La vittoria di Berlusconi nel 1994


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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39. L'assetto politico dal 1994 al 1998

39.3 La vittoria di Berlusconi nel 1994
Gli italiani sono chiamati a votare con una nuova legge elettorale, la cosiddetta legge Mattarella (volgarizzata dai media in mattarellum); il nuovo sistema elettorale è un misto di maggioritario e di proporzionale. Il 75% dei seggi (475 per la Camera, 232 per il Senato) è assegnato tramite un sistema uninominale maggioritario a turno unico; il restante 25% dei seggi (155 per la Camera, 83 per il Senato) tramite un sistema proporzionale. Per il maggioritario, il territorio nazionale è suddiviso in tanti collegi quanti sono i seggi da assegnare: ottiene il seggio il soggetto che, nel relativo collegio, abbia ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Per il proporzionale, la distribuzione dei seggi avviene alla Camera su base nazionale, tra le liste che abbiano superato il 4%; al Senato su base regionale, in base ai seggi spettanti a ciascuna regione.
Alle elezioni del 27 marzo 1994, come indicavano i sondaggi, il Polo della libertà (Forza Italia, Lega, Lista Pannella, Ccd e Udc) e il Polo del buon governo (Forza Italia, Alleanza Nazionale, Ccd e Udc) escono vincitori, conquistando alla Camera 366 deputati su 630. Tra i Progressisti , Psi, Rete, Ad e Verdi non superano lo sbarramento del 4% nella quota proporzionale. Forza Italia conquista un buon successo, con il 21% dei voti, anche se molti punti sotto le percentuali sbandierate da Berlusconi durante la campagna elettorale. In realtà il Polo possiede la maggioranza solo alla Camera, e non al Senato per la presenza dei senatori a vita; Berlusconi dovrà ricorrere "all'acquisto" di alcuni senatori dell'opposizione.
I commenti a caldo sulla vittoria di Berlusconi attribuiscono un ruolo decisivo alle reti televisive della Fininvest; queste sono state senz'altro importanti, perché hanno dato visibilità a un'offerta politica nuova, ma questa non é una risposta esauriente al perché della vittoria del centrodestra.
La verità parla di un voto dato contro una sinistra che non ha saputo presentare niente di nuovo, di una sinistra che non è stata in grado di scegliere un candidato premier, di una sinistra, statica e sussiegosa, che non é stata capace di presentare una piattaforma programmatica, che non fosse un'eco dei temi della destra, di una sinistra che non ha saputo convincere la piccola e media borghesia, la piccola e media impresa e il terziario, di una sinistra che non ha visto nel consenso dell'establishment, dell'aristocrazia economica, della grande industria tradizionalmente statalista e protezionista, dei grandi quotidiani, i limiti della propria azione politica, di una sinistra che ha favorito l'avversario per eccesso di demonizzazione, e, infine, di un Pds che ha lasciato negli italiani molti dubbi sulla sua estraneità a tangentopoli.
Berlusconi si è fatto, invece, portatore dei valori dell'efficienza, che genera più beni e quindi più benessere; alla posizione egualitaria della sinistra (distribuire in modo equo l'esistente) ha contrapposto l'idea dell'aumento della produzione (accrescere la quantità di beni da distribuire). Non ha spiegato come attuare il programma, ma, per ovviare a questo limite, si è servito, con competenza, dello strumento della comunicazione. Sono state utilizzate, in modo appropriato, sia la tecnica delle "maschere", e cioè, il linguaggio, colloquiale, sobrio e pragmatico, la cura del corpo e delle posizioni, i sogni impossibili raccontati come se fossero realtà, la metafora del "buon padre di famiglia", che ha la capacità di rassicurare e di salvare i propri figli in pericolo, sia la tecnica della moderna profezia, il sondaggio. Da imprenditore di successo, ha chiamato a raccolta tutti i "ghepensimì" d'Italia, ricevendone un consenso plebiscitario.
Va dato, infine, atto a Berlusconi di aver saputo capire che lo sfaldamento della Dc avrebbe lasciato un vuoto politico, che nessuno degli schieramenti in lizza era in grado di occupare, nemmeno Mario Segni che, con il suo comportamento ondivago, aveva perso un'occasione irripetibile. L'elettorato moderato, non trovando più nella Dc il proprio riferimento politico, non aspettava altro che un movimento come Forza Italia, dichiaratamente conservatore, per riversarvi il proprio suffragio; qeste elezioni mostrano senza ombre di dubbio che la DC era un partito guidato dalla sinistra dc, ma che portava un carico di elettori di destra.
Dopo questa vittoria Berlusconi, per un principio di correttezza istituzionale, avrebbe dovuto separare nettamente, e non surrettiziamente, gli interessi dell'imprenditore dai doveri del politico, per sciogliere ogni dubbio di una sua posizione di iudex in re sua, avrebbe dovuto fare in modo che non potessero sorgere sospetti di voler esercitare il potere per fini personali. La reale separazione tra i due interessi confliggenti non avviene, e restano i dubbi.
La Lega, pur apparendo vincitrice in termine di seggi, ha conseguito nella quota proporzionale poco più dell'8% dimostrando, con ciò, che la sua affermazione nell'uninominale é stata conseguita sull'onda del consenso ottenuto da Forza Italia e grazie ai vantaggiosi accordi elettorali stipulati. I giorni successivi alle elezioni, il leader della Lega avvia una campagna di contestazione nei confronti di Berlusconi. Il comportamento di Bossi sembra oscillare tra un Cromwell, sostenitore inglese del puritanesimo e un François de Vendôme, agitatore politico della fronda, soprannominato roi des halles, tra il bisogno di combattere per un reale rinnovamento dello stato e la necessità di non deludere i propri elettori molti dei quali sono piccoli artigiani e commercianti.
Bossi, subito dopo i risultati delle elezioni, afferma di essere preoccupato per la vittoria della «destra forcaiola» e sostiene che «Il presidente non può essere Berlusconi e che la Lega deve essere in posizione tale da condizionare e far procedere il cambiamento». Asserisce di volere, perciò, confrontarsi con i leader degli schieramenti sconfitti per verificare l'esistenza di un raggruppamento che consenta di attuare una vera riforma istituzionale dello stato. La mossa sorprende tutti e, come al solito, é un coro di insulti; tutti sono preoccupati che l'elettorato di destra, che vuole il suo bravo governo di destra, venga tradito da Bossi e che la Lega voglia tenere in piedi il consociativismo. Saverio Vertone, sempre molto astioso nei confronti della Lega, afferma sul Corriere «Bossi é il vero pericolo per la democrazia».
La grande stampa infierisce con Bossi che, coerentemente con le affermazioni fatte durante la campagna elettorale, mette in evidenza gli elementi di discontinuità con Forza Italia e Alleanza Nazionale, con i quali ha stretto solo un'alleanza elettorale. Bossi afferma che é necessario, ma non sufficiente, che la vecchia classe politica venga sostituita, e ribadisce che «la seconda repubblica potrà realizzarsi solo con una nuova costituzione» e pertanto cerca interlocutori, anche tra le opposizioni. Bossi teme inoltre l'abbraccio narcotizzante di Forza Italia e l'influenza che An può esercitare nelle strutture dello stato, dove, come è noto, la componente autoritaria e nazionalista non è mai morta e potrebbe ostacolare qualunque riforma istituzionale.
Contro le "intemperanze" di Bossi, Berlusconi minaccia di ricorrere a nuove elezioni. Bossi afferma «Con Berlusconi abbiamo rotto sulla pregiudiziale sua di essere il capo. E io invece pongo la pregiudiziale sulla questione morale. La partitocrazia era una commistione tra politica e affari, Berlusconi realizzerebbe in prima persona questa commistione. Per il Paese che cambiamento sarebbe un presidente che a ogni legge deve decidere tra i suoi affari e gli interessi generali?». Dopo alcuni incontri i due trovano un accordo, probabilmente appianato dalla distribuzione dei ministeri, favorevole alla Lega.
Il 29 marzo 1994, con Berlusconi che si prepara a entrare a Palazzo Chigi, Ciampi, che avrebbe dovuto limitarsi alla gestione degli affari correnti, prende un'importante decisione strategica; con un colpo di mano, legittimo ma inusuale, decide che il vincitore della gara d'appalto per il secondo gestore dei telefonini in Italia è Carlo De Benedetti, gli sconfitti la cordata Fiat-Fininvest. Così il moribondo governo Ciampi fa nascere Omnitel che sarà l'ancora di salvezza cui potrà appigliarsi l'Olivetti per sopravvivere. Ma questo non è il solo regalo fatto dalla sinistra all'ingegnere; Giuliano Amato, presidente dell'antitrust, decide, nel 1997, che la rete telefonica delle ferrovie dello stato non debba andare alla Stet, disposta a pagare 1.100 miliardi, ma a Infostrada (Olivetti), a un prezzo di 750 miliardi, in 14 rate annuali di 76 miliardi. Successivamente Olivetti sarà costretta a vendere Omnitel-Infostrada ai tedeschi della Mannesmann per 14 mila miliardi (non rateizzati).
L'11 maggio, sotto lo sguardo gelido di Scalfaro, Berlusconi presenta il suo governo (10/5/94-17/1/95): all'Interno, Roberto Maroni, agli Esteri, Antonio Martino, alla Giustizia, Alfredo Biondi, alla Difesa, Cesare Previti, a Tesoro, Finanze e Bilancio, rispettivamente, Umberto Dini (Direttore della Banca d'Italia, liberista formatosi al Fmi), Giulio Tremonti (uscito dal Patto di Segni), Giancarlo Pagliarini. Le ore precedenti la definizione del Ministero sono state burrascose e caratterizzate anche da un inusuale scambio di lettere tra Scalfaro e Berlusconi. Il Presidente richiama l'attenzione di Berlusconi sull'esigenza che i ministri siano fedeli alle alleanze, all'unità europea, alla pace, che il ministro dell'Interno non assuma posizioni in contrasto con il principio dell'Italia una e indivisibile e che il governo rispetti il principio di solidarietà sociale. È evidente il nervosismo di Scalfaro, che sembra porre un veto a Maroni e Martino; il suo intervento, ispirato dalla diffidenza, appare fuori posto e un'indebita ingerenza nell'operato del Presidente designato, il quale risponde che nessun membro del suo governo esprimerà orientamenti contrari ai principi ribaditi da Scalfaro. All'ultimo momento Berlusconi, per motivi di opportunità politica, sposta Previti, suo avvocato e amico, dalla Giustizia alla Difesa, tenta, senza riuscirvi, di dare un incarico a Pannella, che chiede gli Esteri o nulla e scarica Mirko Tremaglia dal ministero degli Italiani nel mondo, affidato all'indipendente Sergio Berlinguer. Non riesce a Berlusconi l'operazione immagine che maggiormente l'avrebbe soddisfatto: portare nel governo Antonio Di Pietro.
La squadra di governo è stata costruita avendo in mente alcuni punti fermi: la rappresentanza di tutte le forze di governo, l'utilizzo di uomini fedeli alla Fininvest (Gianni Letta sottosegretario alla Presidenza, Previti, Giuliano Ferrara ai Rapporti con il parlamento), l'audience televisiva (Antonio Guidi alla Famiglia e Affari Sociali e Giuliano Ferrara), il messaggio forte ai vecchi partiti di Centro, con una rappresentanza robusta e rappresentativa (Biondi, Raffaele Costa alla Sanità, Clemente Mastella al Lavoro, Francesco D'Onofrio alla Pubblica Istruzione). Alla Lega vanno Interno, Bilancio, Industria (Vito Gnutti), Riforme Istituzionali (Francesco Speroni) e Politiche comunitarie (Domenico Comino); ad Alleanza nazionale, Poste (Giuseppe Tatarella, ispiratore, con Fisichella, del progetto di An), Trasporti (l'ex-Dc, Publio Fiore), Beni culturali (Domenico Fisichella, politologo e teorico di An), Ambiente (Altero Matteoli) e Agricoltura (la latinista Adriana Poli Bortone); a Forza Italia, Esteri, Difesa, Rapporti con il parlamento, Famiglia, Lavori pubblici (Roberto Radice), Commercio estero (Giorgio Bernini), Università e ricerca (Stefano Podestà), Funzione pubblica e affari regionali (Giuliano Urbani, il padre putativo di Forza Italia).
Presidenti di Senato e Camera erano stati eletti Carlo Scognamiglio e Irene Pivetti.
Il 12 giugno 1994, alle elezioni europee, Forza Italia consegue un autentico trionfo, raccogliendo il 30,6 % dei voti; questa volta Berlusconi ha fatto breccia anche nelle aree depresse del Sud e tra l'elettorato leghista.
Il congresso del Pds, nel mese di luglio '94, sanziona il passaggio del testimone da Occhetto, uscito sconfitto dalle elezioni, a Massimo D'Alema, al quale, fino all'ultimo, contende la segreteria Walter Veltroni. Dice di Massimo d’Alema, Montanellli «Freddo, controllato, sicuro di sé fino all’arroganza, D’Alema poteva ricordare, nel fisico, un asceta o un inquisitore, ma anche un parrucchiere per signora o un impiegato di pompe funebri» (Montanelli, 2000).
Il 13 novembre 1994, lo Psi tiene il suo ultimo congresso e si scioglie. Finisce una storia centenaria; cambia il nome del partito, non perché si vogliano attribuire colpe al socialismo, ma per colpa degli uomini che lo hanno guidato negli ultimi dieci anni. Quegli uomini, che avrebbero dovuto incalzare la Dc sul piano dei programmi e dell'etica politica, sul solco tracciato da Nenni, hanno, invece, ampliato e migliorato le tecniche delle lottizzazioni, del finanziamento illegittimo, della contiguità tra affari e politica.
Nascono i Laburisti di Valdo Spini, i Socialisti italiani (Si) di Enrico Boselli, che si fondono con lo Ps di Ugo Intini e con lo Psdi di Dante Schietroma dando vita allo Sdi (socialisti democratici italiani). Successivamente nasce un altro Ps con Gianni De Michelis e Bobo Craxi che si allea con la destra.
Il 13 luglio, il guardasigilli, Alfredo Biondi, porta al consiglio dei ministri un decreto di legge per la modifica di alcune norme del codice di procedura penale, in particolare contro la carcerazione preventiva; la mattina seguente Scalfaro firma il decreto. Alla sera, al Tg3 delle 19, appare Di Pietro circondato dai suoi colleghi; il pm di Milano, pallido, con vistose occhiaie, la camicia slacciata, emozionato, gli occhi dell'onesto difensore della legge fissi nella telecamera e con enfasi drammatica legge un comunicato che annuncia la richiesta di assegnazione ad altro incarico dei magistrati del pool di Mani Pulite, dettando la sentenza di morte del decreto Biondi.
Il 22 novembre, mentre Berlusconi sta presiedendo la conferenza mondiale sulla criminalità, il Corriere della sera, informato da una "gola profonda" del palazzo di giustizia, dà la notizia di un avviso di garanzia per corruzione nei confronti di Berlusconi. È la prima volta, in Italia, che un presidente del consiglio viene inquisito. Borrelli, rispondendo sul perché di quell'avviso di garanzia proprio nel giorno del convegno mondiale sulla criminalità, risponderà «Non volevamo che Berlusconi sapesse la notizia da altri». Alla “tempestività” devastante dell’avviso di garanzia si aggiungeva lo scandalo della fuga di notizie che aveva consentito al Corriere di realizzare lo scoop. Berlusconi affidò la sua amarezza a un messaggio videoregistrato nel quale denunciava «un episodio di abuso e di strumentalizzazione infame della giustizia penale». L'avviso di garanzia a Berlusconi è provvidenziale per Bossi, che già da mesi aveva intenzione di uscire dal governo, mentre la riforma del sistema pensionistico, che sortisce la dura reazione dei sindacati, è l'occasione che Bossi aspetta per rompere definitivamente l'alleanza. D'Alema, Bossi e Buttiglione, dividendo fraternamente pane e sardine nella modesta casa romana del leader leghista, decidono di far cadere il governo.
Il 21 dicembre 1994, vengono presentate due mozioni di sfiducia, una dal Pds una da Lega e Ppi; Berlusconi e Fini accusano Bossi di tradimento, ma devono incassare la sconfitta. Intervistato da Vespa, Bossi ammetterà che aveva aperto la crisi di governo solo dopo aver avuto l'assicurazione da Scalfaro che il presidente non avrebbe sciolto le camere per una nuova tornata elettorale (Vespa, 1999). Alla presentazione delle dimissioni, di converso, Berlusconi afferma che Scalfaro gli aveva promesso o un reincarico o elezioni immediate.

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Eugenio Caruso - 22 giugno 2019



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