Gli Usa di Trump, atto secondo

L’America del prossimo biennio, in vista delle presidenziali 2020, è divisa da profonde fratture ma non è un paese paralizzato. È anzi una società in continuo e rapido movimento. Il sistema politico riflette le dinamiche sociali in modo mediato, naturalmente, attraverso le lenti distorte del sistema elettorale – come accade del resto in ogni democrazia contemporanea, visto che il meccanismo di voto non è mai davvero neutro.
Ciò è vero più che mai nel caso degli Stati Uniti, dove la forte spinta maggioritaria delle leggi elettorali (quasi tutte quelle dei singoli Stati e senza dubbio quella per la presidenza) tende a consolidare un quadro bipartitico, cioè spaccato lungo la linea ideale del centro politico. Il problema è che, nell’America di oggi, la polarizzazione ideologica crea intanto un impulso centrifugo, svuotando quella magica area centrista e moderata in cui in passato è emersa la possibilità di ricomporre le differenze con un consenso quantomeno sulle regole.
Se questa polarizzazione è una tendenza ben nota e confermata da molti sondaggi, è anche vero che l’effetto Trump potrebbe avere messo in moto – certo non deliberatamente – alcuni anticorpi sociali, culturali e politici. Da questa fase di scontro quasi frontale può forse emergere una nuova sintesi o comunque un nuovo assetto, perché il quadro dell’America di oggi è composito piuttosto che strettamente bipolare. Lo suggeriscono alcuni studi recenti dell’opinione pubblica (ad esempio il rapporto “Hidden Tribes” pubblicato dall’organizzazione “More in Common”, un gruppo di studio internazionale e apartitico), nei quali si nota un “affaticamento” di parte dell’elettorato che vorrebbe anzitutto un clima più disteso – premessa possibile per atteggiamenti più moderati e centristi.
Per ora, le due parti contrapposte, repubblicani e democratici, guardano come sempre al bicchiere mezzo pieno nel cercare di spiegare il risultato del novembre scorso ai propri elettori, mentre si preparano alla corsa per il 2020. I primi possono affermare di aver conservato (e anzi ampliato) la maggioranza al Senato, cosa per nulla scontata nelle elezioni di mezzo termine. I democratici rivendicano la conquista della Camera, che avevano perso già nel 2012 (in piena era Obama) e che aveva dato a Trump negli ultimi due anni una maggioranza completa; oltre a consolidare una chiara maggioranza di elettori a livello nazionale.
E' in corso un ricambio generazionale complessivo tra i rappresentanti democratici, che continuano a beneficiare di un vantaggio strutturale grazie ai dati demografici: non ancora un’onda blu vera e propria ma comunque una dinamica da seguire nel prossimo futuro. Da parte loro, i repubblicani dovranno anzitutto decidere come collocarsi rispetto al loro ingombrante presidente, e potrebbero realizzare a loro modo un significativo rinnovamento interno – se non altro in reazione alla sfida posta da Trump al movimento conservatore nelle sue tante anime. Intanto, l’agenda legislativa è destinata probabilmente alla paralisi.
I due maggiori temi della campagna 2018 resteranno con noi fino al novembre 2020: le questioni “identitarie” (l’America bianca e “nativista” su cui Trump ha ancora una volta scommesso nelle ultime settimane prima del midterm) e ovviamente l’andamento dell’economia (su cui il presidente ha fatto una rarissima apertura di credito ai suoi avversari proprio all’indomani del voto, suggerendo un accordo sulle grandi spese per le infrastrutture a condizione che la Camera non persegua indagini congressuali che possano danneggiarlo).
L’economia presenta tratti contraddittori, in realtà: il rischio tangibile è un rallentamento (ma Allen Sinai, nel suo articolo, resta ottimista) dopo una fase di crescita sostenuta che può essere in parte attribuita ai tagli fiscali di Trump, ma che era stata almeno in parte innescata nel secondo mandato di Obama. I tagli fiscali stanno esaurendo il loro impatto sul ciclo economico e non hanno per ora interessato direttamente la famosa classe media; e stanno comunque causando un rilevante aumento del debito che si somma, assieme alle tensioni commerciali, ai fattori di incertezza di questa parte finale del primo mandato di Trump.
Certo, la forza della corazzata americana può assorbire alti livelli di debito, ma probabilmente non senza limiti – non essendo chiaro dove vadano fissati tali limiti. E vari osservatori hanno notato che la nuova generazione di Repubblicani giunti al Congresso nell’era Obama aveva due obiettivi finora decisamente mancati, cioè appunto fermare la corsa del debito (che i democratici, e prima di loro George W. Bush, avevano usato per combattere la crisi), e abolire Obamacare (che a oggi è ancora in vigore per la difficoltà di trovare un’alternativa valida). In breve: non è detto, guardando all’economia, che il voto del 2020 avvenga nelle stesse condizioni favorevoli di oggi. Ma teniamo presenti due dati importanti: il primo è che la capacità di mobilitazione di Trump non si gioca sull’economia ma sulla “identity politics”; il secondo è il favore relativo – e il “podio” ineguagliabile – di cui gode comunque la figura del presidente uscente. Nella storia recente americana, solo due presidenti (Jimmy Carter e Bush padre) hanno mancato la rielezione.
In questo quadro dinamico, il novembre 2018 ha comunque confermato che anche un presidente anomalo come Donald Trump finisce per essere frenato dalle spinte politiche dell’elettorato – che certo non lo ha premiato – forse più ancora che dai vincoli istituzionali. I “checks and balances” sono arrivati dalla mobilitazione di una variegata opposizione – anche con vari movimenti grassroots come quello femminile del Me Too – che ha di fatto ribilanciato l’assetto sociale del paese. Trump è senza dubbio in grado di mobilitare i suoi sostenitori, ma solo al prezzo di polarizzare ulteriormente il clima del dibattito (provocando quindi una reazione uguale e contraria dei suoi oppositori). È in ogni caso difficile, dicono i risultati del midterm, che possa riuscire ad ampliare in modo rilevante la coalizione che gli dato la vittoria nel 2016.
In politica estera, la tradizionale tentazione dei presidenti ridimensionati dal voto di mezzo di termine è di giocare una carta internazionale, svincolandosi dallo stallo domestico. In un mondo diventato più complicato anche per una superpotenza, Trump ha finora interpretato il ruolo di “comandante in capo” in modo non convenzionale. Vedremo se, nel dopo midterm, accentuerà o modererà le sue caratteristiche istintive.
Un importante aggiustamento del ruolo globale degli Stati Uniti è in corso già dagli anni di Obama, sebbene con metodi e toni diversi da quelli dell’attuale presidenza. Come sottolinea Robert Kagan, il sistema internazionale tende quasi naturalmente verso il caos, con i rischi impliciti che ciò comporta, in assenza di una forte azione stabilizzatrice americana: potremmo dire che l’entropia sta prevalendo sull’ordine. In teoria, l’unico elemento ordinatore in grado di riassestare il sistema sono comunque gli Stati Uniti, pur con i limiti imposti dagli equilibri di potere del XXI secolo; ma Trump non sembra convinto che svolgere un ruolo del genere convenga all’America. A suo parere, i costi sono alti, i vantaggi pochi.
Le altre maggiori potenze – a cominciare dalla Cina, che fa categoria a sé su scala globale e dalla Russia, con i suoi comportamenti opportunistici – sembrano più che altro degli sfidanti; ma non sono in grado di fornire governance, piuttosto la utilizzano a loro esclusivo vantaggio. Uno scenario plausibile è che il sistema internazionale, apparentemente alle prese con un grande disordine, troverà un rischioso principio ordinatore in una “guerra fredda bis” – non più fra Usa e Russia (ma la crisi ucraina e gli equilibri nucleari europei accentuano comunque le tensioni con Mosca) ma questa volta tra Stati Uniti e Cina.
È innegabile che i più rilevanti trend globali – in campo tecnologico, energetico, socioeconomico – saranno influenzati in modo determinante dall’evoluzione dei rapporti Washington-Pechino. La globalizzazione degli anni Novanta si è fondata su un rapporto virtuoso fra le due economie; la post globalizzazione di oggi prelude a un confronto che non resterà bilaterale ma tenderà a coinvolgere sia l’Asia che l’Europa.
Non è un caso che, dopo la battaglia dei dazi avviata dall’amministrazione Trump, il vertice Apec del novembre scorso (con i suoi 21 membri e una tradizione quasi ecumenica), si sia chiuso per la prima volta senza un comunicato finale congiunto. Di fatto, è emerso un fronte a guida americana – assieme a Giappone e Australia – contrapposto alla Cina di Xi Jinping; gli altri partecipanti al vertice si sono ritrovati nella scomoda posizione di doversi schierare senza avere nessun interesse a farlo. Il vicepresidente americano Mike Pence è stato abbastanza esplicito nell’attacco verbale alle ambizioni geoeconomiche di Pechino: “Gli Stati Uniti negoziano in modo aperto e ‘fair’. Noi non offriamo una cintura costrittiva e una strada a senso unico” – un riferimento chiaro alla “Belt and Road Initiative”, che ormai sintetizza l’approccio assertivo della Cina di Xi.
La nuova guerra fredda – se ci sarà davvero – avrà comunque caratteri assai diversi da quella usa-urss del XX secolo, anzitutto perché la Cina è profondamente integrata nel sistema economico globale e nelle catene del valore. Non è una forza quasi aliena, irrigidita in un’ideologia statica, e chiusa nel suo guscio di alleanze e clientele: è invece un paese in espansione che sta decidendo del suo futuro in modo piuttosto pragmatico, sebbene a partire da una tradizione autoritaria che l’attuale leader cinese ha consolidato con una forte iniezione di nazionalismo. Tutto questo spiega perché Donald Trump contempli anche negoziati con Pechino, come dimostra la decisione (presa a margine del G20 di Buenos Aires) di varare una “tregua commerciale” con la Cina.
Le implicazioni, come nota Carlo Jean, saranno determinanti per l’Europa, che appare in posizione di svantaggio nella grande competizione internazionale, e che è al tempo stesso indebolita dalla crisi politica interna degli attori principali. La presidenza americana spingerà l’Unione Europea, che Trump ama di per sé assai poco, a collocarsi rispetto al nuovo quadro geopolitico. Dopo le sanzioni alla Russia e quelle all’Iran, Washington tenderà a gestire la partita commerciale e geopolitica con Pechino come parte di un riassetto necessario del sistema economico internazionale e delle sue istituzioni. Nella logica della “America First”, rientra infatti la convinzione che alleati come la Germania e rivali come la Cina traggano vantaggi “unfair” dal loro surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti. Collegando sicurezza ed economia, la Casa Bianca invita nei fatti i paesi europei non solo ad aumentare le spese militari ma anche a non danneggiare economicamente il paese che ne garantisce, attraverso la nato, la sicurezza.
In sostanza, Trump propone agli europei, con molta spregiudicatezza, un nuovo “deal”, di cui sono chiari i costi ma, almeno per ora, non sono evidenti i vantaggi. L’Europa avrà in ogni caso di fronte una sfida difficile, che dovrà gestire, nel secondo tempo di Trump, con maggiore abilità di quanto non sia per ora riuscita a fare. L’Europa, anch’essa alle prese con la propria campagna elettorale del 2019, dovrà anzitutto evitare false partenze: per fare solo un esempio, sono una falsa partenza le parole di Macron e Merkel a favore di un “esercito europeo” in grado di garantire la sicurezza del vecchio continente anche rispetto agli Stati Uniti.
Per ora e prevedibilmente per qualche decennio ancora, l’Europa resterà dipendente dalla garanzia nucleare americana. Il che la legittima a richiedere dagli Stati Uniti una serie di garanzie, anche sul futuro degli accordi nucleari dopo l’annuncio americano di ritiro dall’Inf (l’accordo sui missili a raggio intermedio siglato con l’Unione Sovietica nel 1987); ma non le consente di considerare l’America come una potenza da “bilanciare”, Trump o non Trump. Al tempo stesso, la nostra tesi è che l’Europa, potenza commerciale, abbia interesse a mettere sul tavolo la necessità di un nuovo accordo economico transatlantico e di una riforma del Wto. In questo caso, la partita può e deve essere giocata ad armi pari, sapendo che l’Europa deve evitare di trovarsi schiacciata dalla competizione Usa-Cina.
È forse esagerato sostenere che Donald Trump punti esplicitamente a indebolire l’Europa. Ma certamente non ama l’ue (come dimostrano le sue posizioni a favore di una hard Brexit). Il presidente americano privilegia i rapporti bilaterali, fra cui la relazione con l’Italia. E non intende difendere un metodo “multilaterale” di cui l’Unione Europea è un’espressione ma in cui la Casa Bianca di oggi non crede. A fronte di questa sfida esistenziale, Ivo Daalder e James Lindsay (che hanno avuto esperienze governative e sono quindi consci del pragmatismo necessario in questi casi) propongono un “G9” che riunisca i maggiori alleati di Washington in Europa e in Asia come sorta di “soluzione ponte”: in attesa che gli Stati Uniti tornino a esercitare una leadership in chiave anche multilaterale e cooperativa. È una proposta a suo modo innovativa ma che potrebbe spingere gli europei su una strada sbagliata.
Il problema non è di aspettare il ritorno di un’America che non c’è più. Ma di imparare a trattare con quella che esiste.

Roberto Menotti e Marta Dassù


www.aspeninstitute.it - 28-12-2018

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