Giornalismo e partigianeria, un binomio indissolubile


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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39. L'assetto politico dal 1994 al 1998

39.2 Giornalismo e partigianeria
Scalfari su Repubblica afferma, in un articolo del gennaio 1994, che le parole d'ordine dei tre schieramenti, sinistra, centro e destra, sono le stesse: più mercato, più efficienza, risanamento finanziario, privatizzazioni, cultura industriale, fine dell'assistenzialismo, occupazione; quello che distinguerebbe i tre schieramenti sarebbe solo l'ordine di elencazione e quindi di priorità di questi obiettivi. Ma, osserva il giornalista, «.. differenze ce ne sono tra gli schieramenti in campo», infatti, mentre il pensiero del polo progressista é sostenuto da studiosi responsabili, quello che propongono gli altri é pura demagogia».
A proposito dell'alleggerimento del carico fiscale i vari Berlusconi, Bossi e Segni farebbero proposte «...senza neppur darsi la pena di controllare le statistiche prima di parlare». A proposito del mercato, Scalfari afferma «Vogliamo dire che il capitalismo vagheggiato dalla destra italiana é più vicino a quello delle repubbliche delle banane che a quello di Wall Street e della City? Ebbene diciamolo perché é la pura verità». Infine la sua dichiarazione di sostegno al governo Ciampi termina così «Ma se qualche dubbio avessimo avuto, vedere che questa nostra posizione ci provoca accuse da parte di una compagnia di guitti non può che confermarci nella bontà delle scelte che abbiamo compiuto».
Questo stralcio dell'articolo di Scalfari, che é pure uno dei giornalisti più prestigiosi della nostra stampa, permette di far luce su come i media affrontino, spesso, la diatriba politica. È evidente che il giornalista ha la propria opinione e si sente legato a uno schieramento, ma questa appartenenza dovrebbe essere vissuta dal professionista in modo critico, dovrebbe essere il punto d'attacco per un'analisi dei punti di forza e di debolezza della propria opinione, per poterla offrire ai lettori non come una bandiera dietro la quale marciare, ma bensì come elemento di confronto con altre idee e altre opinioni; la moralità, e quindi anche la deontologia, possono dispiegarsi solo nella lotta della ragione contro le passioni. Paradigmatica di questo comportamento è la frase che Giuliano Ferrara pronuncerà in occasione del lancio del quotidiano Il Foglio «Saremo indipendenti, ma settari».
Oggi, giugno 2019 osserviamo come molti "grandi giornalisti" irridano Matteo Salvini, con una serie di insulti che dovrebbero far capire ai "benpensanti" che il personaggio è pericdoloso; Salvini sarebbe grossolano, razzista, sciovinista, omofobico, sovranista, populista, fascista, nazista .... quando va bene; in televisione Fazio e Gruber ostentano un verio e proprio sadismo contro il leader della Lega. Giornalismo e partigianeria, un binomio che non scomparirà mai. Quello cvhe preoccupa maggiormente è che la faziosità giornalistica cresce come la loro ignoranza.
Il giornalista scrive quello che il lettore vuole sentirsi dire, perché una lettura settaria dà un piacere di tipo viscerale, una lettura critica non dà certezze, ma può insinuare il tarlo del dubbio. Più la polemica é partigiana e ideologica più essa, non potendo sempre disporre della forza del ragionamento, deve ricorrere all'insulto per screditare l'avversario, deve ricorrere alla sua squalifica morale. Il dibattito politico molto spesso assume i tipici toni di un'intolleranza che non accetta nemmeno che l'avversario esprima delle opinioni. Nell'immaginario si vorrebbe anzi che quelle opinioni neanche esistessero, pertanto. la discussione mira alla soppressione, all'annientamento fisico del nemico portatore di quelle opinione e quindi di errore.
Questo produce un effetto a catena o effetto branco, gruppi contro gruppi, giornali contro giornali, giornalisti contro giornalisti; decenni di consociativismo hanno disabituato a convivere con le differenze, con l'altro. La tolleranza è figlia del dubbio, l'inquadramento culturale rende le persone politicamente intolleranti e culturalmente sterili. Diceva Salvemini «I dottrinari sono la gente più rispettabile e più disastrosa di questo mondo»; quando poi i dottrinari si annidano tra coloro che dispongono dei mezzi di formazione del consenso e del dissenso, non meraviglia che vengano privilegiate le forme che permettono di eccitare, fomentare, spaventare, sedurre, lusingare, suggestionare, piuttosto che consigliare, convincere, incoraggiare, tollerare, far riflettere.
La cultura è il riflesso della società in cui essa vive: ebbene, anche se le generalizzazioni possono essere sbagliate o pericolose, il giornalismo in Italia non fa eccezione a questa legge: nessuno si illude che dal mondo dell'informazione e della cultura potrà partire il rinnovamento della società, ma il processo potrà essere solo inverso, dal rinnovamento della società potrà nascere il rinnovamento della cultura.
Creare una nuova repubblica in Italia significherà disporre di una stampa baluardo a difesa della democrazia, ma anche sede di civili discussioni e confronti tra opinioni diverse e maieutica nella tolleranza delle differenze, nell'organizzazione del consenso al di fuori delle logiche clientelari, nell'insegnamento della mancanza di innocenza in ogni pensiero politico e nella liberazione della passione civile dal ricatto dell'appartenenza.
Suggerisce Schopenauer (ne L'arte di avere ragione) che «quando in un dibattito ci si accorge che l'avversario é superiore si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani... con questo stratagemma si abbandona l'oggetto del contendere e si dirige l'attacco contro la persona. Si tratta di un appello delle forze dello spirito a quelle del corpo o all'animalità». Questo stratagemma, che Schopenauer pone come caso estremo, tra i tanti che suggerisce, risulta invece uno dei più utilizzati nel dibattito politico. Esso viene associato a un altro stratagemma altrettanto frequente, specie durante i dibattiti televisivi: quando non si dispongono argomenti per dibattere sull'oggetto (argumentum ad rem) o per contrastare l'oppositore (argumentum ad hominem), ci si rivolge con argomentazioni fasulle ad auditores, cioè agli ascoltatori, che vengono supposti non in grado di accorgersi dell'inganno dialettico. Se l'avversario é abile, ecco allora ricorrere alla tecnica, che gli inglesi chiamano del moving target, e cioè dello spostare continuamente l'oggetto del discorso.
Queste tecniche sono molto usate in quelle trasmissioni che vedono protagonisti un gran numero di partecipanti, ognuno dei quali é teoricamente impegnato a intervenire. In questi programmi il discorso viene continuamente interrotto, modificato, indirizzato verso obiettivi diversi, il ricorso all'insulto diventa frequente, in una rissa assordante é praticamente impossibile sviluppare un concetto, cosicché la trasmissione risulta un collage di slogan e il conduttore, sapientemente, riesce a tenere vivo il coinvolgimento emotivo dell'ascoltatore, seguendo il principio del grande Seneca per il quale «unusquisque mavult credere quam judicare ». È corretto che il conduttore dichiari le proprie idee o non si sforzi di mascherarle, mentre é censurabile se, come accade di frequente, pratica la parzialità non concedendo all'avversario politico lo spazio per esprimere il proprio parere, oppure condizioni lo spettatore scegliendo in regia l'immagine di persone che ridono e dileggiano l'interlocutore.
Quando si assiste a incontri politici meno urlati, ugualmente, la discussione produce riflessioni sterili e raramente lascia spazio ad argomentazioni compiute. In generale, al termine del dibattito, prevale chi ha saputo sfruttare meglio lo strumento televisivo grazie a una buona telegenicità, oppure mostra di essere in confidenza con il conduttore, oppure ha pronta la battuta, oppure ha una forte carica di aggressività, oppure qualcosa d'altro che non ha nulla a che vedere con lo sviluppare un'idea coerente e concreta. Secondo De Bono, sembra che la struttura del pensiero occidentale sia ancora influenzata dai modelli sviluppati dai monaci medioevali per dimostrare la colpevolezza degli eretici: l'idea va formulata a suon di martellate argomentative e di stratagemmi.
Siamo quasi costretti rimpiangere le tribune politiche degli anni settanta. Il loro meccanismo era semplice: un moderatore, in genere un giornalista Rai, aveva il compito di fungere da “cronometrista”, sia nei dibattiti tra esponenti di vari partiti (talvolta tutti, in altri casi si procedeva per sorteggio), sia nelle conferenze stampa con i leader di partito, nelle quali era presente un gruppo di giornalisti, ciascuno rappresentante di una testata sorteggiata. Nella conferenza-stampa il leader di turno era affiancato dal suo capoufficio stampa, che però non aveva diritto di parola e che sedeva alla sua destra, mentre alla sua sinistra c’era il moderatore. Sul tavolo campeggiava il cronometro luminoso, vero padrone della trasmissione. Tanti minuti al leader per la sua presentazione, tanti minuti al giornalista per fare la domanda, tanti minuti per la risposta.
Probabilmente la vittoria del centrodestra fu causata proprio dal fatto che i grandi media attribuirono a Berlusconi ogni nequizia; come alleato di Bossi era razzista e secessionista, come alleato di Fini era fascista, come amico di Craxi era un corrotto; lo stesso Presidente Scalfaro non perdeva occasione per mostrare la sua diffidenza nei riguardi di Berlusconi. Come già in altre occasioni gli italiani mostrarono di non credere in quello che arrivava dal Palazzo.

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Eugenio Caruso - 7 giugno 2019



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