Inferno, Canto XXIX. I seminatori di discordie

COMMENTO DEL CANTO XXIX

Ancora nella IX Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i seminatori di discordie. Virgilio rimprovera Dante, poi gli indica Geri del Bello tra i dannati della Bolgia. Passaggio alla X Bolgia, in cui sono puniti i falsari. Incontro con gli alchimisti, tra cui Griffolino d'Arezzo e Capocchio. È il pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso le tredici.
La visione della IX Bolgia dell'VIII Cerchio ha commosso Dante alle lacrime, per cui Virgilio lo rimprovera e gli ricorda che il suo atteggiamento è stato diverso nelle altre Bolge, aggiungendo che sono le due del pomeriggio ed è tempo di procedere. Dante si scusa asserendo che tra i seminatori di discordie ci dovrebbe essere un membro della sua famiglia. Il maestro gli dice che mentre Dante stava parlando con Bertram del Bornio, un dannato lo aveva indicato minacciosamente col dito e gli altri lo avevano chiamato Geri del Bello. Dante spiega che costui gli rimprovera il fatto che la sua morte violenta non è stata ancora vendicata da un membro della sua consorteria, perciò se ne è andato senza rivolgergli la parola. Mentre i due poeti parlano, raggiungono il ponte che sovrasta la X e ultima Bolgia.
Quando i due poeti arrivano sul ponte, Dante sente provenire dal basso dei lamenti così pietosi da doversi tappare le orecchie con le mani. Se tra luglio e settembre dagli ospedali della Valdichiana, di Maremma e della Saredegna si mettessero insieme tutti i malati, tale sarebbe lo spettacolo e il puzzo di membra in cancrena che fuoriesce dalla Bolgia. I due poeti scendono sull'argine e da lì Dante può vedere il fondo, dove sono puniti i falsari di metalli (alchimisti). La pestilenza di Egina, quando l'intera popolazione fu sterminata e il paese fu ripopolato con le formiche, non fu più grave dello sgradevole spettacolo della fossa in cui i dannati languono preda di varie malattie. Essi giacciono sul ventre e sulle spalle l'uno dell'altro, alcuni sono sdraiati e altri avanzano carponi. I due poeti procedono e osservano in silenzio i dannati, che non si possono muovere.
Dante vede due dannati che siedono appoggiati l'uno all'altro, tutti coperti di croste e di scabbia; entrambi si grattano con violenza per il tremendo prurito, come uno stalliere che striglia con forza un cavallo, e levano via le croste come un coltello che squama una scardova o un pesce simile. Virgilio si rivolge a uno di loro e gli chiede se fra i compagni di pena ci siano degli italiani, augurandogli che le unghie gli bastino per l'eternità a grattarsi. Il dannato risponde che sia lui sia il compagno cui è appoggiato sono originari dell'Italia, chiedendo a sua volta al poeta chi sia lui. Virgilio spiega che sta guidando Dante, ancor vivo, attraverso l'Inferno e a quel punto i due peccatori si staccano l'uno dall'altro e fissano Dante stralunati. Virigilio invita il discepolo a rivolgersi ai due dannati e Dante chiede loro chi siano, affinché possa portare notizie di loro sulla Terra. Uno dei due si presenta come Griffolino d'Arezzo, condannato al rogo da Albero da Siena non per il peccato che sconta all'Inferno, ovvero l'alchimia, ma perché scherzando gli aveva detto di saper volare. Albero gli aveva ordinato di mostrargli se fosse vero, e poiché Griffolino non c'era riuscito il nobile senese aveva chiesto al vescovo della città, che lo considerava come suo figlio, di bruciarlo come eretico. Egli però è stato destinato alla X Bolgia da Minosse, cui non è lecito sbagliare, in quanto ha praticato l'alchimia.
Dante prende spunto dalle parole di Griffolino e osserva con Virgilio che i senesi sono un popolo di incredibile vanità, maggiore persino di quella dei francesi. L'altro dannato lo sente e afferma ironicamente che tra gli abitanti di Siena devono essere salvati alcuni personaggi, tra i quali Stricca dei Salimbeni, che si diede a spese pazze, suo fratello Niccolò, che introdusse in cucina l'uso dei chiodi di garofano, e tutta la cosiddetta «brigata spendereccia», di cui fecero parte Caccianemico degli Scialenghi e Bartolomeo dei Folcacchieri (detto l'Abbagliato). Il dannato si presenta poi come Capocchio di Siena, che fu falsatore di metalli tramite l'alchimia, e Dante dovrebbe riconoscerlo come buon imitatore della natura.
Interpretazione complessiva
Il Canto si divide in due parti, la prima delle quali (più breve) è dedicata ancora ai seminatori di discordie della IX Bolgia, fra i quali Dante include Geri del Bello. L'episodio si apre con un rimprovero di Virgilio al discepolo che si attarda a osservare la Bolgia e ha le lacrime agli occhi, diversamente da quanto ha fatto negli altri luoghi del Cerchio: il rimbrotto anticipa quello, decisamente più aspro, che il maestro rivolgerà a Dante alla fine del Canto XXX per aver assistito alla volgare rissa tra Sinone e Mastro Adamo, mentre in questo caso Dante può giustificarsi con la presenza tra i dannati del suo lontano parente Geri del Bello.
Questi imputa a lui e ai membri della sua famiglia di non aver ancora vendicato la sua uccisione, cosa di cui Dante si mostra consapevole; il tema si ricollega a quello delle vendette e degli odi tra le consorterie, che era stato affrontato nel Canto precedente con la figura di Mosca dei Lamberti (il quale era dannato proprio per aver ordinato l'uccisione di un nemico del suo clan, foriera di gravi conseguenze per Firenze e la sua famiglia). La risposta di Virgilio a Dante è perentoria ed è un invito a non preoccuparsi del dannato, a lasciarlo dove si trova e passare oltre: una frase che ricorda quella sugli ignavi di Inf., III, 46-51 e che chiude in modo brusco l'episodio, con la condanna implicita delle vendette familiari che portano solo una scia di sangue e lacerazioni insanabili, come la presenza all'Inferno di Geri e Mosca dimostra chiaramente. Va ricordato che nella famosa «tenzone» con Forese Donati, l'amico-rivale con cui Dante aveva scambiato alcuni sonetti ingiuriosi, il poeta era stato accusato di non aver vendicato il padre da un imprecisato oltraggio, mentre qui ogni insinuazione di viltà è respinta e le vendette private vengono condannate in quanto contrarie ai principi religiosi, anche se imposte dal costume sociale del tempo.
La seconda parte del Canto, decisamente più ampia, ci mostra la X e ultima Bolgia, in cui a essere puniti sono i falsari (divisi in varie tipologie: qui appaiono gli alchimisti, ovvero coloro che hanno falsificato i metalli). La loro pena consiste nell'essere preda di fastidiose e ripugnanti malattie, con un contrappasso non del tutto chiaro; dalla Bolgia si leva un gran puzzo accompagnato a lamenti pietosi, e per descrivere l'orribile spettacolo dei corpi dei dannati rosi dalla scabbia e da altre malattie il poeta ricorre a due similitudini, una tratta dal mondo contemporaneo (gli ospedali della Valdichiana e di altre zone paludose dove, nei mesi estivi, si raccolgono i malati di malaria) e l'altra dal mito classico (la pestilenza di Egina, scatenata da Giunone per la gelosia verso la ninfa amata da Giove e che fece strage degli abitanti dell'isola).
Questo alternarsi di riferimenti all'attualità e al mito proseguirà anche nel Canto successivo, con un continuo passaggio da uno stile retoricamente elevato a toni più popolari e comico-realistici, culminanti nel volgare alterco tra Sinone e Mastro Adamo che chiuderà il Canto XXX. Anche qui la descrizione della scabbia che ricopre i corpi di Griffolino e Capocchio fa ampio uso di similitudini realistiche, dallo stalliere che striglia i cavalli e ricorda il modo in cui i due si grattano per placare il tremendo prurito, al coltello che toglie le squame della scardova (e i dannati sono paragonati a due tegami appoggiati l'un l'altro sul fuoco, con un'immagine quotidiana e culinaria). Anche le rime sono difficili e i suoni aspri, come nella migliore tradizione della poesia comica (tegghia, segnorso, scabbia, scaglie, tanaglie).
Il tono è realistico anche nel successivo discorso, con Griffolino che ricorda il motivo grottesco per cui Albero da Siena lo ha mandato a morte (un'ingenua beffa che si è trasformata in tragedia per la stupidità del nobile) e Capocchio che risponde in modo sarcastico a Dante affermando che tra i Senesi, la cui vanità è proverbiale, devono essere salvati alcuni personaggi che in realtà sono campioni di frivolezza.
Il discorso di Capocchio è simile a quello dei Malebranche riguardo a Bonturo Dati e ai barattieri di Lucca, elencando una serie di personaggi noti per aver fatto parte della cosiddetta «brigata spendereccia»: una combriccola di dodici giovani di Siena che si diedero a folli spese e che in due anni avrebbero dilapidato l'incredibile somma di 216.000 fiorini. È inutile discutere, come pure si è fatto, se tale brigata sia la stessa cantata da Folgòre da San Gimignano e a capo della quale era un certo Nicolò di Nisi che potrebbe essere lo stesso citato in questi versi: Dante condanna chiaramente la condotta di questi personaggi che scialacquarono i loro averi, il che non ha nulla a che fare con la liberalità e la cortesia altre volte esaltate nelle Rime e nel poema (specie nel discorso di Guido del Duca, in Purg., XIV, 91 ss.). La condanna delle folli spese ricorda naturalmente gli scialacquatori del Canto XIII, ma si riallaccia anche al discorso relativo al denaro e all'aspetto mercantile della civiltà comunale, a più riprese condannato da Dante: il tema anticipa quello dei falsari di monete che appariranno nel Canto seguente e che hanno agito, non diversamente dagli alchimisti, spinti dall'avarizia e dalla cupidigia che hanno profondamente corrotto la vita dei Comuni del Trecento.
Note e passi controversi
Il termine inebriate (v. 2) vuol dire probabilmente «piene di lacrime» ed è calco biblico (Is., XVI, 9: inebriabo te lacrima mea). Il verbo si soffolge (v. 5) è di significato controverso e vuol dire probabilmente «continua», «persiste» (forse dal lat. suffulcire, «puntellare»). Nel v. 10 Virgilio indica che la luna è sotto i loro piedi, quindi il sole è allo zenit, sul meridiano di Gerusalemme; poiché il plenilunio è avvenuto due giorni prima (Inf., XX, 127) vuol dire che sono circa le due del pomeriggio del sabato santo. Il viaggio attraverso l'Inferno dura in tutto circa 24 ore. Al v. 28 impedito vale «impegnato» (ad ascoltare Bertran de Born, che fu signore del castello di Hautefort, Altaforte). La Valdichiana, la Maremma e la Sardegna (vv. 46-48) erano zone paludose nel Medioevo, dove la malaria era endemica (il periodo estivo era quello di maggior virulenza del male). Il v. 57 (punisce i falsador che qui registra) indica che la giustizia divina annota nel suo libro i falsari quando peccano qui, sulla Terra. La similitudine dei vv. 58-66 è tratta dalle Metamorfosi di Ovidio (VII, 523 ss.) e si riferisce alla terribile pestilenza scatenata da Giunone nell'isola di Egina, per la gelosia verso la ninfa amata da Giove che aveva dato nome a quel luogo. Sopravvisse solo il re Eaco, che ottenne da Giove di ripopolare il paese trasformando le formiche in uomini, che furono poi chiamati Mirmidoni. Le schianze di cui sono coperti i due dannati (v. 75) sono le croste della scabbia. La scardova è un pesce d'acqua dolce della famiglia dei Ciprinidi, dalle squame larghe e spesse. La vanità dei Senesi cui accenna Dante (vv. 121-123) doveva essere proverbiale e vi fa riferimento anche Sapìa in Purg., XIII, 151-153. I vv. 127-129 si riferiscono all'uso dei chiodi di garofano per insaporire le vivande arrostite, introdotto a Siena da Niccolò dei Salimbeni, che secondo alcune testimonianze usava addirittura cuocere la cacciagione sulla brace di questa spezia molto costosa. L'orto è certamente Siena, dove tale pianta attecchisce. Alcuni mss. al v. 131 leggono fronda, che è lezione più facile di quella a testo (fonda, nel senso di «terreno arato» oppure di «borsa»). Al v. 139 di natura vuol dire probabilmente «della natura», intendendo che Capocchio fu abile imitatore di questa; altri intendono «per natura».

TESTO DEL CANTO

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.   3

Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate?   6

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.   9

E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».   12

«Se tu avessi», rispuos’io appresso,
«atteso a la cagion per ch’io guardava,
forse m’avresti ancor lo star dimesso».   15

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava   18

dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».   21

Allor disse ’l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;   24

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.   27

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».   30

«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss’io,
«per alcun che de l’onta sia consorte,   33

fece lui disdegnoso; ond’el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ïo estimo:
e in ciò m’ ha el fatto a sé più pio».   36

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.   39

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,   42

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’io li orecchi con le man copersi.   45

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali   48

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.   51

Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva   54

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.   57

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia,   60

che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,   63

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.   66

Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.   69

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.   72

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;   75

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,   78

come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;   81

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.   84

«O tu che con le dita ti dismaglie»,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
«e che fai d’esse talvolta tanaglie,   87

dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».   90

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose l’un piangendo;
«ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».   93

E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».   96

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.   99

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch’ei volse:   102

«Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,   105

ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».   108

«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,
rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.   111

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,   114

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.   117

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».   120

E io dissi al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!».   123

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: «Tra’ mene Stricca
che seppe far le temperate spese,   126

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;   129

e tra’ ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.   132

Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:   135

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,   138

com’io fui di natura buona scimia».

PARAFRASI DEL TESTO

I molti dannati e le orribili piaghe avevano riempito di lacrime i miei occhi, al punto che desideravano mettersi a piangere.

Ma Virgilio mi disse: «Perché continui a guardare? perché il tuo sguardo si sofferma laggiù, tra le anime mutilate?

Tu non hai fatto così nelle altre Bolge; nel caso volessi contarle, pensa che la circonferenza della voragine qui è di ventidue miglia.

E la luna è ormai sotto i nostri piedi: il tempo che ci è concesso è poco e tu devi ancora vedere dell'altro».

Io risposi subito dopo: «Se tu avessi saputo la ragione per cui  guardavo, forse mi avresti concesso di trattenermi ancora».

Intanto la mia guida se ne andava e io lo seguivo, continuando a rispondere e aggiungendo: «Dentro quella fossa dove poco fa tenevo fissi gli occhi, credo che uno spirito mio consanguineo espii la colpa che laggiù si sconta tanto gravemente».

Allora il maestro disse: «Il tuo pensiero non si tormenti, d'ora in avanti, su di lui. Pensa ad altro, e quello rimanga dov'è;

infatti io lo vidi ai piedi del ponte che ti indicava col dito, e ti minacciava, e sentii che lo chiamavano Geri del Bello.

Allora tu eri a tal punto impegnato ad ascoltare Bertran de Born, colui che tenne il castello di Hautefort, che non guardasti verso di lui finché se ne fu andato».

Io dissi: «O mio maestro, la sua morte violenta che non è ancora stata vendicata da nessuno che, in quanto membro della sua consorteria, ne condivida l'onta, lo rese disdegnoso; ecco perché se ne andò senza parlarmi, come io credo: e questo mi ha reso più pietoso verso di lui».

Parlammo così fino al primo punto del ponte da cui si vedrebbe tutta l'altra Bolgia fino in fondo, se solo ci fosse più luce.

Quando giungemmo sopra l'ultima fossa delle Malebolge, così che i suoi dannati potevano essere visti da noi, vari lamenti che inducevano alla pietà mi colpirono e mi spinsero a tapparmi le orecchie con le mani.

Se dagli ospedali della Valdichiana, di Maremma e di Sardegna tra luglio e settembre si radunassero tutti i malati in un sol luogo, si vedrebbe una sofferenza simile a quella che c'era nella Bolgia e il puzzo che ne usciva era simile a quello delle membra in putrefazione.

Noi scendemmo sull'ultimo argine del lungo ponte, sempre procedendo a sinistra; e allora il mio sguardo si poté indirizzare sul fondo, dove la giustizia divina, infallibile ministra di Dio, punisce i falsari che annota sulla Terra quando peccano.

A Egina, quando l'aria fu talmente satura di peste che tutti gli animali furono uccisi sino al più piccolo verme, e le genti antiche, secondo la testimonianza dei poeti, si ripopolarono con le formiche, non credo che la visione di tutto il popolo ammalato fosse più triste di quella dell'oscura fossa, dove gli spiriti languivano ammassati in mucchi.

Giacevano l'uno sull'altro, sul ventre e sulle spalle, e alcuni avanzavano carponi in quel triste luogo.

Noi procedevano a passi lenti senza parlare, guardando e ascoltando gli ammalati che non potevano alzarsi.

Io ne vidi due che sedevano appoggiati l'uno all'altro, come si mettono due tegami sul fuoco, coperti di croste dalla testa ai piedi;

e non vidi mai un garzone atteso dal suo signore, o uno stalliere che veglia malvolentieri, usare la striglia come ognuno di loro usava le unghie su di sé per la smania del pizzicore, che non aveva altro sollievo;

e si toglievano la scabbia con le unghie come un coltello toglie le squame della scardova, o di un altro pesce che le abbia più larghe.

Il mio maestro iniziò a dire a uno di loro: «O tu che ti scrosti con le dita, e che le usi talvolta come tenaglie,

dicci se tra questi dannati qui dentro ci sono Italiani, e possano le unghie bastarti in eterno per questo lavoro».

Uno dei due rispose piangendo: «Siamo entrambi italiani, che tu vedi qui così deturpati; ma tu chi sei, che ci domandi queste cose?»

E il maestro rispose: «Io sono uno che scendo con questo vivo di Cerchio in Cerchio e il mio scopo è mostrargli l'Inferno».

Allora i due smisero di appoggiarsi a vicenda e, tremando, ognuno di loro si rivolse a me, insieme ad altri che udirono la cosa indirettamente.

Il buon maestro si avvicinò a me e disse: «Di' a loro quello che vuoi»; e io iniziai a parlare, poiché così voleva:

«Possa il vostro ricordo non scomparire dalle menti umane nel mondo, ma invece sopravvivere per molti anni;

ditemi chi siete e da dove venite; la vostra pena orribile e fastidiosa non vi dia timore a presentarvi a me».

Uno rispose: «Io fui di Arezzo e Albero da Siena mi condannò la rogo; ma ciò per cui io morii non è la colpa che mi porta qui.

È pur vero che io gli dissi scherzando: "Saprei levarmi in aria in volo"; e quello, che era capriccioso e aveva poco senno, volle che io gli mostrassi quell'arte; e solo per il fatto che non mi tramutai in Dedalo, mi fece bruciare da un tale (il vescovo senese) che lo considerava suo figlio.

Ma Minosse, a cui non è lecito sbagliare, mi condannò nell'ultima delle dieci Bolge per l'alchimia che praticai nel mondo».

E io dissi a Virgilio: «SI è mai visto un popolo sciocco e frivolo come quello senese? Certo non lo è maggiormente quello francese!»

Allora l'altro lebbroso, che mi sentì, rispose alle mie parole: «Escludi Stricca (dei Salimbeni), che seppe fare spese moderate, e Niccolò che per primo scoprì l'uso costoso dei chiodi di garofano nell'orto (Siena) dove questo seme attecchisce;

ed escludi la brigata (spendereccia) nella quale Caccia d'Asciano dissipò la vigna e i vasti poderi, e in cui l'Abbagliato dimostrò il suo senno.

Ma affinché tu sappia chi ti asseconda così sui Senesi, aguzza gli occhi verso di me, così che tu riconosca il mio volto:

allora vedrai che sono l'anima di Capocchio, che falsificai i metalli con l'alchimia; e ti devi ricordare, se ben ti riconosco, come io fui buon imitatore della natura».

GERI DEL BELLO

Figlio di Bello e cugino di Alighiero II, il padre di Dante, di lui si hanno menzioni in documenti del 1266 e del 1276. Venne inoltre processato in contumacia a Prato per rissa e percosse nel 1280. Dante dice che fu ucciso e che la sua morte, all'epoca del viaggio ultraterreno (settimana santa del 1300) non era ancora stata vendicata. Non si hanno fonti documentali di questo assassinio, ma i figli di Dante, nel commento all'opera paterna, indicarono come fosse responsabile dell'omicidio un componente della famiglia Sacchetti (un tale Brodaio Sacchetti) e che il suo omicidio non fu vendicato privatamente (secondo l'uso ampiamente tollerato dai regolamenti comunali dell'epoca) fino al 1310 circa, mentre risale al 1342 un documento di pacificazione tra gli Alighieri e i Sacchetti. Dante lo pose tra i seminatori di discordia nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, ma non lo incontrò: nella narrazione egli si attarda a cercarlo tra i dannati perché sa che si trova lì, ma Virgilio lo invita a desistere perché lo ha già visto allontanarsi dopo aver riconosciuto Dante e averlo indicato minacciosamente con il dito, irato per la mancata vendetta che la sua consorteria tardava a compiere: nella scena Dante dimostra di capire le richieste di Geri, ritenendole quindi come valide, ma non ha alcun rimorso personale circa l'evento, considerando egli la violenza privata un atto tutto sommato deprecabile.

GRIFFOLINO D'AREZZO

Dante lo colloca nel octavo girone, dei fraudolenti, decima bolgia dei falsari, in particolare tra i falsari di metalli, facendogli dichiarare il suo peccato di alchimia. Di lui si hanno alcune citazioni in alcuni documenti storici: fu iscritto alla società dei Toschi a Bologna nel 1258 e venne giustiziato come eretico prima del 1272, tramite arsura, probabilmente a Siena. Dante gli fa raccontare in prima persona una sorta di novella circa la sua fine, dovuta alla promessa non mantenuta di far librare in volo il nobile senese Albero, che si infuriò e tramite il vescovo lo fece accusare di eresia e ardere.

CAPOCCHIO DI SIENA

Dante immaginò di incontrare Capocchio nella decima Malabolgia dei fraudolenti, tra i falsari di metalli che sono condannati a soffrire la lebbra. Nel poema egli siede accanto a Griffolino d'Arezzo, a sua volta alchimista, e dopo aver parlato sarcasticamente della vanità dei senesi della cosiddetta cromosomia mattiesca, si presenta come personaggio che Dante dovrebbe segnalare: fu buona scimia della natura, ovvero fu imitatore, contraffattore ("scimmia") della natura. I cronisti antichi aggiungono alcune notizie alla sua figura, ma nessuna è provata da alcun riferimento storico. Alcuni lo definiscono senese, e in genere lo dipingono come pronto d'ingegno ed estroso. L'unica data sicura è quella della sua morte, avvenuta per rogo pubblico a Siena il 15 agosto 1293.


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Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso -10 dicembre - 2019

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