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Inferno CANTO XXXIIII. Lucifero e ... uscimmo per riveder le stelle.

COMMENTO DEL CANTO XXXIIII

Ingresso nella quarta zona di Cocito, la Giudecca dove sono puniti i traditori dei benefattori. Dante e Virgilio escono dall'Inferno e raggiungono, attraverso la natural burella, l'emisfero australe. Nell'emisfero boreale è il pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso le sette; nell'emisfero australe è la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette e mezza circa.
Virgilio avverte Dante che stanno avvicinandosi ai vessilli del re dell'Inferno e lo invita a guardare davanti a sé: il poeta obbedisce, ma in lontananza e nella semioscurità distingue solo quello che gli sembra un enorme edificio, simile a un mulino che fa ruotare le sue pale, poi si ripara dal vento dietro al maestro. I due proseguono ed entrano nella quarta e ultima zona di Cocito, la Giudecca, in cui sono puniti i traditori dei benefattori. Dante vede i dannati completamente imprigionati nel ghiaccio, da cui traspaiono come pagliuzze nel vetro: alcuni sono rivolti verso il basso, altri verso l'alto, altri ancora sono raggomitolati su se stessi. I due poeti avanzano un poco, quindi Virgilio decide che è il momento di mostrargli Lucifero e lo trattiene, avvertendolo che è giunto per lui il momento di armarsi di coraggio.
Dante invita il lettore a non chiedergli di spiegare come rimase raggelato e ammutolito alla vista di Lucifero, perché ogni parola sarebbe inadeguata: il poeta non morì e non rimase vivo, restando in una specie di torpore. L'imperatore dell'Inferno esce dal ghiaccio di Cocito dalla cintola in su e c'è maggior proporzione tra Dante e un gigante che non tra un gigante e le braccia del mostro, per cui il lettore può capire quanto smisurato sia quell'essere. Se Lucifero fu tanto bello quanto adesso è brutto, osserva Dante, e nonostante ciò osò ribellarsi al suo Creatore, allora è giusto che da lui derivi ogni male. Il poeta vede che Lucifero ha tre facce in una sola testa: quella al centro è rossa. La destra è di colore giallastro, la sinistra ha il colore scuro degli abitanti dell'Etiopia. Sotto ogni faccia escono due enormi ali, proporzionate alle dimensioni del mostro e più grandi delle vele di qualunque nave: non sono piumate ma sembrano di pipistrello, e Lucifero le sbatte producendo tre venti gelidi che fanno congelare il lago di Cocito. Il mostro piange con sei occhi e le sue lacrime gocciolano lungo i suoi tre menti, mescolandosi a una bava sanguinolenta.
Lucifero maciulla in ognuna delle sue tre bocche un peccatore, provocando loro enorme sofferenza. Il dannato al centro non viene solo dilaniato dai denti del mostro, ma la sua schiena è graffiata dagli artigli. Virgilio spiega che il peccatore è Giuda Iscariota, che ha la testa dentro la bocca e fa pendere le gambe di fuori; degli altri due, che hanno invece il capo rivolto verso il basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto, che si contorce e non dice nulla, mentre l'altro è Cassio, che sembra così robusto. A questo punto il maestro avverte Dante che è quasi notte e i due devono rimettersi in cammino, poiché ormai hanno visto tutto l'Inferno.
Virgilio invita il discepolo ad abbracciarlo intorno al collo e il maestro, cogliendo il luogo e il momento opportuno, quando le ali del mostro sono abbastanza aperte, si aggrappa alle costole pelose di Lucifero. Virgilio scende lungo i fianchi del demone, tra questi e la crosta gelata di Cocito, fino al punto in cui la coscia si congiunge al bacino: il poeta latino, col fiato grosso, si gira e si aggrappa al pelo delle gambe, iniziando a salire verso l'alto e inducendo Dante a credere che stanno tornando all'Inferno. Virgilio avverte il discepolo di tenersi ben stretto a lui, poiché i due devono allontanarsi dall'Inferno percorrendo quella strada, Virgilio esce attraverso la spaccatura di una roccia e pone Dante a sedere sull'orlo dell'apertura, raggiungendolo poi con un balzo.
Dante alza lo sguardo e crede di vedere Lucifero come l'ha lasciato, invece lo vede capovolto e con le gambe in alto, restando perplesso come la gente grossolana che non capisce quale punto della Terra ha appena oltrepassato. Virgilio esorta Dante ad alzarsi subito, poiché devono ancora percorrere una via lunga e malagevole e sono già le sette e mezza del mattino; il percorso è in effetti difficoltoso, attraverso un budello nella roccia che ha il suolo impervio e poca luce. Dante prega il maestro di risolvere un dubbio, prima di mettersi in cammino: gli chiede dov'è il ghiaccio di Cocito, com'è possibile che Lucifero sia sottosopra rispetto alla posizione precedente, e infine come può essere già mattina essendo trascorso poco tempo.
Virgilio risponde che Dante pensa di essere ancora nell'emisfero boreale, mentre quando i due hanno oltrepassato il centro della Terra, punto verso il quale tendono i pesi, sono passati nell'emisfero australe, opposto all'altro dove visse e fu crocifisso Gesù. Dante poggia i piedi sull'altra faccia di una piccola sfera che costituisce la Giudecca: in quel punto è mattina quando nell'altro emisfero è sera, mentre Lucifero è sempre confitto nel ghiaccio. Virgilio spiega ancora che il demone precipitò giù dal cielo da questa parte e la terra si ritrasse per paura del contatto col mostro, raccogliendosi nell'emisfero boreale e formando il vuoto della voragine infernale, mentre in quello australe si formò la montagna del Purgatorio. Dante e Virgilio escono «a riveder le stelle».
Dante spiega al lettore che all'estremità della cavità rocciosa (la natural burella), c'è un luogo distante da Lucifero tanto quanto la sua estensione, che non si può vedere ma da cui si sente il suono di un ruscello che cade verso il basso, nella cavità che ha scavato nella roccia con poca pendenza. Dante e Virgilio si mettono in cammino lungo il budello, per tornare alla luce del sole, e proseguono senza riposare un attimo, col maestro che precede il discepolo facendogli da guida: alla fine Dante intravede gli astri del cielo attraverso un pertugio tondo nella crosta terrestre e quindi i due escono, rivedendo finalmente le stelle.
Protagonista assoluto del Canto che chiude la prima Cantica è Lucifero, Lo 'mperador del doloroso regno la cui apparizione è preannunciata da Virgilio già all'inizio dell'episodio parafrasando l'inno di Venanzio Fortunato alla croce: nell'inno latino si diceva solo Vexilla regis prodeunt, cioè «si avvicinano i vessili del re», mentre Dante aggiunge Inferni per significare che è prossimo l'incontro col principe dei demoni. La citazione di Venanzio non è irriverente come è parso ad alcuni, anche se Lucifero viene di fatto accostato alla croce dove fu giustiziato Cristo (ed è innegabile che il mostro sia un bizzarro rovesciamento della Trinità, incluso il particolare del vento che promana dalle sue ali). All'inizio Dante non scorge nulla nell'oscurità, salvo la sagoma di quello che gli pare un enorme mulino a vento da cui soffia un'aria gelida, la stessa già da lui notata nel Canto precedente e di cui il maestro aveva dato poche spiegazioni: vari commentatori hanno osservato che il vento prodotto da Lucifero è parodia del soffio dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, il quale è ardore di carità mentre quest'aria fa raggelare Cocito (con simbologia analoga, forse, al contrappasso dei traditori).
La visione del mostro è preparata con una sapiente attesa, giungendo solo dopo che Dante ha descritto i traditori dei benefattori confitti nella quarta e ultima zona di Cocito, la Giudecca. Essi sono completamente avvolti nel ghiaccio, simili a pagliuzze trasparenti nel vetro, e assumono varie posizioni che corrispondono, forse, a gradazioni diverse del loro peccato (anche se di ciò Dante non fornisce alcuna spiegazione).
Finalmente viene presentato Lucifero, non senza l'avvertimento di Virgilio a Dante che dovrà essere ben coraggioso: e infatti la reazione del poeta di fronte a quello che fu il più bello degli angeli è di assoluto terrore, tanto che rinuncia a descriverlo al lettore e si limita a dire di essere rimasto in uno stato sospeso tra la vita e la morte, col sangue raggelato e la voce che gli muore in gola. Lucifero è infatti rappresentato come un mostro orrendo e gigantesco, peloso, con tre facce unite a una sola testa, tre paia d'ali di pipistrello e altri attributi animaleschi (i denti con cui maciulla i tre peccatori nelle sue bocche, gli artigli con cui graffia la schiena di Giuda); è chiaramente una sorta di parodia della Trinità e di Dio, di cui cercò di prendere il posto con la ribellione che è il supremo tradimento, il che spiega perché sia conficcato al centro del IX Cerchio in cui proprio tale peccato è punito.
Lucifero ha ovvie analogie coi giganti, qui ricordati da Dante per le sue proporzioni smisurate e a lui accostati in quanto colpevoli di superbia e ribellione contro la divinità; ricorda in parte anche Cerbero, per via delle tre teste e del fatto che anche il cane infernale graffiava e scuoiava le anime dei golosi, mentre entrambi sono indicati col termine vermo che ha significato demoniaco (Cerbero era anch'esso, forse, un'immagine mitologica del demonio cristiano). I colori delle tre facce sono stati variamente interpretati (come i continenti allora conosciuti, o come Roma, Firenze e la Francia...), ma il particolare forse più significativo sono le ali di pipistrello, che oltre a essere un animale diabolico rappresenta un opposto sinistro della colomba, come spesso veniva rappresentato lo Spirito Santo.
I tre peccatori che Lucifero maciulla nelle tre bocche sono i tre supremi traditori dei benefattori, ovvero Giuda che tradì Cristo e Bruto e Cassio che tradirono Cesare, anche se i peccatori della Giudecca potrebbero essere i traditori delle due più importanti istituzioni, Chiesa e Impero. Ovviamente è la pena più grave è quella di Giuda, posto al centro e graffiato sulla schiena dal mostro, con le gambe di fuori al contrario degli altri due che hanno il capo di sotto (non è escluso un significato simbolico, anche se forse è solo una simmetria compositiva). Questi sono i soli dannati della Giudecca esplicitamente nominati da Dante, per quanto la loro pena sia diversa dagli altri traditori; la prima parte del Canto si chiude proprio con la descrizione del loro tormento, benché Lucifero sia presente anche nella seconda dedicata al ritorno dei due poeti all'aria aperta.
È il mostro, infatti, confitto fino alla cintola nel ghiaccio, a offrire ai due l'appiglio con cui scendere verso il centro della Terra: Virgilio compie la delicata operazione con Dante aggrappato alle sue spalle, e una volta che i due sono passati dalla parte opposta nell'emisfero australe tutto appare rovesciato, con Lucifero che ha le gambe rivolte in alto e il sole che sta per sorgere, mentre di là era al tramonto. Virgilio spiega ogni cosa a Dante, riappropriandosi dei suoi diritti di guida e maestro dopo che per quasi due canti interi era rimasto in silenzio: Virgilio spiega come Lucifero sia stato precipitato lì dopo la sua ribellione e come si siano formate la voragine infernale e il Purgatorio, per cui Dante aggiunge che una natural burella (una sorta di cavità nella roccia) collega il centro della Terra alla spiaggia del secondo regno, che i due dovranno percorrere risalendo il corso di un fiumiciattolo che dall'alto ha scavato il suo corso verso il basso.
Si è molto discusso sull'identificazione di questo fiume, che molto probabilmente non è altro che lo scarico del Lete: il fiume dell'Eden che cancella la memoria dei peccati commessi e la riporta all'Inferno dove si racchiude tutto il male del mondo, là dove si gettano i fiumi infernali nati dal Veglio di Creta (seguendo il suono dell'acqua i due poeti risaliranno lungo la galleria, uscendo dalla cavità infernale).
Benché il percorso sia impervio e malagevole, offrendo poca luce e costringendo a un certo sforzo i due poeti lo compiono in breve tempo, soprattutto Dante che è ansioso di uscire dall'Inferno e di rivedere il cielo dopo tante ore passate nel bui: il Canto e la Cantica si chiudono con la visione delle stelle che si intravedono attraverso un buco tondo nella roccia che segna la fine del cammino, usciti dal quale Dante e Virgilio saranno sulla spiaggia del Purgatorio, proprio al sorgere del sole la mattina della domenica di Pasqua (che segna evidentemente la vittoria sul peccato: e il dato più evidente sarà quello visivo, dell'aria serena e del cielo terso che si offrono nuovamente alla vista del poeta, il cui cuore era stato contristato dalla drammatica esperienza della discesa attraverso l'inferno).
Note e passi controversi
- Il v. 1 è una parafrasi del verso inziale dell'Inno alla Croce di Venanzio Fortunato, scrittore cristiano del VI sec. (era il vescovo di Poitiers e scrisse l'inno in occasione dell'arrivo da Costantinopoli della reliquia del legno della Croce, inviata alla regina S. Radegonda); l'inno comincia Vexilla regis prodeunt, / fulget Crucis mysterium, / quo carne carnis conditor / suspensus est patibulo («Si avvicinano i vessilli del sovrano, rifulge il mistero della Croce, il patibolo cui fu inchiodato Gesù, nostro Creatore, in carne e ossa»). La preghiera veniva recitata in occasione dei riti del venerdì santo.
- I vv. 44-45 indicano che il colore della faccia sinistra di Lucifero è nero, come gli abitanti dell'Etiopia (la regione dove il Nilo s'avvalla, scende cioè nella pianura che porta all'Egitto).
- Il termine vispistrello (v. 49) deriva dal lat. vespertilio, da vesper («sera», per il fatto che il pipistrello è animale notturno).
- La maciulla (v. 56) è la gramola, strumento di legno che serve a tritare gli steli della canapa.
- Cassio è definito da Virgilio sì membruto, anche se non è chiaro a quale fonte Dante attinga: forse il poeta confonde Cassio Longino, uccisore di Cesare, con Lucio Cassio, seguace di Catilina (Cicerone nella III Cat. parla di L. Cassi adipes, che è immagine alquanto diversa da quella di Dante, posto che lui conoscesse quel passo).
- Il v. 87 indica probabilmente che Virgilio, dopo che Dante ha raggiunto l'orlo dell'apertura rocciosa, lo raggiunge con un balzo.
- Il v. 96 (e già il sole a mezza terza riede) indica che sono circa le sette e mezza di mattina, perché terza indica il periodo dalle 6 alle 9 antimeridiane; nell'emisfero boreale inizia la notte, in quello australe è quasi l'alba.
- La natural burella (v. 98) è una sorta di budello nella roccia, una galleria scavata all'interno della Terra (burella in fiorentino vuol dire «sotterraneo»).
- Il punto / al qual si traggon d'ogne parte i pesi (vv. 110-111) è il centro della Terra, dove secondo la fisica aristotelica si credeva che tendessero i corpi materiali per la gravità universale.
- La gran secca citata al v. 113 è l'emisfero boreale, dove si radunano per Dante le terre emerse, mentre il colmo sotto il quale consunto / fu l'uomo che nacque e visse sanza pecca è il punto più alto dell'emisfero boreale celeste, che sovrasta Gerusalemme dove fu crocifisso Gesù.
- La tomba del v. 128 è molto probabilmente la natural burella, che si estende dal centro della Terra al loco (la spiaggia del Purgatorio) citato da Virgilio, e non l'Inferno come taluni interpretano.
- Il verso finale del Canto (139, E quindi uscimmo a riveder le stelle) termina con la stessa parola, «stelle», con cui terminano i Canti XXXIII di Purgatorio e Paradiso (Purg., XXXIII, 145: puro e disposto a salire a le stelle; Par. XXXIII, 145: l'amor che move il sole e l'altre stelle).

TESTO DEL CANTO XXXIIII
«Vexilla regis prodeunt inferni 
verso di noi; però dinanzi mira», 
disse ’l maestro mio «se tu ’l discerni».                        3

Come quando una grossa nebbia spira, 
o quando l’emisperio nostro annotta, 
par di lungi un molin che ’l vento gira,                            6

veder mi parve un tal dificio allotta; 
poi per lo vento mi ristrinsi retro 
al duca mio; ché non lì era altra grotta.                          9

Già era, e con paura il metto in metro, 
là dove l’ombre tutte eran coperte, 
e trasparien come festuca in vetro.                                12

Altre sono a giacere; altre stanno erte, 
quella col capo e quella con le piante; 
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.                            15

Quando noi fummo fatti tanto avante, 
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi 
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,                             18

d’innanzi mi si tolse e fé restarmi, 
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco 
ove convien che di fortezza t’armi».                                21

Com’io divenni allor gelato e fioco, 
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, 
però ch’ogne parlar sarebbe poco.                                24

Io non mori’ e non rimasi vivo: 
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, 
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.                              27

Lo ’mperador del doloroso regno 
da mezzo ’l petto uscìa fuor de la ghiaccia; 
e più con un gigante io mi convegno,                            30

che i giganti non fan con le sue braccia: 
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto 
ch’a così fatta parte si confaccia.                                    33

S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, 
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, 
ben dee da lui proceder ogne lutto.                                36

Oh quanto parve a me gran maraviglia 
quand’io vidi tre facce a la sua testa! 
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;                            39

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa 
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla, 
e sé giugnieno al loco de la cresta:                               42

e la destra parea tra bianca e gialla; 
la sinistra a vedere era tal, quali 
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.                                  45

Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, 
quanto si convenia a tanto uccello: 
vele di mar non vid’io mai cotali.                                     48

Non avean penne, ma di vispistrello 
era lor modo; e quelle svolazzava, 
sì che tre venti si movean da ello:                                   51

quindi Cocito tutto s’aggelava. 
Con sei occhi piangea, e per tre menti 
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.                           54

Da ogne bocca dirompea co’ denti 
un peccatore, a guisa di maciulla, 
sì che tre ne facea così dolenti.                                       57

A quel dinanzi il mordere era nulla 
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena 
rimanea de la pelle tutta brulla.                                       60

«Quell’anima là sù c’ha maggior pena», 
disse ’l maestro, «è Giuda Scariotto, 
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.               63

De li altri due c’hanno il capo di sotto, 
quel che pende dal nero ceffo è Bruto: 
vedi come si storce, e non fa motto!;                              66

e l’altro è Cassio che par sì membruto. 
Ma la notte risurge, e oramai 
è da partir, ché tutto avem veduto».                                69

Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai; 
ed el prese di tempo e loco poste, 
e quando l’ali fuoro aperte assai,                                   72

appigliò sé a le vellute coste; 
di vello in vello giù discese poscia 
tra ’l folto pelo e le gelate croste.                                    75

Quando noi fummo là dove la coscia 
si volge, a punto in sul grosso de l’anche, 
lo duca, con fatica e con angoscia,                                78

volse la testa ov’elli avea le zanche, 
e aggrappossi al pel com’om che sale, 
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.                        81

«Attienti ben, ché per cotali scale», 
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso, 
«conviensi dipartir da tanto male».                                84

Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso, 
e puose me in su l’orlo a sedere; 
appresso porse a me l’accorto passo.                         87

Io levai li occhi e credetti vedere 
Lucifero com’io l’avea lasciato, 
e vidili le gambe in sù tenere;                                          90

e s’io divenni allora travagliato, 
la gente grossa il pensi, che non vede 
qual è quel punto ch’io avea passato.                           93

«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede: 
la via è lunga e ’l cammino è malvagio, 
e già il sole a mezza terza riede».                                   96

Non era camminata di palagio 
là ’v’eravam, ma natural burella 
ch’avea mal suolo e di lume disagio.                            99

«Prima ch’io de l’abisso mi divella, 
maestro mio», diss’io quando fui dritto, 
«a trarmi d’erro un poco mi favella:                               102

ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto 
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, 
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».                      105

Ed elli a me: «Tu imagini ancora 
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi 
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.                        108

Di là fosti cotanto quant’io scesi; 
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto 
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.                          111

E se’ or sotto l’emisperio giunto 
ch’è contraposto a quel che la gran secca 
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto                      114

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca: 
tu hai i piedi in su picciola spera 
che l’altra faccia fa de la Giudecca.                               117

Qui è da man, quando di là è sera; 
e questi, che ne fé scala col pelo, 
fitto è ancora sì come prim’era.                                     120

Da questa parte cadde giù dal cielo; 
e la terra, che pria di qua si sporse, 
per paura di lui fé del mar velo,                                     123

e venne a l’emisperio nostro; e forse 
per fuggir lui lasciò qui loco vòto 
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».                          126

Luogo è là giù da Belzebù remoto 
tanto quanto la tomba si distende, 
che non per vista, ma per suono è noto                       129

d’un ruscelletto che quivi discende 
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, 
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.                       132

Lo duca e io per quel cammino ascoso 
intrammo a ritornar nel chiaro mondo; 
e sanza cura aver d’alcun riposo,                                  135

salimmo sù, el primo e io secondo, 
tanto ch’i’ vidi de le cose belle 
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. 

E quindi uscimmo a riveder le stelle.                           139

PARAFRASI DEL CANTO

Il mio maestro disse: «I vessilli del re dell'Inferno (Lucifero) si avvicinano a noi; quindi guarda davanti a te, se riesci a vederlo».

Come quando c'è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino che è mosso dal vento, così allora mi parve di vedere una simile costruzione; quindi per il vento mi riparai dietro la mia guida, visto che non c'era nessun altro riparo.

Ormai mi trovavo, e lo scrivo, con paura, nei miei versi, nella zona (Giudecca) dove le anime erano del tutto sepolte nel ghiaccio, e trasparivano come pagliuzze nel vetro.

Alcune sono sdraiate, altre sono dritte, a volte con la testa alta e a volte con i piedi; altre ancora portano il volto ai piedi, piegandosi come un arco.

Quando fummo avanzati fino al punto in cui al mio maestro parve opportuno mostrarmi la creatura che fu così bella, si tolse di fronte a me e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo dove è necessario che tu ti armi di coraggio».

Non domandare, lettore, come io in quel momento raggelai e ammutolii: non lo scrivo, poiché ogni parola sarebbe inadeguata.

Io non morii e non rimasi in vita: pensa oramai da te, se hai un po' d'ingegno, come divenni in quello stato sospeso tra la vita e la morte.

L'imperatore del regno del dolore usciva fuori dal ghiaccio fino alla cintola; e c'è maggior proporzione fra me e un gigante che non fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai, rispetto a quella parte del corpo, quali devono essere le dimensioni totali di quell'essere.

Se egli fu tanto bello, quanto ora è brutto, e nonostante questo osò ribellarsi al suo Creatore, è giusto che da lui derivi ogni male.
Oh, quanto mi meravigliai quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una era al centro ed era rossa;

le altre erano due, si congiungevano alla prima a metà di ogni spalla, e si univano nella parte posteriore del capo:

la destra mi sembrava tra bianca e gialla; la sinistra era del colore di quelli che vengono dal paese (Etiopia) dove il Nilo entra in una valle.

Sotto ogni faccia uscivano due grandi ali, proporzionate a un essere tanto grande: non ho mai visto vele di navi così estese.

Non erano piumate, ma sembravano quelle di un pipistrello; e Lucifero le sbatteva, producendo da sé tre venti:

a causa di essi, tutto il lago di Cocito si ghiacciava. Piangeva con sei occhi e le lacrime gocciolavano sui tre menti, mischiato a una bava sanguinolenta.

In ognuna delle tre bocche dilaniava coi denti un peccatore, come fosse una gramola, così che ne tormentava tre al tempo stesso.

Per il peccatore al centro l'essere morso non era niente rispetto all'essere graffiato, al punto che talvolta la schiena gli restava tutta scorticata.

Il maestro disse: «Quel dannato lassù che soffre una pena più grave è Giuda Iscariota, che tiene la testa dentro le fauci di Lucifero e fa pendere fuori le gambe.

Degli altri due che hanno la testa rivolta in basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto: vedi come si contorce senza dire nulla!

L'altro è Cassio, che sembra così robusto. Ma è quasi notte e ormai dobbiamo andare, poiché abbiamo visto ogni cosa».

Come Virgilio volle, abbracciai il suo collo; ed egli attese il momento e il luogo opportuno, e quando le ali del mostro furono abbastanza aperte si aggrappò ai suoi fianchi pelosi; poi scese in basso tenendosi alle sue ciocche, passando tra il suo pelo folto e la crosta gelata di Cocito.

Quando fummo arrivati nel punto in cui la coscia di articola nel bacino, all'altezza del femore, Virgilio, con fatica e affanno, volse la testa dove Lucifero aveva le gambe, e si aggrappò al suo pelo come uno che sale, così che io credevo tornassimo nuovamente all'Inferno.

Il maestro, ansimando come un uomo affaticato, disse: «Tieniti forte, poiché dobbiamo allontanarci da tanto male (l'Inferno) salendo su queste scale».

Poi uscì fuori attraverso una spaccatura nella roccia, e mi fece sedere sull'orlo dell'apertura; quindi diresse con attenzione il passo verso di me.

Io alzai lo sguardo e credetti di vedere Lucifero come l'avevo lasciato, invece vidi che teneva le gambe in alto;

e se io allora rimasi perplesso, lo pensi la gente ignorante, che non ha capito qual è il punto (il centro della Terra) che io avevo oltrepassato.

Il maestro disse: «Alzati in piedi: la via è lunga e il cammino è malagevole, e il sole è già a metà della terza ora (sono le sette e mezza del mattino)».

Il punto in cui eravamo non era un percorso agevole come in un palazzo, ma una cavità sotterranea che aveva il suolo impervio e ben poca luce.

Quando mi fui alzato dissi: «Maestro mio, prima che io lasci l'abisso infernale, parlami un poco per risolvermi un dubbio:

dov'è il ghiaccio? e Lucifero come può essere confitto così sottosopra? e come è possibile che il sole abbia percorso così in fretta il tragitto dalla sera alla mattina?»

E lui a me: «Tu pensi ancora di essere al di là del centro della Terra, dove io mi sono aggrappato al pelo dell'orrendo animale che guasta il mondo.

Tu sei stato di là finché io sono disceso; quando mi sono girato, tu hai oltrepassato il punto verso il quale tendono tutti i pesi del mondo.

E ora sei giunto sotto l'emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale) che copre le terre emerse, e dove, sotto il punto più alto dell'emisfero celeste (Gerusalemme), fu ucciso l'uomo (Gesù) che nacque e visse senza peccato: tu hai i piedi su una piccola sfera che ha la faccia opposta nella Giudecca.

Qui è mattino, quando nell'altro emisfero è sera; e Lucifero, che col suo pelo ci ha fatto da scala, è confitto esattamente come lo era prima.

Cadde giù dal cielo da questa parte e la terra, che prima emergeva dalle acque nell'emisfero australe, per paura di lui si nascose sotto il mare e venne nel nostro emisfero; e forse, per rifuggire da lui, quella che appare di qua lasciò questo spazio vuoto e riemerse nell'emisfero australe (formando il Purgatorio)».

Laggiù c'è un luogo tanto lontano da Belzebù (Lucifero) quanto si estende la cavità sotterranea, che non si può vedere ma da cui si sente il suono di un fiumiciattolo (lo scarico del Lete) che scende qui attraverso una cavità che esso ha scavato nella roccia lungo il suo corso, che ha poca pendenza.

Il maestro ed io entrammo in quel cammino nascosto per tornare alla luce del sole; e senza prenderci un attimo di riposo salimmo in alto, lui per primo e io dietro, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un'apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle.


VIDEO HD https://www.youtube.com/watch?v=Mx_HxtwbULQ

GASSMAN https://www.youtube.com/watch?v=mGobsFDQZto


Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso 16 gennaio 2020

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www.impresaoggi.com