commentatori hanno riferito l'invito alla sola scena dell'arrivo del messo, altri a tutto il canto.
Un esempio di interpretazione generale può essere il seguente: la ragione, simboleggiata da Virgilio, non basta da sola ad affrontare e dominare i peccati di "malizia" (cioè i peccati commessi con volontà, non per incontinenza) puniti dentro la città di Dite; essa è ostacolata dalle tentazioni (i diavoli), dai rimorsi (le Erinni) e dalla disperazione che segue il rimorso e "pietrifica il cuore" (Medusa); la ragione può aiutare quel tanto che basta per cavarsela nell'immediato (Virgilio che si cura di coprire gli occhi a Dante), ma è solo tramite la grazia divina (il messo) che si può arrivare a una definitiva debellazione del peccato.
Il senso generale dovrebbe essere simile a questo, sebbene i vari personaggi minori assumano da commentatore a commentatore i più vari significati. Però pesa anche il fatto che questa spiegazione non possa essere capita da chi legga il poema linearmente da capo a fondo, perché la distinzione dei peccati puniti entro o fuori dalle mura di Dite viene esplicata solo nel canto XI. Non è d'altronde chiaro se Dante proprio a causa della chiarezza non immediata avverta il lettore di stare attento e magari ricordare dopo come interpretare la scena.
I due poeti a questo punto non trovano più nessun ostacolo a entrare nella città e attraversano le mura. Il cambio di situazione è totale: dall'affollamento e l'azione dei versi immediatamente precedenti, si passa al deserto del cimitero, seppure punteggiato dai soliti lamenti dei dannati. Al lettore magari può impressionare il fatto che dentro le mura della città invece di trovare case e persone i due poeti trovino l'esatto opposto cioè un cimitero: bisogna comunque pensare che al tempo di Dante i cimiteri si potevano ancora trovare dentro le mura, e che il divieto a seppellire dentro il centro delle nostre città risale solo all'epoca napoleonica.
Dante quindi si guarda attorno e lo stuolo di tombe gli ricorda due famosi cimiteri medievali: quello di Arles (l'odierno Cimetière des Alyscamps) e quello di Pola (oggi scomparso). Dalle fosse (gli avelli) scoperchiate escono fiamme, che basterebbero a un fabbro per qualsiasi opera ("che ferro più non chiede verun' arte"). Dante chiede chi sia sepolto qui e Virgilio risponde gli eresiarchi, cioè i fondatori di eresie, ma vedremo nel canto successivo che qui sono puniti anche (e soprattutto) i seguaci, ma sarà un caso voluto o meno da Dante, si incontreranno solo i negatori della vita ultraterrena, gli atei o epicurei. In ogni caso Virgilio avverte che in ogni sepolcro sono puniti seguaci di dottrine analoghe, quindi non ci si dovrebbe sorprendere di trovare nel prossimo canto solo epicurei, perché viene descritto un sepolcro solo. Però è anche da sottolineare che il contrappasso si addice solo agli epicurei: per analogia, poiché essi negarono la vita dopo la morte, essi sono morti tra i morti.
Dal canto precedente Dante ha intensificato il rivolgersi in prima persona al lettore ("Pensa lettor"). La critica dantesca, soprattutto contemporanea, si è concentrata sul metodo di narrazione del poema, con una dicotomia tra il Dante personaggio e il Dante che scrive del suo viaggio. In realtà si deve innanzitutto notare che anche il personaggio dello "scrittore che parla in prima persona" è un'invenzione e non coincide con il vero "Dante persona reale": basti pensare al fatto che l'io narrante ci parla di un viaggio immaginario come se fosse vero, quindi guardando oltre la finzione, esiste il vero Dante nell'ombra che sta inventando la storia.
Il narratore usato è quindi solo la proiezione in un tempo futuro del Dante pellegrino nell'oltretomba, che rende testimonianza del viaggio fantastico in un secondo momento. Anche il momento in cui parla il narratore è un presente fittizio, staccato dal tempo della vera biografia dell'Alighieri storico-anagrafico. Questo presente fittizio è un momento indefinito che si rinnova ogni volta che un lettore intraprende la lettura dei versi.
Inoltre esiste un livello simbolico nella Divina Commedia: il viaggio di Dante rappresenta il cammino di ciascun individuo verso la redenzione, quindi si può dire che esista anche un "quarto" Dante che agisce nel poema a rappresentazione dell'intera umanità cristiana.

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse

Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.

«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.

«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».

Questa question fec’io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.

Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.

Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ira».

TIMORE DI DANTE E CONFORTO DI VIRGILIO
Quel pallore (color) che mi spinse fuori (pinse) la viltà sul volto (di
fuor) vedendo (veggendo) la mia guida tornare indietro (in volta), al
più presto (più tosto) fece tornare dentro (ristrinse) il suo colore (il
suo novo, ossia il rossore del cruccio), appena comparso (novo).
Si fermò attento come chi (com’uom) ascolta; poiché la vista
(l’occhio) non lo (nol) poteva condurre (menare) a vedere lontano
(a lunga), a causa (per) dell’oscurità e del fumo denso
(nebbia folta).
«Eppure (Pur) accadrà necessariamente (converrà) che noi vinceremo
lo scontro (punga)», cominciò egli, «a meno che (se
non)… Un protettore tanto potente (Tal) ci si presentò (ne
s’offerse). Oh quanto tardi mi sembra arrivare quaggiù il Messo
celeste (altri)!»
Io ben mi accorsi di come egli nascose (ricoperse) ciò che aveva
cominciato (lo cominciar) con quanto seguì (con l’altro che poi
venne), che furono parole ben diverse dalle prime;
ma nondimeno il suo dire determinò in me (dienne) paura,
perché io attribuivo (traeva) alla sua reticenza (parola tronca) un
significato (sentenzia) forse peggiore di quanto non avesse (che
non tenne).
«Nel fondo della cavità infernale (trista conca) scende mai
qualcuno del primo cerchio (grado: il Limbo), che come (per)
pena ha solo la speranza troncata (cionca)?».
Tale domanda (question) posi io; ed egli mi rispose: «Accade
(incontra) di rado che qualcuno (alcun) di noi (le anime del Limbo)
percorra (faccia) il cammino per il quale sto andando io.
In verità io venni qui un’altra volta (fïata), costretto con scongiuri
(congiurato) da quella crudele (cruda) maga Eritone, che
.faceva ritornare (richiamava) le anime (l’ombre) ai loro (sui)
corpi.
Il mio corpo (carne) era da poco rimasto privo (nuda) dell’anima
(= ero morto da poco) che ella mi fece entrare dentro
le mura (della Città di Dite), per trarne uno spirito del nono
cerchio (cerchio di Giuda: la Giudecca).
Quello è il luogo più basso e più oscuro (dell’Inferno), e il
più lontano dal Primo Mobile (dal ciel che tutto gira: dal cielo
che avvolge tutti gli altri cieli); conosco pertanto bene (ben so)
la strada; perciò (però) sta (ti fa) sicuro.
Questa palude (lo Stige) che emana grande fetore (puzzo) cinge
(cigne) tutt’intorno la Città di Dite (città dolente), dove (u’) ormai
non possiamo (potemo) entrare senza contrasto (sanz’ira)».

E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l'assalto»

«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».

Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

LE FURIE E MEDUSA
Disse anche altre cose, ma non le ricordo (non l’ho a mente);
perché lo sguardo aveva attratto tutta la mia attenzione verso
l’alta torre dalla cima infuocata (rovente),
dove in un istante (in un punto) si furono drizzate (furon dritte)
improvvisamente (ratto) tre furie infernali tinte di sangue, che
avevano (avieno) membra e atteggiamenti (atto) femminili,
ed erano cinte di serpenti (idre) verdissimi; al posto dei capelli
(per crine) avevano (avien) serpentelli e serpi cornute (ceraste), di
cui erano avvinte le tempie orribili (fiere).
E Virgilio (quei), che ben riconobbe le serve (meschine) della regina
(Proserpina) dell’Inferno (de l’etterno pianto), mi disse:
«Guarda le feroci Erinni (Erine).
Quella sul lato (canto) sinistro (della torre) è Megera; quella che
si lamenta (piange) sul lato destro è Aletto; al centro è Tesifone»;
e quando ebbe detto ciò (a tanto) tacque.
Ciascuna di esse si graffiava (si fendea) il petto con gli artigli;
si percuotevano (battiensi) con le palme e gridavano così forte
(sì alto) che io mi strinsi al poeta per timore (per sospetto).
«Venga Medusa: così lo faremo diventare (’l farem) di pietra (di
smalto)», dicevano tutt’e tre guardando in basso (giuso); «facemmo
male a non vendicare (mal non vengiammo) contro (in
Teseo il suo assalto».
«Voltati indietro e tieni gli occhi (lo viso) chiusi; perché se Medusa
(’l Gorgón) appare (si mostra) e tu la guardassi, sarebbe impossibile
(nulla sarebbe) ritornare sulla terra (suso)».
Così disse il maestro; ed egli stesso (elli stessi) mi voltò, e non
si accontentò (non si tenne) delle mie mani, ma mi coprì gli
occhi (non mi chiudessi) anche con le sue.

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

E già venia su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.

Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,

vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?

Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.

IL MESSO CELESTE
O voi che avete la mente capace di intendere la verità (li ’ntelletti
sani), ammirate l’insegnamento morale (dottrina) che si cela
(s’asconde) sotto il velo (velame) di questi versi inconsueti (strani).
E già stava giungendo (già venìa) lungo l’acqua fangosa (su per
le torbide onde) un suono fragoroso (un fracasso d’un suon), spaventoso
(pien di spavento), per cui le rive opposte (amendue le
sponde [dello Stige]) tremavano,
non diverso (non altrimenti fatto) da quello di un turbine (vento)
impetuoso per l’incontro tra masse d’aria di diversa temperatura
(per li avversi ardori), che colpisce (fier) la selva e senza
alcun ostacolo (rattento)
schianta i rami, li abbatte e li scaglia lontano (porta fori); solleva
superbamente la polvere davanti a sé, e fa fuggire animali (fiere)
e uomini (pastori).
(Virgilio) mi tolse le mani (mi sciolse) dagli occhi e disse: «Ora
dirigi (drizza) l’acume della vista (il nerbo del viso) sulla schiumosa
superficie della palude antica (su per quella schiuma antica), verso
quella parte (per indi) in cui il fumo è più fastidioso (acerbo)».
Come le rane, di fronte alla biscia, loro naturale avversario (nimica),
si dileguano tutte per l’acqua, finché ciascuna (per mimetizzarsi)
si rannicchia su se stessa (s’abbica) nel fondo (a la
terra),
così io vidi moltissimi (più di mille) dannati (anime distrutte)
fuggire dinanzi al Messo celeste (un), che camminando passava
lo Stige con i piedi (piante) asciutti.
Scacciava (rimovea) dal volto quel fumo denso (aere grasso), muovendo
(menando) spesso la mano sinistra; e sembrava affaticato
(lasso) solo a causa di questo fastidio (angoscia).
Mi accorsi senza dubbio che questi era un angelo mandato
(messo) dal cielo, e mi rivolsi al maestro; ed egli mi fece segno di
tacere (ch’i’ stessi queto) e di inchinarmi a lui.
Quanto sdegnoso mi sembrava! Andò presso la porta e l’aprì
con una verghetta, in modo tale che (che) non ebbe nessuna
resistenza (ritegno).
«O cacciati dal cielo, gente disprezzata da Dio (dispetta)», cominciò
(a dire) sulla soglia orribile della porta, «da dove proviene
(ond’ ) questa (esta) superbia (oltracotanza) che si raccoglie
(s’alletta) in voi?
Perché vi opponete (recalcitrate) al volere divino (quella voglia)
il cui fine non può (non puote) mai essere impedito (mozzo =
troncato), e che anche in altre occasioni (più volte) vi ha fatto
accrescere la pena (doglia)?
A che vi serve (Che giova) contrastare (dar di cozzo) i decreti
divini (fata)? Se ben ricordate, il vostro Cerbero ne porta ancora
spelacchiato (pelato) il mento e il gozzo».
Poi si rivolse verso la via fangosa dello Stige (strada lorda), e
non ci rivolse alcuna parola (non fé motto), ma apparve nell’aspetto
esteriore (fé sembiante) come uno legato (cui… stringa)
e stimolato (e morda) da tutt’altra preoccupazione (altra cura)
rispetto a quella di colui che gli sta davanti; e noi ci dirigemmo
(movemmo i piedi) verso la Città di Dite (la terra), sicuri dopo
(appresso) le parole del Messo (parole sante).

Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,

om’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;

ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.

E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».

Ed elli a me: «Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch’a la man destra si fu vòlto,

passammo tra i martìri e li alti spaldi.

PASSAGGIO AL SESTO CERCHIO
Entrammo dentro (li) senza alcuna opposizione (guerra); ed io,
che avevo desiderio (disio) di vedere attentamente (riguardar)
la natura del luogo e delle pene (condizion) che la Città di Dite
(tal fortezza) racchiude (serra),
appena fui entrato, osservo (l’occhio… invio) da ogni parte (intorno):
e vedo (veggio) dovunque (ad ogne man) un’immensa
pianura (campagna), piena di dolore (duolo) e di atroce (rio)
tormento.
Come presso Arles (Arli), dove ristagna il Rodano, e come presso
Pola, vicino al golfo del Quarnaro (Carnaro), che chiude (a
nordest) l’Italia e bagna i suoi confini (termini),
i sepolcri rendono (fanno) vario (varo) tutto il terreno (loco), così
avveniva (facevan) laggiù (quivi) in ogni parte, ma (salvo che) il
loro aspetto (’l modo) era ben più doloroso (amaro);
poiché intorno (tra) ai sepolcri (avelli) erano sparse (sparte)
delle fiamme, per le quali essi erano talmente (sì del tutto) arroventati
(accesi) che nessuna opera di fabbro (verun’arte) richiede
ferro più (rovente).
Tutte le coperture dei sepolcri (lor coperchi) erano sollevate
(sospesi), e ne uscivano lamenti così strazianti (duri) che sembravano
senza dubbio (ben) di spiriti infelici (miseri) e tormentati
(offesi).
Ed io: «Maestro, chi sono quei dannati che, sepolti in quei sarcofagi
(arche), si fanno sentire attraverso i loro dolorosi lamenti
(sospiri dolenti)?».
Ed egli: «Qui sono sepolti gli eretici (eresïarche) con tutti i loro
seguaci, di ogni setta, e le tombe sono piene di dannati (carche)
molto più di quanto tu non creda.
Qui sono sepolti insieme i seguaci di una stessa setta (Simile…
con simile), e i sepolcri (monimenti) sono più o meno
roventi (caldi)». E dopo che si fu voltato (vòlto) verso destra,
passammo tra le arche infuocate (i martìri) e le alte mura (spaldi)
della Città di Dite.

Video HD https://www.youtube.com/watch?v=Q7vPZ8o_HrQ

Gassman https://www.youtube.com/watch?v=Qgq_cYg5LBU

L'oltretomba virgiliano. E' interessante analizzare l'oltretomba virgiliano per individuare le analogie con l'oltretomba dantesco.
Procedendo nell'oscurità degli Inferi (vestibolo), Enea e la Sibilla incontrano immagini mostruose che rappresentano tutti i mali che affliggono il mondo e portano gli uomini alla morte:la malattia, la vecchiaia,la paura, la fame, la miseria, la morte, il dolore, la guerra, la discordia dai capelli intrecciati di vipere. Sotto un grande olmo si annidano i sogni ingannevoli e, accanto forme mostruose di esseri semiferini, i Centauri, le Scille, Briareo dalle cento mani, l'Idra di Lerna, dotata di 50 teste, le Gorgoni con i capelli di serpenti e il cui sguardo pietrificava, le Arpie, la Chimera, mostro con testa leonina e coda di serpente, Gerione, gigante con tre corpi e tre teste. Il cammino porta poi al primo dei fiumi infernali, l'Acheronte che, come il Cocito in cui confluiscono le sue acque e quelle del Flegetonte, è affluente dello Stige, secondo l'idrografia infernale presente in Omero e poi illustrata da Platone nel Fedone in modo più coerente e particolareggiato. Virgilio sembra disinteressarsi del rapporto dei tre fiumi, trattandoli in sostanza come uno solo. Sulla riva troviamo Caronte che traghetta le anime dall'altra parte (attraversando sia l'Acheronte che lo Stige), ma solo quelle che hanno avuto sepoltura. Le altre devono vagare per cento anni in quella acquitrinosa boscaglia; Caronte si rifiuta di trasportare persone vive, ma fa un'eccezione quando Enea gli mostra un ramo d'oro. Quindi Cerbero, il cane a tre teste, posto a guardia della porta dell'Ade viene fatto addormentare con una focaccia soporifera. Troviamo poi i condannati ingiustamente, posti accanto ai bambini piccoli e ai morti per amore, a seguito di una contiguità non logica ma sentimentale: queste sono anime la cui sorte, più delle altre, deve muovere a compassione. Vicino sono collocate le anime dei suicidi. Oltrepassato l'ingresso, si aprono i Campi del Pianto, formati da una selva di mirti, che ospitano i morti per amore, sia suicidi che assassinati (compresa Didone). Quindi la via si biforca: da un lato porta alla reggia di Dite, la dimora di Plutone, ed è la via che porta verso l'Eliso dall'altro al Tartaro, l'abisso senza fondo dove vengono puniti i grandi peccatori della tradizione, custodito dalla Furia Tisifone e lambito dal Flegetonte. Enea scorge una grande cinta muraria fortificata, sovrastata da una torre di ferro, la cui porta è custodita da Tisifone; dalle mura giungono suoni di tormenti e la Sibilla spiega che si tratta del Tartaro, luogo interdetto al cammino dei giusti, ove le anime colpevoli vengono giudicate da Radamante, poi entrano nella voragine e vengono assegnate al luogo dove si sconta la pena per le loro colpe. La Sibilla indica ad Enea i più famosi peccatori (Titani, Teseo, Flegias ecc.) e quindi lo sollecita a recarsi verso le mura forgiate dai Ciclopi, che qui svolgono il ruolo di aiutanti di Vulcano. Dopo aver offerto il ramo d'oro a Proserpina, Enea può proseguire. I due viaggiatori giungono infine all'Elisio, la dimora ultraterrena di coloro che si distinsero per valore in vita, e, dopo la morte, vivono come beati, dedicandosi ad attività nobili come il canto, la danza, l'esercizio fisico e il banchetto comune. Qui si trovano i grandi eroi di Troia, i sacerdoti, i filosofi, i benefattori, tutti cinti da bianche bende di purezza.

LA ALETTO VIRGILIANA (Eineide Libro VII)

Di serpi e di gorgònei veneni 515
Guarnissi Aletto; e per lo Lazio in prima
Scorrendo, e per Laurento, e per la corte,
De la regina Amata entro la soglia
Insidïosamente si nascose
Era allor la regina, come donna, 520
E come madre, dal materno affetto,
Da lo scorno de’ Teucri, dal disturbo
De le nozze di Turno in molte guise
Afflitta e conturbata, quando Aletto,
Per rivolgerla in furia, e co’ suoi mostri 525
Sossopra rivoltar la reggia tutta,
Da’ suoi cerulei crini un angue in seno
L’avventò sì, che l’entrò poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e ’l petto
Strisciando, e non mordendo, a poco a poco 530
Col suo vipereo fiato non sentito
Furor le spira. Or le si fa monile
Attorcigliato al collo: or lunga benda
Le pende da le tempie, or quasi un nastro
L’annoda il crine. Alfin lubrico errando, 535
Per ogni membro le s’avvolge e serpe.
Ma fin che prima andò languido e molle
Soli i sensi occupando il suo veleno,
Fin che il suo foco penetrando a l’ossa
Non avea tutto ancor l’animo acceso, 540
Ella donnescamente lagrimando
Sovra la figlia e sovra le sue nozze
Con tal queto rammarco si dolea:
     Adunque si darà Lavinia mi
A Troiani? a banditi? E tu suo padre, 545
Tu così la collochi? E non t’incresce
Di lei, di te, di sua madre infelice?
Ch’al primo vento ch’a’ suoi legni spiri,
Di così caro pegno orba rimasa
(Come dir si potrà), da questo infido 550
Fuggitivo ladrone abbandonata,
Del mar vedrolla e de’ corsari in preda?
O non così di Sparta anco rapita
Fu la figlia di Leda? E chi rapilla
Non fu troiano anch’egli? Ah! dov’è, sire, 555
Quella tua santa invïolabil fede?
Quella cura de’ tuoi? quella promessa
Che s’è fatta da te già tante volte
Al nostro Turno? Se d’esterna gente
Genero ne si dee; se fisso e saldo 560
È ciò nel tuo pensiero; se di Fauno
Tuo padre il vaticinio a ciò si stringe;
Io credo ch’ogni terra, ch’al tuo scettro
Non è soggetta, sia straniera a noi.
Così ragion mi detta, e così penso 565
Che l’oracolo intenda. Oltre che Turno
(Se la sua prima origine si mira),
Per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
E per patria ha Micene. A questo dire
Stava nel suo proposito Latino 570
Ognor più duro. E la regina intanto
Più dal veleno era del serpe infetta:
E già tutta compresa, e da gran mostri
Agitata, sospinta e forsennata,
Senza ritegno a correre, a scagliarsi, 575
A gridar fra le genti e fuor d’ogni uso
A tempestar per la città si diede.
Qual per gli atri scorrendo e per le sale
Infra la turba de’ fanciulli a volo
Va sferzato palèo ch’a salti, a scosse, 580
Ed a suon di guinzagli roteando
E ronzando s’aggira e si travolve,
Quando con meraviglia e con diletto
Gli va lo stuol de’ semplicetti intorno,
E gli dan co’ flagelli animo e forza; 585
Tal per mezzo del Lazio e de’ feroci
Suoi popoli vagando, insana andava
La regina infelice. E, quel che poscia
Fu d’ardire e di scandalo maggiore,
Di Bacco simulando il nume e ’l coro 590
Per tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
Distornare o ’ndugiare, a’ monti ascesa
Ne le selve l’ascose: O Bacco, o Libero,
Gridando, Eüöè; questa mia vergin
Sola a te si convien, solo a te serbasi. 595
Ecco per te nel tuo coro s’essercita,
Per te prende i tuoi tirsi, a te s’impampina,
A te la chioma sua nodrisce e dedica.
     Divolgasi di ciò la fama intanto
Fra le donne di Lazio, e tutte insieme 600
Da furor tratte, e d’uno ardore accese
Saltan fuor degli alberghi a la foresta.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
D’irsute pelli involte, e d’aste armate,
Di tralci avviticchiate e di corimbi, 605
Orrende voci e tremuli ululati
Mandano a l’aura. E la regina in mezzo
A tutte l’altre una facella in mano
Prende di pino ardente, e l’imeneo
De la figlia e di Turno imita e canta, 610
E con gli occhi di sangue e d’ira infetti
Al cielo ad ora ad or la voce alzando
Uditemi, dicea, madri di Lazio,
Quante ne siete in ogni loco, uditemi.
Se può pietade in voi, se può la grazia 615
De la misera Amata, e la miseria
Di lei, ch’ad ogni madre è d’infortunio,
Disvelatevi tutte e scapigliatevi;
Eüöè; a questo sacrificio
Ne venite con me, meco ululatene. 620
     Così da Bacco e da le Furie spinta
Ne gía per selve e per deserti alpestri
La regina infelice, quando Aletto,
Ch’assai già disturbato avea il consiglio
Di re Latino e la sua reggia tutta, 625
Ratto su le fosc’ali a l’aura alzossi;
E là ’ve già d’Acrisio il seggio pose
L’avara figlia, ivi dal vento esposta,
A l’orgoglioso Turno si rivolse.
Ardèa fu quella terra allor nomata, 630
E d'Ardèa il nome insino ad or le resta,
Ma non già la fortuna. In questo loco
Entro al suo gran palagio a mezza notte
Prendea Turno riposo. Allor ch’Aletto
Vi giunse, e ’l torvo suo maligno aspetto 635
Con ciò ch’avea di Furia, in senil forma
Cangiando, raggruppossi, incanutissi,
E di bende e d’olivo il crin velossi:
Calibe in tutto fessi, una vecchiona
Ch’era sacerdotessa e guardïana 640
Del tempio di Giunone; e ’n cotal guisa
Si pose a lui davanti, e così disse:
     Turno, adunque avrai tu sofferto indarno
Tante fatiche, e questi Frigi avranno
La tua sposa e ’l tuo regno? Il re, la figlia 645
E la dote, ch’a te per gli tuoi merti,
Per lo sparso tuo sangue era dovuta,
E già da lui promessa, or ti ritoglie;
E de l’una e de l’altro erede e sposo
Fassi un esterno. O va, così deluso, 650
E per ingrati la persona e l’alma
Inutilmente a tanti rischi esponi.
Va', fa strage de’ Toschi. Va', difendi
I tuoi Latini e in pace li mantieni.
Questo mi manda apertamente a dirti 655
La gran saturnia Giuno. Arma, arma i tuoi;
Preparati a la guerra; esci in campagna;
Assagli i Frigi, e snidagli dal fiume
C’han di già preso, e i lor navili incendi.
Dal ciel ti si comanda. E se Latino 660
A le promissïon non corrisponde,
Se Turno non accetta e non gradisce
Nè per suo difensor nè per suo genero,
Provi qual sia ne l’armi, e quel ch’importi
Averlo per nimico. Al cui parlare 665
Il giovine con beffe e con rampogne
Così rispose: Io non son, vecchia, ancora,
Come te, fuor de’ sensi; e ben sentita
Ho la nuova de’ Teucri, e me ne cale
Più che non credi. Non però ne temo 670
Quel che tu ne vaneggi; e non m’ha Giuno
(Penso) in tanto dispregio e ’n tale oblio.
Ma tu dagli anni rimbambita e scema
Entri, folle, in pensier d’armi e di stati,
Ch’a te non tocca. Quel ch’è tuo mestiero, 675
Governa i templi, attendi ai simulacri,
E di pace pensar lascia e di guerra
A chi di guerreggiar la cura è data.
     Furia a la Furia questo dire accrebbe,
Sì che d’ira avvampando, ella il suo volto 680
Riprese e rincagnossi: ed ei, negli occhi
Stupido ne rimase, e tremò tutto:
Con tanti serpi s’arruffò l’Erinne,
Con tanti ne fischiò, tale una faccia
Le si scoverse. Indi le bieche luci 685
Di foco accesa, la viperea sferza
Gli girò sopra, e sì com’era immoto
Per lo stupore, ed a più dire inteso,
Lo risospinse; e i suoi detti e i suoi scherni
Così rabbiosamente improverogli: 690
     Or vedrai ben se rimbambita e scema
Sono entrata in pensier d’armi e di stati,
Ch’a me non tocchi; e se son vecchia e folle:
Guardami, e riconoscimi; ch’a questo
Son dal Tartaro uscita, e guerra e morte 695
Meco ne porto. E, ciò detto, avventogli
Tale una face e con tal fumo un foco,
Che fe’ tenebre agli occhi e fiamme al core.
Lo spavento del giovine fu tale,
Che rotto il sonno, di sudor bagnato 700
Si trovò per angoscia il corpo tutto:
E stordito sorgendo, arme d’intorno
Cercossi, armi gridò, d’ira s’accese,
D’empio disio, di scelerata insania,
Di scompigli e di guerra: in quella guisa 705
Che con alto bollor risuona e gonfia
Un gran caldar, quand’ha di verghe a’ fianchi
Chi gli ministra ognor foco maggiore,
Quando l’onda più ferve, e gorgogliando
Più rompe, più si volve e spuma e versa, 710
E ’l suo negro vapore a l’aura esala.
Così Turno commosso a muover gli altri
Si volge incontinente; e de’ suoi primi,
Altri al re manda con la rotta pace,
Ad altri l’apparecchio impon de l’arme, 715
Onde Italia difenda, onde i Troiani
Sian d’Italia cacciati: ed ei si vanta
Contra de’ Teucri e contra de’ Latini
Aver forze a bastanza. E ciò commesso
E ne’ suoi voti i suoi numi invocati, 720
I Rutuli infra loro a gara armando
S’esortavan l’un l’altro; e tutti insieme
Eran tratti da lui, chi per lui stesso
(Che giovin era amabile e gentile),
Chi per la nobiltà de’ suoi maggiori, 725
E chi per la virtude, e per le pruove
Di lui viste altre volte in altre guerre.
     Mentre così de’ suoi Turno dispone
Gli animi e l’armi, in altra parte Aletto
Sen vola a’ Teucri, e con nuov’arte apposta 730
In su la riva un loco, ove in campagna
Correndo e ’nsidïando, il bello Iulo
Seguía le fere fuggitive in caccia.
Qui di súbita rabbia i cani accese
La virgo di Cocìto, e per la traccia 735
Gli mise tutti; onde scopriro un cervo
Che fu poi di tumulto, di rottura,
Di guerra, e d’ogni mal prima cagione.
     Questo era un cervo mansueto e vago,
Già grande e di gran corna, che divelto 740
Da la sua madre, era nel gregge addotto
Di Tirro e de’ suoi figli: ed era Tirro
Il custode maggior de’ regi armenti
E de’ regi poderi; ed egli stesso
L’avea nutrito e fatto umile e manso. 745
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
L’avea per suo trastullo; e con gran cura
Di fior l’inghirlandava, il pettinava,
Lo lavava sovente. Era a la mensa
A lor d’intorno: e da lor tutti amava 750
Esser pasciuto e vezzeggiato e tocco.
Errava per le selve a suo diletto,
E da se stesso poi la sera a casa,
Come a proprio covil, se ne tornava.
Quel dì per avventura di lontano 755
Lungo il fiume venia tra l’ombre e l’onde,
Da la sete schermendosi e dal caldo,
Quando d’Ascanio l’arrabbiate cagne
Gli s’avventaro, ed esso a farsi inteso
D’un tale onore e di tal preda acquisto, 760
Diede a l’arco di piglio, e saettollo.
La Furia stessa gli drizzò la mano,
E spinse il dardo sì ch’a pieno il colse
Ne l’un de’ fianchi, e penetrogli a l’epa.
Ferito, insanguinato, e con lo strale 765
Il meschinello ne le coste infisso,
Al consueto albergo entro ai presepi
Mugghiando e lamentando si ritrasse;
Ch’un lamentarsi, un dimandar aìta
D’uomo in guisa più tosto che di fera, 770
Erano i mugghi onde la casa empiea.
Silvia lo vide in prima, e col suo pianto,
Col batter de le mani, e con le strida
Mosse i villani a far turbe e tumulto.
Sta questa peste per le macchie ascosa 775
Di topi in guisa, a razzolar la terra
In ogni tempo, sì che d’ogni lato
N’usciron d’improvviso; altri con pali
E con forche, e con bronchi aguzzi al foco;
Altri con mazze nodorose e gravi, 780
E tutti con quell’armi ch’a ciascuno
Fecer l’ira e la fretta. Era per sorte
Tirro in quel punto ad una quercia intorno,
E per forza di cogni e di bipenne
L’avea tronca e squarciata: onde affannoso, 785
Di sudor pieno, fieramente ansando
Con la stessa ch’avea secure in mano
Corse a le grida, e le masnade accolse.
L’infernal Dea, ch’a la veletta stava
Di tutto che seguia, veduto il tempo 790
Accomodato al suo pensier malvagio,
Tosto nel maggior colmo se ne salse
De la capanna, e con un corno a bocca
Sonò de l’armi il pastorale accento
La spaventosa voce che n’uscio 795
Dal Tartaro spiccossi. E pria le selve
Ne tremâr tutte; indi di mano in mano
Di Nemo udilla e di Dïana il lago,
Udilla de la Nera il bianco fiume,
E di Velino i fonti, e tal l’udiro, 800
Che ne strinser le madri i figli in seno.
     A quella voce, e verso quella parte
Onde sentissi, i contadini armati,
Comunque ebber tra via d’armi rincontro,
Subitamente insieme s’adunaro. 805
Da l’altro lato i giovani Troiani
Al soccorso d’Ascanio in campo usciro,
Spiegâr le schiere, misersi in battaglia,
Vennero a l’armi; sì che non più zuffa
Sembrava di villani, e non più pali 810
Avean per armi, ma forbiti ferri
Serrati insieme, che dal sol percossi,
Per le campagne e fin sotto a le nubi
Ne mandavano i lampi; in quella guisa
Che lieve al primo vento il mar s’increspa, 815
Poscia biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
E cresce in tanto, che da l’imo fondo
Sorge fino a le stelle. Almone, il primo
Figlio di Tirro, primamente cadde
In questa pugna. Ebbe di strale un colpo 820
In su la strozza, che la via col sangue
Gli chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero intorno a lui molt’altri corpi
Di buona gente. Cadde tra’ migliori,
Mentre l’armi detesta, e per la pace 825
Or con questi or con quelli si travaglia,
Galèso il vecchio, il più giusto e ’l più ricco
De la contrada. Cinque greggi avea
Con cinque armenti; e con ben cento aratri
Coltivava e pascea l’ausonia terra. 830
     Mentre così ne’ campi si combatte
Con egual Marte, Aletto già compita
La sua promessa, poi ch’a l’armi, al sangue
Ed a le stragi era la guerra addotta,
Uscì del Lazio, e baldanzosa a l’aura 835
Levossi, ed a Giunon superba disse:
Eccoti l’arme e la discordia in campo,
E la guerra già rotta. Or di’ ch’amici,
Di’ che confederati, e che parenti
Si sieno omai, poichè d’ausonio sangue 840
Già sono i Teucri aspersi. Io, se più vuoi,
Più farò. Di rumori e di sospetti
Empierò questi popoli vicini;
Condurrogli in aiuto; andrò per tutto
Destando amor di guerra; andrò spargendo 845
Per le campagne orror, furore ed armi.
     Assai, Giuno rispose, hai di terrore
E di frode commesso: ha già la guerra
Le sue cagioni; hanno (comunque in prima
La sorte le si regga) ambe le parti 850
Le genti in campo, e l’armi in mano; e l’armi
Son già di sangue tinte, e ’l sangue è fresco.
Or queste sponsalizie e queste nozze
Comincino a godersi il re Latino,
E questo di Ciprigna egregio figlio. 855
Tu, perchè non consente il padre eterno
Ch’in questa eterea luce e sopra terra
Così licenzïosa te ne vada,
Torna a’ tuoi chiostri; ed io, s’altro in ciò resta
Da finir, finirò. Ciò disse a pena 860
La figlia di Saturno, che d’Aletto
Fischiâr le serpi, e dispiegârsi l’ali
In vèr Cocíto. È de l’Italia in mezzo
E de’ suoi monti una famosa valle,
Che d’Amsanto si dice. Ha quinci e quindi 865
Oscure selve, e tra le selve un fiume
Che per gran sassi rumoreggia e cade,
E sì rode le ripe e le scoscende,
Che fa spelonca orribile e vorago,
Onde spira Acheronte, e Dite esala. 870
In questa buca l’odïoso nume
De la crudele e spaventosa Erinne
Gittossi, e dismorbò l’aura di sopra.
     

Eugenio Caruso - 30 ottobre 2018

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