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Inferno, canto XVIII. Ruffiani, ingannatori e adulatori



Nel XVIII Canto dell'Inferno Dante e Virgilio si trovano nell'VIII Cerchio. Dopo essere scesi dalla groppa di Gerione, Dante segue il maestro che procede verso sinistra, alla sua destra Dante vede nuovi dannati che subiscono nuove pene: i peccatori sono sul fondo, nudi, e procedono in due file parallele che vanno in direzioni opposte, una lungo il margine esterno della Bolgia (ruffiani) e l'altra lungo quello interno (seduttori). Ci sono demoni armati di frusta, che colpiscono i dannati da tergo e li fanno camminare velocemente. È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Mentre procede lungo l'argine, Dante vede tra i ruffiani un dannato che crede di riconoscere e torna un poco indietro a guardarlo, cosa che Virgilio accetta. Il peccatore cerca di nascondersi abbassando il viso, ma non può evitare che Dante lo riconosca e lo indichi come Venedico Caccianemico, al quale chiede come sia giunto in questa Bolgia. Il dannato risponde di essere colui che ha condotto la sorella Ghisolabella a soddisfare le voglie di Òbizzo d'Este. Dichiara inoltre di non essere il solo Bolognese nella Bolgia, che ne ospita tanti quanti sono quelli che vivono tra Savena e Reno (il che si spiega con la loro naturale avarizia). Mentre il dannato parla, un diavolo lo sferza crudelmente e lo manda via ricordandogli che qui non ci sono donne di cui fare mercato.
Dante si ricongiunge con Virgilio e poco dopo i due raggiungono un punto in cui dalla roccia parte un ponte di pietra, che sormonta la Bolgia da un argine all'altro. Vi salgono sopra e giungono al punto più alto, da dove possono vedere l'interno della Bolgia: Virgilio raccomanda a Dante di osservare bene l'altra schiera di dannati (i seduttori) che non hanno potuto vedere perché prima procedevano nella loro stessa direzione. I due poeti osservano allora l'altra schiera di anime scudisciate anch'esse, e Virgilio indica al discepolo un dannato che procede con aspetto regale, senza versare una lacrima nonostante il dolore: è Giasone, che con coraggio e astuzia si impadronì del vello d'oro. L'eroe aveva sedotto e ingannato Isifile nell'isola di Lemno, lasciandola incinta, e qui sconta questa colpa come l'inganno a Medea.

I due poeti sono ormai giunti al punto in cui il ponte roccioso si congiunge all'argine della II Bolgia, dove sentono dannati (adulatori) che si lamentano e soffiano rumorosamente con le narici, colpendosi con le loro stesse mani. Le pareti della Bolgia sono incrostate di muffa per i miasmi che provengono dal fondo e che irritano occhi e naso. La Bolgia è talmente profonda e oscura che per vedere bene i due sono costretti a salire sul punto più alto del ponte: da qui vedono gente immersa nello sterco, simile a quello che fuoriesce dalle latrine umane. Dante osserva i dannati e ne scorge uno, talmente coperto di escrementi che non è chiaro se sia chierico o laico. Il dannato rimprovera Dante di guardare solo lui, ma il poeta gli grida di averlo già visto coi capelli asciutti e lo indica come il lucchese Alessio Interminelli. Il dannato si colpisce il capo e afferma di scontare le adulazioni di cui la sua lingua non fu mai abbastanza sazia.
Dopo l'incontro con Interminelli, Virgilio invita Dante a spingere lo sguardo un po' più avanti, in modo da vedere una donna sudicia e scarmigliata, che si graffia con le unghie piene di sterco e si china sulle cosce. È la prostituta Taide, che al suo amante che le chiedeva se lei lo ringraziava, aveva risposto: «Sì, moltissimo!». Dopodiché Virgilio invita Dante a lasciare la Bolgia e a passare in quella seguente.

Il Canto apre la seconda parte della I Cantica, che essendo formata da trentaquattro Canti si può dividere in due gruppi di diciassette dedicati rispettivamente ad alto e basso Inferno. Qui inizia la descrizione delle Malebolge, che occuperà lo spazio maggiore in termini di Canti. Dopo l'ampia descrizione iniziale dell'VIII Cerchio, le cui Bolge sono paragonate con preziosa similitudine ai fossati che cingono i castelli tardomedievali, Dante ci mostra le prime due Bolge che ospitano, rispettivamente, ruffiani e seduttori di donne (la I) e adulatori (la II). Il comune denominatore delle due zone è il carattere particolare della pena cui sono sottoposti i dannati: ruffiani e seduttori camminano nudi e percossi sul fondoschiena da demoni cornuti armati di fruste, formando due schiere che procedono in direzioni opposte (i ruffiani vicino all'argine esterno, i seduttori vicino a quello interno), mentre gli adulatori sono immersi nello sterco e si colpiscono con le loro stesse mani.
Ruffiani e seduttori sono fraudolenti perché hanno raggirato con l'inganno donne, inducendole a soddisfare le voglie altrui (i primi) o le proprie (i secondi). Il loro peccato è dunque ben più grave di quello dei lussuriosi, che si sono semplicemente abbandonati all'istinto del piacere, e vengono sferzati dai diavoli in modo simile forse a quanto accadeva nel Medioevo alle prostitute e ai loro sfruttatori. Carattere egualmente fraudolento ha il peccato di adulazione, in quando chi rivolge le proprie lusinghe ai potenti lo fa per trarne un vantaggio personale e tende quindi a raggirare chi ne è oggetto, e se in vita essi usarono parole dolci e melliflue ora vivono negli escrementi come in un'immensa latrina o in un canale di scolo. In ciascuna Bolgia, poi, Dante vede due peccatori, uno del mondo a lui contemporaneo e l'altro del mondo mitologico-classico: i dannati contemporanei sono entrambi riconosciuti dal poeta e tentano vanamente di nascondere la loro identità, mentre è Dante a svelarne il nome e a costringerli a rivelare la propria colpa; i due personaggi classici sono invece indicati da Virgilio e a differenza dei primi non pronunciano neppure una parola nel corso dell'episodio.

Il fatto che Dante riveli il nome del ruffiano Venedico Caccianemico e dell'adulatore Alessio Interminelli è significativo, in quanto il poeta non si sottrae alla missione di rivelare tutto quanto gli è mostrato nel corso del viaggio e quindi svelare la dannazione di personaggi ben noti all'epoca i cui peccati potevano essere sconosciuti. È appunto il caso di Venedico, che si autoaccusa di aver venduto la sorella al marchese Òbizzo II d'Este benché di questo fatto non ci siano molte testimonianze: infatti il dannato spiega che le cose sono andate così, qualunque sia la versione che si dava dell'accaduto (val la pena di ricordare che il personaggio morì, pare, nel 1302, quindi Dante lo credeva già morto nel 1300 e ne aveva decretato la dannazione quando era ancora vivo). Analogo discorso vale anche per l'Interminelli, il cui peccato di adulazione non è molto noto nelle cronache antiche e il cui destino ultraterreno è quindi svelato in modo inatteso da Dante. Parallelamente ai due esempi moderni ci sono poi quelli antichi, ovvero Giasone che a dispetto del suo portamento regale sconta il fatto di aver ingannato e sedotto Isifile e Medea (soprattutto la prima, ingenua giovinetta da lui abbandonata quand'era incinta), e la prostituta Taide che nell'Eunuchus di Terenzio ringrazia oltre il lecito il soldato Trasone che le aveva procurato una schiava attraverso un mezzano, Gnatone. È appena il caso di notare come il personaggio di Taide, colpevole di adulazione, richiami anche quello di natura sessuale dei ruffiani in quanto lei stessa era una prostituta che si vendeva per denaro, grazie all'opera di ruffiani come Gnatone (e lo stesso Venedico aveva giustificato la folta presenza di Bolognesi fra i ruffiani per la loro cupidigia).

Interessante è poi l'uso da parte di Dante di un linguaggio particolarmente crudo e comico-realistico, specie nella seconda parte del Canto: la descrizione della II Bolgia è piena di ripugnanti particolari visivi e olfattivi, nonché di termini ricercati e disusati, dai suoni duri e aspri come s'incrocicchia, nicchia, scuffa, grommate, appasta, stucca. Numerosi i termini del volgare linguaggio quotidiano, tra cui sterco, latrine, merda, unghie merdose, con cui l'autore vuol rendere il dramma grottesco dello spettacolo del peccato punito (e simili espedienti di lingua e di stile ritorneranno nella descrizione di altre Bolge, specie quella dei simoniaci, dei barattieri, dei ladri).

NOTE E VERSI CONTROVERSI

I vv. 25-33 descrivono le due schiere dei ruffiani e dei seduttori nella I Bolgia, che procedono in direzioni opposte e parallele: i ruffiani camminano lungo la parte esterna e venendo incontro ai due poeti, mentre i seduttori sono nella parte interna del fossato e procedono nello stesso senso dei due viaggiatori, che per vederli dovranno salire sul ponte roccioso. La similitudine dei vv. 28-33 allude al Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII nell'anno 1300, che provocò un enorme afflusso di pellegrini a Roma: per farli passare sul ponte di Castel Sant'Angelo, l'unico all'epoca che conduceva alla basilica di S. Pietro, il ponte stesso fu diviso in due corridoi paralleli da una transenna e i pellegrini procedevano in direzioni opposte a seconda che uscissero o entrassero dalla basilica (il monte del v. 33 è probabilmente il monte Giordano, di fronte a Castel Sant'Angelo).
Berze (v. 37) è probabilmente un germanismo e sta per «gambe». Le pugenti salse del v. 51 sono le pene acerbe e pungenti, forse con un riferimento alle «Salse» bolognesi dove si gettavano i cadaveri dei giustiziati.
Sipa (v. 61) è la forma bolognese per «sia», oggi «sepa». Sàvena e Reno sono i fiumi che scorrono a est e ovest di Bologna.
L'espressione femmine da conio (v. 66) può significare «donne di cui fare mercato» (conio varrebbe quindi «moneta»), ma anche «donne da raggirare», poichéin volgare fiorentino «coniare» voleva dire «ingannare».
Le cerchie etterne del v. 72 indicano probabilmente l'eterno girare dei dannati della I Bolgia, anche se alcuni vi hanno voluto vedere la parete rocciosa che circonda le Malebolge, oppure la struttura di tutto l'alto Inferno.
Al v. 104 scuffa (altri mss. leggono sbuffa) vuol dire «soffia con le narici e con la bocca». Al v. 118 gordo è lezione più difficile e quindi preferibile a ingordo, testimoniata da alcuni codici.
Al v. 130 fante vuol dire giovane donna di bassa condizione, quindi è quasi sinonimo di «puttana» (v. 133).
La scena descritta da Virgilio ai vv. 133-136, con cui spiega il peccato di Taide, è tratta dall'Eunuchus di Terenzio di cui la prostituta è personaggio: il soldato Trasone le aveva procurato tramite il ruffiano Gnatone una serva e aveva chiesto al lenone se Taide lo ringaziasse, al che lui aveva risposto: «Moltissimo». Dante trae con ogni probabilità la citazione non direttamente da Terenzio ma dal De amicitia di Cicerone, dove lo scrittore riporta l'episodio mettendo la risposta direttamente in bocca a Taide, come sembra fare qui Dante.

TESTO

Luogo è in inferno detto Malebolge, 
tutto di pietra di color ferrigno, 
come la cerchia che dintorno il volge.                            3

Nel dritto mezzo del campo maligno 
vaneggia un pozzo assai largo e profondo, 
di cui suo loco dicerò l’ordigno.                                       6

Quel cinghio che rimane adunque è tondo 
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura, 
e ha distinto in dieci valli il fondo.                                    9

Quale, dove per guardia de le mura 
più e più fossi cingon li castelli, 
la parte dove son rende figura,                                       12

tale imagine quivi facean quelli; 
e come a tai fortezze da’ lor sogli 
a la ripa di fuor son ponticelli,                                         15

così da imo de la roccia scogli 
movien che ricidien li argini e ’ fossi 
infino al pozzo che i tronca e raccogli.                           18

In questo luogo, de la schiena scossi 
di Gerion, trovammoci; e ’l poeta 
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.                           21

A la man destra vidi nova pieta, 
novo tormento e novi frustatori, 
di che la prima bolgia era repleta.                                  24

Nel fondo erano ignudi i peccatori; 
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto, 
di là con noi, ma con passi maggiori,                           27

come i Roman per l’essercito molto, 
l’anno del giubileo, su per lo ponte 
hanno a passar la gente modo colto,                            30

che da l’un lato tutti hanno la fronte 
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; 
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.                         33

Di qua, di là, su per lo sasso tetro 
vidi demon cornuti con gran ferze, 
che li battien crudelmente di retro.                                 36

Ahi come facean lor levar le berze 
a le prime percosse! già nessuno 
le seconde aspettava né le terze.                                   39

Mentr’io andava, li occhi miei in uno 
furo scontrati; e io sì tosto dissi: 
«Già di veder costui non son digiuno».                         42

Per ch’io a figurarlo i piedi affissi; 
e ’l dolce duca meco si ristette, 
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.                          45

E quel frustato celar si credette 
bassando ’l viso; ma poco li valse, 
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,                  48

se le fazion che porti non son false, 
Venedico se’ tu Caccianemico. 
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».                          51

Ed elli a me: «Mal volentier lo dico; 
ma sforzami la tua chiara favella, 
che mi fa sovvenir del mondo antico.                            54

I’ fui colui che la Ghisolabella 
condussi a far la voglia del marchese, 
come che suoni la sconcia novella.                               57

E non pur io qui piango bolognese; 
anzi n’è questo luogo tanto pieno, 
che tante lingue non son ora apprese                          60

a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno; 
e se di ciò vuoi fede o testimonio, 
rècati a mente il nostro avaro seno».                            63

Così parlando il percosse un demonio 
de la sua scuriada, e disse: «Via, 
ruffian! qui non son femmine da conio».                      66

I’ mi raggiunsi con la scorta mia; 
poscia con pochi passi divenimmo 
là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.                                   69

Assai leggeramente quel salimmo; 
e vòlti a destra su per la sua scheggia, 
da quelle cerchie etterne ci partimmo.                          72

Quando noi fummo là dov’el vaneggia 
di sotto per dar passo a li sferzati, 
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia                         75

lo viso in te di quest’altri mal nati, 
ai quali ancor non vedesti la faccia 
però che son con noi insieme andati».                         78

Del vecchio ponte guardavam la traccia 
che venìa verso noi da l’altra banda, 
e che la ferza similmente scaccia.                                 81

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda, 
mi disse: «Guarda quel grande che vene, 
e per dolor non par lagrime spanda:                             84

quanto aspetto reale ancor ritene! 
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno 
li Colchi del monton privati féne.                                     87

Ello passò per l’isola di Lenno, 
poi che l’ardite femmine spietate 
tutti li maschi loro a morte dienno.                                 90

Ivi con segni e con parole ornate 
Isifile ingannò, la giovinetta 
che prima avea tutte l’altre ingannate.                           93

Lasciolla quivi, gravida, soletta; 
tal colpa a tal martiro lui condanna; 
e anche di Medea si fa vendetta.                                    96

Con lui sen va chi da tal parte inganna: 
e questo basti de la prima valle 
sapere e di color che ’n sé assanna».                          99

Già eravam là ’ve lo stretto calle 
con l’argine secondo s’incrocicchia, 
e fa di quello ad un altr’arco spalle.                              102

Quindi sentimmo gente che si nicchia 
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, 
e sé medesma con le palme picchia.                          105

Le ripe eran grommate d’una muffa, 
per l’alito di giù che vi s’appasta, 
che con li occhi e col naso facea zuffa.                        108

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta 
loco a veder sanza montare al dosso 
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.                           111

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 
vidi gente attuffata in uno sterco 
che da li uman privadi parea mosso.                           114

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 
vidi un col capo sì di merda lordo, 
che non parea s’era laico o cherco.                              117

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo 
di riguardar più me che li altri brutti?». 
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,                               120

già t’ho veduto coi capelli asciutti, 
e se’ Alessio Interminei da Lucca: 
però t’adocchio più che li altri tutti».                              123

Ed elli allor, battendosi la zucca: 
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe 
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».                        126

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», 
mi disse «il viso un poco più avante, 
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe                    129

di quella sozza e scapigliata fante 
che là si graffia con l’unghie merdose, 
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.                         132

Taide è, la puttana che rispuose 
al drudo suo quando disse "Ho io grazie 
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". 

E quinci sien le nostre viste sazie».                             136

PARAFRASI

All'Inferno c'è un luogo chiamato Malebolge, tutto fatto in pietra del colore del ferro come la parete rocciosa che lo circonda.
Proprio nel mezzo della piana malefica si apre nel vuoto un pozzo molto largo e profondo, di cui a suo tempo spiegherò la conformazione.
Quella striscia che resta tra il pozzo e la parete rocciosa è dunque tonda ed è suddivisa in dieci valli (le Bolge).
Là dove molteplici fossati circondano i castelli per custodirne le mura, l'immagine che essi rendono è del tutto simile a quelle Bolge; e come in quelle fortezze ci sono dei ponticelli di legno che uniscono le loro soglie alla riva dei fossati, così dalla base della roccia partivano dei ponti di pietra che tagliavano trasversalmente gli argini e i fossati, fino al pozzo centrale che li interrompe e li riunisce.
Ci trovammo in questo luogo, una volta che Gerione ci ebbe deposti dalla sua schiena; e Virgilio si mosse verso sinistra, così io lo seguii.
Alla nostra destra vidi una nuova angoscia, una nuova pena e nuovi diavoli frustatori di cui la I Bolgia era piena.
I peccatori erano sul fondo della Bolgia, nudi; nella parte vicina all'orlo esterno del fossato camminavano verso di noi, in quella interna procedevano nella direzione opposta, ma più in fretta di noi,
come i Romani hanno trovato un modo per far passare la gente sul ponte (di Castel Sant'Angelo) nell'anno del Giubileo, a causa del grande afflusso (di pellegrini), i quali da un lato procedono verso San Pietro, dall'altra parte vanno verso il monte Giordano.
Da un lato e dall'altro in quella roccia scura vidi dei diavoli cornuti armati di frusta, che li percuotevano crudelmente sul fondoschiena.
Ah, come facevano loro levare le calcagna alle prime percosse! nessun dannato aspettava di essere colpito una seconda o una terza volta.
Mentre camminavo, il mio sguardo si incrociò con uno dei dannati; e io dissi subito: «Non è la prima volta che vedo costui».
Allora mi fermai per guardarlo meglio; e la mia dolce guida si fermò con me e acconsentì che tornassi un poco indietro.
E quel frustato pensò di nascondersi abbassando il viso, ma gli servì a poco perché io dissi: «O tu che abbassi lo sguardo a terra, se le tue fattezze non sono false tu sei Venedico Caccianemico. Ma quale peccato ti ha condotto a questa aspra pena?»
E lui a me: «Lo dico malvolentieri; ma mi spinge il tuo parlare chiaro, che mi fa ricordare del mondo terreno.
Io sono colui che condussi mia sorella Ghisolabella a soddisfare le voglie del marchese (Òbizzo d'Este), comunque si racconti questa sconcia notizia.
E non sono l'unico Bolognese a piangere qui; anzi, questa Bolgia ne è tanto piena che altrettante lingue non hanno ancora imparato a dire 'sipa' tra Sàvena e Reno; e se vuoi di ciò testimonianza sicura, pensa alla nostra indole avara».
Mentre parlava, un diavolo lo colpì col suo scudiscio e gli disse: «Va' via, ruffiano! Qui non ci sono donne di cui fare mercato».
Io mi ricongiunsi alla mia guida; dopo, in pochi passi, giungemmo al punto in cui un ponte di pietra usciva dalla roccia.
Salimmo su di esso molto facilmente; e rivolti verso destra ci allontanammo da quell'eterno girare, salendo lungo di esso.
Quando fummo là dove il ponte forma un vuoto per dare spazio ai frustati (nel punto più alto), il maestro disse: «Sta' attento e fa' in modo di figgere lo sguardo su questi altri dannati, di cui non hai ancora visto la faccia poiché procedevano nella nostra stessa direzione».
Da quell'antico ponte osservavamo la fila che veniva verso di noi dall'altra parte e che era spinta in modo simile dalle frustate.
E il buon maestro, senza chi io domandassi nulla, mi disse: «Guarda quel grande che avanza e che non sembra versare lacrime per il dolore:
quale aspetto regale conserva ancora! Quello è Giasone, che col coraggio e con l'astuzia privò i Colchi del vello d'oro.
Egli passò per l'isola di Lemno, dopo che le ardite e spietate donne avevano messo a morte tutti i loro uomini.
Qui, con gesti e parole eleganti, ingannò Isifile, la giovinetta che per prima aveva ingannato tutte le altre.
La lasciò qui, sola e incinta: questa colpa lo condanna a tale pena e viene punito anche per l'inganno ai danni di Medea.
Con lui procede chi inganna in questo modo: e ti basti sapere questo della I Bolgia e dei dannati che essa punisce».
Ormai eravamo giunti al punto in cui lo stretto ponte roccioso si congiunge con il secondo argine, da dove ne parte un altro.
Da qui sentimmo gente che si lamentava nell'altra Bolgia e che soffiava forte con naso e bocca, colpendosi con le sue stesse mani.
Le pareti della Bolgia erano incrostate da una muffa, per i miasmi che provengono dal basso e vi si attacca impastandosi, tali da provocare irritazione ad occhi e naso.
Il fondo era così scuro che non avevamo modo di vedere senza salire sul punto più alto dell'arco, dove il ponte sovrasta maggiormente il fossato.
Giungemmo qui e vidi sul fondo dannati immersi in uno sterco che sembrava uscito dalle latrine degli uomini.
E mentre scrutavo giù con lo sguardo, vidi un dannato che aveva il capo così pieno di escrementi che non si capiva se fosse chierico o laico (se avesse o meno la tonsura).
Quello mi gridò: «Perché ti attardi a guardare me più degli altri dannati?» E io a lui: «Perché, se ben ricordo, ti ho già visto coi capelli asciutti (da vivo) e sei Alessio Interminelli da Lucca: per questo ti fisso più di tutti gli altri».
E allora lui, colpendosi la testa, disse: «Mi hanno sommerso quaggiù le lusinghe di cui la mia lingua non fu mai stanca».
Dopodiché la mia guida mi disse: «Fa' in modo di spingere lo sguardo un po' più avanti, così che tu veda bene con l'occhio la faccia di quella donna sudicia e scapigliata che si graffia là con le unghie piene di sterco, e ora si china sulle cosce e ora è in piedi.
È Taide, la prostituta che al suo amante, quando le chiese "Ho io grandi meriti presso di te?, rispose: "Anzi, grandissimi!" E di questo siano soddisfatti i nostri sguardi».

GIASONE

Giasone è una figura della mitologia greca. Figlio del re di Iolco, Esone, e sposo della maga Medea, è noto per essere stato a capo della spedizione degli Argonauti, finalizzata alla conquista del vello d'oro. Volendo riconquistare il trono di Iolco usurpato al padre Esone dal fratellastro Pelia, Giasone dovrà andare alla conquista del vello d'oro, la pelle dell'ariete dorato che si trova nella Colchide presso il re Eeta, a capo di un gruppo di eroi, gli Argonauti, che formano l'equipaggio della nave Argo. Grazie all'aiuto della maga Medea, figlia di Eeta, riuscirà nell'impresa e, dopo le molte peripezie che caratterizzeranno tutto il viaggio, tornerà a Iolco per reclamare il trono che fu del padre. Morirà trovandosi sulla stessa Argo.
Pelia, figlio del dio del mare Poseidone e di Tiro (madre anche di Esone e quindi suo fratellastro), era assetato di potere e ambiva a dominare l'intera Tessaglia. Dopo un'aspra contesa detronizzò Esone, uccidendo tutti i suoi discendenti, ma Alcimede, moglie di Esone, che aveva appena avuto un piccolo di nome Giasone, lo salvò da Pelia, facendo raggruppare le donne intorno al neonato e facendole piangere per far credere che il bambino fosse nato morto. Alcimede mandò il figlio dal centauro Chirone perché badasse alla sua educazione e per sottrarlo alla violenza di Pelia; questi, sempre timoroso che qualcuno potesse usurpargli il trono, consultò un oracolo che lo avvertì di stare attento all'uomo con un solo sandalo. Molti anni dopo, mentre a Iolco si tenevano dei giochi in onore di Poseidone, arrivò Giasone, che perse uno dei sandali nel fiume Anauro mentre aiutava un'anziana (che era in realtà la dea Era travestita) ad attraversarlo; la donna lo benedisse perché sapeva cosa Pelia gli avrebbe riservato. Quando entrò nella città (l'odierna Volos) fu annunciato come l'uomo con un solo sandalo: Giasone reclamò il trono del padre, ma Pelia gli disse che l'avrebbe ottenuto solo dopo aver conquistato il vello d'oro. Giasone accettò la sfida. Giasone radunò un gruppo di eroi, noti con l'appellativo di Argonauti dal nome della nave Argo, tra cui figuravano Calaide e Zete, figli di Borea e capaci di volare, Eracle, Ila, Meleagro, Filottete, Peleo, Telamone, Orfeo, Castore e Polluce, Idmone e Mopso, Issione ed Eufemo. L'isola di Lemno, situata al largo della costa occidentale dell'Asia Minore, era abitata da donne che avevano ucciso i loro mariti: esse avevano trascurato di venerare Afrodite, la quale le aveva punite rendendole maleodoranti al punto da essere ripudiate dai maschi dell'isola. Gli uomini si erano allora legati a delle concubine provenienti dalla prospiciente terraferma, la Tracia, e le donne, furibonde, uccisero tutti i maschi mentre dormivano. Il re Toante venne salvato dalla figlia Ipsipile, che lo fece fuggire su una piccola nave, e le donne di Lemno vissero per qualche tempo senza uomini con Ipsipile come loro regina. Durante la visita degli Argonauti, le donne si unirono con loro creando una nuova razza denominata Mini: lo stesso Giasone divenne padre di due gemelli avuti dalla regina. Eracle li spinse a ripartireopo Lemno gli Argonauti approdarono nella terra abitata dai Dolioni, venendo amichevolmente accolti dal loro giovanissimo re Cizico, che era figlio di un amico defunto di Eracle. Poi ripartirono ma persero l'orientamento, riapprodando nuovamente nello stesso luogo in una notte senza luna; ciò fece sì che Dolioni e Argonauti non si riconoscessero. Cizico e i suoi uomini scambiarono gli Argonauti per pirati e li assalirono ma ebbero la peggio e tra le vittime ci furono lo stesso re e il grande guerriero Artace. Solo all'alba gli Argonauti si resero conto del terribile errore che avevano commesso e non rimase altro da fare che seppellire i Dolioni morti. Clite, la moglie di Cizico, si suicidò per il dolore. Quando gli Argonauti giunsero nella Misia, alcuni di essi, tra cui Eracle e il suo servo Ila, andarono in perlustrazione alla ricerca di cibo e acqua. Le ninfe, che abitavano il corso d'acqua da dove si stava rifornendo Ila, furono attratte dal suo bell'aspetto e lo attirarono nel fiume. Eracle udì le sue grida di aiuto e si mise a cercarlo: era così intento nella ricerca che lasciò che gli Argonauti ripartissero senza di loro. Giasone giunse quindi alla corte di Finea nella Tracia dove Zeus mandava le Arpie, donne alate, a rubare ogni giorno il cibo del re. Giasone ebbe pietà dello scheletrico sovrano e uccise le Arpie al loro arrivo; in altre versioni, Calaide e Zete le scacciarono. In cambio del favore Finea rivelò a Giasone la posizione della Colchide e come superare le Simplegadi, isole in perenne collisione. Gli Argonauti ripresero dunque il loro cammino. L'unico modo per raggiungere la Colchide era quello di passare attraverso le Simplegadi, enormi scogli in perenne collisione che stritolavano tutto ciò che passasse attraverso loro. Fineo aveva raccomandato a Giasone di liberare una colomba mentre si avvicinavano a queste isole: se la colomba fosse riuscita a passare avrebbero dovuto remare con tutte le loro forze, mentre se fosse stata stritolata la sorte della spedizione sarebbe stata destinata al fallimento. Giasone liberò la colomba, che riuscì a passare perdendo solo qualche piuma dalla coda: gli Argonauti allora remarono con tutte le loro forze, riuscendo a passare e riportando solo un lieve danno alla poppa della nave. Da quel momento le isole in collisione rimasero unite per sempre, lasciando libero il passaggio. Giasone arrivò nella Colchide (sull'attuale costa georgiana del Mar Nero) per conquistare il vello d'oro, che il re Eeta aveva avuto da Frisso. Eeta promise di darlo a Giasone a patto di superare tre prove, ma una volta saputo di cosa si trattava Giasone si disperò. Era ne parlò con Afrodite, la quale chiese al figlio Eros di far innamorare di Giasone la figlia di Eeta, Medea, così da aiutarlo. Nella prima Giasone doveva arare un campo facendo uso di due tori dalle unghie di bronzo che spiravano fiamme dalle narici e che doveva aggiogare all'aratro. Medea gli diede una pomata che lo protesse dalle fiamme dei tori, consentendogli di superare la prova. Nella seconda Giasone doveva seminare nel campo appena arato i denti di un drago, i quali, germogliando, generavano un'armata di guerrieri. Ancora una volta Medea istruì Giasone su come poteva fare per avere la meglio: egli lanciò un sasso in mezzo ai guerrieri che, incapaci di capirne la provenienza, si attaccarono tra di loro annientandosi. Nella terza Giasone doveva sconfiggere il drago insonne che era a guardia del vello d'oro. Gli spruzzò una pozione ricavata da alcune erbe, datagli sempre da Medea: il drago si addormentò ed egli poté conquistare il vello d'oro. Giasone scappò con l'Argo insieme a Medea, che aveva rapito il fratellino Apsirto. Inseguiti da Eeta, Medea uccise il fratello, lo fece a pezzi e lo gettò in acqua: Eeta si fermò a raccoglierli, perdendo di vista la Argo. Sulla via del ritorno Medea profetizzò ad Eufemo, timoniere dell'Argo, che egli un giorno avrebbe regnato sulla Libia, cosa che si verificò attraverso un suo discendente, Battus. Zeus, per punirli dell'uccisione di Apsirto, inviò una serie di tempeste che mandarono fuori rotta l'Argo: quest'ultima parlò e disse che dovevano purificarsi recandosi da Circe, una ninfa che viveva sull'isola di Eea. Una volta purificati, gli Argonauti ripresero il viaggio verso casa. Chirone aveva raccontato a Giasone che senza l'aiuto di Orfeo gli Argonauti non sarebbero riusciti a superare il luogo abitato dalle sirene, le stesse incontrate da Ulisse. Le Sirene vivevano su tre piccoli isolotti rocciosi e cantavano bellissime melodie che attiravano i naviganti, facendoli schiantare contro gli scogli. Appena Orfeo sentì le loro voci prese la lira e suonò delle melodie ancora più belle e più forti di quelle delle sirene, surclassandole. La Argo arrivò quindi nell'isola di Creta, protetta dal gigante di bronzo Talo. Quando la nave cercava di avvicinarsi, Talo scagliava enormi sassi, tenendola alla larga. Il gigante aveva una vena che partiva dal collo e arrivava alla caviglia, tenuta chiusa da un chiodo di bronzo. Medea gli fece un incantesimo: Talo impazzì e rimosse il chiodo, facendo fuoriuscire sangue dall'unica vena, e morì dissanguato. L'Argo poté riprendere il suo cammino. Medea, usando i suoi poteri magici, convinse le figlie di Pelia che lei era in grado di ringiovanirne il padre tagliandolo a pezzi e bollendolo in un calderone pieno di acqua e erbe magiche. Per dimostrare le sue capacità, Medea operò questa magia su un agnello, che saltò fuori dal calderone. Le ragazze, molto ingenuamente, fecero a pezzi il padre, mettendolo nel calderone e condannandolo così alla morte, dal momento che Medea non aggiunse le erbe magiche. Il figlio di Pelia, Acasto, mandò in esilio Giasone e Medea per l'uccisione del padre e i due si stabilirono a Corinto. Giasone si innamorò di Glauce (citata anche come Creusa) figlia del re Creonte e la sposò. Quando Medea gli rinfacciò la sua ingratitudine, Giasone replicò che non era lei che doveva ringraziare bensì Afrodite che l'aveva fatta innamorare di lui. Inferocita con Giasone per essere venuto meno alla promessa di amore eterno, Medea si vendicò dando a Glauce un vestito incantato come dono di nozze e che prese fuoco facendola morire insieme al padre accorso in suo aiuto e uccidendo, inoltre, Mermero e Fere, i due figli che la stessa Medea aveva avuto da Giasone. Quando quest'ultimo venne a saperlo, Medea era già andata via, in volo verso Atene su un carro mandatole dal nonno, il dio del sole Elio. In seguito Giasone con l'aiuto di Peleo (il padre di Achille), attaccò e sconfisse Acasto, riconquistando il trono di Iolco. Avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, Giasone perse i favori della dea Era e morì solo e infelice. Mentre dormiva a poppa della ormai fatiscente Argo, rimase ucciso all'istante da un suo cedimento: fu questa la maledizione degli dei per essere venuto meno alla parola data. Secondo una variante l'eroe morì di crepacuore dopo aver appreso la notizia dell'uccisione dei figlioletti.

VENEDICO CACCIANEMICO

Venedico "Caccianemico" dell'Orso (Bologna, 1228 – 1302). Tra i maggiori esponenti della fazione guelfa della sua città fu a capo della consorteria dei Geremei. Con il padre Alberto dell'Orso fu molto attivo nella politica interna cittadina e nel 1274 riuscì a sconfiggere la fazione dei ghibellini, capeggiati dalla famiglia Lambertazzi facendo esiliare i suoi capi. Ricoprì numerosi incarichi politici e subì a sua volta l'esilio due volte (1287 e 1289). Fu sempre favorevole agli Este, marchesi di Ferrara, accondiscendendo alle loro mire su Bologna sperando di poterne ottenere favori politici. Nel 1294 fece sposare suo figlio Lambertino con la figlia del Marchese Azzo VIII d'Este, Costanza. Dopo aver ricoperto la carica di podestà in varie città, nel 1301, già parecchio anziano, venne di nuovo esiliato e morì forse nel 1302 o nel 1303. Egli è citato da Dante Alighieri nell'Inferno tra i ruffiani, costretto a girare in eterno in una bolgia tra i fraudolenti sotto le scudisciate dei demòni cornuti: Dante allude a una sconcia novella che doveva all'epoca essere molto conosciuta sebbene non se ne trovi tracce in fonti d'archivio anteriori a Dante (forse anche per l'importanza di Venedico). Con una certa infamia verso il suo personaggio (che cerca di nascondere la sua faccia per non venire riconosciuto), Dante narra del mercimonio di sua sorella Ghisolabella condotta a far la voglia del marchese. Il Marchese è sicuramente quello di Ferrara, dal quale Venedico cercava in tutti i modi di ottenere favori, ma non è chiaro se si trattasse di Obizzo II d'Este o di Azzo VIII. Dante, che immagina di compiere il suo viaggio nell'Oltretomba nella primavera del 1300, non era a conoscenza che allora Venedico era ancora vivo e sarebbe morto solo alcuni anni dopo. Dante gli fa anche pronunciare una cruda invettiva contro i bolognesi dall'"avaro seno", secondo la quale essi sarebbero più numerosi nella bolgia dei ruffiani che nel mondo dei vivi. L'accusa di Dante è particolarmente coraggiosa se si pensa che quando scriveva la Divina Commedia era un esule e che inimicarsi una città che l'avrebbe potuto ospitare come Bologna non era certo una scelta facile.

ALESSIO INTERMINELLI

Alessio Interminelli o Interminei - come lo chiama Dante - fu un nobile lucchese vissuto nel XIII secolo. Appartenente a una famiglia di parte guelfa e bianca (detta anche degli Antelminelli, signori dell omonimo paese di Coreglia Antelminelli in Garfagnana e proprietari dell'omonimo palazzo in pieno centro di Lucca sede oggi di uffici pubblici), su di lui si hanno scarse notizie storiche. L'ultimo documento che lo cita in vita risale al 1295. Dante Alighieri lo cita tra gli adulatori, tremendamente sommerso di letame fino alla testa. Il poeta si sofferma a guardarlo credendo di riconoscere qualcuno e, quando il dannato protesta perché viene fissato, il poeta esclama il suo nome completo usando un intero verso. Sulla sua attività di adulatore i chiosatori antichi parafrasano più o meno ampiamente il testo dantesco, che dedica due soli versi alla vicenda: «Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe / ond'io non ebbi mai la lingua stucca» il che suona come "mi trovo all'Inferno per via delle lusinghe che mai stancarono la mia lingua.

TAIDE

Taide è un personaggio della commedia dell'Eunuchus di Terenzio, citata anche da Cicerone, da Dante Alighieri nonché da Jorge Luis Borges (nell'opera intitolata "L'Aleph", nel racconto "Lo Zahir"). Nell'Eunuchus ella era una prostituta amante del soldato Trasone. Nella prima scena del III atto il soldato chiede al mezzano della donna, Gnatone, se ella avesse gradito il dono di una schiava. Alla questione se Taide lo ringraziasse ha in risposta "Ingentes" cioè "moltissimo". Questo episodio venne ripreso da Cicerone nel De amicitia, indicandolo come un palese esempio di adulazione, poiché alla domanda alla quale bastava rispondere con un sì venne data una risposta spropositata. Dante prese questo passo di Cicerone come fonte per descrivere Taide fraintendendo il senso del discorso e attribuendo a Taide stessa la frase adulatoria. L'equivoco in cui incorre il poeta ha dimostrato con esattezza la fonte dantesca. Infatti, nella scarna citazione ciceroniana, il nominativo (Taide mi ringrazia molto vero?) poteva essere scambiato per un vocativo (Oh Taide, mi ringrazi molto vero?). L'indicazione della donna quale una "puttana", che non si rinviene nel passo ciceroniano, Dante può averla attinta dalla lettura del Liber Esopi. In questo senso il poeta riprende abbastanza pedissequamente l'esempio ciceroniano di adulazione. Il linguaggio usato nell'episodio di Taide è tra i più bassi della Commedia, con parolacce, termini rozzi e parole popolaresche o dialettali, che tutto sommato il poeta riesce a trasformare in una poesia di grande vitalità, che ben si adatta ai peccatori "animaleschi" del girone dei fraudolenti. «[...] quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora è in piedi stante. Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi appo te?": "Anzi maravigliose!"» Taide è la prima peccatrice donna citata dal II cerchio (dopo Francesca da Rimini) ed è inoltre l'unica prostituta dell'Inferno.

Video HD https://www.youtube.com/watch?v=x4EWTWdpuo4

Gassman https://www.youtube.com/watch?v=QTJvOr0N_RY

Eugenio Caruso - 15-08-2019

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