Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO PRIMO
ATENIESE: Un dio o un uomo presso di voi, stranieri, ha fama di essere l'autore delle istituzioni delle leggi?
CLINIA: Un dio, straniero, un dio, se vogliamo esprimerci nel modo più giusto: presso di noi Zeus, presso gli Spartani, donde questi è venuto, penso che dicano che sia stato Apollo. O no?
MEGILLO: Sì.
ATENIESE: Forse tu affermi, come Omero, che Minosse ogni nove anni si recava dal padre per incontrarlo e che, secondo gli oracoli di quello, stabiliva le leggi per le vostre città?
CLINIA: Così si dice presso di noi: e si dice anche che suo fratello Radamante - avete già sentito questo nome - sia stato uomo di grande giustizia. E noi Cretesi potremmo dire che costui si è giustamente meritato questo elogio per il modo con cui allora ha amministrato la giustizia.
ATENIESE: E bella è questa fama, e ben si addice al figlio di Zeus. E poiché tu e lui siete stati allevati nelle consuetudini di tali leggi, penso che non vi dispiacerà se ora faremo una conversazione sulla costituzione dello stato e sulle leggi, parlando ed insieme ascoltando lungo il cammino. In ogni caso la strada che da Cnosso porta all'antro di Zeus e al suo tempio ci sarà sufficiente, come sappiamo, e lungo la strada, mi pare, vi sono luoghi ombreggiati per riposarsi, situati in mezzo ad alti alberi, dato che a quest'ora il caldo è torrido, e alla nostra età sarà conveniente fermarci di frequente in quei luoghi, e confortandoci l'un l'altro con i discorsi, compiere facilmente tutto il cammino.
CLINIA: Proseguendo nel cammino, straniero, si trovano, nei boschi sacri, splendide piante di cipresso per la lor altezza e bellezza, e prati in cui potremo riposare e conversare.
ATENIESE: Dici bene.
CLINIA: Certamente. E quando li vedremo lo diremo ancora più volentieri. Ma andiamo, e la sorte ci sia benevola.
ATENIESE: Sia così. Dimmi: perché la legge ha stabilito da voi i pasti in comune, i ginnasi, e quel modo che avete di portare le armi?
CLINIA: Credo, straniero, che a chiunque sia facile comprendere le nostre usanze. Come vedete, la natura di tutta la regione di Creta non è pianeggiante come quella dei Tessali, ed è per questo motivo che quelli si servono per lo più di cavalli, mentre noi corriamo a piedi: il nostro territorio infatti è irregolare, ed è più adatto alla pratica della corsa. In questa regione è necessario possedere armi leggere e correre senza portare con sé cose pesanti: la leggerezza degli archi e delle frecce sembra dunque essere adatta. Tutte queste cose ci preparano ad affrontare la guerra, e, mi sembra, tutto è stato ordinato dal legislatore in vista di questo obbiettivo: perché anche per i pasti in comune, forse li ha introdotti, vedendo che tutti, quando fanno una guerra, sono costretti dalla situazione stessa a mangiare insieme durante questo tempo per motivi di sicurezza. Del resto mi sembra che abbia voluto condannare la stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev'essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabili tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun'altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori.
ATENIESE: Bene, straniero, mi sembra che ti sia esercitato a comprendere la legislazione di Creta. Ma spiegami questo punto con maggior chiarezza: mi pare che in base al criterio da te stabilito per giudicare uno stato ben governato, affermi che tale stato deve essere organizzato e guidato in modo tale da poter vincere in guerra le altre città. O no?
CLINIA: Certo. E penso che anche costui sia d'accordo con me.
MEGILLO: In quale altro modo potrebbe rispondere, divino, uno spartano qualsiasi?
ATENIESE: Forse questo sistema vale per i rapporti fra stato e stato, ed è diverso per i rapporti fra villaggio e villaggio?
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: Allora vale lo stesso sistema?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: E così tra una famiglia ed un'altra di un villaggio, e addirittura tra un uomo e un alt ro, è valido lo stesso sistema?
CLINIA: Lo stesso sistema.
ATENIESE: E così, di fronte a se stessi, bisogna considerarsi come nemico di fronte a nemico? O come dobbiamo dire?
CLINIA: Straniero Ateniese - infatti non vorrei chiamarti Attico, poiché mi sembri più degno di un nome vicino a quello della dea - riportando giustamente il discorso al suo principio, lo hai reso più chiaro, sicché scoprirai più facilmente che quello che abbiamo detto adesso era giusto, e cioè che in pubblico tutti sono nemici di tutti, e in privato ciascuno lo è di se stesso.
ATENIESE: Che cosa hai detto, o uomo meraviglioso?
CLINIA: Anche in quell'occasione il vincere se stessi è la principale e la più nobile vittoria, mentre l'essere vinto da se stessi è la peggiore e più turpe sconfitta. Questo è dunque un segno che ciascuno di noi è in guerra con se stesso.
ATENIESE: Torniamo allora indietro nel ragionamento. Poiché ciascuno di noi può vincere o esser vinto da se stesso, diciamo che la stessa cosa vale per la famiglia, il villaggio, e lo stato?
CLINIA: Stai dicendo che uno vince se stesso e l'altro è vinto?
ATENIESE: Sì.
CLINIA: Giusta anche questa domanda: questo accade senza dubbio, soprattutto negli stati. Infatti, quando in uno stato i migliori vincono la massa e i peggiori, giustamente si può dire che quello stato domina se stesso, e ancor più giustamente lo si loderà per tale vittoria: tutto il contrario, naturalmente, nel caso opposto.
ATENIESE: Lasciamo stare la questione se ciò che è peggiore può mai dominare ciò che è migliore - infatti sarebbe un discorso troppo lungo -, ma ora capisco quel che hai detto, e cioè che talvolta cittadini affini e originari dello stesso stato, malvagi e riuniti molti insieme, tentano con la violenza di rendere schiavi una minoranza di cittadini giusti, e se riescono a dominare, si può dire giustamente che quello stato è inferiore e nel contempo malvagio, mentre se sono dominati, quello è più forte e migliore.
CLINIA: E assai strano, o straniero, quel che ora si è detto, tuttavia dobbiamo convenire che è così.
ATENIESE: Stai attento. Facciamo ancora attenzione a questo. Molti fratelli possono nascere da un solo uomo e da una sola donna, e non vi è nulla di incredibile se fra di loro i più sono ingiusti, mentre vi è una minoranza di giusti.
CLINIA: No, certo.
ATENIESE: E non sarebbe conveniente né a me né a voi cercare di sapere questo, e cioè che se dominano i malvagi bisogna dire che la famiglia o tutta la stessa parentela è inferiore a se stessa, mentre è superiore se sono dominati: infatti ora non dobbiamo valutare l'eleganza o meno dei termini, in relazione alla parlata della maggior parte di persone, ma ciò che per natura è giusto o sbagliato in relazione alle leggi.
CLINIA: Quello che dici è verissimo, straniero.
MEGILLO: Bene, anche a me sembra così per ora.
ATENIESE: Vediamo anche questo: vi può essere un giudice per quei fratelli di cui abbiamo appena parlato?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E quale giudice sarebbe migliore? Quello che farebbe morire quanti di essi sono malvagi, e comandasse ai migliori di governarsi da soli, o quello che facesse governare i buoni, e lasciasse in vita i peggiori obbligandoli a sottomettersi volontariamente al potere? Oppure, in relazione alla virtù, diciamo che vi è un terzo giudice che, adottando una famiglia discorde, non uccide nessuno, ma riappacificando i componenti per il tempo futuro e stabilendo per loro delle leggi, è in grado di garantire che essi siano l'un l'altro amici.
CLINIA: Di gran lunga migliore sarebbe un giudice e un legislatore di questo genere.
ATENIESE: Ed egli darebbe loro delle leggi non in vista della guerra, ma al suo contrario.
CLINIA: Questo è vero.
ATENIESE: E che dire di chi mette ordine in uno stato? Dovrà ordinare la vita di questo stato in vista di una guerra esterna piuttosto che a quella guerra che ogni volta nasce al suo interno e che si chiama sedizione? E a proposito di questa guerra, nessuno mai vorrebbe che nascesse nel proprio stato, e, una volta sorta, vorrebbe che terminasse il più presto possibile.
CLINIA: In vista di questa guerra interna, è chiaro.
ATENIESE: E sarebbe preferibile che la pace nascesse dalla sedizione, dopo che una parte fosse stata annientata e un'altra avesse avuto la meglio, oppure che l'amicizia e la pace nascessero dalla riconciliazione, in modo tale da prestare necessariamente attenzione verso i nemici esterni?
CLINIA: Ognuno preferirebbe per il proprio stato questa soluzione piuttosto che l'altra.
ATENIESE: E anche un simile legislatore?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Non è forse in vista dell'ottimo bene che ogni legislatore stabilisce tutto il complesso delle leggi?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: E l'ottimo bene non è la guerra e neppure la sedizione - anzi è abominevole avere bisogno di esse -, ma è la pace reciproca e la benevolenza. Inoltre, vincere se stesso per uno stato non è, pare, il bene più grande, ma una necessità. Come se, ad esempio, si ritenesse che un corpo malato sottoposto a cure mediche è in ottima salute, e non si prestasse attenzione a quel corpo che non ha bisogno di nessuna cura, allo stesso modo, quando si rifletta in questi termini sulla felicità della città o del singolo cittadino, non si è mai un vero politico, se si guarda solo e principalmente alle guerre esterne, e neppure si è diligenti legislatori, se non si stabiliscono in vista della pace le leggi sulla guerra piuttosto che in vista della guerra le leggi sulla pace.
CLINIA: Mi pare che questo discorso, straniero, sia giusto, anzi, mi meraviglio che la nostra legislazione e anche quella spartana non abbia indirizzato ogni sforzo in vista di queste cose.
ATENIESE: Può darsi: ma ora non dobbiamo polemizzare aspramente con loro, ma interrogarli serenamente, poiché tanto noi quanto loro ci occupiamo col massimo impegno delle stesse cose. Seguitemi nel ragionamento: invochiamo Tirteo, ateniese di nascita e, in seguito, cittadino di Sparta, poiché fra tutti gli uomini di più si è occupato di queste cose, e ha detto: «Non potrei ricordare né tener conto di un uomo», neppure se fosse il più ricco degli uomini, continua, né se possedesse molti beni, e li dice quasi tutti, se in guerra non fosse sempre il migliore. Anche tu avrai ascoltato questi versi: e Megillo, credo, ne sarà sazio.
MEGILLO: Certamente.
CLINIA: Anche da noi sono giunti, portati proprio da Sparta.
ATENIESE: Avanti, interroghiamo insieme il poeta con queste parole: «O Tirteo, il più divino fra i poeti - infatti tu ci sembri saggio e buono perché hai lodato in modo eccellente coloro che in modo eccellente si distinsero in guerra -, io, Megillo, e Clinia di Cnosso che è qui siamo d'accordo con te, o almeno sembra: tuttavia vogliamo sapere con chiarezza se stiamo o no parlando delle stesse persone. Dicci dunque: ritieni anche tu che vi siano due specie di guerra, come noi sicuramente pensiamo, o che cosa pensi?». Credo che ad una domanda come questa anche una persona meno importante di Tirteo direbbe il vero, e cioè che vi siano due generi di guerra: l'uno che chiamiamo tutti "sedizione", e che fra tutte le guerre è la più dura, come abbiamo appena detto; l'altro genere, invece - e credo che su questo punto siamo tutti d'accordo - riguarda quella guerra che ci impegna contro i nemici esterni e di altra stirpe, ed è molto più mite della prima.
CLINIA: Come non potrebbe essere così?
ATENIESE: «Coraggio, quali uomini hai elogiato, e per quale delle due guerre li hai elogiati, umiliando gli altri? Pare che tu abbia elogiato coloro che si trovano di fronte a nemici esterni: perché nelle tue poesie tu hai detto di non sopportare affatto quel genere di persone che non hanno il coraggio di guardare un'uccisione cruenta, "e non colpiscono un nemico incalzandolo da vicino". Dunque, dopo queste parole, potremmo dire che il tuo elogi, Tirteo, si indirizza, a quanto pare, verso coloro che si sono segnalati nella guerra esterna contro lo straniero». Dirà che è così e sarà d'accordo?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E noi, benché costoro siano uomini valorosi, diciamo che di gran lunga migliori e molto più valorosi sono coloro che si distinguono nella guerra più importante: e chiamiamo a testimone un poeta, Teognide, cittadino di Megara in Sicilia, che dice: «L'uomo fedele è stimato alla pari dell'oro e dell'argento, o Cirna, nel terribile giorno della discordia». Diciamo infatti che costui nella guerra più aspra è di gran lunga migliore di quell'altro, nella misura in cui giustizia, temperanza, e prudenza messe insieme al coraggio sono migliori del coraggio stesso preso da solo. Perché non è possibile mantenersi fedeli ed integri durante le sedizioni, se si è privi della virtù nel suo complesso: mentre nella guerra di cui parla Tirteo sono moltissimi i mercenari che resistendo e combattendo desiderano la morte, e fra costoro la maggior parte diventano insolenti, ingiusti, violenti, e i più dissennati fra tutti, fatta eccezione per pochi. Come possiamo ora concludere questo discorso? E che cosa mai ha voluto dimostrare dicendo le cose che ha detto? Questo chiaramente, e cioè che ogni legislatore, anche di scarso valore, ma soprattutto questo di qui che è stato consigliato da Zeus, stabilirà sempre le leggi tenendo conto di nient'altro se non della virtù più importante: e questa virtù, come dice Teognide, consiste nel mantenersi fedeli nei momenti difficili, e si potrebbe definire come l'aspetto più completo della giustizia. Quanto alla virtù sommamente elogiata da Tirteo, essa è bella ed è stata adornata in modo conveniente dal poeta, ma è al quarto posto secondo il numero e il valore, se vogliamo parlare correttamente.
CLINIA: Straniero, allora respingiamo il nostro legislatore considerandolo fra i più lontani dalla giustizia.
ATENIESE: Ma no, carissimo amico, condanniamo noi stessi se pensiamo che tutto il complesso di leggi che sono a Sparta e in questo luogo sia stato stabilito da Licurgo e da Minosse proprio in vista della guerra.
CLINIA: Che cosa dovevamo dire allora?
ATENIESE: Quello che è vero e giusto dire, come credo, quando si discorre di uno stato che ha fondamenta divine, e cioè che il dio stabilì le leggi badando non ad una parte di virtù, e per giunta a quella di valore più scarso, ma a tutta la virtù nel suo complesso, e che cercò le leggi secondo ciascuno degli aspetti della virtù, e non secondo gli aspetti che si propongono gli attuali legislatori nelle loro ricerche. Oggi ciascuno ricerca e si propone di esaminare solo quegli aspetti della legge di cui ha bisogno - uno si interessa della legislazione riguardante l'eredità e gli eredi, un altro delle leggi concernenti gli oltraggi, altri ancora di innumerevoli altre cose -, mentre noi diciamo che chi vuole svolgere una corretta ricerca intorno alle leggi deve muoversi come noi adesso abbiamo cominciato a fare. E mi rallegro moltissimo con te per l'interpretazione che hai cominciato a dare alle leggi: perché è corretto cominciare dalla virtù, dicendo che in vista di quella il legislatore ha stabilito le leggi, ma quando hai affermato che quello ha legiferato riferendo tutto il complesso di leggi ad una parte di virtù, e per giunta a quella di più scarso valore, mi è parso che tu non parlassi più correttamente, e perciò ho fatto tutto quest'ultimo discorso. Come dunque avrei voluto sentire che tu esponessi il tuo discorso? Vuoi che te lo dica?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: «Forestiero», bisognava dire, «le leggi dei Cretesi non sono invano stimate in maniera eccellente presso tutti i Greci: esse sono giuste perché rendono felici coloro che le applicano, poiché procurano tutti i beni. E i beni si dividono in due specie: quelli umani e quelli divini. Da quelli divini dipendono gli umani, e se uno stato possiede quei beni più grandi possiede di conseguenza anche i piccoli, in caso contrario e privo di entrambi. Fra i beni minori viene inclusa innanzitutto la salute, come secondo la bellezza, terzo la forza fisica nella corsa e in tutti gli altri movimenti del corpo, quarto la ricchezza che non è cieca ma è dotata di perspicacia e si accompagna alla prudenza. Fra i beni divini, invece, il primo bene è proprio la prudenza, il secondo, dopo l'intelletto, la saggia disposizione dell'anima, da questi beni mescolati al coraggio deriva il terzo, e cioè la giustizia, quarto il coraggio. Tutti questi beni sono per natura disposti prima di quegli altri, e il legislatore deve rispettare tale disposizione. Dopo di ciò deve avvertire i suoi concittadini che tutte le altre prescrizioni loro impartite sono pensate in vista di questi beni, così come i beni umani sono pensati in vista di quelli divini, e quelli divini in vista dell'intelletto che è la guida di tutti. Deve quindi occuparsi dei matrimoni contratti, e, dopo di ciò, della nascita e dell'educazione dei figli, maschi e femmine - partendo dalla loro giovinezza per giungere attraverso la maturità fino alla vecchiaia - premiandoli o punendoli quando è opportuno. E sorvegliando osservando in ogni altra loro relazione i dolori, i piaceri, i desideri, e la cura di tutte le passioni, deve correttamente criticarli ed elogiarli mediante le leggi stesse: e così nei momenti d'ira, e nelle paure, e nei casi in cui l'anima è sconvolta per la cattiva sorte o quando per una buona sorte trova scampo da quei patimenti, e in tutte le circostanze che accadono agli uomini nel corso di malattie, guerre, povertà, ma anche in eventi contrari a questi, in tutti questi casi, allora, egli deve insegnare e definire, in relazione alla disposizione d'animo di ciascuno, ciò che è bene e ciò che non lo è. Dopo di che il legislatore deve controllare come avvengono gli acquisti e le spese dei cittadini, e come stabiliscono le relazioni fra loro e come le sciolgono, volontariamente o no, e osservare se in ciascuno di questi rapporti vi sia o no giustizia, e distribuire onori a chi ubbidisce alle leggi, e punizioni ben determinate a chi non ubbidisce, finché, giunto al termine di tutta la costituzione, veda anche per i morti quale dev'essere la sepoltura più adatta per ciascuno e quali onori gli si debbano assegnare. Considerato ciò, chi ha stabilito queste leggi dovrà porre dei custodi per tutte, e di questi custodi alcuni agiranno mediante la prudenza, altri mediante la vera opinione, in modo che l'intelletto, connettendo insieme tutte queste norme, dimostri che esse si accompagnano alla temperanza e alla giustizia, e non alla ricchezza e alla brama di onori». Così stranieri, avrei voluto, e ancora adesso lo desidero, che voi mi spiegaste come nelle leggi che si dice siano di Zeus e di Apollo Pizio, e che Minosse e Licurgo hanno stabilito, vi siano tutte queste norme, e come nell'ordine che hanno assunto si mostrino in tutta la loro evidenza a chi abbia fatto esperienza delle leggi mediante lo studio o una pratica abituale, mentre restano oscure a noi altri.
CLINIA: Come, straniero, dobbiamo continuare dopo queste cose?
ATENIESE: Mi sembra che si debba riprendere ad esaminare nuovamente dal principio così come avevamo cominciato: in primo luogo le pratiche del coraggio, e in seguito, se volete, le altre specie di virtù esaminandole una dopo l'altra. Non appena avremo terminato questa prima analisi, tenteremo, stabilendo questo modello e discutendo in questo modo delle altre cose, di alleviare la fatica del viaggio, e poi, dopo aver trattato di tutta quanta la virtù, mostreremo, se il dio lo vuole, che proprio in vista della virtù, è concepito tutto il complesso delle leggi.
MEGILLO: Dici bene, e prova prima di tutto a giudicare costui che elogia Zeus ed è qui con noi.
ATENIESE: Proverò, e anche tu con me, poiché la discussione è comune. Dite dunque: dobbiamo affermare che i pasti in comune e i ginnasi sono stati escogitati dal legislatore in vista della guerra?
MEGILLO: Sì.
ATENIESE: E come terza e quarta istituzione che cosa ha trovato? Bisognerà infatti usare tale enumerazione anche per le altre parti della virtù - parti o come si debbano chiamare purché si indichi chiaramente ciò di cui si parla -.
MEGILLO: Come terza istituzione, direi io e allo stesso modo qualsiasi altro spartano, egli escogitò la caccia.
ATENIESE: Cerchiamo di dire che cosa ha escogitato come quarta e come quinta istituzione, se siamo capaci.
MEGILLO: Posso provare a dire che cosa escogitò come quarta. Si tratta di esercitazioni per sopportare le sofferenze che sono praticate presso di noi nelle lotte di pugilato e in certi saccheggi che ogni volta si verificano con molte percosse. E vi è ancora quella che si chiama mirabilmente "la scorreria segreta", assai faticosa, ma che ci abitua a resistere al dolore e alla fatica, e d'inverno l'andare scalzi e il dormire sulla nuda terra, e il soccorrersi da soli senza l'aiuto di servi, vagando notte e giorno per tutta la regione. E ancora durante le ginnopedie vi sono presso di noi terribili esercitazioni per lottare contro la forza del caldo e molte altre ancora che quasi non si finirebbe più di esaminarle tutte.
ATENIESE: Dici bene, straniero di Sparta. Ma via, come possiamo definire il coraggio? Forse diremo che è solo una semplice lotta contro le paure e i dolori, o anche contro i desideri, i piaceri, e contro quelle terribili lusinghe degli adulatori che rendono morbido come cera l'animo di chi pensa di essere venerabile?
MEGILLO: Credo sia così: una lotta contro tutte queste passioni.
ATENIESE: Se dunque ricordiamo i discorsi precedenti, costui diceva che uno stato o un individuo può cedere a se stesso. è così, straniero di Cnosso?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E adesso chi diciamo che sia malvagio: chi cede ai dolori o ai piaceri?
CLINIA: Chi, piuttosto, soccombe ai piaceri, mi pare: tutti infatti tendenzialmente diciamo che chi si lascia vincere dai piaceri cede a se stesso più vergognosamente di chi si lascia vincere dai dolori.
ATENIESE: Ma allora il legislatore di Zeus e quello di Apollo non hanno forse stabilito per legge un coraggio zoppo, capace di resistere solo a sinistra, ma incapace, a destra, di resistere ad ingannevoli lusinghe. O forse resiste all'una e all'altra parte?
CLINIA: Credo che resista ad ambedue le parti.
ATENIESE: Diciamo di nuovo quali sono nei vostri due stati le consuetudini che, facendovi gustare i piaceri senza rifuggire da essi, come non facevano sfuggire ai dolori, ma vi conducevano in mezzo ad essi, vi costringono e vi persuadono con gli onori a dominarli? Dove viene previsto qualcosa del genere nelle vostre leggi riguardo ai piaceri? Ditemi cos'è mai che da voi rende gli stessi individui ugualmente coraggiosi di fronte alle sofferenze e ai piaceri, e vincitori di ciò che si deve vincere, e per nulla inferiori a nemici che sono loro così vicini e che sono i più terribili.
MEGILLO: Così allora, straniero, come avevo la possibilità di citare molte leggi schierate contro il dolore, sarei in difficoltà a parlare delle leggi concernenti i piaceri, secondo grandi e ben distinti raggruppamenti: ma forse potrei farlo con piccoli dettagli.
CLINIA: Neppure io, nelle leggi di Creta, potrei fare chiaramente qualcosa del genere.
ATENIESE: Nulla di strano, carissimi stranieri. Ma se uno di noi volesse criticare le leggi di ciascuno dei nostri stati, con l'intenzione di mettere in evidenza l'elemento autentico e migliore, accettiamo sereni questa critica vicendevole, senza essere maldisposti.
CLINIA: Quello che dici è giusto, straniero di Atene, e bisogna obbedirti.
ATENIESE: Certo, Clinia, che a uomini della nostra età non sarebbe conveniente una polemica di quel genere.
CLINIA: No, certamente.
ATENIESE: Se sia giusto o no criticare la costituzione spartana e cretese, è un altro discorso: ma su ciò che comunemente si dice, sarei in grado di parlarne io più di voi due. Presso di voi infatti, quand'anche il complesso delle leggi sia stato perfettamente organizzato, una delle leggi più belle consiste nel non permettere ad alcun giovane di ricercare in esse ciò che è buono e ciò che non lo è, ma ad una voce sola e da una sola bocca devono tutti asserire che tutte sono buone perché sono state poste dagli dèi, e se qualcuno dice in altro modo, non si tollera affatto che lo si ascolti. Se poi qualcuno dei vecchi vuole fare delle considerazioni sulle vostre leggi, può fare questi discorsi dinanzi ai magistrati e a persone della sua età, ma nessun giovane dev'essere presente.
CLINIA: Hai parlato nel modo più giusto, straniero, e come un indovino, così lontano dal pensiero di chi allora stabilì quelle leggi, ora mi sembra che hai avanzato delle perfette congetture e che dici l'assoluta verità.
ATENIESE: E non è forse vero che in questo momento non vi è alcun giovane presente? E a noi, grazie alla nostra vecchiaia, non è forse concesso dal legislatore di discorrere tra noi soltanto proprio di questi argomenti, senza compiere alcun fallo?
CLINIA: è proprio così, e allora non tralasciare neppure un particolare che si possa criticare nelle nostre leggi, dato che non è disonorevole riconoscere che vi è qualcosa di non bello, ma anzi avviene che di qui possa scaturire un rimedio per chi accoglie le critiche non con animo invidioso, ma con benevolenza.
ATENIESE: Bene: non farò alcuna critica nei confronti delle vostre leggi se prima non le avrò attentamente esaminate. Piuttosto posso avanzare qualche perplessità. A voi soltanto, fra i Greci e fra i barbari di cui abbiamo notizie, il legislatore ha ordinato di astenervi dai più grandi piaceri e dai divertimenti e di non gioirne, e pensò, come abbiamo spiegato poco fa, che se qualcuno sin da giovane evita continuamente i dolori e le paure, quando per necessità viene a trovarsi di fronte a travagli, paure, e dolori, non potrà evitare coloro che in essi si sono esercitati e diventerà loro schiavo. A mio avviso il legis1atore avrebbe dovuto fare la stessa considerazione intorno ai piaceri, dicendo fra sé e sé che se qui da noi i nostri cittadini fin da giovani saranno inesperti dei più grandi piaceri, e non si esercitano a resistere loro, e non si fanno costringere a compiere qualcosa di turpe, essi subiranno, in virtù della dolce condiscendenza verso i piaceri, lo stesso destino di chi cede ai dolori: e in un modo diverso ma ancor più vergognoso saranno schiavi di chi è capace di resistere ai piaceri ed è in grado di possederli, individui talvolta assolutamente malvagi, ed avranno la loro anima da una parte schiava e dall'altra libera, e non saranno degni della pura e semplice definizione di uomini coraggiosi e liberi. Riflettete allora se almeno qualcosa delle parole che ho detto adesso vi sembra giusto.
CLINIA: Ci sembra di sì, mentre tu parlavi: e tuttavia aderire subito e con estrema facilità intorno a questioni così importanti è proprio dei giovani e di persone poco assennate.
ATENIESE: Ma se, o Clinia e straniero di Sparta, dopo di ciò trattassimo il secondo degli argomenti proposti - dopo il coraggio dobbiamo parlare della temperanza -, troveremo qualche differenza in queste costituzioni rispetto a quelle ordinate a caso, come ora si è notato per le costituzioni riguardanti la guerra?
MEGILLO: Non è certo facile, ma mi pare che i pasti in comune, i ginnasi, siano stati ben escogitati in vista di entrambe le virtù.
ATENIESE: Mi pare, stranieri, che sia difficile che le costituzioni funzionino incontestabilmente bene tanto sul piano pratico quanto in quello teorico. Si rischia infatti, come nei corpi, che non sia possibile prescrivere ad un solo corpo una sola dieta senza che questa stessa risulti dannosa da una parte e utile dall'altra ai nostri corpi. Perché anche questi ginnasi e i pasti in comune sono adesso per molte altre ragioni utili agli stati, ma sono dannosi nelle sedizioni - lo dimostrano i figli dei Milesi, dei Beoti, e dei Turii -; ed inoltre pare che questo costume abbia guastato un'antica legge naturale, vale a dire i piaceri dell'amore non solo degli uomini ma anche delle bestie. E di questi mali si potrebbero ritenere responsabili per primi i vostri stati e quanti fra gli altri si occupano soprattutto dei ginnasi: e sia che tali considerazioni si debbano fare per scherzo, sia sul serio, occorre riflettere che un simile piacere è stato concesso dalla natura al sesso femminile e a quello maschile perché si unissero insieme in vista della generazione, mentre l'unione dei maschi con i maschi e delle femmine con le femmine è contro natura ed è un'impresa temeraria compiuta da coloro che per primi erano mossi dall'intemperanza del piacere. Tutti accusiamo i Cretesi di aver inventato il mito di Ganimede: poiché si credeva che le loro leggi provenissero da Zeus, essi attribuirono a Zeus questo mito, affinché, seguendo il dio, si potesse godere anche dei frutti di questo piacere. Ma adesso lasciamo la favola: quando gli uomini riflettono sulle leggi, quasi tutta la loro riflessione verte sui piaceri e sui dolori negli stati e nei costumi privati. Questi sono come due sorgenti che vengono lasciate liberamente scorrere dalla natura, e chi vi attinge - e dove, e quando, e come, non ha importanza - è felice, sia che si tratti dello stato, o di un privato cittadino, o, di un qualsiasi essere vivente, mentre chi vi attinge senza criterio e nel momento meno opportuno vive in una condizione contraria.
MEGILLO: Si dice questo, straniero, e va bene: ma ci sorprende come un'afasia intorno al modo in cui si deve rispondere a queste cose. A me in ogni caso sembra giusto che il legislatore a Sparta prescriva di fuggire i piaceri: quanto alle leggi di Cnosso costui, se vuole, le difenderà. Mi pare dunque che le leggi di Sparta in materia di piacere siano le più belle fra quelle poste dagli uomini: infatti la nostra legge bandisce dall'intera regione ciò che fa cadere gli uomini nei più grandi piaceri, nell'insolenza, e in ogni genere di stoltezza, e non ti capiterà di vedere per i campi o nelle città che sono sotto la protezione degli Spartani né simposi né tutto ciò che si accompagna ad essi e mette in moto i piaceri più sfrenati. Inoltre non vi è nessuno che, incontrando un tale che cammina per la strada pieno di vino, non lo punisca immediatamente e con grande severità, e non lo lasci andare neppure se avesse il pretesto delle Dionisie, come invece talvolta ho visto da voi la gente sui carri, e a Taranto, presso la nostra colonia, ho assistito come spettatore ad una città intera in condizione di ubriachezza: da noi una cosa simile non succederebbe.
ATENIESE: Straniero di Sparta, tutte queste cose sono encomiabili se si ha la capacità di sopportarle, ma se tali capacità si allentano, allora si diventa indolenti: e se qualcuno volesse difendere le nostre usanze potrebbe immediatamente coglierti di sorpresa citando la licenza delle vostre donne. Ma per tutti i casi di questo genere, a Taranto come da noi o da voi, mi sembra che valga un'unica risposta per risolverli, la quale evidenzi che queste usanze non sono cattive, ma giuste. Perché chiunque risponde ad uno straniero che si meraviglia di vedere costumi per lui insoliti dirà: «Non meravigliarti, straniero: presso di noi vi è una simile legge, e forse presso di voi per le stesse cose ve n'è un'altra». E ora il nostro discorso, amici, non verte sugli altri uomini in generale, ma sui difetti e sui pregi dei legislatori stessi. Parliamo ancora un momento dell'ubriachezza in generale: non è una consuetudine di poco conto, e il compito di prenderla in esame non può spettare ad un legislatore di scarso valore. E non parlo del vino, se lo si possa bere o no, ma dell'ubriachezza stessa, e cioè se bisogna avere con essa lo stesso rapporto che hanno gli Sciti e i Persiani, e ancora i Cartaginesi, e i Celti, e gl'Iberi, e i Traci, che sono tutti popoli guerrieri, oppure se si debba fare come fate voi: voi infatti, come dici tu stesso, non lo bevete affatto, mentre gli Sciti e i Traci lo bevono assolutamente puro, uomini e donne, e se lo versano anche sui vestiti, e ritengono di osservare una bella e fortunata usanza. I Persiani, poi, si abbandonano ad altri lussi che voi respingete, ma lo fanno con più moderazione di quei popoli.
MEGILLO: Carissimo, noi tutti costoro li allontaniamo, quando prendiamo in mano le armi.
ATENIESE: Non dire così, ottimo uomo: molte fughe e molti inseguimenti imprevisti ci sono stati e ci saranno; perciò quando citiamo la vittoria o la sconfitta in battaglia, non possiamo considerare questo come un chiaro criterio per valutare le usanze buone da quelle che non lo sono, ma del tutto discutibile. Perché gli stati più grandi vincono in battaglia quelli più piccoli e li rendono schiavi, come i Siracusani con i Locresi - anche se questi sembrano avere le leggi migliori fra gli abitanti di quei luoghi -, e gli Ateniesi con gli abitanti di Ceo, e ancora molti altri casi che potremmo trovare. Ma proviamo a parlare di ciascuna usanza presa di per sé persuadendoci di essa, e lasciamo per ora fuori dal discorso le vittorie e le sconfitte, dicendo che questa cosa è buona e quella non lo è. Prima di tutto ascoltatemi su come in tali questioni si debba esaminare ciò che è utile e ciò che non lo è.
MEGILLO: Come dici?
ATENIESE: Non mi sembra affatto giusto l'atteggiamento di chi decide di parlare di un'usanza, e dopo averla esposta, subito la biasima o la elogia, soltanto a pronunciarne il nome: essi si comportano come quel tale che, sentendo elogiare il frumento come un buon alimento, immediatamente lo critica senza informarsi né delle sue proprietà, né dell'uso, né in che modo, né per mezzo di quali mezzi, né con chi, né in quali condizioni viene prodotto e si può utilizzare. Ora mi sembra che noi facciamo la stessa cosa nei nostri discorsi: perché basta soltanto sentire la parola ubriachezza, che già alcuni di noi la criticano e altri la elogiano, ma sempre in modo inopportuno. Noi infatti, ciascuno dal suo punto di vista, tessiamo l'elogio sulla base di testimoni e sostenitori, e mentre alcuni di noi credono che abbia più validità la propria opinione per il fatto di procurarsi molti sostenitori, altri pensano la stessa cosa poiché vedono vincere in battaglia coloro che non bevono vino: ma questo fatto lo riteniamo discutibile. Se procediamo così anche per ciascuno degli aspetti della restante legislazione, non procediamo secondo le mie intenzioni. In un altro modo, dunque, che mi sembra di dover esporre, voglio allora parlare di questa stessa questione, l'ubriachezza, cercando, se posso, di mostrarvi la via giusta che bisogna seguire nelle discussioni di questo genere, poiché moltissimi popoli, trovandosi in disaccordo con voi sulle vostre usanze, entrerebbero in contesa con i vostri due stati.
MEGILLO: Se allora disponiamo di un corretto metodo di indagine su tali questioni, non dobbiamo esitare ad ascoltarti.
ATENIESE: Esaminiamo la cosa in questo modo. Coraggio, se qualcuno elogiasse l'allevamento delle capre e la capra stessa come un buon possesso, ed un altro, avendo visto delle capre pascolare senza pastore su terreni coltivati recandovi dei danni, le biasimasse, e biasimasse così ogni animale senza una guida o accompagnato da una guida cattiva, dobbiamo ritenere che il biasimo di quel tale sia in ogni caso inattaccabile?
MEGILLO: E come?
ATENIESE: Un capitano di una nave è valente solo se conosce la scienza della navigazione, sia che soffra il mal di mare sia che non lo soffra, o come dobbiamo dire?
MEGILLO: Non lo è affatto se alla scienza si aggiunge anche quel malessere di cui parli.
ATENIESE: E un generale di soldati? Se è fornito della scienza della guerra, sarà in grado di comandare, anche se è vile dinanzi ai pericoli e se la paura lo fa stare male come se fosse ubriaco?
MEGILLO: E come potrebbe?
ATENIESE: E se non è fornito dell'arte ed è vile?
MEGILLO: Parli di una persona totalmente priva di valore, che non potrebbe mai comandare degli uomini, ma qualche donnetta.
ATENIESE: E che dire di quel tale che loda o critica una qualsiasi comunità - che per natura ha bisogno di una guida con il quale può recare vantaggio -, che forse non ha mai visto una comunità perfettamente associata sotto la guida di un capo, ma sempre senza guida oppure unita a guide malvagie? Crediamo che simili osservatori di comunità di questo genere forniscano una critica o una lode attendibili?
MEGILLO: Come potrebbero, se non hanno mai visto e non hanno mai fatto parte di nessuna di quelle comunità perfettamente associate?
ATENIESE: Attenzione! Fra le molte comunità potremmo considerare come una qualsiasi comunità quella dei convitati e i simposi?
MEGILLO: Ma certamente.
ATENIESE: E qualcuno ha mai assistito a un simposio ben ordinato? E a voi due è facile rispondere: «No, mai, assolutamente». Infatti presso di voi non vi sono queste usanze e non sono neppure consentite dalla legge. Per quanto mi riguarda, invece, ne ho frequentati molti e in molti luoghi, e per giunta tutti quanti, se così si può dire, li ho interrogati, e non mi è quasi mai capitato di vederne o sentirne nessuno che fosse perfettamente organizzato, se non in qualche minuscolo e trascurabile aspetto, mentre la maggior parte di essi era per così dire viziata.
CLINIA: Che cosa vuoi dire con queste parole, straniero? Parla in modo ancora più chiaro: noi infatti, come anche tu hai detto, siamo inesperti di tali riunioni, e neppure se le frequentassimo, saremmo forse subito in grado di riconoscere ciò che in esse è giusto da ciò che non lo è.
ATENIESE: Quello che dici è vero: ma io ti rispiego la cosa e tu cerca di capire. Capisci che in ogni assemblea, in ogni associazione, quale che sia la sua attività, è giusto che vi sia sempre una guida?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E adesso dicevamo che chi è alla guida di uomini che combattono dev'essere valoroso.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E chi è valoroso viene turbato dalla paura meno dei vili.
CLINIA: Anche questo è giusto.
ATENIESE: E se con qualche espediente si riuscisse a porre a capo di un esercito una persona che non viene affatto sfiorata dalla paura e non è turbata da nulla, non faremmo questo in ogni modo?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ora però non parliamo del capo di un esercito che dovrà guidare gli scontri fra uomini nemici contro altri nemici durante la guerra, ma di chi dovrà presiedere, in tempo di pace, la benevola unione di amici con altri amici.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Una riunione come questa, se si svolgesse fra l'ubriachezza, non potrebbe essere ordinata. O no?
CLINIA: E come potrebbe? Anzi, sarebbe tutto l'opposto.
ATENIESE Dunque innanzitutto c'è bisogno di una guida anche per questi?
CLINIA: Certo, come in nessun altro caso.
ATENIESE: Bisognerebbe allora procurare, se fosse possibile, una guida priva di turbamenti?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E bisognerebbe che fosse accorto nelle riunioni: infatti diventa il custode dell'amicizia che si stabilisce fra i partecipanti, ed inoltre si prende cura affinché, nel corso della riunione, questa si rafforzi sempre di più.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: E quindi non bisognerà che una persona sobria e saggia sia messa a capo di persone ubriache, e non tutto l'opposto? Infatti se la guida degli ubriachi fosse un ubriaco, e per giunta giovane privo di saggezza, sarebbe assai fortunato se non causasse una grave disgrazia.
CLINIA: Molto fortunato davvero.
ATENIESE: Se dunque uno critica le adunanze di tal genere, che nel modo più corretto si svolgono negli stati, biasimando la cosa in sé, può darsi che la sua critica sia giusta: ma se attacca a fondo un'usanza perché la vede del tutto errata, per prima cosa è chiaro che non riconosce l'anormalità di quel che accade, e in secondo luogo che ogni cosa appare in ogni modo malvagia, se avviene senza un padrone o una guida sobri. Non vedi che un nocchiere ubriaco, o una qualsiasi altra guida manda tutto in rovina, navi, carri, eserciti, e ogni altra cosa guidata da lui?
CLINIA: Quello che hai detto è tutto vero, straniero. E dopo di ciò spiegaci questo: quale bene deriverebbe a noi se questa usanza dei simposii si svolgesse correttamente? Secondo l'esempio di cui ora parlavamo, se un esercito è guidato rettamente, i soldati che si attengono a tale guida vinceranno in guerra, e non è un bene di scarso valore, e così sarà in altri casi: ma un simposio guidato correttamente quali vantaggi procurerà ai privati cittadini o allo stato?
ATENIESE: E dunque? Se un solo fanciullo o anche un solo coro di fanciulli viene educato come si deve, quale vantaggio possiamo dire che derivi per lo stato? Se fossimo interrogati in questo modo, diremmo che dall'educazione di un solo fanciullo deriverebbe uno scarso vantaggio per lo stato, ma se si domanda in generale quale vantaggio deriva allo stato dall'educazione di tutti coloro che vengono educati, non è difficile rispondere che coloro che vengono educati rettamente diventeranno uomini valorosi, e diventando tali agiranno bene in tutte le altre cose, e soprattutto avranno la meglio sui nemici in battaglia. L'educazione può dunque portare con sé anche la vittoria, mentre la vittoria talvolta rende privi dell'educazione: molti infatti diventarono insolenti per le vittorie riportate in guerra e per questa insolenza si riempirono di innumerevoli altri mali, e mentre l'educazione non è mai stata una vittoria di Cadmo, molte vittorie sono state e saranno tali per gli uomini.
CLINIA: Ci sembra, amico, che tu parli di quelle conversazioni che si tengono fra bevitori, come di cosa che contribuisce in grande misura all'educazione, se si svolgono correttamente.
ATENIESE: E allora?
CLINIA: Sei in grado di dimostrare, dopo di ciò, che quello che hai detto ora è vero?
ATENIESE: Sostenere con vigore che in realtà le cose stanno così, quando molti sono in disaccordo, è impresa degna di un dio: ma se devo dire come la penso, non vi è alcun problema, dal momento che oggi abbiamo cominciato a fare questi discorsi sulle leggi e sulla costituzione.
CLINIA: è proprio questo che cerchiamo di sapere, e cioè il tuo parere su queste e controversie che oggi ci impegnano.
ATENIESE: Allora bisogna fare così, e pertanto voi dovete sforzarvi di apprendere, mentre io proverò a spiegarvi tale questione. Prima di tutto ascoltate quanto segue: tutti i Greci sono convinti che il nostro stato sia amante di molti e bei discorsi, e che Sparta e Creta siano l'una caratterizzata da brevi discorsi, e l'altra esercitata nella riflessione piuttosto che nell'abbondanza di discorsi. Ecco perché devo fare attenzione a non darvi l'impressione che io dica molte cose intorno ad un piccolo problema svolgendo intorno ad una questione di poca importanza come quella dell'ubriachezza, ad esempio, un discorso troppo lungo. Ma non è possibile fornire una spiegazione chiara e sufficiente del giusto valore dell'ebbrezza, conformandola in modo corretto alla sua natura, senza aver definito la natura della musica, e d'altra parte non si può parlare della musica senza trattare l'educazione nel suo complesso: e tutto ciò richiederebbe un enorme discorso. Vedete dunque che cosa possiamo fare, e cioè se dobbiamo lasciar perdere queste cose nella circostanza presente e passare ad un altro aspetto che riguardi le leggi.
MEGILLO: Straniero di Atene, forse non sai che la mia famiglia è ospite del vostro stato. Probabilmente dunque a tutti i ragazzi, non appena vengono a sapere di essere ospiti di uno stato, capita questo: fin da giovani si insinua immediatamente in ciascuno di noi ospiti una certa benevolenza verso lo stato ospitante, come se fosse la seconda patria dopo la propria. Ed è proprio lo stato d'animo che è sorto in me. Infatti ascoltando i fanciulli spartani che criticavano o elogiavano in qualcosa gli Ateniesi dicendo: «O Megillo, il vostro stato ci ha fatto quel bene o quel male», ascoltando questo, allora, e difendendovi sempre contro chi muoveva queste critiche al vostro stato, nutrivo un profondo sentimento di benevolenza, e anche adesso mi è assai cara la vostra voce, e quel detto comune che afferma che se gli Ateniesi sono buoni lo sono in modo eccellente mi sembra assai rispondente alla verità: essi soli, infatti, sono buoni senza essere costretti da necessità alcuna, ma proprio in virtù della loro natura, per una sorte divina, e non lo sono in modo fittizio, ma veramente. Per quanto mi riguarda, allora, puoi dire tutto quello che vuoi.
CLINIA: E anche da parte mia, straniero, ascolta e accogli un discorso, e in seguito di' pure quello che vuoi. Forse hai sentito che in questo paese nacque Epimenide, uomo divino, nostro parente ancora, che venne da voi dieci anni prima delle guerre persiane, secondo l'oracolo del dio, e compì alcuni sacrifici che il dio gli aveva ordinato. E poiché gli Ateniesi temevano la spedizione persiana, disse che non sarebbero giunti prima di dieci anni, e quando fossero giunti, si sarebbero allontanati senza aver compiuto nulla di ciò che era nelle loro speranze, subendo invece molti più mali di quanto ne avrebbero compiuti. In quel tempo dunque i nostri antenati stabilirono con voi rapporti di ospitalità, e da allora io e i miei famigliari nutriamo un sentimento di benevolenza nei vostri confronti.
ATENIESE: A quanto pare voi siete preparati ad ascoltare, mentre io vorrei esser pronto a parlare, e anche se non è facile, tuttavia ci proverò. Prima di tutto definiamo, in relazione a questo discorso, che cos'è l'educazione e qual è la sua validità. Per questa strada, diciamo, deve procedere il discorso che oggi abbiamo intrapreso, finché non giunga al cospetto del dio.
CLINIA: Sì, facciamo pure così, se ti piace.
ATENIESE: Quando dico che cosa mai si deve dire che sia l'educazione, verificate se la mia definizione vi piace.
CLINIA: Parla pure.
ATENIESE: E allora parlo, e dico che chi vuole diventare eccellente in qualsiasi cosa, fin da giovane deve esercitarsi in essa, e sia quando gioca sia quando si applica deve cercare quei singoli aspetti che si riferiscono a quella cosa. Ad esempio, chi vuole diventare un bravo contadino o un bravo architetto, bisogna che giochi, uno a costruire quelle case che i fanciulli amano costruire, l'altro a coltivare la terra, e chi li educa dovrà procurare ad entrambi piccoli strumenti che imitano quelli veri. E ancora, è necessario che essi apprendano tutte le nozioni che bisogna apprendere da fanciulli, ad esempio, per l'architetto il misurare e l'usare il filo a piombo, per il militare il cavalcare giocando, o compiere qualche altro esercizio del genere, in modo da cercare di volgere, mediante il gioco, i piaceri e i desideri dei fanciulli verso il punto in cui un giorno dovranno giungere e realizzarsi. E noi diciamo che il punto essenziale dell'educazione consiste in un corretto allevamento che, tramite il gioco, diriga il più possibile l'anima del fanciullo ad amare quello che, divenuto uomo, dovrà renderlo perfetto nella virtù propria della sua professione. Vedete dunque se quello che ho detto fino ad ora vi piace.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Non lasciamo allora nel vago ciò che chiamiamo educazione. Ora infatti, criticando ed elogiando l'educazione di ciascuno, diciamo che quello, fra noi, è ben educato e quell'altro privo di educazione, e anche, talvolta, ci riferiamo a chi è ben addestrato nei commerci e nei traffici marittimi, e ad altri uomini assai esperti in altre attività. Ma il nostro ragionamento, a quanto pare, non è proprio di chi pensa che l'educazione consista in queste cose, ma di chi piuttosto crede che l'educazione formi sin da giovani alla virtù, suscitando l'amore e il desiderio di realizzarsi come cittadini, in modo da saper governare ed essere governati secondo giustizia. Dopo aver circoscritto questo tipo di educazione, questa sola il nostro discorso, per quel che mi sembra, intende definire con il termine di educazione, mentre quella che tende alle ricchezze o alla forza o a qualche altra abilità che sia priva dell'intelletto e della giustizia, è volgare, servile, e non è affatto degna di essere chiamata educazione. Ma ora non discutiamo sul nome, e rimaniamo invece fedeli al termine sul quale poco fa ci siamo accordati, dicendo che coloro che sono stati rettamente educati sono buoni, e che non si deve affatto disprezzare l'educazione, poiché è il più importante fra gli splendidi beni che ricevono gli uomini migliori: e se talvolta ci allontaniamo dalla strada maestra, possiamo correggere il nostro cammino, e questa cosa chiunque deve fare nel corso della sua vita, nel limite delle sue possibilità.
CLINIA: Giusto, siamo d'accordo con quello che dici.
ATENIESE: E anche prima eravamo d'accordo che i buoni sono in grado di dominare se stessi, i cattivi no.
CLINIA: Quello che dici è giustissimo.
ATENIESE: Riprendiamo ancora più chiaramente proprio questo concetto che stiamo dicendo. E lasciate che vi mostri quello che dirò con un'immagine, se sono capace.
CLINIA: Di' pure.
ATENIESE: Stabiliamo allora che ciascuno di noi è uno?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: E non è fornito di due consiglieri opposti e dissennati che chiamiamo piacere e dolore?
CLINIA: è così.
ATENIESE: E oltre a questi due vi sono le opinioni sul futuro, cui comunemente si dà il nome di “speranza”, e in particolare si dice “timore” l'attesa del dolore, e “fiducia” l'attesa di ciò che è contrario: sopra tutti questi stati d'animo vi è come un calcolo che stabilisce qual è di essi il migliore e quale il peggiore, che diventando pubblico decreto per la città assume il nome di “legge”.
CLINIA: A stento ti seguo, ma dimmi pure il seguito del ragionamento come ti seguissi.
MEGILLO: Anch'io provo la stessa sensazione.
ATENIESE: Riflettiamo allora in questo modo su tali cose. Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una macchina prodigiosa realizzata dagli dèi, vuoi per loro divertimento, vuoi per uno scopo serio; questo non lo sappiamo. Ciò che invece sappiamo è che queste passioni, che sono in noi come corde o funicelle, ci tirano, ed essendo opposte fra loro, ci tirano in senso contrario, trascinandoci verso azioni opposte, ed è così che si stabilisce la differenza fra la virtù e il vizio. La ragione ci consiglia di seguire sempre uno solo di questi stimoli, di non abbandonarlo affatto, e di resistere a tutti gli altri fili: questa è la regola d'oro della ragione, quella sacra condotta che viene chiamata la pubblica legge dello stato, e se le altre sono dure come fossero di ferro e assumono le forme più svariate, questa è duttile, perché è d'oro. Bisogna collaborare sempre con la splendida guida della legge: poiché la ragione è bella, mite, e priva di violenza, la sua guida ha bisogno di collaboratori affinché in noi la stirpe d'oro vinca sulle altre stirpi. E così il mito della virtù, secondo cui noi siamo come macchine prodigiose, verrà salvaguardato, e in un certo senso comprenderemo più chiaramente il senso dell'espressione: «essere superiori o inferiori a se stessi». E per quanto riguarda lo stato e il privato cittadino, bisogna che il privato cittadino accolga dentro di sé la vera ragion d'essere di questi stimoli e ad essa conformi la propria vita, mentre lo stato, ricevendo da un dio o da quel cittadino che abbia conosciuto tale ragione, deve stabilirla come legge sia nelle relazioni con se stesso, sia in quelle con gli altri stati. Così avremo distinto più chiaramente il vizio e la virtù: e chiariti questi concetti, anche l'educazione e tutte le altre usanze saranno forse più evidenti, e addirittura la questione riguardante i simposi. A questo proposito si potrà pensare che intorno ad un argomento di scarsa importanza si è fatto un giro di parole troppo lungo e superfluo, ma forse non sembra affatto indegno di tante parole.
CLINIA: Dici bene, ma adesso cerchiamo di trattare quei problemi che sono degni della nostra discussione di oggi.
ATENIESE: Dimmi: se in questa macchina prodigiosa aggiungiamo del vino, in quale condizione mai la rendiamo?
CLINIA: Che cosa vuoi indagare con questa domanda?
ATENIESE: Nulla, ma voglio solo sapere questo in generale, e cioè cosa diventerà, se essa partecipa di quello stato. Cercherò di spiegare ancor più chiaramente ciò che voglio dire. Ecco la domanda: il bere vino rende più intensi i piaceri e i dolori, l'ira e l'amore?
CLINIA: Certo!
ATENIESE: E che dire delle sensazioni e della memoria, delle opinioni e dei pensieri? Saranno allo stesso modo più intensi? Oppure abbandonano del tutto chi è pieno di vino?
CLINIA: Sì, lo abbandonano del tutto.
ATENIESE: E la condizione della sua anima non diviene identica a quella di quand'era bambino?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E non sarà affatto padrone di se stesso?
CLINIA: Affatto.
ATENIESE: E tale condizione, diremo, non è la peggiore?
CLINIA: Non c'è dubbio.
ATENIESE: Non solo il vecchio, a quanto pare, diviene bambino una seconda volta, ma anche l'ubriaco.
CLINIA: Dici benissimo, straniero.
ATENIESE: Vi può essere un argomento che cercherà di convincerci che tale consuetudine dev'essere assaporata, senza evitarla, per quanto possibile, con ogni sforzo?
CLINIA: Mi pare che ci sia: sei tu che lo hai detto, anzi un momento fa eri pronto ad esporlo.
ATENIESE: Quello che ricordi è vero: anche adesso sono pronto, dato che avete detto di volermi ascoltare volentieri.
CLINIA: Come infatti non ascoltarti? Ne vale la pena, se non altro perché ascolteremo qualche cosa di incredibile e assurdo, ovvero per quale ragione un uomo deve gettarsi volontariamente nella più totale miseria.
ATENIESE: Parli dell'anima? O no?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: E allora? Se un tale, amico, rendesse il suo corpo brutto, magro, deforme, e debilitato, ci stupiremmo se giungesse volontariamente in tale condizione?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: E dunque? Pensiamo che chi si reca dal medico per prendere una medicina non sappia che subito dopo e per molti giorni il suo corpo sarà in condizioni tali che se per sempre dovesse essere così, non accetterebbe l'idea di vivere? E quanti si recano nei ginnasi a compiere esercizi fisici, non sappiamo che sul momento sono deboli?
CLINIA: Sappiamo bene tutto questo.
ATENIESE: E che si recano volentieri pensando al vantaggio che seguirà?
CLINIA: Benissimo.
ATENIESE: Dunque anche per le altre usanze non si deve pensarla allo stesso modo?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Bisogna allora pensarla così anche riguardo ai passatempi del vino, se in essi si può correttamente pensare qualcosa di utile.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Se dunque ci risultano avere un qualche vantaggio che non sia affatto inferiore a quello degli esercizi del corpo, sin dal principio essi saranno superiori all'esercizio fisico, perché quello si accompagna alla sofferenza, mentre essi ne sono esenti.
CLINIA: Quello che dici è giusto, ma mi stupirei se fossimo in grado di osservare qualcosa di simile nel vino.
ATENIESE: Ma proprio questo adesso, a quanto pare, dobbiamo ormai cercare di spiegare. E dimmi: non possiamo osservare due generi opposti di timori?
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Questi qui: noi temiamo i mali, quando ci aspettiamo che accadano.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Spesso temiamo le opinioni, pensando di essere considerati malvagi se facciamo o diciamo qualcosa che non è bene: e questo genere di timore noi tutti lo chiamiamo, io credo, “pudore”.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Questi sono i due generi di timori di cui parlavo: e di essi il secondo è opposto alle sofferenze fisiche e alle altre paure in genere, ed è opposto, inoltre, alla maggior parte dei piaceri e a quelli più intensi.
CLINIA: Quello che dici è giustissimo.
ATENIESE: Dunque non dovrebbe un legislatore, o chi abbia un benché piccolo valore, venerare con grandi onori questo genere di timore, e chiamandolo pudore, non dovrebbe invece definire con il nome di “impudenza” l'audacia che ad esso si oppone, e stimarla come il male più grave per tutti, in pubblico e in privato?
CLINIA: Quello che dici è giusto.
ATENIESE: E non è forse vero che questo timore ci mette in guardia da molti altri grandi mali? E che non vi è nulla in confronto che abbia una forza tale da poterci garantire in guerra vittoria e salvezza? Due infatti sono gli elementi che determinano la vittoria: il coraggio dinanzi ai nemici, e la paura della vergogna di fronte agli amici.
CLINIA: è così.
ATENIESE: Bisogna che ciascuno di noi da un lato non abbia timore e dall'altro sia timoroso: abbiamo già spiegato la ragione dell'uno e dell'altro atteggiamento.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Volendo liberare ciascuno da molti timori, lo rendiamo tale conducendolo, con l'aiuto della legge, dinanzi al timore.
CLINIA: è chiaro.
ATENIESE: E che facciamo quando intendiamo rendere un tale timoroso secondo giustizia? Non dobbiamo fare in modo che, imbattendosi nell'impudenza ed esercitandosi in essa, diventi capace di combattere e contrastare i suoi piaceri? O non deve forse combattere e vincere la viltà che è dentro di sé, diventando così perfetto per quanto riguarda il coraggio, dal momento che se non si fa esperienza e non ci si esercita in tali esercizi nessuno può diventare virtuoso, neppure la metà? E sarà forse perfettamente saggio chi non avrà contrastato e vinto quei numerosi piaceri e desideri che incitano all'impudenza e all'ingiustizia mediante la ragione, l'azione, e l'arte, tanto nel divertimento quanto nel serio impegno, ma al contrario non abbia mai fatto tali esperienze?
CLINIA: Non sarebbe un discorso verosimile.
ATENIESE: E allora? Vi è un dio che abbia dato agli uomini una pozione per suscitare timore, sicché quanto più uno desideri berne, tanto più ad ogni bevuta ritenga di diventare sventurato, e abbia paura per tutto ciò che gli può e gli potrà accadere, e addirittura il più coraggioso degli uomini giunga a temere di tutto, finché, svegliatosi e liberatosi dagli effetti di quella bevanda, ritorni nuovamente a essere se stesso?
CLINIA: E, straniero, quale bevanda simile possiamo dire che vi sia fra gli uomini?
ATENIESE: Nessuna. Ma se da qualche luogo provenisse, non sarebbe utile al legislatore per il coraggio? A questo proposito potremo ad esempio rivolgerci a lui con queste parole: «Avanti, legislatore, tu che emani leggi per i Cretesi e per altri popoli, non accetteresti come prima cosa di aver la possibilità di mettere alla prova il coraggio e la viltà dei tuoi cittadini?».
CLINIA: Chiunque chiaramente direbbe di sì.
ATENIESE: «E come? Con sicurezza e senza grandi rischi, oppure tutto il contrario?».
CLINIA: Anche su questo punto ci si troverebbe tutti d'accordo: con sicurezza.
ATENIESE: «Useresti questa pozione per condurre i cittadini dinanzi alle paure e criticarli quando vengono a trovarsi in quello stato d'animo, così da costringerli a diventare impavidi, esortando, ammonendo, e onorando da un lato, ma disonorando chi non ti obbedisca e si rifiuti di essere sotto ogni aspetto così come gli comandi di essere? E lascerai andare senza punirlo colui che si esercita bene e valorosamente, mentre punirai chi si comporta in modo malvagio? Oppure non te ne serviresti affatto, pur non dovendo criticare in alcun modo la bevanda?».
CLINIA: E come non potrebbe servirsene, straniero?
ATENIESE: Essa sarebbe, amico, in confronto agli esercizi attuali, un esercizio straordinariamente facile per una sola persona, per pochi, per quanti si voglia: e agirebbe bene tanto chi da solo, in un luogo solitario, con il pretesto della vergogna, ritenendo di non dover essere visto prima di aver imparato a comportarsi rettamente, così si allenasse contro le paure, procurandosi la sola pozione in luogo di innumerevoli complicazioni; quanto chi, confidando in se stesso e ritenendo di essere ben preparato grazie alla sua natura e all'allenamento svolto, non si vergognasse affatto di esercitarsi fra molti convitati, dimostrando di superare e vincere l'inevitabile potere esercitato dalla bevanda, in modo da non vacillare rovinosamente sotto il peso dell'indecenza e così da non alterarsi, grazie alla sua virtù, e si allontanasse prima di giungere all'ultima bevuta, temendo di subire, come tutti gli altri uomini, la sconfitta da parte della bevanda.
CLINIA: Sì, straniero, sarebbe saggio chi si comportasse in tal modo.
ATENIESE: Rivolgiamo nuovamente al legislatore queste parole: «Ebbene, legislatore, nessun dio ha dato agli uomini una simile pozione per suscitare timore, e noi stessi da soli non ne abbiamo escogitato uno - naturalmente non tengo in conto i maghi -. Possiamo invece dire che esiste o no una pozione che liberi dalla paura e susciti un'audacia eccessiva e sconveniente?».
CLINIA: Dirà che essa esiste, e spiegherà che si tratta del vino.
ATENIESE: E questa bevanda non è all'opposto di tutto quello che abbiamo appena detto? Non rende subito, innanzitutto, ogni uomo più allegro di prima, e quanto più ne gusta tanto più si riempie di molte e belle speranze e si crede potente? E alla fine quel tale non è totalmente pieno della libertà di parlare, come fosse un saggio, e della libertà in genere, e non è del tutto privo del timore, sicché parla ed agisce in qualsiasi modo senza remora alcuna? Chiunque, io credo, sarebbe d'accordo su questo punto.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ricordiamoci che abbiamo detto che nella nostra anima bisogna prendersi cura di due cose, e cioè di essere il più possibile coraggiosi da un lato, e, al contrario, di essere il più timorosi possibili.
CLINIA: Cosa che dicevi far parte del pudore, crediamo.
ATENIESE: Ricordate bene. E poiché bisogna esercitarsi nei timori per diventare coraggiosi e spavaldi, si deve considerare se bisogna coltivare queste opposte qualità con metodi opposti.
CLINIA: Questo potrebbe essere vero.
ATENIESE: Quando ci troviamo in una condizione naturale che ci rende particolarmente audaci e insolenti, bisognerebbe, a quanto pare, esercitarsi ad essere il meno carichi possibile di impudenza e di insolenza, e a divenire ogni volta timorosi, così da non avere il coraggio di dire, o di fare, o di subire qualcosa di turpe.
CLINIA: Mi pare.
ATENIESE: E dunque non sono proprio questi gli stati d'animo in cui ci veniamo a trovare, ovvero l'ira, l'amore, l'insolenza, l'ignoranza, l'amore per i guadagni, la viltà, e, ancora, la ricchezza, la bellezza, la forza, e tutto ciò che ubriacandoci di piacere, ci fa uscire di senno? Per fare innanzitutto una prova semplice e assai innocua di questi vizi, e per esercitarci in seguito contro di essi, quale piacere possiamo citare che sia più adatto di quella prova che per divertirci abbiamo effettuato con il vino, e che comunque avvenga con precauzione? Vediamo un po': è più pericoloso saggiare un tale dall'indole scorbutica e selvatica, capace di innumerevoli ingiustizie, entrando in certe relazioni d'affari che per lui sarebbero rischiose, oppure incontrare costui durante le feste di Dionisio? O ancora, per provare un tale che ha un carattere che cede ai piaceri sessuali, esamineremo tale indole affidandogli figlie, figli, e mogli, mettendo così a rischio quel che abbiamo di più caro? E anche citando innumerevoli altri casi, non si sarebbe in grado di indicare quanto è differente l'osservazione che avviene per gioco la quale diversamente dalle altre non implica un prezzo troppo svantaggioso. Pertanto a questo riguardo crediamo che né i Cretesi, né nessun'altra persona la penserà diversamente su questo punto, sostenendo che questa prova che noi facciamo vicendevolmente non sia conveniente, e che rispetto alle altre prove non differisca per la sua semplicità, la sua sicurezza, e la sua rapidità.
CLINIA: Questo è vero.
ATENIESE: Questa è senz'altro la cosa più vantaggiosa, ovvero il conoscere le indoli e le disposizioni delle anime, per quell'arte che deve curarsi di queste cose. E questo diciamo, io credo, che sia proprio della politica. O no?
CLINIA: Certamente.
Eugenio Caruso ... 24 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO SECONDO
ATENIESE: Dopo di ciò, a quanto pare, bisogna esaminare, a questo riguardo, se i simposi hanno soltanto questo bene, e cioè quello di esaminare la disposizione della nostra indole, oppure se nell'uso corretto delle riunioni dove si beve vino vi sia qualche altro grande vantaggio degno di molta attenzione. Che cosa dunque diciamo? Che questo vantaggio esiste, come pare che il mio discorso voglia dimostrare: ma dove e come lo si ottenga, ascoltiamo e facciamo attenzione, per non rimanere noi stessi vittima del nostro stesso ragionamento.
CLINIA: Parla dunque.
ATENIESE: Desidero ricordare ancora una volta che cosa mai intendiamo per retta educazione. La sua salvezza consiste infatti, per quel che ora capisco, nello svolgimento corretto di questa pratica.
CLINIA: Quello che dici è importante.
ATENIESE: Dico dunque che le prime sensazioni infantili dei bambini sono piacere e dolore, ed è in quest'ambito di piacere e dolore che si insediano per la prima volta, nella loro anima, virtù e vizi, mentre per quanto riguarda la prudenza e le opinioni vere e stabili, può ritenersi fortunato colui che riesce a venirne in possesso quando giunge alla vecchiaia: perfetto è dunque quell'uomo che possiede questi beni e tutti quelli che vi sono inclusi. Denomino educazione quella virtù che per la prima volta si insedia nei fanciulli: e se il piacere e l'amore, e il dolore e l'odio nascono correttamente nelle loro anime, quando ancora non sono in grado di coglierli con la ragione, e se, non appena potranno cogliere la ragione, si accordano ad essa, essendo stati abituati a farlo nei modi più convenienti, proprio quest'accordo rappresenterà la più completa virtù. Se allora individuiamo con il ragionamento quello che costituisce il corretto orientamento verso i piaceri e i dolori, sicché si odia quel che si deve odiare, subito, dall'inizio sino alla fine, e si ama quel che si deve amare, e chiamiamo questo complesso di cose educazione, a mio avviso gli assegneremo una denominazione corretta.
CLINIA: E infatti, straniero, ci sembra che anche prima, così come in questo momento, tu abbia parlato in modo corretto dell'educazione.
ATENIESE: Bene dunque. E poiché l'educazione, che consiste in quel corretto orientamento verso i piaceri e i dolori, si allenta e si corrompe in molte circostanze della vita, gli dèi, provando pietà per il genere umano che è destinato a vivere in mezzo ai travagli, stabilirono, per gli uomini come delle pause fra questi travagli, che sono rappresentate dall'alternarsi delle feste in onore degli dèi, e diedero loro le Muse, e Apollo signore delle Muse, e Dionisio perché, celebrandole con loro, fossero resi migliori, e la loro educazione fosse seguita nelle feste dagli dèi stessi. Bisogna allora vedere se per noi è veritiero o no, e conforme alla sua natura, il discorso che oggi celebriamo. Si dice che ogni giovane essere vivente, per così dire, non riesca mai a stare quieto con il corpo e con la voce, ma cerchi sempre di muoversi e di parlare forte, e alcuni saltano e balzano, come se danzassero con piacere e giocassero, altri emettono ogni sorta di suoni. E mentre gli altri esseri viventi non hanno percezione dell'ordine e del disordine che si verifica in questi movimenti e a cui diamo il nome di “ritmo” ed “armonia”, a noi invece quegli dèi che, abbiamo detto prima, ci furono dati come compagni di danza, fecero anche dono della percezione del ritmo e dell'armonia accompagnati al piacere, con cui ci muovono e guidano i nostri cori, legandoci gli uni agli altri con canti e danze, e li hanno chiamati “cori” per quel senso di gioia che in essi è connaturato. Accetteremo, intanto, questo discorso? Stabiliamo che la primitiva educazione fu opera delle Muse e di Apollo, o come diremo?
CLINIA: Così va bene.
ATENIESE: Dunque sarà secondo noi privo di educazione chi non conosce l'arte dei cori, e consideriamo invece educato chi ha di essi una buona conoscenza?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: I cori consistono nell'unione di danza e canto.
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: Chi è educato bene sarà capace di cantare e danzare bene.
CLINIA: Mi pare.
ATENIESE: Vediamo che cosa significa quello che ora è stato detto.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: «Canta bene», diciamo, «e danza bene». Ma aggiungiamo o no: «Se anche belli sono i canti e le danze»?
CLINIA: Aggiungiamolo.
ATENIESE: E che dire se uno ritiene bello ciò che è bello, e brutto ciò che è brutto, e in questo modo se ne serve? Per noi sarà meglio educata nella danza e nella musica una persona simile, o chi potendo ogni volta imitare adeguatamente con il corpo e con l'intonazione della voce ciò che viene concepito come bello, non gioisce del bello, né detesta ciò che bello non è? O chi non sia affatto in grado di esprimere con la voce e con il corpo ciò che pensa, e senta con il piacere e con il dolore, rallegrandosi di ciò che è bello ed evitando infastidito ciò che invece non è bello?
CLINIA: Grande è la differenza di educazione, straniero.
ATENIESE: Se dunque noi tre siamo a conoscenza del bello nel canto e nella danza, non sappiamo anche individuare correttamente chi sia fornito di educazione e chi ne sia privo? Ma se non sappiamo ciò, non possiamo neppure sapere se vi sia e dove sia una salvaguardia dell'educazione. O non è così?
CLINIA: è così.
ATENIESE: Proprio questo noi dobbiamo investigare, come fossimo cagne sulle tracce della preda: la bellezza della movenza, della melodia, del canto e della danza. E se tutto ciò ci sfuggisse di mano e sparisse, sarebbe inutile tutto il nostro discorso successivo intorno alla retta educazione dei Greci e dei Barbari.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Ebbene: qual è mai la movenza o la melodia che dobbiamo dire bella? Avanti, movenze e gesti di un uomo dall'animo virile e di un altro dall'animo vile saranno somiglianti quando si vengano a trovare in mezzo ad identici ed uguali travagli?
CLINIA: E come potrebbero, quando in comune non hanno neppure il colore del viso?
ATENIESE: Bene, amico. Ma nella musica vi sono movenze e melodie, poiché la musica si fonda sul ritmo e sull'armonia, sicché è giusto dire che una musica è ben ritmata e ben armonizzata, mentre è improprio dire, mediante un'immagine, che una melodia o una movenza sono ben coloriti, come fanno i maestri dei cori: del resto esiste la movenza o la melodia dell'uomo vile e di quello valoroso, e si può giustamente definire bello quello degli uomini valorosi, e turpe quello dei vili. E per non fare un discorso troppo lungo intorno a tutto ciò, si dica semplicemente che tutte le movenze e le melodie dell'anima o del corpo che esprimono direttamente la virtù o ne sono immagine sono belle, mentre quelle che esprimono il vizio sono tutto il contrario.
CLINIA: è giusta la tua provocazione, e noi adesso rispondiamo che siamo d'accordo con te.
ATENIESE: Voglio aggiungere ancora questo: proviamo tutti lo stesso godimento per ogni coro, o è ben lontano dall'essere così?
CLINIA: è ben lontano dall'essere così.
ATENIESE: Che cos'è allora che diciamo che ci induce in errore? Forse le stesse cose non sono belle per noi tutti, oppure lo sono, ma non sembrano tali? Infatti nessuno dirà che i cori che sono espressione del vizio sono più belli di quelli che sono espressione della virtù, e neppure che mentre trae godimento da malvagie movenze, gli altri godono di un'opposta Musa: eppure la maggioranza dice che la regolarità della musica consiste nella capacità di procurare diletto all'anima. Ma questo modo di esprimerci è del tutto intollerabile ed empio a dirsi, e questa è verosimilmente la causa del nostro errore.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Poiché le rappresentazioni corali sono imitazione di modi di vita che riguardano azioni e circostanze di ogni genere, e ciascuna avviene grazie alla pratica dell'imitazione, è inevitabile che coloro che trovano corrispondenti alla loro natura o alla loro sensibilità - o all'una e all'altra cosa insieme - ciò che viene detto o cantato, e in ogni caso rappresentato dai cori, ne traggano godimento, e lo esaltino con lodi, e lo definiscano bello, mentre coloro che lo trovano contrastante con la loro natura, con la loro sensibilità, e con i loro costumi di vita non potranno trarne godimento e neppure elogiarlo, ma diranno che è brutto. Quelli poi che hanno una buona indole naturale, ma cattive abitudini di vita, oppure quelli che hanno corrette abitudini di vita, ma una cattiva indole naturale, rivolgono i loro elogi in modo opposto ai loro piaceri: perché affermano che ciascuna di queste danze è piacevole ma malvagia, e dinanzi ad altre persone che credono che siano sagge si vergognano di muoversi con il corpo secondo tali movenze, e si vergognano di cantare tali melodie, come se volessero dimostrare seriamente che sono belle, mentre dentro di sé ne traggono godimento.
CLINIA: Quello che dici è giustissimo.
ATENIESE: E godere delle movenze o delle melodie del male porta forse con sé qualche danno, mentre il ricevere piaceri da cose opposte reca qualche vantaggio?
CLINIA: è verosimile.
ATENIESE: è verosimile o anche necessario che accada la stessa cosa come se un tale, essendo in relazione con cattive abitudini di uomini malvagi, non le detesti, ma le accetti e ne tragga godimento, e le rimproveri solo per scherzo, vedendo in sogno la propria depravazione? Allora è inevitabile che chi gode divenga simile a queste cose di cui gode, benché si vergogni di lodarle: ebbene quale bene o quale male più grande di questi possiamo dire che necessariamente ci possono capitare?
CLINIA: Nessuno, mi sembra.
ATENIESE: Laddove siano stabilite buone leggi, o lo saranno per il tempo futuro, relative all'educazione delle Muse e al divertimento, pensiamo che sarà possibile ai poeti insegnare nei cori ai giovani e ai figli dei cittadini retti da ottime leggi ciò che nella poesia riscalda l'animo del poeta stesso per il ritmo, la melodia, e la parola, conducendoli al vizio o alla virtù così come capita?
CLINIA: Questo discorso non ha senso: come infatti potrebbero?
ATENIESE: Ora questo, per così dire, può essere compiuto in tutti gli stati, fatta eccezione per l'Egitto.
CLINIA: E come dici che in Egitto le leggi amministrano una simile materia?
ATENIESE: è incredibile anche solo a sentirne parlare. Perché anticamente, a quanto pare, fu riconosciuto da quelli quel criterio che noi ora affermiamo, e cioè che i giovani negli stati devono abituarsi ad avere a che fare con le belle movenze e i bei canti: stabilite quali e come dovevano essere, li misero in mostra nei templi, e oltre a questi non era permesso né ai pittori, né a tutti gli altri che riproducono figure e altre cose del genere, di trasformarle o di concepirne altre che non fossero quelle patrie, e neppure ora è lecito, né in questo ambito, né in tutto il campo della musica. E se vuoi indagare, troverai che in quel luogo sculture e pitture di diecimila anni fa - di diecimila anni fa veramente, e non così per dire -, non sono né più belle né più brutte di quelle realizzate adesso, perché sono realizzate con la stessa tecnica.
CLINIA: Davvero incredibile quello che dici.
ATENIESE: E questo discorso vale specialmente per ciò che concerne le leggi e la politica. Anche lì puoi trovare delle cose di scarso valore: ma per quel che riguarda la musica è vero e degno di considerazione il fatto che era possibile dettare con sicurezza leggi intorno a tali questioni, confidando in melodie che offrivano per loro natura rettitudine. E ciò sarebbe opera di un dio o di un uomo divino, così come lì si dice che le melodie che si sono conservate per un tempo così lungo sono opera di Iside. Sicché, dicevo, se si potesse afferrare, in qualunque modo, il giusto valore di queste cose, bisognerebbe coraggiosamente fissarle nella legge e nell'ordinamento: in questo modo la ricerca di piacere e di dolore che va sempre alla scoperta di nuove forme musicali da utilizzare non è così forte da poter annientare la danza consacrata rimproverandone l'antichità. In Egitto pare che non avesse affatto alcuna forza di annientarla, ma avvenne il contrario.
CLINIA: Da ciò che ora hai detto risulta che questo sia così.
ATENIESE: Possiamo tranquillamente affermare che l'uso della musica e del gioco insieme alla danza sia corretto solo se viene impiegato in tale modo? Non pensiamo forse di provare godimento quando ci troviamo in una felice circostanza, o di trovarci in una felice circostanza quando proviamo godimento? Non è così dunque?
CLINIA: Sì, è così.
ATENIESE: E quando in una simile circostanza proviamo godimento, non riusciamo a stare tranquilli.
CLINIA: è così.
ATENIESE: E quelli che fra noi sono giovani non sono sempre pronti a danzare? Ma quando invecchiamo, non riteniamo più conveniente essere spettatori dei giovani, rallegrandoci del loro gioco e della loro festa, dato che l'agilità ora ci abbandona? E rimpiangendo e congedandoci da quest'agilità, non proponiamo delle gare per chi sia in grado di ridestarci, almeno con la memoria, verso la giovinezza trascorsa?
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Non dobbiamo forse ritenere senza dubbio vano il ragionamento che ora viene fatto intorno a chi partecipa alle feste, e cioè che si deve ritenere più sapiente e dev'essere giudicato vincitore colui che fa in modo di dilettarci e di procurarci il massimo godimento? Bisogna allora, se è vero che in tali occasioni ci siamo concessi di divertirci, che sia maggiormente onorato e, come ora dicevo, riporti il premio della vittoria chi riesca a procurare il maggior godimento presso il numero più ampio possibile di persone. Non sarebbe giusto parlare e comportarci così, se avvenisse una situazione simile?
CLINIA: Può darsi.
ATENIESE: Ma, amico, non diamo un giudizio affrettato riguardo ad una questione del genere. Dividiamola invece in parti ed esaminiamo così: se un tale bandisse una gara, così, semplicemente, senza specificare se si tratti di una gara ginnica, musicale, o ippica, ma, radunati tutti quanti i cittadini, proponesse dei premi per i vincitori e dicesse che chiunque può venire a gareggiare a condizione soltanto di procurare piacere, e se colui che riesce a divertire il maggior numero possibile di spettatori vincerà, senza che per lui vengano stabilite altre regole, ma solo in virtù del fatto che si rivela capace di divertire moltissimo, e sarà giudicato il più piacevole fra i concorrenti, che cosa pensiamo che accadrebbe in seguito a questo bando?
CLINIA: Che cosa vuoi dire?
ATENIESE: è verosimile che uno declamerebbe una rapsodia, come Omero, un altro eseguirebbe un motivo con la cetra, un altro ancora una tragedia, un altro infine una commedia, e non ci sarebbe da stupirsi se uno ritenesse di vincere proponendo uno spettacolo di marionette: e noi saremmo in grado di stabilire giustamente il vincitore, se si presentassero questi ed altri innumerevoli concorrenti?
CLINIA: La tua domanda è assurda: chi potrebbe risponderti, come se si conoscessero prima di averli ascoltati e di aver assistito personalmente alle prove dei singoli concorrenti?
ATENIESE: E allora? Volete che sia io a rispondervi a questa assurda domanda?
CLINIA: E dunque?
ATENIESE: Se a giudicare fossero i bambini più piccoli, darebbero la loro preferenza a chi propone uno spettacolo di marionette. O no?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Se fossero i ragazzi più grandi, la preferenza andrebbe a chi mette in scena la commedia, mentre darebbero la preferenza alla tragedia le donne colte, i giovani, e in genere la maggioranza delle altre persone.
CLINIA: Probabilmente sì.
ATENIESE: E se un rapsodo recitasse in modo perfetto l'Iliade, l'Odissea, o qualche passo di Esiodo, forse noi vecchi, ascoltandolo piacevolmente, diremmo che costui vince senz'altro. Chi è dunque il vero vincitore? E questo che dobbiamo dire. O no?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: è chiaro che per me e per voi è necessario affermare che i veri vincitori sono coloro che sono stati giudicati da persone della nostra età. Infatti il nostro modo di vivere sembra essere senz'altro migliore rispetto a quello di coloro che ora vivono in tutti gli stati e dovunque.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Anch'io sono d'accordo con la maggioranza delle persone che la musica dev'essere giudicata in base al piacere, ma non del piacere di una persona a caso: la Musa più bella è quella che rallegra gli animi dei migliori e di coloro che hanno ricevuto un'adeguata educazione, ma soprattutto quella che rasserena quel solo che si distingue per virtù e formazione. Perciò diciamo che i giudici di queste prove hanno bisogno della virtù, perché debbono prendere parte della prudenza e del coraggio. Il vero giudice non deve imparare a giudicare a teatro, turbato dal chiasso della folla e dalla propria incompetenza, e neppure, per debolezza o viltà, se è consapevole di ciò che giudica, deve proclamare a cuor leggero un verdetto, pronunciando il falso con quella stessa bocca con cui aveva invocato gli dèi prima di accingersi a giudicare: non come scolaro, ma piuttosto come maestro degli spettatori deve sedere il giudice, ed è giusto che sia così, e deve opporsi a quanti procurano agli spettatori un piacere sconveniente ed ingiusto. Anticamente anche l'antica legge dei Greci consentiva ciò che ora è permesso dalla legge in Sicilia e in Italia dove, affidandosi alla maggioranza degli spettatori che giudica il vincitore per alzata di mano, la legge ha rovinato i poeti stessi - essi compongono i loro versi per soddisfare il piacere di basso livello di questi giudici, sicché sono gli spettatori stessi che li educano -, e ha rovinato i piaceri del teatro stesso: se infatti gli spettatori, ascoltando vicende che propongono costumi di vita più nobili dei loro, dovrebbero trarre un più nobile piacere, ora avviene che per colpa loro facciano tutto l'opposto. Che cosa dunque vuole mettere in luce tutto ciò che ora è stato esposto? Vedete se è questo.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Mi sembra che per la terza o la quarta volta il nostro discorso, dopo averci girato intorno, giunga allo stesso punto, e cioè che l'educazione consiste nell'attrarre e nel guidare i fanciulli verso quel retto criterio stabilito dalla legge, e che è garantito come veramente tale da parte dei cittadini più virtuosi e da quelli più anziani per la loro esperienza. Perché dunque l'anima del fanciullo non si abitui a godere o a soffrire di qualcosa che sia contrario alla legge e a coloro che ad essa obbediscono, ma le sue gioie e i suoi dolori seguano fedelmente le gioie e i dolori dei vecchi, per queste ragioni sono stati composti quelli che chiamiamo “canti”, e che a tutti gli effetti ora sono per le anime parole che incantano, adattate diligentemente in modo da realizzare quell'armonia di cui parliamo. E poiché le anime dei giovani non sono in grado di sopportare un serio impegno, si chiamano giochi e canti, e si praticano come tali, proprio come ai malati e a coloro che sono in condizioni fisiche precarie quelli che li hanno in cura cercano di somministrare il nutrimento conveniente sotto forma di cibi e di bevande piacevoli, mentre ciò che è dannoso sotto forma di alimenti sgradevoli, in modo che si abituino correttamente a desiderare i primi e ad evitare i secondi. Secondo questo stesso ragionamento, il retto legislatore convincerà, o addirittura costringerà se non si lascerà convincere, il poeta, quando compone, a comporre in modo conveniente - servendosi di un linguaggio nobile ed elogiativo - le movenze, nei ritmi delle danze, e le melodie, nelle armonie, che sono proprie di uomini saggi, valorosi, e buoni sotto ogni aspetto.
CLINIA: Ora, per Zeus, straniero, ti sembra che negli altri stati si faccia così? Per quanto ne so io, tranne che da noi e presso gli Spartani, non so dove si facciano le cose di cui parli, mentre sono al corrente di certe cose sempre nuove che avvengono nell'ambito delle danze e in tutto il resto della musica, e questo continuo mutare non è determinato dalle leggi, ma da certi confusi desideri, che non solo sono assai lontani dall'essere identici e allo stesso modo, come invece tu asserisci che accada in Egitto, ma addirittura non sono mai i medesimi.
ATENIESE: Benissimo, Clinia. Se ti è parso che parlassi delle cose di cui hai appena detto come di cose attuali, non mi stupirei di aver provocato, con le dovute conseguenze, il malinteso, proprio per non aver espresso chiaramente il mio pensiero: ma io dicevo semplicemente ciò che vorrei si realizzasse per quel che riguarda la musica, sicché probabilmente ti è sembrato che ti parlassi di queste cose come fossero reali. Biasimare mali incurabili e che si sono spinti molto innanzi sulla via dell'errore non è affatto piacevole, eppure talvolta è necessario. Ma poiché la pensi come me, coraggio, dimmi: pensi che tali cose avvengano maggiormente da voi e presso quelli di qui che presso gli altri Greci.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ma se avvenisse così anche presso tutti gli altri, diremmo che tali cose sarebbero migliori di quanto lo sono nella condizione attuale?
CLINIA: Vi sarebbe un'enorme differenza se le cose andassero così come vanno presso quelli di qui e da noi, ed inoltre come tu ora dici che dovrebbero andare.
ATENIESE: Avanti, adesso mettiamoci d'accordo. Intorno al complesso dell'educazione e della musica non si dice da voi null'altro se non queste cose? In sostanza voi costringete i poeti a dire che l'uomo buono, che è prudente e giusto, è felice e beato, sia egli grande e forte, piccolo e debole, ricco o no; mentre se fosse anche più ricco di Cinira e di Mida, ma ingiusto, è un miserabile e vive la sua esistenza in mezzo ai travagli. «Non vorrei ricordare», dice il vostro poeta, se lo dice correttamente, «e neppure vorrei prendere in considerazione quell'uomo» che non compia e non acquisti secondo giustizia tutto ciò che si dice che sia bello compiere ed acquistare, ed essendo tale «incalzi un nemico e lo colpisca»; ma se è ingiusto non avrà il coraggio di «assistere alla cruenta uccisione» né in corsa supererà «il tracio vento Borea», e non possiederà mai nessuno di quelli che sono chiamati beni. Quelli che infatti la maggior parte delle persone chiama beni non è corretto chiamarli così. Si dice che il bene più importante sia la salute, come secondo la bellezza, terzo la ricchezza, e si chiamano beni innumerevoli altre cose: avere vista e udito acuti, e possedere ogni altra facoltà sensitiva ben sviluppata, ed inoltre far tutto ciò che si vuole come un tiranno, e, punto di arrivo della più totale beatitudine, diventare il più rapidamente immortali grazie al fatto di possedere tutti questi beni. Ma voi ed io diciamo che tutti questi beni, che sono splendidi tesori per gli uomini giusti e pii, sono tutti quanti pessimi per gli ingiusti, a cominciare dalla salute: la vista, l'udito, il provare le sensazioni, e il vivere sono tutti gravissimi mali per colui che, pur essendo in ogni tempo immortale e possedendo tutti quelli che vengono chiamati beni, è privo di giustizia e di ogni virtù; allora il male minore sarebbe che costui vivesse nello spazio di tempo più breve possibile. Credo dunque che voi persuaderete e costringerete i poeti che sono presso di voi a dire le stesse cose che dico io adesso, ed inoltre ad educare i vostri figli conformando ritmi ed armonie a queste cose che ho detto. Non è così? Fate attenzione. Per quanto mi riguarda, dico chiaramente che quelli che sono chiamati mali sono beni per gli ingiusti, e sono mali per i giusti, e che quelli che sono chiamati beni sono effettivamente un bene per i buoni, e un male per i malvagi. Come vi ho domandato prima, siamo d'accordo, io e voi, o no?
CLINIA: Per quel che riguarda alcune questioni mi sembra di sì, per quel che riguarda altre, nient'affatto.
ATENIESE: Se dunque uno possiede salute, ricchezza, e potere incondizionato - e per farvi un piacere aggiungo una forza straordinaria, e il valore che si accompagna all'immortalità, e l'immunità da ogni altro cosiddetto male -, e abbia in sé soltanto ingiustizia ed insolenza, non riuscirei a convincervi che chi vive in questo modo non è felice, ma è chiaramente miserabile?
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: Ebbene: che cosa vi devo dire dopo di ciò? Non vi sembra allora che un uomo valoroso, forte, bello, e ricco, e libero di fare tutto ciò che desidera per tutta la vita, se è ingiusto e insolente, conduca necessariamente una vita turpe? O forse questo lo concederete, e cioè che vive vergognosamente?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E dunque? Che conduce anche una vita malvagia?
CLINIA: Non è la stessa cosa.
ATENIESE: Allora che la sua vita è ripugnante e nociva a se stessa?
CLINIA: E come potremmo essere d'accordo su questo punto?
ATENIESE: Come? A quanto pare, amici, solo se un dio ci concedesse un accordo, dato che adesso siamo in disaccordo gli uni dagli altri. Le cose che ho detto mi sembrano necessarie come neanche può esserlo il fatto evidente che Creta sia un'isola, caro Clinia: e se fossi legislatore cercherei di costringere i poeti e tutti i cittadini ad esprimersi in questo modo, e poco ci manca che applicherei la pena capitale, se qualcuno andasse dicendo nella regione che vi sono sì uomini malvagi, ma che conducono una vita piacevole, o che una cosa è guadagnare e fare i propri interessi e un'altra essere giusti. E inoltre persuaderei i miei cittadini a parlare diversamente da come ora, a quanto sembra, parlano i Cretesi e gli Spartani e tutti gli altri uomini. Coraggio, per Zeus e per Apollo, o voi che siete i migliori fra gli uomini, se interrogassimo così tutti questi dèi che hanno stabilito le vostre leggi: «La vita più giusta è quella più dolce, oppure vi sono due generi di vita, una assai dolce e l'altra assai giusta?», e se ci rispondessero che vi sono due generi di vita, potremmo nuovamente interrogarli così, se è giusto fare questa domanda: «Dobbiamo dire che sono più felici coloro che trascorrono la vita soprattutto all'insegna della giustizia o all'insegna del piacere più intenso?». Se rispondessero che sono coloro che vivono all'insegna del piacere più intenso, la loro risposta sarebbe senza dubbio assurda. Ma non voglio che si pensi che gli dèi si esprimano così: piuttosto potrebbero essere i nostri padri e legislatori a parlare in questo modo. E in base alle domande precedenti, si interroghi allora il padre o il legislatore, e si immagini che costui risponda che è assai beato chi conduce la vita all'insegna del massimo piacere. In seguito, dopo di ciò, gli direi: «Padre, non desideravi che io vivessi una vita felice al massimo grado? Ma non smettevi affatto di consigliarmi di vivere una vita che fosse la più giusta possibile». E così sarebbe evidente che sia il legislatore, sia il padre che abbiamo immaginato si troverebbe nell'assurda difficoltà, io penso, di essere coerente con se stesso. Se poi dichiarasse che la vita più giusta è quella più felice, chiunque lo udisse cercherebbe di sapere, credo, quale bene vi è in essa più potente del piacere, quale bellezza che viene elogiata dalla legge. Quale bene può mai esistere per un giusto che sia separato dal piacere? Coraggio! La gloria e la lode sono per gli uomini una cosa buona e bella, ma spiacevole, e il contrario il disonore? No certo, caro legislatore, diremo noi. E non commettere ingiustizie né subirle da alcuno, è spiacevole, anche se è buono e bello, mentre è piacevole il contrario, anche se è turpe e malvagio?
CLINIA: E come potrebbe?
ATENIESE: Dunque il ragionamento che non separa ciò che è piacevole da ciò che è giusto, buono, e bello persuade, se non altro, a voler vivere una vita pia e giusta, sicché per un legislatore non vi sarebbe peggiore ragionamento e così contrario alla sua opera di chi affermi che queste cose non stanno in questi termini: nessuno infatti vorrebbe volontariamente convincersi di fare ciò in cui non risulti più piacere che dolore. Se osserviamo un oggetto da lontano, tutti, e per così dire anche i bambini, lo vediamo con la vista annebbiata, a meno che il legislatore non ci conduca dinanzi all'opinione contraria, dissipando la nebbia, e ci convinca in qualunque modo con abitudini, lodi, ragionamenti, che ciò che è giusto e ciò che è ingiusto sono come pitture in prospettiva, e che l'ingiusto, stando di fronte al giusto appare piacevole a chi lo guarda se è egli stesso ingiusto e cattivo, e il giusto assai spiacevole, ma a chi osserva dal punto di vista della giustizia appare tutto l'opposto, sia nell'uno che nell'altro caso.
CLINIA: è chiaro.
ATENIESE: Quale dei due giudizi diciamo che ha più possibilità di essere vero? Quello dell'anima peggiore o quello dell'anima migliore?
CLINIA: Quello dell'anima migliore, naturalmente.
ATENIESE: E naturalmente una vita ingiusta non solo è più turpe e miserabile, ma è anche, in verità, meno piacevole di una vita giusta e pia.
CLINIA: Può essere così, secondo il ragionamento che ora abbiamo fatto, amici.
ATENIESE: Un legislatore che abbia un minimo di capacità, quand'anche le cose non stessero così come il ragionamento di adesso le ha prospettate, se avesse il coraggio di mentire in qualche cosa per il bene dei giovani, pensi che possa mentire con una menzogna più utile di questa, la quale abbia una capacità tale da far compiere a tutti, non con la forza, ma volontariamente, ogni cosa giusta?
CLINIA: Cosa bella e stabile è la verità, straniero: e non pare che sia facile l'azione della persuasione.
ATENIESE: Ebbene: ma non è stato facile far credere il mito dell'uomo di Sidone, che pure era così incredibile, e molti altri ancora?
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Quello degli opliti nati dai denti seminati. Si tratta certamente di un grande esempio per un legislatore di come si possa persuadere le anime dei giovani a credere in ciò di cui si vuole convincere, sicché nient'altro egli deve indagare se non di che cosa deve convincerlo perché realizzi per lo stato il bene più grande, e quindi, deve scoprire con ogni mezzo in che modo una simile comunità, come è appunto lo stato, sempre, su queste cose, per tutta la vita, esprima, per quanto è possibile, un'unica ed identica opinione, nei canti, nei miti, e nei discorsi. E se vi sembra che le cose stiano in modo diverso da così, non fatevi alcun problema ed avanzate le vostre perplessità.
CLINIA: Ma mi sembra che nessuno di noi due possa avanzare delle obbiezioni intorno a queste cose.
ATENIESE: Dopo di ciò, allora, dovrei essere io a parlare. E infatti dico che tutti e tre i cori devono acquietare con il canto le anime dei bambini, che sono ancora giovani e delicate, raccontando tutte le nobili cose che prima abbiamo passato in rassegna e che ancora esamineremo. E questo sia il punto essenziale di tali cose: dicendo che la medesima vita è ritenuta dagli dèi assai piacevole e ottima ad un tempo, diremo la più importante verità, e insieme persuaderemo chi dobbiamo persuadere di più che se ci esprimessimo in un qualsiasi altro modo.
CLINIA: Si deve per forza essere d'accordo con quello che dici.
ATENIESE: Innanzitutto sarà assai giusto che il coro delle Muse, composto di bambini, entri per primo in mezzo alla scena per cantare con grande impegno dinanzi alla città intera le cose di cui si è detto; e che per secondo entri il coro di coloro che giungono sino ai trent'anni, il quale invochi Peana come testimone della verità delle cose dette e lo preghi di essere propizio per quanto riguarda la persuasione dei giovani. Bisogna poi che canti anche un terzo coro composto di uomini di età compresa fra i trenta e i sessant'anni. I cittadini che superano i sessant'anni, invece, poiché non sarebbero più in grado di cantare, siano lasciati liberi di raccontare miti intorno agli stessi costumi di vita, secondo l'ispirazione divina.
CLINIA: Vuoi spiegarci, straniero, che cosa intendi per questa terza specie di cori? Infatti non comprendiamo chiaramente la spiegazione che tu fornisci di essi.
ATENIESE: Eppure sono proprio questi cori per i quali si è spesa la maggior parte delle parole che si sono dette prima.
CLINIA: Non abbiamo ancora capito: cerca di essere più chiaro ancora.
ATENIESE: Abbiamo detto, se lo ricordiamo, in principio di questa discussione, che la natura di tutti i giovani, essendo come infuocata, non è in grado di stare in quiete, né con il corpo, né con la voce, ma urla e salta sempre in modo disordinato, e che nessuno degli altri esseri viventi possiede il senso dell'ordine di questi due generi di comportamento, se non la sola natura umana: e “ritmo” si chiama l'ordine del movimento, mentre quello della voce, quando il tono acuto si equilibra con il grave, si chiama “armonia”, e, ancora, l'unione di questi due elementi si chiama “danza corale”. Dicevamo anche che gli dèi, provando pietà per noi, ci diedero come compagni nelle danze e nei cori Apollo e le Muse, e, se ci ricordiamo, in terzo luogo, abbiamo detto anche Dionisio.
CLINIA: Come non ricordarlo?
ATENIESE: Del coro di Apollo e di quello delle Muse si è già parlato: ora è necessario parlare del terzo coro che ci è rimasto, ovvero quello di Dionisio.
CLINIA: E come? Parla! Sarebbe assai assurdo, così, ad ascoltare tutt'a un tratto questa cosa, che vi sia u n coro di vecchi consacrato a Dionisio, se è vero che per lui danzano in coro uomini che sono oltre i trenta e i cinquant'anni di età, fino ai sessanta.
ATENIESE: Quello che dici è verissimo. Bisogna, io penso, fare un discorso a questo proposito, per spiegare qual è la ragione per cui vi sia un coro così composto.
CLINIA: E dunque?
ATENIESE: Siamo d'accordo su quello che è stato detto prima?
CLINIA: Su che cosa?
ATENIESE: Sul fatto che ognuno, uomo o fanciullo, libero o schiavo, maschio o femmina, e in sostanza l'intero stato deve incantare se stesso, tutto se stesso, incessantemente, con quelle cose che prima abbiamo esposto, mutandole in qualsiasi modo e variandole del tutto, sicché i cantori abbiano sempre un'insaziabile desiderio e un piacere per il canto.
CLINIA: Come possiamo non consentire che si debba fare così?
ATENIESE: E questa che a nostro avviso è la parte migliore dello stato, che è la più capace di persuadere i cittadini per età e per intelligenza, com'è che compirà i beni più grandi cantando le cose più belle? Oppure trascureremo in modo tanto sconsiderato questa parte che è decisiva per quanto riguarda i canti più belli e più utili?
CLINIA: Ma è impossibile trascurarla, proprio per quel che è stato detto ora.
ATENIESE: Quale sarà allora il comportamento più conveniente? Vedete un po' se è questo.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Chiunque, invecchia esita ogni volta di più a cantare, e gode sempre meno nel farlo, e, colto dalla necessità, tanto più si vergognerà quanto più è vecchio e saggio. O non è così?
CLINIA: Sì, è così.
ATENIESE: E ancora di più si vergognerà se deve cantare a teatro, stando dritto in piedi, dinanzi a persone di ogni genere: e ancora, se costoro fossero costretti a cantare estenuati per aver esercitato la voce, e a digiuno come i cori che gareggiano per la vittoria, non canterebbero senz'altro con un gran senso di fastidio, oltre che di vergogna, facendolo di mala voglia?
CLINIA: Quello che dici è assolutamente inevitabile.
ATENIESE: Come dunque potremo esortarli ad amare il canto? Stabiliremo prima di tutto una legge secondo la quale i giovani sino ai diciotto anni non debbano affatto gustare il vino, insegnando che non bisogna versare fuoco sul fuoco del loro corpo e della loro anima, prima che essi siano stati introdotti alle fatiche, in modo da tenere sotto controllo l'esuberante indole dei giovani: in seguito, sino ai trent'anni, potranno gustare il vino, ma con moderazione, perché un giovane deve stare alla larga dalle ubriacature e dal bere smodato. Giunti a quarant'anni, riuniti nei banchetti dei pasti in comune, potranno chiamare gli altri dèi ed invocare Dionisio perché sia presente a quelli che sono festosi riti di iniziazione dei più anziani: e in questa festa egli donò agli uomini la medicina del vino come rimedio all'asprezza della vecchiaia, sicché ci faccia ringiovanire, e, dimenticando le afflizioni, l'anima, da dura che era diventi più morbida, come lo diventa il ferro quando lo si mette nel fuoco, e sia così più facile da plasmare. Chiunque sia stato precedentemente preparato in questo modo non sarà più desideroso di cantare, provando minor vergogna, e, come prima spesso si è detto, di incantare non dico fra un pubblico numeroso, ma fra un numero conveniente di persone, che non siano estranee, ma familiari?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Questo sistema non sarebbe affatto sconveniente per spingerli a partecipare al nostro canto.
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: Quale canto tali uomini canteranno? Non è forse chiaro che dovranno usare una musa che sia loro adatta?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Qual è allora la musa che conviene a uomini divini? Forse quella dei cori?
CLINIA: Noi, straniero, e costoro, non saremmo in grado di cantare un altro canto che non sia quello che abbiamo appreso, per abitudine, nei cori.
ATENIESE: Naturalmente, dato che non siete ancora realmente partecipi del canto più bello. Voi avete la costituzione di un accampamento di soldati, non quella di chi abita nelle città, e come se fossero molti puledri radunati insieme in un gregge, possedete e fate pascolare i vostri giovani: nessuno di voi prende il proprio, e lo strappa ancora selvaggio e recalcitrante ai suoi compagni di gregge, e gli impone in privato un allevatore, e lo educa strigliandolo e addomesticandolo, e gli assegna tutto ciò che conviene all'allevamento dei figli, in modo che non solo diventi un valoroso soldato, ma sia anche in grado di guidare uno stato o una città, e in principio abbiamo detto che si trattava di un soldato più valoroso di quelli descritti da Tirteo, dato che onorerà sempre e dovunque il coraggio come la quarta virtù, e non come il primo bene, per i singoli cittadini e per tutto lo stato.
CLINIA: Straniero, non so perché disprezzi nuovamente i nostri legislatori.
ATENIESE: No, carissimo, non lo faccio intenzionalmente, se anche lo faccio: ma se volete, andiamo dove ci conduce il discorso. E se possediamo una musa più bella di quella dei cori e di quella che si trova nei pubblici teatri, cerchiamo di trasmetterla a coloro che diciamo che si vergognano di questa, e cercano di essere partecipi di quella, che è appunto la più bella.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Innanzitutto dunque, non bisogna forse che ciò cui si accompagna un certo godimento abbia questa caratteristica, e cioè che abbia soltanto questo godimento come elemento essenziale, o abbia anche un certo valore, o, infine, una qualche utilità? Ad esempio dico che mangiare, bere, e il nutrimento in generale, sono strettamente legati a quel godimento che chiamiamo piacere: e per quanto riguarda il loro valore o la loro utilità, ciò che ogni volta diciamo che è l'elemento salutare dei cibi costituisce appunto quel valore presente in essi.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: E anche all'apprendimento si accompagna una certa gioia, e cioè il piacere, ma il suo valore, la sua utilità, e ciò che in esso è bello e buono, gli deriva compiutamente dalla verità.
CLINIA: è così.
ATENIESE: E che dire della realizzazione di cose simili, che fa parte delle arti figurative? Non si deve a buon diritto chiamare godimento, quando si verifica, ciò che esse producono e che è legato al piacere?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Ma sarà l'uguaglianza, sia quantitativa che qualitativa così per dire in generale, che determinerà il valore di tali opere, e non il piacere.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: Dunque secondo il criterio del piacere potrà essere giudicato rettamente soltanto ciò che, nell'atto della sua realizzazione, non offre utilità, né verità o somiglianza, e neppure danno, ma che esiste soltanto in funzione del godimento che è legato ad altri fatti, e che si può benissimo chiamare piacere, quando non si accompagni a nessuna di queste cose appena dette?
CLINIA: Tu parli soltanto del piacere che non reca con sé danno.
ATENIESE: Sì, e dico che questo piacere è divertimento, quando non reca con sé danno o vantaggio tali da meritare attenzione o discorso.
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: Non dovremmo allora dire, in base a quanto ora detto, che non conviene affatto giudicare ogni imitazione secondo il piacere e l'opinione non vera - e neppure ogni altra uguaglianza: infatti non è perché a uno sembri o a un altro piaccia che l'uguale è uguale e il proporzionato proporzionato, in genere - ma solo e soprattutto sulla base della verità e su nient'altro?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Non diciamo dunque che tutta la musica è rappresentativa e mimetica?
CLINIA: Ebbene?
ATENIESE: Se uno sostenga che la musica si debba giudicare in base al criterio del piacere, non dobbiamo per nulla al mondo accettare questo discorso, e non è affatto da ricercare tale musica come se fosse frutto di impegno, se mai esista, ma dovremo invece ricercare quella che possiede la sua somiglianza in rapporto all'imitazione della bellezza.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Quelli che ricercano il canto più bello non devono, a quanto pare, ricercare la musa che offre piacere, ma quella autentica: infatti il valore dell'imitazione, come dicevamo, consiste nel realizzare l'oggetto imitato secondo la sua esatta quantità e qualità.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E a proposito della musica chiunque si troverà d'accordo nel sostenere che tutte le sue opere sono imitazione e rappresentazione. Su questo punto non saranno tutti d'accordo, poeti, ascoltatori ed attori?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: A quanto pare bisogna conoscere, riguardo a ciascuna opera, ciò che costituisce la sua essenza, se non si vuole sbagliare: se infatti non si conosce l'essenza, che cosa mai essa vuole, ciò di cui essa è realmente immagine, difficilmente si potrà riconoscere se lo scopo che si era prefissato è stato correttamente raggiunto oppure non è stato colto.
CLINIA: Difficilmente: e come no?
ATENIESE: E se non si conosce l'effettivo valore, non è vero che non si potrà mai distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo? Ma non sto parlando in modo abbastanza chiaro: così forse mi esprimerò meglio.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Vi sono innumerevoli rappresentazioni che possiamo cogliere con la vista.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Ebbene, se si ignora che cos'è ciascuno dei corpi imitati in tali rappresentazioni? Si potrà mai riconoscere se la loro esecuzione è ben fatta? Voglio dire, ad esempio, se si potrà sapere se sono state mantenute le proporzioni numeriche del corpo e la disposizione delle singole parti, e se, stando alcune sue parti in relazione con le altre, hanno conservato i loro reciproci rapporti secondo l'ordine conveniente - e anche i colori e le forme -, oppure se tutto ciò è stato fatto in modo confuso: vi sembra forse che possa mai comprendere tutto questo un tale che ignora come sia fatto l'essere vivente, oggetto di imitazione?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Se invece sapessimo che ciò che è stato raffigurato o modellato è un uomo, e che tutte le sue parti gli sono state assegnate dall'arte, i colori come i contorni? Non è forse necessario che chi conosce queste cose è anche pronto a riconoscere se la composizione è bella oppure se essa manca di bellezza?
CLINIA: Tutti, per così dire, straniero, in tale circostanza saremmo in grado di riconoscere la bellezza degli esseri viventi.
ATENIESE: Quello che dici è giustissimo. E allora chi vorrà essere un saggio giudice di ogni rappresentazione imitativa - pittorica, musicale, o qualsiasi altra -, non deve forse avere questi tre requisiti: primo, conoscere l'oggetto in questione, quindi il suo valore in rapporto alla sua rappresentazione, e terzo, capire se una rappresentazione qualsiasi risulta ben realizzata con le parole, le melodie, e il ritmo?
CLINIA: Pare così, dunque.
ATENIESE: Ma non possiamo rinunciare ad affermare quanto sia difficile tale giudizio quando riguarda la musica: poiché essa viene celebrata in modo particolare rispetto alle altre rappresentazioni, essa necessita di più attenzione rispetto a tutte le rappresentazioni. Chi infatti vi commette un errore può arrecare a se stesso un grandissimo danno abbracciando cattivi costumi, ed è difficilissimo che i poeti si rendano conto di questo, poiché sono assai inferiori rispetto alle stesse Muse. Mai le Muse sbaglierebbero in modo tale da comporre parole per gli uomini, assegnandovi colore e melodia che si adattano a donne, o così da comporre canto e movenze per uomini liberi armonizzandoli ai ritmi degli schiavi e di individui senza libertà, o, ancora, in modo da comporre ritmi e movenze da uomo libero assegnando loro canto o parole contrari a quei ritmi; ed inoltre mai metterebbero insieme voci di animali, di uomini, di organi, e rumori di ogni genere, come se volessero imitare una sola cosa: i poeti umani, invece, intrecciando e mescolando insieme queste cose senza criterio, farebbero ridere quegli uomini che, come dice Orfeo, ebbero in sorte la felice età del godimento. Infatti essi vedono queste cose mescolate, ed inoltre i poeti separano ritmo e movenza dal canto, mettendo in versi le nude parole, e d'altro canto compongono melodia e ritmo senza parole, usando la nuda cetra e il flauto, e in questo caso è assai difficile riconoscere che cosa vogliono rappresentare ritmo e armonia senza parole, e a quale delle imitazioni degne di considerazione siano somiglianti. Ma è necessario rendersi conto che è assai grossolana tale propensione alla rapidità, e ad omettere le pause che conviene porre, e alle voci di animali, così da usare il flauto e la cetra, senza che vengano accompagnati dal coro o dal canto, e l'uso dell'uno e dell'altro strumento, senza accompagnamento, è d'altra parte un prodigio che non riguarda l'arte. Queste cose stanno allora in questi termini. D'altronde noi non stiamo indagando le ragioni per cui chi abbia già trent'anni o abbia superato la cinquantina non debba coltivare le Muse, ma i motivi per cui debba coltivarle. E in base alle cose dette mi sembra che il nostro discorso indichi ormai questa cosa, e cioè che coloro che hanno cinquant'anni e ai quali convenga cantare debbano essere educati in modo migliore nell'arte del coro. è necessario che essi abbiano eccellente sensibilità e conoscano alla perfezione i ritmi e le armonie: o come potrebbero riconoscere l'autentico valore delle melodie, e a quale convenga il dorico e a quale non convenga, e se sia giusto o no il ritmo che il poeta vi ha adattato?
CLINIA: In nessun modo, è chiaro.
ATENIESE: Davvero ridicola è la gran folla che crede di riconoscere a sufficienza ciò che nel ritmo e nell'armonia è regolare e ciò che non lo è, e si tratta di coloro che sono stati costretti a cantare accompagnati dallo strumento e a muoversi secondo il ritmo, ma non si accorgono che fanno queste cose senza conoscerne i singoli elementi. Ogni melodia è infatti corretta se possiede ciò che deve possedere, errata se possiede ciò che non è conveniente.
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: E chi non conosce neppure gli elementi che compongono una melodia, potrà mai riconoscere, come dicevamo, il loro intrinseco valore?
CLINIA: E in che modo?
ATENIESE: Adesso mi pare che siamo giunti alla scoperta di questo fatto, e cioè che questi nostri cantori che ora invitiamo, e, in un certo senso, costringiamo a cantare con animo ben disposto devono essere stati educati fino al punto in cui ciascuno di essi sia in grado di seguire la cadenza dei ritmi e le note della musica, in modo che esaminando le armonie e i ritmi, sappiano scegliere quelli che sono convenienti e che devono essere eseguiti da persone della loro età e della loro condizione, e così cantino, e cantando provino immediatamente innocui piaceri, e divengano guida per i più giovani verso un giusto amore di onesti costumi. Raggiunto questo livello di educazione, avranno in mano un'educazione più accurata di quella che possiede la massa e di quella dei poeti stessi. Non vi è alcun bisogno che il poeta conosca quel terzo requisito, e cioè se una rappresentazione è bella oppure no, ma soltanto l'armonia e il ritmo: quanto agli altri, invece, essi devono conoscere tutti e tre i requisiti per scegliere l'opera più bella, preferendola a quella che per bellezza è seconda, perché altrimenti non potranno mai incantare i giovani come si deve, guidandoli lungo la via della virtù. E così abbiamo detto, nei limiti delle nostre possibilità, ciò che il discorso si proponeva all'inizio, e cioè dimostrare che valeva la pena venire in soccorso al coro di Dionisio: verifichiamo se questo è avvenuto. Capita che un'adunanza del genere, quanto più si procede nel bere, diventi di necessità sempre più turbolenta: e in principio abbiamo premesso che ciò fosse inevitabile riferendoci a quelle riunioni di cui parliamo.
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: Ed ognuno si sente più leggero, si esalta, è allegro, ha molta voglia di parlare e non vuole ascoltare i vicini, e crede di essere diventato capace di guidare se stesso e gli altri.
CLINIA: Ebbene?
ATENIESE: E non dicevamo che, quando si verificano fatti del genere, le anime dei bevitori, diventando incandescenti come ferro, si fanno più morbide e più tenere, sicché avviene che si concedano docili a chi possa e sappia educarle e plasmarle, proprio come quand'erano giovani? E questo scultore non è lo stesso di allora, il buon legislatore, che deve stabilire leggi in materia di simposi le quali siano capaci di far sì che colui che è pieno di buone speranze, e audace, e più sfrontato del necessario, e che non vuole sottostare all'ordine di fare silenzio, e di parlare, e di bere e di cantare quando è il suo turno, divenga desideroso di fare tutto il contrario? Leggi che, con l'ausilio della giustizia, oppongono a quell'audacia non bella che sempre si insinua la più bella paura, quel divino timore che chiamammo pudore e vergogna?
CLINIA: è così.
ATENIESE: Custodi di queste leggi e loro collaboratori saranno gli uomini che non si lasciano condizionare dai tumulti, e i sobri guideranno quelli che sobri non sono, senza i quali è più pericoloso combattere l'ubriachezza che i nemici, se non si hanno delle guide capaci di mantenere la calma. E chi non è in grado di voler obbedire a costoro e alle guide di Dionisio, che hanno oltre i sessant'anni di età, recherà con sé uguale e maggior vergogna di chi non obbedisce alle guide di Ares.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Dunque se tale fosse l'ubriachezza, tale il divertimento, non trarrebbero vantaggio questi bevitori, e non si separerebbero gli uni dagli altri più amici di prima, e non come oggi, nemici, dopo che sono stati insieme per tutta la riunione secondo le leggi, seguendo i sobri quando guidavano coloro che non lo erano?
CLINIA: Giusto, se fosse così come ora dici.
ATENIESE: Non disprezziamo più allora con tanta semplicità il dono di Dionisio, come fosse malvagio e indegno di essere accolto in uno stato. Altre cose, infatti, si potrebbero passare in rassegna: ma si ha qualche esitazione a parlare alla massa del più grande bene di cui ci fa dono, per timore che sia male interpretato dagli uomini e non capiscano ciò che di esso viene detto.
CLINIA: Che cosa vuoi dire?
ATENIESE: Si tratta di una leggenda, e nel contempo di una voce che in qualche modo si è diffusa, secondo la quale egli fu privato del senno dalla matrigna Era, e che allora come vendetta suscita le orge e ogni folle danza: e che quindi, proprio per questo motivo, ci avrebbe donato il vino. Ma lascio che queste cose le dicano coloro che credono che si possa parlare con sicurezza degli dèi, mentre, per quanto mi riguarda, io so che ogni essere vivente, quando nasce, non è a quel livello di ragione che dovrebbe raggiungere quando giunge al compimento della sua maturità: e in quel tempo in cui non possiede ancora quell'intelligenza che è propria e la sua natura, è completamente folle, e grida in modo scomposto, e se riesce a sollevarsi in piedi, salta in modo scoordinato. Ora ricordiamo che questi, come dicemmo, sono i princìpi della musica e della ginnastica.
CLINIA: Lo ricordiamo. E come no?
ATENIESE: E non dicevamo che tali princìpi suscitavano in noi uomini la percezione del ritmo e dell'armonia, e che fra gli dèi furono causa Apollo, le Muse, e Dionisio?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E il vino, a quanto pare, fu dato, secondo la comune credenza, agli uomini per vendetta, per farci impazzire. Noi ora invece diciamo che ci venne dato per una ragione opposta, perché l'anima acquistasse pudore, e il corpo la salute e la forza.
CLINIA: Hai ricordato benissimo il discorso che abbiamo fatto.
ATENIESE: E dunque abbiamo condotto a termine metà della trattazione riguardante la danza corale: per quanto riguarda l'altra metà possiamo trattarla o lasciarla perdere, a seconda di come voi volete fare.
CLINIA: Che cosa vuoi dire, e come distingui le due parti?
ATENIESE: Il complesso della danza corale rappresentava per noi l'educazione nella sua interezza, di cui fanno parte, per quanto riguarda la voce, i ritmi e le armonie.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: D'altro canto, ciò che si riferisce al movimento del corpo aveva in comune con il movimento della voce il ritmo, come elemento proprio la movenza. Il movimento della voce, invece, aveva come elemento caratteristico la melodia.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Alla voce che giunge sino all'anima educandola alla virtù, non so in che modo abbiamo dato il nome di musica.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Per quanto riguarda quel movimento del corpo che abbiamo definito danza di uomini che si divertono, se tale movimento si svolge con l'intento di educare il corpo alla virtù, possiamo chiamare ginnastica quell'arte di guidarlo verso tale mèta.
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: Per quanto riguarda la musica, si dica anche ora ciò che adesso dicevamo che è stato trattato e svolto come quasi metà della danza corale: quanto all'altra metà, dobbiamo dirla, o come dobbiamo comportarci?
CLINIA: Carissimo, stai discorrendo con Cretesi e Spartani, e dunque, dopo aver trattato la musica, tralasciando la ginnastica, in quale modo pensi che potremo rispondere alla tua domanda?
ATENIESE: Direi che hai già risposto con sufficiente chiarezza interrogandomi in questo modo, e capisco che questa domanda vale adesso come una risposta, anzi, un ordine, perché si esponga l'argomento relativo alla ginnastica.
CLINIA: Hai capito benissimo. Allora fai così.
ATENIESE: Bisogna dunque fare così: d'altra parte non è affatto difficile parlarvi di una questione che conoscete bene, dato che avete molta più esperienza di quest'arte che di quell'altra.
CLINIA: è vero quello che dici.
ATENIESE: Dunque il principio di questo divertimento si basa su quella naturale abitudine, propria di ogni essere vivente, di saltellare. E l'uomo, come dicemmo, dopo aver acquisito la percezione del ritmo, fece nascere e generò la danza, e poiché la melodia richiamava e risvegliava il ritmo, la combinazione reciproca di questi due elementi diede luogo alla danza corale e al divertimento.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: E, diciamo, una parte di essa è già stata trattata, quanto all'altra cercheremo di trattarla in seguito.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Prima stabiliamo una conclusione sull'uso smodato del vino, se anche voi siete d'accordo.
CLINIA: Cosa vuoi dire? E qual è questa conclusione di cui parli?
ATENIESE: Se uno stato praticherà con serie intenzioni la consuetudine di cui si è appena parlato, secondo le leggi e l'ordine, come se praticasse un esercizio di temperanza, e non si asterrà dagli altri piaceri allo stesso modo e per la stessa ragione, e cioè per trovare un mezzo per dominarli, quella consuetudine, coltivata in questo modo, potrà risultare utile per tutti: ma se per divertimento sarà possibile bere vino a chiunque lo vuole, e quando lo vuole, e con chi vuole, accompagnandosi a qualsiasi altra consuetudine, non darei il mio consenso, e non riterrei che un cittadino o uno stato come questi debbano far uso del vino, e, andando oltre l'usanza di Creta e di Sparta, aderirei alla legge dei Cartaginesi, per cui nessuno in guerra deve assaggiare tale bevanda, ma durante tutto questo tempo bisogna bere acqua, e in città né serva né servo mai deve assaggiare vino, né i magistrati nel corso dell'anno in cui sono in carica, né i nocchieri, né i giudici nell'esercizio delle loro funzioni, né chiunque si reca ad un importante consiglio per prendere una decisione, e nessuno durante il giorno, se non per esercizio fisico o per malattia, e neppure di notte quando, uomo o donna, si ha intenzione di concepire dei figli. E si potrebbero citare molti altri casi in cui chi ha un po' di intelligenza e una legge giusta non deve bere vino: sicché, in base a questo ragionamento, uno stato non ha bisogno di molte viti, e si dovranno regolamentare anche tutte le altre colture nonché il tenore di vita dei cittadini, e la produzione di vino sarà quella che fra tutte subirà le limitazioni più considerevoli e sarà prodotta in minima quantità. Questa, stranieri, se siete d'accordo, sia la conclusione del discorso sul vino che prima si è svolto.
CLINIA: Bene, siamo d'accordo.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO TERZO
ATENIESE: Così stanno allora queste cose. E quale diciamo che sia stata l'origine delle costituzioni politiche? Non è forse da questa parte che la si potrebbe scorgere più facilmente e nel modo migliore?
CLINIA: Da quale?
ATENIESE: Da quella parte donde è possibile ogni volta osservare il progredire e il mutarsi degli stati verso la virtù o il vizio.
CLINIA: Da quale parte intendi dire?
ATENIESE: Credo che bisognerebbe porsi dalla parte della sconfinata lunghezza del tempo e dai mutamenti che in tale lasso di tempo avvennero.
CLINIA: Che cosa vuoi dire?
ATENIESE: Coraggio: da quando esistono gli stati e gli uomini che sono governati dalle costituzioni, credi di poter calcolare quanto tempo è trascorso?
CLINIA: Non è affatto facile.
ATENIESE: Sarà dunque immenso e incalcolabile?
CLINIA: Questo senz'altro.
ATENIESE: In tutto questo tempo non furono mille e più di mille gli stati che vennero alla luce, e in numero non inferiore, anzi, secondo la stessa proporzione, quelli che vennero distrutti? E non sono stati dovunque amministrati da ogni sorta di costituzione? E ora da piccoli sono diventati grandi, e da grandi sono diventati piccoli? E da migliori che erano sono diventati peggiori, e da peggiori migliori?
CLINIA: Necessario.
ATENIESE: Cerchiamo di capire la causa di questi mutamenti, se possiamo: forse, infatti, essa potrebbe mostrarci la prima origine delle costituzioni e il loro cambiamento.
CUNIA: Dici bene, e allora bisogna che ci disponiamo in modo che tu mostri ciò che pensi riguardo a quelle, e noi ti seguiamo.
ATENIESE: Vi sembra dunque che le antiche leggende contengano una certa verità?
CLINIA: Quali leggende?
ATENIESE: Quelle riguardanti i frequenti stermini degli uomini dovuti ad inondazioni, a malattie, e a molti altri eventi ancora, nel corso dei quali una piccola parte del genere umano riuscì a scampare.
CLINIA: Chiunque potrà prestare fede a queste credenze.
ATENIESE: Coraggio, prendiamo in considerazione una delle molte distruzioni, quella ad esempio che un tempo avvenne a causa del diluvio.
CLINIA: E quale considerazione dobbiamo fare riguardo ad essa?
ATENIESE: Dobbiamo pensare che coloro che allora scamparono a quella distruzione dovevano essere pastori delle montagne, ultime e piccole scintille del genere umano che si sono salvati stando sui luoghi più alti.
CLINIA: è chiaro.
ATENIESE: è inevitabile che costoro non avessero esperienza di ogni altra arte, e di quei mezzi che nelle città gli uomini escogitano gli uni contro gli altri, e che sono volti al guadagno e all'ambizione, e di tutte quante le altre malvagità che essi intendono arrecarsi l'un l'altro.
CLINIA: è vero.
ATENIESE: Non dobbiamo supporre che le città edificate in pianura e presso il mare venissero in quel tempo rase al suolo?
CLINIA: Dobbiamo supporlo.
ATENIESE: Non diremo che in quell'occasione vennero distrutti tutti gli strumenti, e se qualcosa che riguardi l'arte o la politica o qualsiasi altra forma di sapienza, era stato diligentemente scoperto andò tutto quanto in rovina? Come, carissimo, si sarebbe potuto scoprire qualcosa di nuovo, se tali cose fossero rimaste per tutto il tempo nella condizione in cui sono disposte ora?
CLINIA: Questo significa che tali conoscenze rimasero celate agli uomini di allora innumerevoli volte e per migliaia di anni, e sono mille o duemila anni che sono sorte, ed alcune si mostrarono a Dedalo, altre ad Orfeo, altre ancora a Palamede, e quelle riguardanti la musica a Marsia e ad Olimpo, quelle concernenti la lira ad Anfione, e ad altri tutte le altre, le quali sono sorte, per così dire, ieri o l'altro ieri.
ATENIESE: Benissimo, Clinia, dato che hai tralasciato il tuo amico che è senza dubbio nato ieri.
CLINIA: Alludi forse ad Epimenide?
ATENIESE: Sì, proprio a lui: secondo voi egli superò di gran lunga tutti gli altri per quello che inventò, amico, e ciò che Esiodo con la parola aveva anticamente predetto nei fatti quello lo realizzò, come voi dite.
CLINIA: Sì, lo diciamo.
ATENIESE: Possiamo allora dire che questa era la condizione umana quando avvenne quella distruzione: un'immensa e paurosa solitudine, la maggior parte della terra abbandonata, scomparsi tutti gli altri animali, e sopravvissuti soltanto pochi armenti e qualche capra, e, in ogni caso, anche questi troppo scarsi perché i pastori potessero vivere in quei tempi.
ATENIESE: Ma dello stato, della costituzione, della legislazione, di ciò che ci ha fornito l'occasione per il discorso attuale, riteniamo, per così dire, che sia rimasto almeno il ricordo?
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: Dunque da ciò che si trovava in tale condizione non deriva tutto quanto è in nostro possesso: stati, costituzioni, arti, leggi, molti vizi e molte virtù?
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Crediamo forse, carissimo, che gli uomini di allora, che non avevano esperienza dei molti beni che vi sono nella città e del loro contrario, avessero realizzato la virtù e il vizio?
CLINIA: Dici bene, e capiamo quello che vuoi dire.
ATENIESE: Dunque con il passare del tempo e con il moltiplicarsi della nostra stirpe, tutto è progredito sino a giungere così com'è ora?
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: Non all'improvviso, a quanto pare, ma gradualmente, in un ampio lasso di tempo.
CLINIA: Ed è assai conveniente che sia così.
ATENIESE: In tutti, io credo, era ancora recente la paura che impediva di scendere dai luoghi alti al piano.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: E non erano lieti di vedersi in quel tempo, per il fatto di essere un esiguo numero? E i mezzi di trasporto con cui allora per terra e per mare si recavano gli uni dagli altri non erano stati tutti pressoché distrutti, per così dire, insieme alle arti? Credo allora che non fosse possibile che essi si mescolassero fra di loro: erano infatti scomparsi il ferro, il bronzo, e tutti i metalli mescolati insieme, sicché la difficoltà di estrarli e di purificarli era assoluta, e vi era scarsità di provviste di legno. E se sui monti era rimasto qualche strumento, consumandosi rapidamente era scomparso, e non era possibile realizzarne un altro, prima che giungesse nuovamente agli uomini l'arte dei metalli.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Dopo quante generazioni pensiamo che questo sia avvenuto?
CLINIA: Dopo moltissime, è chiaro.
ATENIESE: E dunque anche tutte quelle arti che avevano bisogno del ferro, del bronzo, e di tutti i metalli non scomparvero per lo stesso lasso di tempo, e anche più a lungo, in quel periodo?
CLINIA: E allora?
ATENIESE: E allora sedizioni e guerre in quel tempo erano scomparse.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Prima di tutto quegli uomini si amavano e usavano benevolenza gli uni verso gli altri a causa della loro solitudine, in secondo luogo il nutrirsi non rappresentava per loro motivo di contesa. I pascoli non mancavano, se non in principio per alcuni, e soprattutto dei pascoli in quel tempo vivevano: non mancavano affatto né latte né carne, e inoltre andando a caccia si procuravano un non vile né scarso nutrimento. Ed erano forniti di vestiti, di coperte, di case, e di vasi da mettere sul fuoco e da usare in altro modo: le arti plastiche e tessili, infatti, non hanno affatto bisogno del ferro, e un dio le donò perché procurassero agli uomini tutto ciò che si è appena detto, e perché quando il genere umano venisse a trovarsi in simili difficoltà avesse come un germoglio per potersi sviluppare. Essi non erano del tutto poveri, e la povertà non li costringeva ad essere ostili fra loro: ma non erano neppure ricchi, poiché non possedevano né oro né argento, e questa era in quel tempo la loro condizione. E quando in una comunità non convivono né ricchezza né povertà, nascono in essa i più nobili costumi: e non vi possono essere né violenza, né ingiustizia, né invidie, né gelosie. Per queste ragioni erano buoni e per quella che viene definita semplicità: se ascoltavano qualcosa di bello o di brutto, ritenevano, nella loro semplicità, che ciò che era stato detto fosse verissimo e vi prestavano fede. Nessuno sapeva sospettare il falso abilmente come ora, ma tenendo per vero ciò che si raccontava degli dèi e degli uomini vivevano in questo modo: perciò erano tali quali noi ora li abbiamo descritti.
CLINIA: Siamo d'accordo su queste cose, costui ed io.
ATENIESE: Non dobbiamo allora dire che molte sono state le generazioni vissute in questo modo, ed erano meno progrediti di quelli che vissero prima del diluvio e di quelli che vivono adesso, e più ignoranti rispetto alle altre arti che sarebbero comparse, e alle arti della guerra, sia quelle che ora si praticano per terra e per mare, sia anche quelle che si esercitano solo nelle città e che prendono il nome di processi e sedizioni, dove si escogitano tutti gli espedienti, con le parole e con i fatti, per farsi vicendevolmente del male e per compiere ingiustizie? Non possiamo dire anche che quegli uomini di allora erano d'animo più semplice, e più valorosi, e più saggi, e sotto ogni aspetto più giusti? La ragione di queste cose l'abbiamo già detta.
CLINIA: Dici bene.
ATENIESE: Tutto questo sia da noi detto, e quanto seguirà ancora si dica per questa ragione, e cioè per capire quale bisogno delle leggi avevano quegli uomini di allora, e qual era il loro legislatore.
CLINIA: Hai detto bene.
ATENIESE: E dunque non è forse vero che quelli non avevano bisogno di legislatori, e nulla di simile è solito sorgere in quei tempi? Coloro che vivono in questo periodo di tempo non possiedono la scrittura, ma vivono seguendo i costumi e le leggi che si dice che siano dei padri.
CLINIA: è verosimile.
ATENIESE: E questa è già una forma di costituzione politica.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Mi sembra che tutti chiamano signoria la costituzione politica di quel tempo e che ancora adesso viene attuata in molti luoghi, e presso i Greci e presso i barbari. Omero sostiene che essa si ritrova nel governo dei Ciclopi, quando afferma: «Essi non hanno assemblee che danno consiglio né leggi, ma vivono sulle cime di altissimi monti in profonde caverne, e ciascuno stabilisce leggi sui figli e sulle donne, e non si occupano l'uno dell'altro».
CLINIA: Mi pare che questo vostro poeta sia davvero elegante. E noi abbiamo letto altri suoi passi di grande acutezza, anche se non molti, per la verità: noi Cretesi, infatti, non coltiviamo molto la poesia straniera.
MEGILLO: Noi invece la leggiamo, e ci sembra che Omero domini i poeti del suo genere, anche se ogni volta descrive la vita ionica più di quella della Laconia. Ora però mi pare che renda una valida testimonianza a sostegno del tuo discorso, avendo imputato, mediante il mito, alla feroce natura selvaggia i loro antichi modi di vita.
ATENIESE: Sì. Rende questa testimonianza, ed anzi, possiamo ritenerlo come una fonte che ci indica che tali costituzioni sono in quel tempo esistite.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: E queste costituzioni non nascono forse da questi uomini dispersi in famiglie e stirpi da una terribile situazione causata dalle distruzioni, costituzioni in cui i più vecchi hanno il potere, il quale è loro derivato dal padre e dalla madre, e gli altri, seguendoli come fanno gli uccelli formano un solo gregge, e sono retti dalle leggi paterne e governati dal governo più giusto di tutti i governi?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dopo di che si riuniscono in comunità più numerose, formando organismi politici più grandi, e si rivolgono dapprima alla coltivazione dei campi che si trovano ai piedi del monte, e costruiscono intorno dei muri di cinta, come di siepe, per proteggersi dalle fiere, realizzando una sola grande dimora comune.
CLINIA: è verosimile che le cose stiano in questi termini.
ATENIESE: Ebbene? E questa cosa non è verosimile?
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Che questi organismi familiari più grandi si svilupparono grazie a quei primi e più piccoli organismi, e ciascuno dei più piccoli era presente con la propria stirpe, avendo come sua guida il più anziano e portando con sé alcune proprie usanze, per il fatto di essere vissuti separati gli uni dagli altri; e avendo avuto antenati ed educatori diversi fra loro, diversi erano stati anche i rapporti che avevano instaurato con gli dèi e fra di loro, più disciplinati quelli di coloro che discendevano da antenati più disciplinati, più virili quello dei progenitori più virili. E in questo modo, ciascun organismo formò i figli e i figli dei figli secondo le proprie concezioni, e, come dicevamo, entrarono a far parte della comunità più grande con le proprie norme particolari.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Ed è inevitabile che a ciascuno sono più gradite le proprie norme e si preferiscono a quelle degli altri.
CLINIA: è così.
ATENIESE: A quanto pare senza accorgercene siamo giunti all'origine della legislazione.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dopo di che è allora necessario che tutti costoro che si sono riuniti in una comunità scelgano alcuni di loro, i quali, esaminate le norme di ciascun gruppo, mostrino con chiarezza ai capi e ai condottieri dei popoli come si farebbe coi re, quelle norme che secondo loro sono le più adatte, per quanto riguarda il comune interesse, e le affidino loro perché siano discusse. E quelli verranno chiamati legislatori, e stabiliranno dei magistrati, e dalle signorie formeranno l'aristocrazia o anche una monarchia, e governeranno nel corso di questo cambiamento della costituzione.
CLINIA: Le cose non possono che succedersi in tale sequenza.
ATENIESE: Diciamo che la terza forma di costituzione politica è quella in cui si incontrano ogni specie di costituzioni e di stati, e i loro peculiari comportamenti.
CLINIA: Qual è questa forma?
ATENIESE: Quella che segue la seconda, e che Omero ha contrassegnato, affermando che la terza era così. Ed egli disse: «Fondò Dardania, ché la sacra Ilio non ancora in pianura era stata edificata, città di uomini mortali, che ancora abitavano le falde dell'Ida dalle molte sorgenti». In questi versi e in quelli riguardanti i Ciclopi egli parla esprimendosi come un dio, seguendo la natura delle cose. Divina è infatti la stirpe dei poeti, cantando inni ispirati, ogni volta riesce a cogliere la verità di molti fatti con l'aiuto delle Grazie e delle Muse.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Procediamo ancora innanzi in questo mito che ora si è presentato ai nostri occhi: forse potrebbe indicare qualcosa che ha a che fare con il nostro intento. O non dobbiamo fare così?
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Ilio fu fondata, dicevamo, quando gli abitanti scesero dai monti in una grande e bella pianura, su di un colle non troppo alto, e ricco di molti fiumi che sorgevano dalle sommità dell'Ida.
CLINIA: Così dicono.
ATENIESE: Non pensiamo che ciò sia avvenuto molto tempo dopo il diluvio?
CLINIA: E come non potrebbe essere avvenuto molto tempo dopo?
ATENIESE: A quanto pare si trovava allora presso di loro un terribile oblio della distruzione di cui ora stiamo parlando, quando in tal modo fondarono la città collocandola vicino a molti fiumi che scorrevano dalle alture, fidandosi di luoghi non eccessivamente alti.
CLINIA: è chiaro che un periodo di tempo assai lungo doveva separarli da quel fatto.
ATENIESE: E molti altri stati, io credo, venivano ormai fondati, moltiplicandosi la popolazione umana.
CLINIA: E allora?
ATENIESE: E questi stati ad un certo punto mossero guerra contro Ilio, e forse per mare, poiché tutti ormai solcavano il mare senza paura.
CLINIA: Può essere.
ATENIESE: E rimasti là dieci anni, gli Achei distrussero Troia.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dunque in questo periodo di tempo, che durò appunto dieci anni, in cui Ilio venne assediata, accaddero molte sventure all'interno di ciascuno degli stati assedianti causate dalle rivolte dei giovani che non accolsero bene e neppure secondo giustizia i soldati che giungevano nei loro stati e nelle loro case, al punto che vi furono innumerevoli morti, uccisioni, e fughe: e i fuggitivi fecero ritorno cambiando nome, e si chiamarono Dori anziché Achei, poiché Doro raccolse quelli che allora erano fuggiti. E tutti questi miti che voi, Spartani, raccontate ed esponete in modo completo, hanno origine da questo punto.
MEGILLO: Ebbene?
ATENIESE: Ora siamo nuovamente ritornati, come per un intervento divino, a quel punto da cui in principio ci eravamo discostati, quando, discorrendo sulle leggi, ci siamo imbattuti nella musica e nell'uso smodato del vino. Ed è proprio il discorso che ci offre l'occasione di tornare al punto di partenza: infatti esso è giunto alla fondazione dello stato spartano, che voi avete detto che si trattò di una giusta fondazione, e a Creta, le cui leggi sono come sorelle. Ora grazie a questo divagare del discorso abbiamo tratto un certo guadagno, poiché abbiamo passato in rassegna alcune costituzioni politiche e fondazioni di stati: abbiamo visto una prima forma di stato, una seconda, e una terza che, come crediamo, vennero fondate l'una dopo l'altra nel corso di sconfinati spazi di tempo. In questo momento si impone alla nostra attenzione un quarto stato, o se volete un popolo, che un tempo fu fondato e ancora adesso si regola su quei princìpi. Se dunque da tutte queste cose possiamo capire che cos'è che fu bene o male regolato, e quali leggi conservano ciò che viene conservato e quali invece distruggono ciò che viene distrutto, e quali cambiamenti potrebbero rendere felice uno stato, o Megillo e Clinia, bisogna riprendere tutte queste cose dal principio, se non vi è nulla da obiettare nei discorsi che abbiamo fatto.
MEGILLO: Se dunque, straniero, un dio ci promettesse che, ricominciando un'altra volta l'indagine sulla legislazione, noi ascolteremmo discorsi non peggiori né meno estesi di quelli che abbiamo fatto ora, io vorrei percorrere un lungo cammino, e il giorno presente mi parrebbe breve. Eppure si è vicini a quel periodo in cui il dio volge la stagione estiva in quella invernale.
ATENIESE: Dobbiamo compiere, a quanto pare, questa indagine.
MEGILLO: Senza dubbio.
ATENIESE: Andiamo con il pensiero a quel tempo in cui Sparta, Argo, e Messene, e le loro terre erano passate nelle mani dei vostri antenati, Megillo: dopo questi fatti, parve loro opportuno, come dice il mito, dividere l'esercito in tre parti, e fondare tre stati, Argo, Messene, e Sparta.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: E Temeno diventò re di Argo, di Messene Cresfonte, di Sparta Prode ed Euristene.
MEGILLO: Come no?
ATENIESE: E tutti in quel tempo giurarono di soccorrersi, se qualcuno fosse venuto a distruggere il loro regno.
MEGILLO: Ebbene?
ATENIESE: Si dissolve un regno, per Zeus, o si è mai dissolto un governo, per causa di altri piuttosto che per causa degli stessi governanti che lo detengono? O non è vero che proprio ora, imbattendoci poco fa in questi discorsi, abbiamo stabilito queste cose di cui forse ora ci siamo dimenticati?
MEGILLO: E come sarebbe?
ATENIESE: Dunque ora rafforzeremo ancora di più questo punto: essendoci imbattuti in eventi che sono realmente avvenuti, a quanto pare, siamo ritornati allo stesso discorso, sicché non faremo una ricerca su di un argomento inesistente, ma su ciò che avvenne e che si fondò sulla verità. Accaddero queste cose: le tre monarchie strinsero un giuramento con i tre stati loro sudditi, secondo le leggi comuni che essi avevano stabilito e che riguardavano il rapporto fra governanti e sudditi, gli uni impegnandosi a non rendere più violento il comando con il passare del tempo e delle generazioni, gli altri, sempre che i governanti mantenessero queste promesse, impegnandosi a non far cadere quel potere e a non permettere ad altri di farlo, e, inoltre, i re giurarono di venire in soccorso ai re e ai popoli vittime di soprusi, e i popoli a loro volta, di venire in aiuto ai re e ai popoli vittime di ingiustizie. O non è così?
MEGILLO: Sì, è così.
ATENIESE: Dunque questo non era forse l'elemento più importante nella formazione delle costituzioni politiche e nella legislazione di quei tre stati, sia che fossero i re a dare le leggi, sia che fossero altri ancora?
MEGILLO: Quale elemento?
ATENIESE: Il fatto che vi erano sempre due stati pronti ad accorrere in soccorso di quel terzo che disobbedisse alle leggi stabilite.
MEGILLO: è chiaro.
ATENIESE: E la maggioranza ordina ai legislatori di stabilire leggi tali che possano essere accolte di buon grado dai popoli e dalle masse, come se si ordinasse ai maestri di ginnastica o ai medici di curare e di guarire piacevolmente i corpi che sono oggetto di cure.
MEGILLO: Senza dubbio.
ATENIESE: Ma spesso ci si deve accontentare se i corpi possono riacquistare vigore e salute con un dolore non eccessivo.
MEGILLO: Certo.
ATENIESE: Anche questo non era un elemento di scarsa importanza per rendere più facile l'istituzione delle leggi.
MEGILLO: Quale?
ATENIESE: Il fatto che quei legislatori non erano oggetto di feroci critiche, cercando di fondare una certa uguaglianza dei beni; e queste critiche prendono corpo in molti altri stati che sono regolati da una costituzione, quando qualcuno cerca di riformare il possesso della terra e di annullare i debiti, considerando che senza queste riforme non si potrebbe conseguire adeguatamente l'uguaglianza. Allora ognuno si oppone al legislatore che tenta di promuovere queste riforme, dicendo di non muovere ciò che non si può muovere, e maledice contro chi introduce nuove divisioni della terra e la rescissione dei debiti, in modo che ogni legislatore si trova in grande difficoltà. Ma per i Dori anche questo andò bene e non suscitò critiche, e infatti si divisero la terra senza entrare in controversie, e i debiti non erano enormi o d'antica data.
MEGILLO: Vero.
ATENIESE: Perché allora, carissimi, finirono così male la loro costituzione e il complesso delle loro leggi?
MEGILLO: Che cos'è che rimproveri e in che modo?
ATENIESE: Il fatto che, essendoci tre stati, due di essi distrussero rapidamente la loro costituzione e le leggi, e l'unico che rimase fu proprio il vostro stato.
MEGILLO: Non è certo facile quello che domandi.
ATENIESE: Ma bisogna che indagando ed esaminando tale questione in questo momento, giocando al gioco delle leggi, un saggio divertimento proprio dei vecchi, percorriamo la strada senza affaticarci, come abbiamo detto quando abbiamo intrapreso il cammino.
MEGILLO: Ebbene? Bisogna fare come dici.
ATENIESE: E quale più bella indagine potremmo fare intorno alle leggi di questa che si occupa di quelle leggi che regolarono questi stati? Di quali stati più illustri e anche più grandi prenderemo in esame la fondazione?
MEGILLO: Non è facile citarne altri che sostituiscano questi.
ATENIESE: è chiaro che quegli uomini pensavano che una simile compagine di stati doveva garantire un'adeguata difesa non solo al Peloponneso ma anche a tutti i Greci, se qualche barbaro volesse recare offesa, così come allora quelli che abitavano ad Ilio, fidando nella potenza assira che era sorta con Nino, divennero insolenti e suscitarono la guerra di Troia. Non era infatti di poca importanza quel che si era conservato della struttura di quella potenza: come ora temiamo il Gran Re, anche in quel tempo si temeva quella compatta alleanza. La grande accusa nei loro confronti consisteva nella seconda presa di Troia, quando essa faceva parte del loro impero. Contro tutte queste forze venne allestito un esercito solo, diviso allora in tre parti come i tre stati, e comandato dai tre re fratelli, figli di Eracle, che, a quanto sembra, era ben studiato e ordinato, superiore a quello che si era recato a Troia. Prima di tutto si riteneva di avere negli Eraclidi condottieri migliori dei Pelopidi, in secondo luogo si pensava che quest'esercito superasse in virtù quello che si era recato a Troia: questi infatti erano vincitori, mentre quelli, gli Achei, erano stati vinti dai Dori. Non dobbiamo allora pensare che quelli si prepararono sulla base di una simile considerazione?
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: è dunque anche verosimile che essi ritenessero stabile questa loro potenza e capace di durare per molto tempo, ché avevano condiviso insieme molte fatiche e pericoli, governati com'erano da re fratelli di una sola stirpe, ed inoltre poiché avevano consultato molti indovini, e fra gli altri, anche Apollo di Delfo?
MEGILLO: Come non potrebbe essere verosimile?
ATENIESE: E questa potenza considerata così grande cadde, a quanto pare, in quel tempo e assai velocemente, fatta eccezione, come dicevamo, per quella piccola parte del vostro paese, e che fino ad ora non ha mai smesso di combattere contro le altre due parti: perché se quella armonia di intenti che allora si era realizzata fosse rimasta unita, avrebbe formato in guerra una potenza irresistibile.
MEGILLO: Come no?
ATENIESE: Come e perché si dissolse? Non è degno di attenzione indagare quale sorte abbia annientato un apparato così antico e così importante?
MEGILLO: Sarebbe inutile guardare altrove, volendo trascurare queste cose, per vedere se vi sono altre leggi o costituzioni che siano in grado di conservare belle e grandi istituzioni, o, al contrario, di mandarle del tutto in rovina.
ATENIESE: A questo punto mi pare che ci siamo fortunatamente messi sulla strada di una indagine adeguata.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Dunque, carissimo, anche noi ora non ci siamo forse sbagliati, come tutti gli uomini, ritenendo che, ogni volta che vediamo una nobile istituzione, realizzata in modo splendido, questo sia dovuto al fatto che qualcuno sappia servirsene bene e in modo appropriato, e che quindi noi adesso proprio su di essa non abbiamo pensato correttamente, né secondo quella che è la sua natura, e così tutti non riflettono correttamente su tutte le altre cose quando riflettono in questo modo?
MEGILLO: A che cosa alludi? E a proposito di che cosa dobbiamo dire che tu hai fatto questo discorso.
ATENIESE: Amico mio, ora ho preso in giro me stesso. Avendo infatti rivolto la mia attenzione a quell'esercito di cui abbiamo parlato, mi parve che fosse assai bello e capace di procurare splendide ricchezze ai Greci, se, come dicevo, qualcuno fosse stato allora capace di utilizzarlo bene.
MEGILLO: Allora tu non hai parlato bene e in modo saggio di tutte queste cose e noi in modo non assennato ti abbiamo approvato?
ATENIESE: Forse: e io rifletto sul fatto che chiunque, quando vede un qualcosa di grandioso e dotato di molta potenza e forza, prova immediatamente questa impressione, per cui se chi possiede questa cosa così importante sapesse servirsene, realizzerebbe molte imprese meravigliose e sarebbe felice.
MEGILLO: E questo non è giusto? O come dici?
ATENIESE: Considera qual è l'aspetto cui deve prestare attenzione chi elogia qualsiasi cosa, se vuole far questo in modo corretto: prima di tutto, riferendoci alla questione di cui stiamo adesso parlando, se quelli che allora ordinarono l'esercito avessero saputo disporlo in modo conveniente, avrebbero potuto in qualche modo sfruttare l'occasione? Non forse se lo avessero solidamente ordinato e lo avessero mantenuto tale per il tempo futuro, in modo da restare essi stessi liberi e di comandare tutte le altre genti che volessero, e di compiere, essi stessi e i loro discendenti, tutto ciò che volessero a tutti gli altri uomini, Greci e barbari che fossero? Non dovrebbero meritarsi lodi per questo?
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: E un tale che veda una grande ricchezza, e onori che rendono superiore una famiglia, e altre cose di questo genere, e dica le stesse parole di lode, non le dice pensando a questo, e cioè che con quei mezzi si potranno realizzare tutte le cose che si desiderano, e la maggior parte di esse e quelle più degne di considerazione?
MEGILLO: Mi pare.
ATENIESE: Coraggio, non vi è forse un desiderio comune a tutti gli uomini che ora è stato messo in evidenza da queste parole, così come lo stesso discorso afferma?
MEGILLO: E qual è?
ATENIESE: Il desiderio che le cose avvengano secondo quanto è stato predisposto dalla nostra anima, tutte quante se possibile, o, altrimenti, almeno quelle umane.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Se tutti vogliamo sempre una cosa del genere, da quando siamo giovani fino a quando siamo vecchi, non sarà inevitabile che proprio questo sia incessantemente l'oggetto delle nostre preghiere?
MEGILLO: Come no?
ATENIESE: E pregheremo insieme ai nostri cari perché le loro preghiere vengano esaudite.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: E il figlio è caro al padre, egli che è un bambino all'uomo adulto.
MEGILLO: Come no?
ATENIESE: E di quelle cose che il figlio si augura che si avverino, molte il padre scongiurerà gli dèi perché non avvengano affatto secondo le preghiere del figlio.
MEGILLO: Parli di un figlio che è ancora privo della ragione e che prega ancora da bambino?
ATENIESE: E quando il padre, essendo vecchio o anche troppo giovane, e non avendo cognizione del bene e del giusto, prega con grande fervore trovandosi in condizioni simili a quelle in cui si trovava Teseo nei confronti di Ippolito che fece una misera fine, e il figlio invece abbia cognizione di queste cose, allora, tu credi, il figlio pregherà insieme al padre?
MEGILLO: Capisco quello che stai dicendo. Mi sembra che tu voglia dire che non si deve pregare e desiderare che tutto segua il nostro volere, ma piuttosto che sia il nostro volere a seguire l'intelligenza: lo stato ed ognuno di noi deve pregare e sforzarsi in ogni modo di possedere dunque la mente.
ATENIESE: Sì, e mi viene in mente che l'uomo politico che è legislatore deve sempre tenere presente questo principio quando stabilisce gli ordinamenti delle leggi; e ora vi ricordo, se non abbiamo dimenticato quanto abbiamo detto all'inizio, che secondo il vostro precetto era necessario che il buon legislatore disponesse tutto il complesso delle leggi in funzione della guerra, mentre io sostenevo che tale precetto indirizzava le leggi verso una sola virtù - ed esse sono quattro -, mentre bisognava tenerle tutte presente, e soprattutto, e per prima, quella che è guida di tutta la virtù, e cioè la prudenza, e l'intelletto e l'opinione, insieme all'amore e al desiderio che ad essi si accompagnano. Il discorso è così giunto di nuovo allo stesso punto, ed io che parlo ora dico di nuovo ciò che dicevo allora, per scherzo, se volete, o seriamente, e cioè che è pericoloso far voti se si è privi dell'intelletto, e che avviene il contrario di quel che si vuole. E se volete assicurarvi che io parlo seriamente, assicuratevi pure: prevedo sicuramente che voi ora scoprirete, seguendo quel ragionamento che poco fa abbiamo esposto, che la causa della rovina di quei re e di tutto quello che loro concepirono non fu la viltà né il fatto che i capi e quanti dovevano obbedire non conoscevano a fondo le cose della guerra, ma quei regni andarono in rovina a causa di tutti i loro vizi, e soprattutto per l'enorme ignoranza intorno alle questioni umane. E che queste cose sono avvenute in questo modo allora e anche adesso, se avvengono, e non altrimenti avverranno nel tempo futuro, se volete, cercherò di scoprirlo, procedendo nel discorso, e di mostrarlo, per quanto mi è possibile, a voi che siete amici.
CLINIA: Straniero, lodarti a parole è cosa troppo molesta, e dunque lo faremo con i fatti: seguiremo volentieri le tue parole, ed è in questo caso che l'uomo libero manifesta assai bene ciò che approva e ciò che non approva.
MEGILLO: Benissimo, Clinia, e facciamo come dici.
CLINIA: Sarà così, se il dio lo vuole. Avanti, parla.
ATENIESE: Diciamo dunque, procedendo lungo la strada che ancora ci resta da percorrere del nostro discorso, che la più grande ignoranza annientò allora quella potenza, e che ancora adesso determina questa stessa conseguenza, sicché il legislatore, se le cose stanno così, deve sforzarsi di ingenerare negli stati, secondo le sue possibilità, un'assennata prudenza, levando via, per quanto gli è possibile, la stoltezza.
CLINIA: è chiaro.
ATENIESE: Qual è quella che si deve giustamente definire la più grande ignoranza? Vedete se siete d'accordo anche voi con quello che dico: io propongo una definizione di questo genere.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Quella secondo cui un tale, ritenendo una cosa bella o buona, non la ama, ma la detesta, mentre predilige e brama ciò viene ritenuto malvagio ed ingiusto. Dunque io dico che questa dissonanza di piacere e dolore con l'opinione conforme alla ragione costituisce il caso più estremo di ignoranza, e il più grave, perché occupa la parte più ampia dell'anima: infatti il soffrire e il godere sono in essa come popolo e massa sono nello stato. E quando l'anima si oppone alla conoscenza, all'opinione, e alla ragione, che per natura sono preposte al comando, chiamo questo atteggiamento stoltezza, e la stessa cosa avviene in uno stato, quando la massa non obbedisce ai governanti e alle leggi, e, ancora, nel singolo individuo, quando i bei ragionamenti che si trovano nell'anima non fanno nulla di più che esserci, ma in realtà avviene tutto il contrario di quello che essi dicono: e tutte queste forme di ignoranza io le considero fra le più sconvenienti per lo stato e per i singoli cittadini, e non certo quella degli artigiani, se capite, stranieri, quello che voglio dire.
CLINIA: Capiamo, amico, e siamo d'accordo con quello che dici.
ATENIESE: Pertanto si stabilisca questo, proprio come è stato fissato e definito, e cioè che ai cittadini che vivono in una simile ignoranza non conviene affidare alcun potere, ma si devono rimproverare per il fatto di essere ignoranti, anche se siano in grado di ragionare assai bene e siano esercitati in ogni sorta di sottigliezza o in tutto ciò che per natura favorisce l'agilità dell'anima, mentre quelli che sono il contrario di questi bisogna chiamarli sapienti, anche se, per così dire, non sanno scrivere né nuotare, e si deve affidare loro il potere come a persone assennate. Come, amici, potrebbe esserci una forma anche minima di assennata prudenza senza l'armonia? Non è possibile, ma si può assai giustamente dire che la più bella e la più grande delle armonie sia la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione, mentre chi ne è privo distrugge la propria casa e non può affatto salvare lo stato, ma appare ogni volta tutto il contrario, essendo appunto ignorante. Tali cose siano dunque dette e stabilite così come si è detto un momento fa.
CLINIA: Sia stabilito così.
ATENIESE: è necessario che negli stati vi siano governanti e governati.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ebbene: quali e quanti sono i princìpi del governare e dell'esser governati nei grandi stati come in quelli piccoli e nelle famiglie? Non è forse vero che uno di essi riguarda il padre e la madre? E non è ovunque un giusto principio che i genitori debbano esercitare il comando assoluto sui figli?
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: A questo segue il principio per cui coloro che sono nobili per nascita comandano coloro che non sono nobili: e a questi due segue il terzo secondo cui i più vecchi devono comandare, e i più giovani devono essere comandati.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Il quarto dice che gli schiavi devono esser comandati, e i padroni devono comandare.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Il quinto, io credo, che il più forte deve comandare, e il più debole deve essere comandato.
CLINIA: è del tutto inevitabile questa forma di comando di cui tu parli.
ATENIESE: Ed è quella che, per natura, si ritrova in più larga misura fra gli esseri viventi, come disse un giorno il tebano Pindaro. Ma il più importante, a quanto pare, dei princìpi è il sesto, che prescrive all'ignorante di seguire, e al saggio di guidare e di comandare. E questo, o sapientissimo Pindaro, non potrei dire che si verifichi contro natura, ma secondo natura, perché il comando della legge vale per chi lo accetta volontariamente, e non è per natura violento.
CLINIA: Quello che dici è giustissimo.
ATENIESE: Citando ancora una forma di comando caro agli dèi e fortunato, ci avviciniamo alla sorte, e diciamo che è assai giusto che comandi chi è stato scelto da lei, mentre colui al quale essa si è opposta si ritiri e obbedisca.
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: «Vedi, legislatore», potremmo dire per scherzo ad uno di quelli che si accingono a stabilire le leggi con troppa faciloneria, «quanti sono i princìpi che riguardano i governanti, e come per loro natura sono opposti fra di loro? Ora infatti noi abbiamo scoperto una fonte di sedizioni che tu devi curare. Per prima cosa considera con noi come e perché i re di Argo e di Messene, contravvenendo a questi princìpi, distrussero se stessi e insieme la potenza dei Greci, davvero mirabile in quel tempo. Non erano forse all'oscuro di quel giusto detto di Esiodo secondo il quale “la metà è più del tutto”? Quando prendere il tutto è dannoso, e la metà, invece, è segno di moderazione, allora Esiodo ritenne che il moderato è meglio di ciò che è eccessivo, essendo migliore del secondo che appunto è peggiore.
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: Dobbiamo forse pensare che una corruzione del genere coinvolga ogni volta i re prima dei popoli?
CLINIA: Naturalmente questo è un male che colpisce soprattutto i re che vivono nell'arroganza e nello sfarzo.
ATENIESE: Non è dunque chiaro che i re di allora patirono dapprima questo male, quello cioè di andare oltre le leggi stabilite e di non essere coerenti con se stessi, riguardo a ciò che con le parole e i giuramenti avevano approvato, e che la mancanza di armonia che, come diciamo, è la forma più grave di ignoranza, prendendo le sembianze della sapienza, mandava in rovina tutte quelle cose, a causa della discordanza e di un'amara mancanza di armonia?
CLINIA: Così pare.
ATENIESE: Bene. E quali misure doveva allora adottare il legislatore per guardarsi dal sorgere di questo male? Per gli dèi, non ci vuole ora una grande saggezza per riconoscere questa cosa, e non è difficile da dirsi: ma se in quel tempo fosse stato possibile prevederlo, chi lo avrebbe previsto non sarebbe stato più sapiente di noi?
MEGILLO: Che cosa vuoi dire?
ATENIESE: Considerando ciò che è avvenuto presso di voi, Megillo, oggi è facile sapere, e sapendolo, dire ciò che allora bisognava che avvenisse.
MEGILLO: Parla più chiaramente.
ATENIESE: In questo modo sarò forse chiarissimo.
MEGILLO: Quale modo?
ATENIESE: Se si dà di più a ciò che richiede di meno, andando oltre la misura, vele alle navi e nutrimento ai corpi e potere alle anime, tutto viene sconvolto, e per l'esuberanza i corpi vanno incontro alle malattie, e le anime all'ingiustizia che è figlia della tracotanza. Che cosa mai vogliamo dire? Forse questo, e cioè che non esiste, cari amici, natura d'anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini, se essa è giovane ed irresponsabile, in modo che la sua mente non sia del tutto occupata dalla più grave malattia, la stoltezza, e non abbia l'odio degli amici più stretti, cosa che, quando avviene, distrugge la sua mente e annulla tutta la sua potenza? Guardarsi da questo male, conoscendo la giusta misura, è proprio dei grandi legislatori. E adesso non è difficile congetturare quanto avvenne allora: pare le cose andarono così.
MEGILLO: Come?
ATENIESE: Vi era un dio che si preoccupava di voi, il quale prevedendo il futuro fece nascere per voi una doppia stirpe di re da una che era, riducendola di più a giusta misura. Dopo di che un uomo, la cui natura si era combinata con una certa potenza divina, vedendo che il vostro potere era piuttosto acceso, unì il moderato potere dei vecchi alla superba forza della nobiltà, e fece in modo che il potere dei ventotto vecchi avesse lo stesso diritto di suffragio, nelle questioni più importanti, di quello dei re. Il vostro terzo salvatore, vedendo che il potere ribolliva ancora d'orgoglio ed era intemperante, come un freno vi introdusse il potere degli efori, accostandolo al potere della sorte: e per questa ragione il potere regio che è presso di voi, risultando composto di quegli elementi che dovevano comporlo e possedendo la giusta misura, dopo aver salvato se stesso, fu causa di salvezza per gli altri. Poiché per Temeno e Cresfonte e per i legislatori di allora - chiunque fossero quelli che stabilivano le leggi - nemmeno la parte di Aristodemo si sarebbe mai salvata: perché non erano abbastanza esperti di legislazione. Non avrebbero mai pensato che una giovane anima si sarebbe potuta tenere a bada con giuramenti, quando essa avesse assunto un potere da cui era possibile che scaturisse la tirannide. E ora il dio ha indicato quale doveva e quale deve essere il governo più stabile. Il fatto che noi conosciamo queste cose, come si è già detto prima, non è indice di sapienza, ora che esse sono avvenute - svolgere infatti delle considerazioni sull'esempio di ciò che è avvenuto non è per nulla difficile -, ma se in quel tempo vi fosse stato qualcuno in grado di prevedere queste cose e di contemperare insieme i tre poteri, facendone uno solo, allora avrebbe salvato tutto quello che di bello era stato pensato in quel tempo, e né l'esercito Persiano, né nessun altro esercito si sarebbe mosso alla volta della Grecia, disprezzandoci come persone degne di scarsa considerazione.
CLINIA: Quello che dici è vero.
ATENIESE: E si sono difesi in modo vergognoso, Clinia. E per vergognoso non intendo dire che quelli di allora non hanno vinto delle belle battaglie vincendo per terra e per mare. Ma è questo ciò che dico che allora fu vergognoso, e cioè che, innanzitutto, di quei tre stati uno solo difese la Grecia, mentre gli altri due erano così corrotti dalla malvagità che uno impedì anche a Sparta di prenderne le difese, facendole guerra con tutta la sua forza, l'altro, che al tempo d ella suddivisione aveva primeggiato, lo stato di Argo, chiamato a respingere il barbaro, non ascoltò né portò soccorsi. E chi volesse ricordare i fatti che allora capitarono nel corso di quella guerra potrebbe rimproverare alla Grecia molte cose del tutto prive di dignità. E neppure direbbe bene colui che dicesse che la Grecia si difese: ma, se grazie al comune intento di Ateniesi e di Spartani non fosse stata respinta la schiavitù che incalzava, le stirpi dei Greci sarebbero ormai tutte mescolate fra loro, quelle dei barbari con i Greci e quelle dei Greci con i barbari, così come adesso quelle stirpi su cui i Persiani esercitano il loro dominio, disseminate e raccolte insieme, vivono sciaguratamente disperse. Queste cose, Clinia e Megillo, dobbiamo rimproverare ai cosiddetti uomini politici e legislatori di un tempo, e anche a quelli attuali, perché, ricercando le cause di quegli eventi, scopriamo che cos'altro si doveva fare al posto di ciò che si è fatto: ad esempio, anche in questo momento abbiamo detto che non bisogna stabilire poteri troppo grandi, né che non siano contemperati da altri elementi, pensando che uno stato dev'essere libero e dotato di intelligenza e coerente con se stesso, e che chi stabilisce le leggi deve legiferare tenendo presente questi princìpi. Non meravigliamoci se proponendoci di frequente certi scopi, abbiamo detto che il legislatore deve legiferare in vista di quelli, e che poi gli scopi proposti non ci sembrano ogni volta gli stessi: ma bisogna calcolare che, quando diciamo che bisogna prestare attenzione alla temperanza, o all'intelligenza, o all'amicizia, questo fine non è diverso, ma è sempre lo stesso, e non preoccupiamoci se useremo molte altri termini come questi.
CLINIA: Cercheremo di fare così, quando ritorneremo a questi discorsi: e ora parla dell'amicizia, dell'intelligenza e della libertà, e spiegaci a che cosa desideravi che il legislatore dovesse mirare, quando stavi per parlare.
ATENIESE: Ora ascolta. Vi sono due forme di costituzione che sono come due madri, dalle quali non sarebbe sbagliato dire che sono nate tutte le altre: e una di queste si può giustamente chiamare monarchia, l'altra democrazia, e la prima ha il suo punto più alto nella stirpe dei Persiani, l'altra qui da noi. Le altre come dicevo, risultano dalla varia unione di queste due. Bisogna dunque, ed è anche necessario, che si prenda parte dell'una e dell'altra, se è vero che dovrà esserci libertà ed amicizia, accompagnata dall'intelligenza: e questo è ciò che il nostro discorso vuole prescrivere, dicendo che uno stato non potrà mai essere ben governato se non prende parte di costituzioni come queste.
CLINIA: E come potrebbe infatti?
ATENIESE: Poiché l'una ama unicamente e più di quanto deve la monarchia, e l'altra la libertà, nessuna delle due costituzioni possiede la giusta misura, ma le vostre, quella spartana e la cretese, la possiedono in misura maggiore: gli Ateniesi e i Persiani una volta di più, ora di meno. Proviamo ora a spiegare le ragioni di questi fatti, o no?
CLINIA: Assolutamente sì, se voglia mo giungere allo scopo che ci siamo proposti.
ATENIESE: Ascoltiamo. I Persiani, quando sotto Ciro si erano avvicinati di più alla giusta misura di schiavitù e di libertà, prima di tutto diventarono liberi, e in seguito signori di molti altri popoli. Poiché i comandanti rendevano partecipi della libertà i loro sottoposti e li conducevano verso l'uguaglianza, i soldati erano legati ai comandanti da vincoli di amicizia più stretti, e si esponevano volentieri ai pericoli. E se qualcuno di essi era intelligente e capace di dare consigli, poiché il re non era invidioso, ma concedeva piena libertà dì parola e onorava coloro che erano in grado di dare consigli, metteva in comune e a disposizione della comunità questa sua capacità di fornire intelligenti consigli, e ogni cosa allora progrediva presso di essi grazie alla libertà, all'amicizia, e alla partecipazione comune dell'intelligenza.
CLINIA: Pare che la situazione stesse proprio nei termini che tu hai illustrato.
ATENIESE: Perché allora quell'impero andò in rovina sotto Cambise per essere di nuovo quasi salvato sotto Dario? Volete che cerchiamo di capirlo servendoci della divinazione?
CLINIA: Questo porta la nostra indagine nella direzione in cui si è mossa.
ATENIESE: Secondo quel che ora posso congetturare riguardo a Ciro, suppongo che egli, comandante valoroso e amante della patria fra le altre cose, non abbia affatto ricevuto una buona educazione, e non abbia mai prestato attenzione all'amministrazione della casa.
CLINIA: Come possiamo dire una cosa del genere?
ATENIESE: Pare che fin da giovane egli abbia condotto guerre, e per tutta la vita, affidando alle donne l'educazione dei figli. E queste li allevarono come se fin da bambini fossero già subito felici e beati, e come se non avessero alcun bisogno di queste cose: e quasi fossero già completamente felici, impedivano a chiunque di opporsi ad essi su qualsiasi cosa, e costringevano tutti ad approvare qualsiasi cosa quelli dicevano o facevano, e quindi li allevarono tali quali erano.
CLINIA: è bella, a quanto pare, l'educazione di cui hai parlato.
ATENIESE: Si trattava di un'educazione da donne; e di donne regali divenute ricche in tempi recenti, e che allevavano i figli senza la presenza di uomini, poiché costoro non avevano tempo libero a causa delle guerre e dei molti pericoli che dovevano affrontare.
CLINIA: Questo ragionamento ha un senso.
ATENIESE: Il padre conquistava per loro greggi di pecore, e mandrie, e schiere di uomini, e molte altre cose, ma ignorava che quelli cui avrebbe consegnato queste cose non erano stati educati secondo l'arte dei padri, quella persiana - i Persiani infatti erano pastori e provenivano da una terra aspra -, che era un'educazione severa e capace di formare pastori molto forti, e tali da dormire sotto il cielo aperto e vegliare, e di far guerra se ce ne fosse stato bisogno: trascurò il fatto che i suoi figli venivano educati da donne e da eunuchi secondo l'educazione dei Medi corrotta dalla cosiddetta felicità, per cui essi diventarono tali quali era verosimile che diventassero, allevati com'erano in maniera permissiva. E quando alla morte di Ciro i figli ricevettero il regno, pieni di lusso e di dissolutezza, per prima cosa uno uccise l'altro, mal sopportando che gli fosse uguale, e dopo di che, impazzito lui stesso a causa dell'ubriachezza e per la mancanza di educazione perdette il poter e per opera dei Medi, e di colui che allora veniva chiamato “l'eunuco”, che disprezzava la stoltezza di Cambise.
CLINIA: Si dicono queste cose, e pare che le cose avvennero all'incirca in questo modo.
ATENIESE: E si dice che il potere sia di nuovo tornato nelle mani dei Persiani per opera di Dario e dei Sette.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Osserviamo questa cosa seguendo il discorso. Dario non era figlio di re e non fu allevato con un'educazione sfarzosa; ma, giunto al potere e impadronitosi come settimo, lo divise separandolo in sette parti, di cui anche adesso sono ancora rimaste piccole tracce come in sogno. E ritenne opportuno governare fissando delle leggi con cui introdusse una certa comune uguaglianza, e per legge stabilì il tributo che Ciro aveva promesso ai Persiani, procurando amicizia e alleanza a tutti i Persiani e cattivandosi il popolo dei Persiani con ricchezze ed onori: e dunque gli eserciti conquistarono con benevolenza per lui delle terre che non avevano minore estensione di quelle lasciate da Ciro. Dopo Dario venne Serse, che era stato nuovamente allevato secondo un'educazione regale e sfarzosa - «O Dario», si potrebbe forse dire con ragione, «che non hai capito l'errore di Ciro, hai allevato Serse negli stessi costumi in cui Ciro allevò Cambise!» - e questi dunque, poiché proveniva dalla medesima educazione, commise quasi tutti gli errori che aveva commesso Cambise: e press'a poco da quell'epoca non nacque più fra i Persiani alcun re davvero grande, se non per il nome. E la causa non è da imputarsi alla sorte, come sottolinea il mio discorso, ma alla vita malvagia che i figli di coloro che sono particolarmente ricchi e dei re generalmente conducono: non può infatti nascere da un'educazione come questa bambino, uomo, o vecchio che si distingua per virtù. Ed è proprio questo il punto, noi diciamo, che il legislatore deve prendere in esame, e anche noi nella circostanza presente. Ed è giusto, Spartani, assegnare questo riconoscimento al vostro stato, e cioè che non attribuite nessun onore o educazione particolare al povero e al ricco, al privato cittadino e al re, se non quelli che in principio il divino legislatore abbia determinato per voi ricevendoli da un qualche dio. Infatti non bisogna che in uno stato siano attribuiti onori eccessivi ad un tale perché si distingue per ricchezza, o perché è agile, bello, forte, ma è privo della virtù, e di quella virtù che manchi di temperanza.
MEGILLO: Che cosa vuoi dire con questo, straniero?
ATENIESE: Il coraggio non è una parte della virtù?
MEGILLO: E come no?
ATENIESE: E giudica dunque, dopo aver ascoltato il discorso, se accetteresti di avere uno che viva con te o un vicino assai coraggioso, ma privo di temperanza e addirittura privo di qualsiasi freno.
MEGILLO: Silenzio!
ATENIESE: Ebbene? E un artigiano competente nel suo mestiere, ma ingiusto?
MEGILLO: Nient'affatto.
ATENIESE: Ma ciò che è giusto non nasce senza la temperanza.
MEGILLO: Come potrebbe?
ATENIESE: E neppure l'uomo saggio che ora noi abbiamo presentato, quello che possedeva piaceri e dolori in armonia con i giusti ragionamenti con cui si accompagnano.
MEGILLO: No, infatti.
ATENIESE: Esaminiamo ancora questa cosa a proposito degli onori che vengono assegnati negli stati, per vedere quali sono giusti e quali no, in ogni circostanza.
MEGILLO: Che cosa?
ATENIESE: Se la temperanza abitasse da sola in un'anima senza tutte le altre virtù, sarebbe giusto che fosse onorata o disonorata?
MEGILLO: Non so come risponderti.
ATENIESE: E hai detto come si doveva dire: se infatti tu avessi risposto in un modo o nell'altro alla domanda che ti ho fatto, mi sembra che avresti risposto in modo sbagliato.
MEGILLO: Allora è andata bene così.
ATENIESE: Bene. E ciò che costituisce un'appendice che riguarda onori e disonori non è degno di discorso, ma piuttosto di un silenzio privo di parole.
MEGILLO: Mi sembra che tu parli della temperanza.
ATENIESE: Sì. E ciò che fra le altre virtù ci è maggiormente utile insieme a questa aggiunta sarà assai giustamente degno di ricevere molti onori, mentre ciò che viene per secondo, per secondo viene onorato: e così secondo la logica successione, ciascun bene avrà successivamente gli onori che gli spettano, come è giusto.
MEGILLO: è così.
ATENIESE: E allora? E non diremo che spetta al legislatore distribuire anche queste cose?
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Vuoi che gli si affidi il compito di distribuire tutti gli onori, in base ad ogni atto che abbiamo compiuto e fino a giungere a quelli più insignificanti, mentre noi, dal momento che siamo desiderosi di fissare le leggi, facciamo una triplice divisione, cercando di separare le cose più importanti da quelle di secondo e di terzo grado?
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Diciamo allora che lo stato, a quanto pare, che vuole salvaguardare se stesso ed essere felice, per quanto è umanamente possibile, deve di necessità distribuire in modo corretto onori e disonori. Ed è giusto stabilire i beni riguardanti l'anima, quando in essa vi sia la temperanza, come i più degni di onori, e per primi, per secondi la bellezza e i beni riguardanti il corpo, e terzi quelli riguardanti la sostanza e la ricchezza: chi si allontani da questa sequenza, legislatore o stato, elevando al rango di onori le ricchezze o collocando prima, fra gli onori, ciò che andava posto dopo, non compie un'opera né moralmente lecita né giusta dal punto di vista politico. Dobbiamo dire così o no?
MEGILLO: Certo, dobbiamo chiaramente dire così.
ATENIESE: E l'indagine intorno alla costituzione dei Persiani ha fatto sì che noi parlassimo più diffusamente di queste cose: e troviamo che essi si sono corrotti sempre di più, e diciamo che la ragione consiste nel fatto che tolsero in modo eccessivo la libertà al popolo, e condussero lo stato verso il dispotismo più di quanto era necessario, annientando la concordia e la comunità che si forma in seno allo stato. Annientate queste cose, il consiglio dei governanti non decide più in vista dei governati e del popolo, ma in vista del proprio potere, e ogni volta che ritengono di poter possedere anche una piccola cosa in più, saccheggiano città, saccheggiano popoli amici distruggendoli con il fuoco, e in modo ostile e senza pietà odiano e sono odiati: e quando si trovano nella necessità che i popoli combattano per loro, non trovano in essi né un'alleanza, né una benevola disponibilità a voler esporsi ai pericoli e combattere, ma pur avendo incalcolabili migliaia di uomini, sono tutti inutilizzabili ai fini della guerra, e come avessero bisogno di uomini, li pagano, ritenendo di essere messi in salvo da uomini mercenari e stranieri. Sono inoltre costretti ad agire da stupidi, dicendo in pratica che quelle cose che ogni volta sono dette onorevoli e belle nello stato sono una sciocchezza in confronto all'oro e all'argento.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Quanto agli affari Persiani, e al fatto che il loro attuale governo non si basa su giuste fondamenta a causa dell'eccessiva schiavitù e del dispotismo, il discorso abbia fine.
MEGILLO: Senza dubbio.
ATENIESE: Allo stesso modo ora noi dobbiamo passare in rassegna, dopo di ciò, la costituzione attica, evidenziando come la libertà assoluta e slegata da ogni potere è di gran lunga peggiore di un potere che è limitato da altri fattori: in quel tempo in cui i Persiani assaltarono i Greci, e probabilmente quasi tutti gli abitanti dell'Europa, noi avevamo un'antica costituzione e delle magistrature che provenivano da quattro classi basate sul censo, e come un padrone vi era dentro di noi un senso del pudore, per cui desideravamo vivere asserviti alle leggi di allora. A questo si aggiunga che la grandezza smisurata di quella spedizione che si muoveva per terra e per mare, incutendo un insostenibile timore, ci rese ancor più schiavi dei governanti e delle leggi, e per tutte queste ragioni avvenne che fra noi vi fossero dei vincoli di amicizia molto stretti. Infatti, circa dieci anni prima della battaglia navale di Salamina, giunse Dati alla guida di una spedizione persiana, inviato espressamente da Dario contro gli Ateniesi e gli Eretriesi perché li portasse al suo cospetto in catene, e minacciandolo di morte se non avesse agito così. E in un breve lasso di tempo Dati prese con la forza tutti gli Eretriesi grazie ad un numero infinito di uomini, e fece pervenire una notizia terribile presso la nostra città, secondo la quale nessun Eretriese gli era scampato, e i soldati di Dati, tenendosi per mano, avevano preso tutta la città di Eretria come in una rete. La notizia, sia che fosse fondata, sia che giungesse chissà da dove, sconvolse gli altri Greci e gli Ateniesi, e avendo mandato ovunque degli ambasciatori per richiedere aiuto, nessuno volle rispondere all'appello se non gli Spartani: e questi, poiché erano impediti dalla guerra in corso con Messene e da qualche altra ragione - ma non sappiamo che cosa dissero di preciso -, giunsero il giorno successivo alla battaglia di Maratona. Dopo di che si sparse la voce di grandi preparativi e di innumerevoli minacce da parte del Re. Con il passare del tempo si disse che Dario era morto, e che suo figlio, giovane e pieno di ardore aveva ricevuto il potere, e non desisteva affatto dall'ardore dell'assalto. Gli Ateniesi pensarono che tutti questi preparativi fossero diretti proprio contro di loro, a causa di ciò che era avvenuto a Maratona, e sentendo che il monte Athos era stato forato, che l'Ellesponto era stato unito, e che vi era una quantità formidabile di navi, pensarono che non si sarebbero salvati né per terra né per mare e che nessuno sarebbe venuto loro in soccorso. Ricordavano infatti che nessuno era venuto a portare loro aiuto, né aveva voluto correre il rischio di scendere in battaglia insieme a loro, quando quelli erano venuti per la prima volta ed erano accaduti i fatti di Eretria, e prevedevano che anche allora sarebbe avvenuta la stessa cosa per terra: e per mare, d'altra parte, vedevano che sarebbe stata assolutamente impossibile la salvezza, dinanzi all'avanzata di migliaia e anche più navi. Pensavano ad una sola salvezza, debole e disperata, ma anche l'unica, considerando quanto era avvenuto in passato, e come da situazioni impossibili anche allora era apparsa la vittoria in battaglia: appoggiandosi a questa speranza trovarono una via di scampo a questa situazione soltanto in loro stessi e negli dèi. Tutto ciò suscitava in essi la reciproca amicizia: sia la paura che allora era presente, sia quella che scaturiva dalle leggi precedenti. Questa paura essi l'avevano acquistata dal fatto di essersi asserviti alle leggi precedenti, e noi spesso nei discorsi di prima l'abbiamo chiamata pudore, e ad essa dicevamo che deve asservirsi chi vuole diventare onesto, mentre è libero e non nutre timore nei suoi confronti la persona meschina: ma se in quella circostanza il timore non avesse colto anche il meschino, non si sarebbe mai unito agli altri per la difesa, e non sarebbe venuto in soccorso per difendere i templi, e le tombe, e la patria e le altre cose che gli erano familiari e nel contempo care, così come fece, ma in quella circostanza ciascuno di noi, disperdendosi a poco a poco, si sarebbe allontanato chi da una parte chi da un'altra.
MEGILLO: E certamente, straniero, quello che dici è giusto, e si addice a te stesso e alla tua patria.
ATENIESE: Sì, è così, Megillo: è giusto raccontarti quello che avvenne allora, dato che prendi parte della natura dei tuoi padri. Verificate, tu e Clinia, se quello che diciamo ha attinenza con la legislazione, dal momento che non ho raccontato queste cose per il solo gusto di raccontare, ma per il fine dì cui parlo. Vedete un po': perché in un certo senso ci è capitato lo stesso inconveniente che è capitato ai Persiani - a quelli, infatti, per aver ridotto il popolo ad una totale schiavitù, a noi, al contrario, per aver esortato la massa verso la più completa libertà. Per stabilire allora come e che cosa diremo da questo punto in poi, i discorsi che abbiamo tenuto prima sembrano in un certo senso ben fatti.
MEGILLO: Dici bene. Ma cerca di indicarci ancora più chiaramente ciò che ora hai detto.
ATENIESE: Farò così. Nelle antiche leggi, ami ci, il nostro popolo non era padrone di qualche cosa, ma in un certo senso si asserviva volontariamente ad esse.
MEGILLO: A quali leggi?
ATENIESE: Prima di tutto alle leggi che riguardavano la musica di allora, se vogliamo esaminare dal principio lo sviluppo di una vita eccessivamente libera. Allora la musica era stata da noi divisa secondo certe specie e figure, e una specie di canto era costituita dalle preghiere agli dèi, e la chiamavano con il nome di “inni”: e vi era un'altra specie di canto opposta a questa - e si potevano chiamare “treni” -, e un'altra “peani”, e un'altra ancora, che, io credo, riguardava la nascita di Dionisio, era detta “ditirambo”. Un'altra forma di canto aveva lo stesso nome delle leggi, e tali leggi venivano chiamate “canti citaredici”. Stabiliti questi princìpi ed alcuni altri, non era possibile ricorrere ad una specie di melodia in cambio di un'altra: e l'autorità di riconoscere queste cose, e, una volta riconosciute, di giudicarle e di punire chi non aveva obbedito, non consisteva nei fischi, né nelle grida scomposte della folla, come oggi, né in applausi che assegnavano lodi, ma si era stabilito che coloro che erano provvisti di buona educazione ascoltassero in silenzio fino alla fine, mentre per i bambini, i pedagoghi, e in genere per la folla vociante, vi era una verga per ammonirli e riportarli all'ordine. Fissate in tal modo queste cose, la massa di cittadini era desiderosa di obbedire e non aveva il coraggio di giudicare nel tumulto: dopo di che, con il passare del tempo, i poeti diventarono i signori incontrastati delle trasgressioni compiute a danno della musica, poeti per indole naturale, ma ignoranti del giusto e del lecito in poesia, e colti da furore bacchico e invasi dal piacere più del necessario, mescolavano insieme i treni con gli inni, e i peani con i ditirambi, e imitando con la musica della cetra quella del flauto, e confondendo tutto con tutto, pur senza volerlo, dicevano delle menzogne contro la musica a causa della loro ignoranza, e cioè che la musica non ha alcuna norma, e che qualunque persona - buona o cattiva che sia - può giudicarne il valore dal piacere che gli procura. Facendo tali opere e aggiungendo ad esse tali discorsi, inculcarono nella maggior parte delle persone questa licenza nella musica e l'ardire di sentirsi in grado di erigersi a giudici: e quindi i teatri da muti diventarono vocianti, come se chiunque avesse orecchio per capire ciò che nella musica è bello e ciò che non lo è, e in luogo di un'aristocrazia competente in tale campo si sostituì una cattiva “teatrocrazia”. Se una democrazia formata da uomini liberi si fosse limitata al solo ambito musicale, non sarebbe accaduto nulla di terribile: ma ora, presso di noi, ha preso origine dalla musica l'opinione per cui tutti sanno tutto e un'illegalità che si è accompagnata alla licenza. Tutti infatti non avevano più paure perché si credevano sapienti, e questa sicurezza ha generato l'impudenza: perché nel non avere timore, a causa della propria insolenza, dell'opinione di chi è migliore consiste la malvagia impudenza che nasce da una libertà eccessiva.
MEGILLO: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: A questa libertà segue quella di non volersi sottomettere ai magistrati, e, connessa con questa, quella di sfuggire alla sottomissione e agli ammonimenti del padre e della madre e dei più anziani; e proseguendo e avvicinandoci alla fine, si cerca di non obbedire alle leggi, e giunti ormai al termine, non ci si cura dei giuramenti e delle promesse, e neppure degli dèi, ma indicando ed imitando quella che si diceva fosse l'antica natura dei Titani, si ritorna di nuovo a quello stadio, e si vive una penosa esistenza, senza che i mali possano cessare. Per quale ragione si è detto questo? Mi sembra che ogni volta si debba riprendere il discorso mettendogli dei freni come ad un cavallo, e senza farsi trasportare dalla forza delle parole, come se non si avesse freni in bocca, cadendo, secondo quel che dice il proverbio, anche da un asino, bisogna ripetere la domanda che ci siamo fatti ora: per quale motivo abbiamo detto queste cose?
MEGILLO: Bene.
ATENIESE: Queste cose sono state dette per questi motivi.
MEGILLO: Quali?
ATENIESE: Dicemmo che il legislatore deve tenere conto di tre princìpi quando fissa le leggi: e cioè che lo stato che è regolato dalla legislazione sia libero, che vi sia amicizia al suo interno, che sia intelligente. Abbiamo detto questo, o no?
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: Per queste ragioni la nostra scelta è ricaduta sulla forma di costituzione più dispotica e su quella più libera, e ora stiamo indagando quale di queste due risulta ben regolata: e avendo preso ciò che in esse costituiva la giusta misura, l'una nei confronti del dispotismo, l'altra della libertà, abbiamo osservato che allora vi era in esse un'eccellente prosperità, ma avvicinandosi l'una e l'altra verso i loro estremi, l'una verso la schiavitù, l'altra in direzione opposta, non traevano, né l'una né l'altra, alcun vantaggio.
MEGILLO: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: Per le stesse ragioni abbiamo anche osservato come si costituì l'esercito dorico, e le pendici di Dardano, e le città fondate presso il mare, e i primi uomini che si salvarono dalla distruzione, e inoltre i nostri discorsi precedenti a questi sulla musica e sul bere, e quelli ancora prima di questi. Tutto questo è stato detto per studiare come uno stato può essere governato nel modo migliore, e come un privato cittadino possa perfettamente condurre la propria vita: e quale prova potremo portare dinanzi a noi stessi, Megillo e Clinia, di aver compiuto qualcosa di utile?
CLINIA: Straniero, mi sembra di scorgerne una. Mi pare dunque che il complesso di tutti questi discorsi che abbiamo pronunciato sia dovuto alla sorte: e ora sono quasi giunto al punto di aver bisogno di quei discorsi, e tu e questo Megillo siete arrivati proprio al momento giusto. Non vi nasconderò ciò che adesso mi sta capitando, anzi, lo considero un presagio fortunato. La maggior parte della popolazione cretese sta intraprendendo la fondazione di una colonia, e ha ordinato ai Cnossi di prendersi cura dell'impresa, e lo stato dei Cnossi ha a sua volta affidato l'incarico a me ed altre nove persone: intanto mi prescrivono di stabilire, fra le leggi vigenti in questo luogo, quelle che preferiamo, e altre ancora provenienti da altri luoghi, senza tenere conto se giungono da stati stranieri, che ci sembrino essere le migliori. Ora dunque concediamo questo favore a me e a voi: prendendo spunto dalle cose dette, formiamo razionalmente uno stato, come se lo dovessimo costruire dalle fondamenta, e così la nostra indagine intorno a ciò che stiamo ricercando proseguirà, e nel contempo io potrò servirmi della formazione di questo stato ideale per il futuro stato che dovrà sorgere.
ATENIESE: Non stai dichiarando guerra, Clinia! Ma se Megillo non ha nulla in contrario, per quanto mi riguarda, ritieni pure che, nei limiti del possibile, sarà tutto secondo la tua volontà.
CLINIA: Dici bene.
MEGILLO: Anche per me va bene.
CLINIA: Avete detto benissimo! Cerchiamo allora prima di tutto di gettare le fondamenta di questo stato.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO QUARTO
ATENIESE: Coraggio, come dobbiamo pensare che sarà il nuovo stato? E la mia domanda non si riferisce al suo nome, e cioè a come si chiama adesso o a come si dovrà chiamare in avvenire: a questo proposito, probabilmente, la sua stessa fondazione, o un luogo particolare, o il nome di un fiume o di una fonte o degli dèi locali, possono dare il loro nome al nuovo stato che sorge. Quello che piuttosto voglio sapere riguardo ad esso, facendo questa domanda, è se sarà in prossimità del mare o all'interno, nel continente.
CLINIA: All'incirca, straniero, lo stato di cui ora si sta parlando dista dal mare ottanta stadi.
ATENIESE: E vi sono dei porti in quella zona vicino al mare o non ve ne sono affatto?
CLINIA: Avrà porti bellissimi da quella parte, i più belli che ci possano essere, straniero.
ATENIESE: Oh! Che cosa dici! E la regione intorno ad esso? Produce qualsiasi cosa o manca di alcuni prodotti?
CLINIA: Non manca quasi di nulla.
ATENIESE: E nelle vicinanze vi sarà qualche stato confinante con esso?
CLINIA: No, affatto, e questo è anche il motivo per cui si fonda una colonia: in tempi antichi, infatti, si verificò un'emigrazione da quel luogo che lo lasciò deserto per un periodo di tempo incredibilmente lungo.
ATENIESE: E le pianure, i monti, e le foreste? In quale proporzione ciascuna di esse ci toccò in sorte?
CLINIA: La natura del luogo assomiglia all'intera regione cretese.
ATENIESE: Dirai che è più accidentata che pianeggiante?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Non vi è nulla dunque che impedirebbe il procacciarsi della virtù. Se dovesse infatti sorgere presso il mare, e avere dei bei porti, e non essere del tutto fertile, ma anzi, mancante di molti prodotti, avrebbe bisogno di un grande salvatore e di legislatori divini, se per la sua stessa posizione naturale non volesse ricevere una gran varietà di malvagi costumi di vita. Ma ora ci confortano gli ottanta stadi dal mare. In verità è più vicino del necessario al mare, tanto più che tu dici che è fornito di buoni porti, e tuttavia questo ci può andare bene. Il fatto che il mare sia vicino ad una regione è cosa piacevole ogni giorno, ma in realtà si tratta di una salata ed amara vicinanza: infatti riempiendo lo stato di traffici e di affari dovuti al commercio, fa nascere negli animi modi di vita incostanti e infingardi, e rende lo stesso stato infido e nemico di se stesso, e allo stesso modo nei confronti degli altri uomini. A questo riguardo è confortante il fatto che esso è fertile per ogni specie di cultura, ma se il suo terreno è accidentato, è chiaro che non potrà portare varie ed abbondanti specie di prodotti: se avesse questa peculiarità potrebbe fare numerose esportazioni, e in cambio si riempirebbe di monete d'argento e d'oro, e di questo, per così dire, non c'è male più grande, preso uno per uno, per quello stato che voglia acquisire costumi nobili e giusti, come dicevamo, se ci ricordiamo, nei precedenti discorsi.
CLINIA: Certo che lo ricordiamo, e anche adesso ci troviamo d'accordo nel dire che allora avevamo parlato in modo corretto.
ATENIESE: Ebbene? In che modo il luogo della nostra regione è fornito di legname per costruzioni navali?
CLINIA: Non vi sono né abeti né pini marittimi degni di considerazione, e neppure il cipresso è abbondante: si potrebbe trovare qualche pino, e pochi platani, di cui i costruttori di navi hanno bisogno ogni volta che fabbricano le parti interne delle navi.
ATENIESE: Anche questo non è un male per la natura del luogo.
CLINIA: Perché?
ATENIESE: è un bene che uno stato non possa imitare facilmente i nemici nelle loro malvagie imitazioni.
CLINIA: A quale delle cose dette pensi dicendo ciò che hai detto?
ATENIESE: Divino amico, fai attenzione a me, e osserva quel che si è detto in principio, quando, a proposito delle leggi cretesi, si diceva che esse tendevano ad un unico scopo, e voi due dicevate che esso consisteva nella guerra, mentre io, intervenendo nella discussione, dicevo che era un bene il fatto che quelle leggi erano state stabilite in vista della virtù, ma che non ero per nulla d'accordo sul fatto che si riferissero ad una parte di essa e non a tutta quanta nel suo complesso: ora voi, a vostra volta, seguitemi e fate attenzione alla mia presente legislazione, per vedere se, nell'atto di stabilire le leggi, non miri a tutta la virtù piuttosto che ad una parte di essa. Io stabilisco infatti che è ben fondata soltanto quella legge che come un arciere mira ogni volta unicamente a qualcosa che abbia attinenza sempre ed in modo continuo con il bene, e trascuri tutto il resto, si tratti di una certa ricchezza, o di una qualsiasi altra cosa che è priva dei requisiti che sono stati detti. E dicevo che l'imitazione malvagia dei nemici avviene quando, vivendo in prossimità del mare, si è molestati dai nemici. Come ad esempio - e dico questo senza la volontà di rinfacciarvi alcunché - Minosse, che disponeva di una grande forza navale, obbligò una volta gli abitanti dell'Attica a pagare un gravoso tributo, e quelli, come ora, non avevano navi da guerra, né la loro regione era ricca di legname per costruire imbarcazioni, così da allestire facilmente una potenza navale: non furono allora capaci di cacciare immediatamente i nemici mediante l'imitazione della loro arte navale, e con il diventare essi stessi marinai. Sarebbe stato certamente più vantaggioso per loro perdere ancora molte volte sette fanciulli, prima che, diventati marinai da fanti e fedeli opliti, si abituassero a sbarcare di frequente dalle navi per saltarvi nuovamente sopra di corsa e rapidamente, e a credere che non si fa nulla di turpe se non si ha il coraggio di farsi uccidere rimanendo al proprio posto mentre i nemici avanzano, ma ad avere finti pretesti e sempre pronti per abbandonare le armi e darsi a quelle fughe che, come dicono quelli, non sono turpi. Queste sono le parole che solitamente giungono dai soldati della marina e non sono degni di quelle lodi che spesso gli si attribuiscono, ma tutto il contrario: non bisogna mai abituarsi a costumi di vita malvagi, e soprattutto non deve agire così la parte migliore dei cittadini. Anche da Omero si poteva capire che questa consuetudine non è bella. Presso Omero, infatti, Ulisse rimprovera Agamennone, quando, prevalendo i Troiani in battaglia sugli Achei, ordina di far scendere le navi in mare. Ed ecco che, adirato contro di lui, gli dice: «Tu ordini, e c'è ancora la battaglia, di trarre in mare le navi dai forti ponti, in modo che ancora di più si compiano le preghiere che hanno in cuore i Troiani, affinché terribile rovina piombi su di noi. Gli Achei infatti non resisteranno più la guerra, quando le navi vedranno tratte in mare, ma volgeranno indietro lo sguardo per fuggire e abbandoneranno la battaglia. Allora sarà deleterio il tuo consiglio, a coloro a cui lo dici». Conosceva dunque anche lui queste cose, e cioè che è un male la presenza in mare delle triremi per gli opliti in battaglia: anche i leoni si abituerebbero a fuggire dinanzi ai cervi, se coltivassero questi costumi. Inoltre, la potenza di quegli stati che si basano sulle flotte navali, e insieme la loro salvezza, non recano onori alla parte migliore dei soldati: essa infatti è ottenuta dall'arte dei timonieri, dall'arte di comandare cinquanta rematori, dall'arte dei rematori stessi, persone d'ogni razza e non certamente virtuose, e quindi non si potrebbero assegnare nel modo più giusto gli onori a ciascuno. Eppure come potrebbe una costituzione essere retta se mancasse questa possibilità?
CLINIA: è quasi impossibile. Ma, straniero, noi Cretesi diciamo che la battaglia navale combattuta a Salamina dai Greci contro i barbari salvò la Grecia.
ATENIESE: In effetti molti fra i Greci e i barbari vanno ripetendo queste cose. Noi invece, amico, io e costui, Megillo, diciamo che le battaglie combattute sulla terra ferma a Maratona e a Platea segnarono una l'inizio della salvezza per i Greci, l'altra la sua realizzazione finale, e che quelle resero migliori i Greci, mentre le altre no, per parlare di tutte le battaglie che allora ci trassero in salvo: e oltre alla battaglia di Salamina aggiungo la battaglia navale dell'Artemisio. Ma ora, considerando la virtù applicata alla costituzione politica, osserviamo la natura del luogo e l'ordinamento delle leggi, ritenendo che il mettersi in salvo e il solo fatto di esistere non rappresentano per gli uomini il bene più degno di onori, come molti pensano, ma il diventare il più possibili migliori e il mantenersi tali per tutto il tempo della propria vita: anche questo, credo, si è detto nei discorsi precedenti.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Prestiamo soltanto attenzione a questo, e cioè se stiamo percorrendo quella che è la strada migliore nella fondazione degli stati e nel fissare l'ordinamento delle leggi.
CLINIA: Ed è davvero la migliore.
ATENIESE: Proseguendo nel discorso dimmi: quale popolo fonderà la vostra colonia? Forse chi lo vorrà, giungendo da ogni parte di Creta, dato che in ciascuna città vi è una massa di abitanti superiore al nutrimento che proviene dalla terra? Non penso che accoglierete tutti i Greci che vogliono venire. Eppure vedo che stirpi provenienti da Argo, da Egina, e da altre parti della Grecia hanno fondato colonie nella vostra regione. Per il momento, però, dimmi da dove dici che arriverà questo vero e proprio esercito di cittadini di cui ora stiamo parlando?
CLINIA: Per quel che mi sembra giungeranno da tutta Creta, e fra tutti gli altri Greci, mi pare che verranno accolti come abitanti soprattutto quelli che provengono dal Peloponneso. Infatti quando affermi che gli attuali abitanti giungono da Argo dici la verità, e infatti la stirpe che attualmente in questo luogo gode di maggior reputazione è quella di Gortina, che appunto venne ad abitare qui da quella Gortina che si trova nel Peloponneso.
ATENIESE: In effetti non risulta ugualmente facile la fondazione di una colonia per gli stati, quando non avvenga come fanno gli sciami, e cioè quando vi sia una sola stirpe che colonizza e proviene da una sola regione - in sostanza, una stirpe amica che si separa dagli amici -, assediata dalla strettezza della terra o costretta da qualche altro simile evento. Talvolta una parte dello stato viene obbligata e costretta dalle sedizioni civili ad emigrare altrove, in un paese straniero: ed è già accaduto che un'intero stato fu costretto a fuggire, a causa di una guerra che lo sbaragliò completamente, in cui ebbero la meglio forze superiori. Sotto un certo aspetto queste cose facilitano la fondazione di una colonia e l'istituzione dell'ordinamento delle leggi, sotto un altro aspetto, esse sono un ostacolo. Perché il fatto di essere un'unica stirpe e di parlare la stessa lingua e di avere le stesse leggi implica certamente una concordia e una comunanza di pratiche religiose e di altre cose di questo genere, ma si finisce per non tollerare con animo sereno leggi diverse e costituzioni che non siano quelle interne allo stato. Talvolta, poi, accade che l'essersi ribellati alla malvagità delle leggi e il cercare di vivere, per abitudine, secondo quegli stessi costumi di vita che in precedenza furono causa di rovina, rappresenti un ulteriore ostacolo per chi vuole fondare la colonia e istituire le leggi, e sarà difficile persuaderli dell'opposto. Al contrario, una stirpe eterogenea che confluisce in un medesimo luogo sarà più ben disposta a prestare orecchio a nuove leggi, ma il trovarsi in sintonia, e, come in una pariglia di cavalli, lo sbuffare ciascuno in accordo con l'altro, come si dice, richiede molto tempo ed è assai difficile. Ma in effetti è compito di uomini che abbiano conseguito la perfezione nella virtù stabilire le leggi e fondare nuovi stati.
CLINIA: è vero: ma spiegaci ancor più chiaramente in base a quali considerazioni hai detto questo.
ATENIESE: Carissimo amico, tornando ad occuparmi e ad esaminare i legislatori dovrò dire, almeno mi pare, anche qualcosa di negativo: ma se lo diciamo opportunamente, questa fatto non costituirà alcun ostacolo. E allora perché questo dovrebbe rendermi scontento? Tutte le questioni umane avvengono, per quel che mi sembra, in questo modo.
CLINIA: Di che cosa parli?
ATENIESE: Volevo dire che mai nessun uomo stabilisce per nulla al mondo le leggi, ma sono la sorte ed ogni genere di eventi che, verificandosi in ogni modo, stabiliscono il complesso delle nostre leggi. Infatti o una guerra con la sua forza sconvolge la forma della costituzione e muta le leggi, oppure una difficile situazione determinatasi a causa di una molesta povertà: e molte volte sono anche le malattie che costringono a compiere delle innovazioni, e il verificarsi di pestilenze, e il frequente perdurare, in un ampio periodo di tempo e per molti anni, di stagioni cattive. E osservando tutte queste cose uno si sentirebbe autorizzato a dire, come faccio io adesso, che nessun mortale può legiferare in alcuna materia, ma che solo la sorte guida gli affari umani: e chi dice le stesse cose intorno alla navigazione, all'arte del pilotare, alla medicina, all'arte militare, sembra che dica bene, ma è ugualmente possibile, parlando di tali questioni, dire giustamente questa cosa.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Che è il dio, insieme alla sorte e all'occasione propizia, che guida tutti gli affari umani. Smorzando un po' i toni del discorso, si può convenire che un terzo elemento deve seguire queste cose, e cioè l'arte: il fatto di poter contare o meno, ad esempio, sull'arte del pilota quando si scatena una tempesta, secondo me costituisce un grande vantaggio. O no?
CLINIA: è così.
ATENIESE: Dunque anche per il resto vale lo stesso discorso, e questo stesso principio si può applicare allora alla legislazione: premesso che in una regione ci siano tutte le altre circostanze favorevoli tali da consentire ad uno stato di vivere felicemente, in uno stato come questo la sorte deve inviare un legislatore che possegga la verità.
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: E chi possiede l'arte in relazione a ciascuna delle cose dette non pregherebbe giustamente, se pregasse perché mediante la sorte si verifichi per lui quella condizione per cui abbia bisogno soltanto della sua arte?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E tutti gli altri di cui ora abbiamo parlato, se li invitassimo ad esprimere la loro preghiera, la direbbero. Non è vero?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: La stessa cosa, io credo, farà anche il legislatore.
CLINIA: Lo credo proprio.
ATENIESE: «Avanti, legislatore», gli possiamo dire, «che cosa vuoi che abbia e come dev'essere costituito lo stato che ti affidiamo, perché, una volta che lo hai ricevuto, tu possa in seguito governarlo in modo soddisfacente?».
CLINIA: Quale risposta corretta potremo dare dopo queste parole?
ATENIESE: Diciamo questa risposta come fosse del legislatore, o no?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: La risposta è questa: «Datemi uno stato che sia in mano ad un tiranno», dirà, «e questo tiranno sia giovane, dotato di memoria, intelligente, valoroso, e magnanimo per natura: e ciò che anche nei precedenti discorsi dicevamo che deve accompagnarsi a tutte le parti della virtù, anche ora si accompagni all'anima del tiranno, se vorrà che le altre doti abbiano una qualche utilità».
CLINIA: Mi sembra, Megillo, che lo straniero affermi che sia la temperanza la qualità che deve accompagnarsi. O no?
ATENIESE: Quella che si intende comunemente, Clinia, e non quella di cui qualcuno potrebbe parlare magnificandola e provando con il ragionamento che l'essere temperanti equivale all'intelligenza. Ma si tratta di quella qualità che fiorisce immediatamente nei fanciulli e in certi animali, ed è loro connaturata, per cui alcuni si abbandonano in modo disordinato ai piaceri, mentre altri ne fanno un uso regolato. E dicevamo che se viene divisa da tutti i molti altri beni non è degna di considerazione. Capite quello che dico.
CLINIA: Certo.
ATENIESE: Il nostro tiranno abbia dunque questa natura oltre a quelle altre, se lo stato vuole il più rapidamente possibile e nel migliore dei modi dotarsi di una costituzione, la quale, una volta ottenuta, gli permetterà di vivere assai felicemente. Non c'è infatti, e non ci sarà mai un modo più rapido e migliore di ordinare questa costituzione.
CLINIA: Come e con quale criterio, straniero, chi sostiene questa cosa può convincersi di sostenerla a ragione?
ATENIESE: è facile, Clinia, comprendere come questa cosa sia secondo natura.
CLINIA: Come dici? Se vi fosse un tiranno, vuoi dire, giovane, temperante, intelligente, dotato di memoria, valoroso, magnanimo?
ATENIESE: E fortunato, aggiungi, se non altro perché vi sia nel suo tempo un legislatore degno di lode e una sorte felice lo abbia condotto verso il medesimo fine. Quando questo avviene, si può dire che il dio abbia realizzato quasi tutto ciò che può fare, quando desidera che uno stato sia particolarmente prospero. Se ci sono due capi di questo genere, la prosperità passa in secondo piano, e quindi in terzo piano, e così, secondo la stessa proporzione, vi saranno condizioni più difficili nella misura in cui vi saranno più capi, e viceversa, il contrario.
CLINIA: Tu dici che dalla tirannide deriva, a quanto sembra, la forma migliore di stato, insieme ad un valente legislatore e a un saggio tiranno, e che il passaggio dall'una all'altra forma di stato avviene nel modo più facile e più rapido possibile, una seconda forma di stato deriva dall'oligarchia - o come la chiami -, e una terza forma dalla democrazia.
ATENIESE: Nient'affatto, ma dalla tirannide la prima forma dello stato, la seconda dalla costituzione regia, la terza da una specie di democrazia. La quarta forma, l'oligarchia, assai difficilmente potrebbe accogliere la nascita dello stato migliore: in essa sono moltissimi i principi che detengono il potere. E noi diciamo che tali cambiamenti possono avvenire quando nasce un vero legislatore che sia tale per natura e abbia in sorte una forza da spartire con quelli che detengono i massimi poteri nello stato: dove infatti questo potere sia in mano ad un numero assai ristretto di uomini, ma sia fortissimo, come nella tirannide, allora questi mutamenti sono soliti avvenire rapidamente e assai velocemente.
CLINIA: Come? Non capiamo?
ATENIESE: Ma noi abbiamo parlato di questo, e non una volta sola, ma, credo, spesso: forse voi non avete mai visto uno stato governato da un tiranno.
CLINIA: Ed io non ho neppure desiderio di vederlo.
ATENIESE: Eppure in quello stato vedresti proprio ciò di cui parlavo.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Un tiranno che voglia mutare i costumi di uno stato non ha bisogno di molte fatiche né di molto tempo, ma deve dapprima procedere in quella direzione lungo la quale desideri volgere i cittadini, sia alla pratica della virtù sia al suo contrario, delineando in un primo tempo egli stesso tutto ciò che si deve fare con il proprio agire, ora elogiando ed onorando, ora criticando, ora punendo chi non ha obbedito in ciascuna azione.
CLINIA: E come possiamo pensare che gli altri cittadini ubbidiranno prontamente a chi adotta una simile forma di persuasione insieme ad una violenza del genere?
ATENIESE: Nessuno ci persuada, amici, che uno stato possa mutare le sue leggi così rapidamente e facilmente con un altro mezzo che non sia il comando assoluto dei potenti, né che ora o in futuro possa mai avvenire diversamente. Per noi non è allora impossibile né difficile che ciò si realizzi. Quest'altra cosa, invece, è difficile che si realizzi, e in effetti si è verificata raramente e nell'arco di lunghi periodi di tempo, e quando avviene, produce innumerevoli beni nello stato in cui mai avvenga.
CLINIA: A che cosa alludi?
ATENIESE: Penso a quando un divino amore per le consuetudini sagge e giuste nasce in alcune grandi potenze, sia che il loro potere sia retto da governo monarchico, sia che quel potere si distingua per la sovrabbondanza di ricchezze o per la nobiltà di stirpe, oppure, ancora, se mai in qualcuno ritorni la natura di Nestore, il quale dicono che superasse tutti gli uomini nell'abilità retorica, ed ancor di più si distinguesse nella saggezza. Ma questo avvenne ai tempi di Troia, come dicono, e non ai nostri tempi: e se dunque c'è stato, o anche ci sarà, o è adesso fra noi un individuo simile, costui vive felicemente, e beati sono quelli che possono ascoltare le sue parole da una bocca tanto saggia! Lo stesso discorso vale allo stesso modo per ogni potere, e cioè quando in un uomo si vengano a trovare la massima forza unita all'intelligenza e alla saggezza, allora nascono la migliore forma di costituzione e le leggi migliori, altrimenti non può nascere nulla dì tutto questo. Ciò sia detto come un mito e valga come un oracolo, e si dica che se da un lato è difficile che uno stato abbia buone leggi, d'altro canto, se avvenisse ciò che diciamo, questa sarebbe la cosa di gran lunga la cosa più rapida e più facile di tutte.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Cerchiamo di formare le leggi con il discorso, e, come vecchi diventati bambini, adattiamole al tuo stato.
CLINIA: Procediamo allora, e non indugiamo oltre.
ATENIESE: Invochiamo un dio in vista della costituzione di questo stato: e quello ci ascolti, e dopo averci ascoltati giunga presso di noi benevolo e ben disposto per contribuire all'ordinamento dello stato e delle leggi.
CLINIA: E allora che giunga presso di noi.
ATENIESE: E quale costituzione abbiamo in mente di dare a questo stato?
CLINIA: Non capisco quello che vuoi dire. Spiega ancor più chiaramente. Alludi ad una democrazia, ad un'oligarchia, ad un'aristocrazia, ad una monarchia? Non vorrai pensare ad una tirannide, come noi crediamo.
ATENIESE: Coraggio allora, chi di voi due vuole rispondere per primo, dicendo qual è fra queste la forma di governo che si trova nel suo stato?
MEGILLO: Non sarebbe giusto che parlassi per primo io che sono il più vecchio?
CLINIA: Forse.
MEGILLO: A pensarci bene, straniero, non saprei dirti come si dovrebbe chiamare la costituzione spartana. Ora mi pare che assomigli ad una tirannide - è incredibile, infatti, come il potere degli efori sia diventato tirannico in essa -, ora invece mi sembra che più di ogni altro stato somigli ad una democrazia. D'altronde sarebbe del tutto assurdo non definirla un'aristocrazia: in essa esiste una monarchia a vita che da tutte le genti e da noi stessi è ricordata come la più antica. Io così, in questo momento, interrogato all'improvviso, come dicevo, non so effettivamente rispondere né stabilire a quale fra queste costituzioni appartenga.
CLINIA: Mi sembra di trovarmi nella stessa condizione, Megillo: mi riesce infatti abbastanza difficile affermare e sostenere con sicurezza a quale forma di governo appartenga la costituzione di Cnosso.
ATENIESE: Carissimi amici, voi infatti siete partecipi di costituzioni politiche realmente esistenti: per quanto riguarda invece quelle che abbiamo nominato ora, non sono costituzioni, ma strutture politiche in cui una parte di cittadini è dominata ed asservita da un potere assoluto, e ciascuna di esse prende il nome dal potere esercitato dal signore. E se lo stato dovesse prendere il nome da uno di quei signori, si dovrebbe citare il nome di quel dio che è veramente signore di quanti sono dotati dell'intelletto.
CLINIA: E qual è questo dio?
ATENIESE: Non dobbiamo forse servirci ancora un poco del mito, se vogliamo chiarire come si deve quel che ora è stato domandato?
CLINIA: Dunque non bisogna comportarsi così?
ATENIESE: Senza dubbio. Si dice dunque che molto tempo prima che sorgessero quegli stati dì cui in precedenza abbiamo esaminato la formazione fosse sorto, al tempo di Crono, un regno ed un governo assai felici, di cui i governi migliori che abbiamo noi oggi non sono che un'imitazione.
CLINIA: è assolutamente necessario ascoltarti, a quanto pare, mentre parli di questa forma di governo.
ATENIESE: Mi sembra di sì: ed è per questo che l'abbiamo condotta in mezzo ai nostri ragionamenti.
CLINIA: Ti sei comportato nel modo più giusto: e se vorrai qui di seguito esporre il mito, sempre che si adatti al nostro discorso, farai ancor meglio.
ATENIESE: Bisogna fare come dite. Accogliamo dunque per tradizione una notizia che ci riferisce di una vita beata degli uomini di allora e di come ogni cosa crescesse abbondante e si offrisse spontaneamente. Si dice anche che questa fosse la ragione di tali fatti. Sapendo Crono, come noi abbiamo visto, che la natura dell'uomo non è affatto capace di guidare autonomamente tutte le azioni umane, senza che si riempia di tracotanza e di ingiustizia, riflettendo su queste cose, mise a capo dei nostri stati, come re e governanti, non uomini, ma demoni appartenenti ad una stirpe più divina e migliore, come adesso noi facciamo con gli armenti e con tutte le mandrie di animali domestici: non mettiamo buoi a capo di buoi, né capre a capo di capre, ma siamo noi che li dominiamo, perché la nostra stirpe è migliore della loro. Allo stesso modo anche il dio, che amava gli uomini, mise a capo di noi la stirpe dei demoni, migliore della nostra, ed essi, con grande facilità per loro ed enorme sollievo per noi, si presero cura di noi e ci procurarono pace, pudore, buone leggi e giustizia in abbondanza, rendendo la stirpe degli uomini priva di sedizioni e felice. Come dice anche questo racconto, attingendo alla verità, in quegli stati in cui non sia al governo un dio, ma un comune mortale, non vi è scampo per essi ai mali e alle sofferenze: ma questo mito ritiene che noi dobbiamo imitare con ogni mezzo la vita che si racconta ai tempi di Crono, e che, prestando ascolto a tutto ciò che in noi vi è d'immortale guidiamo, in pubblico e in privato, le nostre famiglie e gli stati, dando il nome di legge a questa direzione dell'intelletto. Ma se un singolo individuo, un'oligarchia, o anche una democrazia hanno un'anima che tende ai piaceri e ai desideri, e chiede di esserne riempita, e non solo è del tutto incapace di trattenersi, ma è anche oppressa da un male incessante ed insaziabile, se dunque persone come queste governeranno uno stato o un singolo individuo calpestando le leggi, come ora dicevamo, non ci sarà modo di salvarsi. Questo è dunque il racconto che noi ora dobbiamo prendere in esame, Clinia, per vedere se dobbiamo prestargli fede o che cosa dobbiamo fare.
CLINIA: è senz'altro necessario prestargli fede.
ATENIESE: Hai mai dunque considerato il fatto che alcuni affermano che vi sono tante specie di leggi quante sono le forme di costituzione, le forme di costituzione, per intenderci, che abbiamo passato in rassegna poco fa, e di cui parlano la maggior parte delle persone? E non ritenere che l'attuale questione sia di scarso valore, ma, al contrario, ritienila di importanza capitale: il problema, dunque, che siamo di nuovo tornati a dibattere, riguarda la direzione in cui dobbiamo rivolgerci per distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Si dice infatti che le leggi non devono mirare né alla guerra, né alla virtù nel suo complesso, ma a ciò che è vantaggioso alla costituzione, in qualunque modo essa sia stata formata, perché essa detenga sempre il comando senza venire abbattuta, e la naturale definizione di ciò che è giusto sarebbe detta benissimo in questo modo.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Che il giusto consiste nel vantaggio del più forte.
CLINIA: Parla ancora più chiaramente.
ATENIESE: In questo modo, allora. Chi fissa le leggi nello stato, dicono, è colui che ogni volta detiene la forza. O no?
CLINIA: Vero.
ATENIESE: Forse pensi, dicono, che quando una democrazia, o una qualsiasi altra costituzione, o un tiranno, risultino vittoriosi fisseranno di loro spontanea volontà delle leggi che innanzitutto non mirino a nient'altro se non al vantaggio di mantenere a se stessi il comando?
CLINIA: Come non potrebbe essere così?
ATENIESE: E chi violerà queste leggi che sono state fissate, non sarà punito, come se avesse commesso ingiustizia, da chi le ha stabilite e le ha definite giuste?
CLINIA: Pare.
ATENIESE: E sempre in tal modo e così si regolerà ciò che è giusto.
CLINIA: Lo dice il ragionamento stesso.
ATENIESE: Questo è infatti uno dei princìpi che riguardano il comando.
CLINIA: Quali princìpi?
ATENIESE: Quelli che abbiamo già preso in esame, e che riguardano chi debba comandare e chi debba essere comandato. E risultò evidente che i genitori devono comandare i figli, i più vecchi i più giovani, i nobili chi nobile non è, e innumerevoli altri casi del genere, se ci ricordiamo, ed alcuni erano anche di ostacolo ad altri: e uno di essi era proprio questo, e cioè dicevamo che Pindaro giustifica la massima forza, come egli dice, riconducendola alla natura.
CLINIA: Sì, questo è quello che allora si diceva.
ATENIESE: Esamina a chi dei due il nostro stato dev'essere affidato. Infinite volte è accaduta una cosa del genere in alcuni stati.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Quando ci si è scontrati in battaglia per il potere, i vincitori si appropriano a tal punto degli affari dello stato che non permettono ai vinti di partecipare neppure in minima parte del potere, e non solo a loro, ma neppure ai loro figli, e vivono tenendosi d'occhio l'un con l'altro, perché nessuno mai giunga al potere e insorga contro, memore dei mali subiti in passato. Noi ora naturalmente diciamo che queste non sono costituzioni e non sono giuste quelle leggi che non sono stabilite nel comune interesse dello stato: e se le leggi vengono istituite nell'interesse di alcuni, noi diciamo che costoro sono uomini di parte, e non cittadini, e ciò che quelli chiamano giustizia è un termine vano. E parliamo in questi termini perché non intendiamo affidare le cariche nel tuo stato a un tale solo perché è ricco, o perché possiede un'altra di queste qualità, come la forza, la grandezza, la nobiltà: chi invece è assai obbediente alle leggi stabilite e riporta questa vittoria nello stato, a costui, diciamo, dev'essere affidato anche l'incarico di servire gli dèi, che è l'incarico più importante per lui che è primo, e quello che è secondo per importanza a chi è secondo per valore, e così, secondo questa proporzione, bisogna affidare ciascun incarico che viene dopo di questi a quelli che seguono. Ora questi governanti che sono stati appena definiti “servitori delle leggi”, non li ho chiamati così per la novità di creare termini nuovi, ma perché sono convinto che sia soprattutto questo fatto a determinare la salvezza dello stato o il contrario. In quello stato in cui la legge sia comandata e priva di autorità, in quel luogo vedo che la rovina è imminente: laddove invece detenga il potere assoluto sui governanti, e i governanti siano asserviti alla legge, intravedo la salvezza, e tutti quei beni che gli dèi affidarono agli stati.
CLINIA: Sì, per Zeus, straniero, grazie all'età hai una vista acuta.
ATENIESE: Un giovane vede infatti queste cose con la vista offuscata, mentre la vista di un vecchio si fa acutissima.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: E che dire dopo di ciò? Non possiamo immaginare che i coloni siano giunti e siano qui presenti, e che dunque si debba loro esporre il discorso che segue?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: «Uomini», diciamo allora rivolgendoci loro, «il dio, come recita anche l'antica tradizione, avendo in sé il principio, la fine, e il mezzo di tutte le cose che sono, compie perfettamente, secondo la sua natura, un moto circolare. Sempre lo accompagna la giustizia vendicatrice di coloro che hanno lasciato la legge del dio: e chi vuole essere felice segue questa facendosi umile e disciplinato, chi invece si inorgoglisce e si esalta per le ricchezze o gli onori, o anche si infiamma prepotentemente nell'anima per la bellezza e la giovinezza del corpo, e per la stoltezza crede di non aver bisogno né di una guida né di un capo, ma addirittura di essere capace di guidare gli altri, viene lasciato solo dal dio, e una volta abbandonato, accogliendo altri individui come lui salta in modo scomposto sconvolgendo tutto quanto, e a molti pare un gran personaggio, ma dopo non molto tempo subisce un giusto castigo da parte della giustizia, e allora distrugge completamente se stesso, la sua famiglia, e lo stato. Dinanzi ad una situazione del genere, come deve o non deve agire o pensare l'uomo assennato?»
CLINIA: Questo, è chiaro: chiunque deve pensare di essere fra quelli che seguiranno il dio.
ATENIESE: «Qual è il modo di agire che è caro e che è conforme al dio? Uno solo, e contiene un solo antico precetto: il simile ama il suo simile, quando è moderato, mentre le cose che non hanno misura non si amano fra di loro e non sono amate da ciò che contiene la misura. Il dio è per noi misura di tutte le cose, e molto di più dell'uomo, come alcuni pensano: e chi vorrà diventare caro a un essere come questo, è necessario che per quanto gli è possibile diventi tale quale esso è, e secondo questo ragionamento colui che fra noi è temperante è caro al dio perché gli è simile, chi invece non lo è gli è dissimile, ed è nemico ed ingiusto, e lo stesso discorso vale così per le altre cose. Consideriamo inoltre questo precetto che segue a quelli già detti, e che, io credo, è il più bello e il più vero dì tutti i precetti, secondo cui per l'uomo buono far sacrifici in onore del dio ed innalzare sempre ad essi preghiere e fare offerte e venerarli in ogni modo, è il mezzo più bello, più nobile, e più efficace per conseguire la vita felice, e gli si addice in modo particolare, mentre al malvagio avviene per natura tutto il contrario. Il malvagio infatti non è puro nell'anima, mentre è puro chi ha qualità opposte, e non è bene che un uomo buono o un dio ricevano doni da parte di uno che si è macchiato di colpe: vano infatti è l'enorme sforzo compiuto dagli empi per pregare gli dèi, mentre è assai opportuno quello compiuto da tutte le persone pie. Questo è dunque il fine cui si deve mirare: ma quali sono i dardi per questo fine, e come si possono scagliare? E, ancora, quali cose possiamo portare fra le cose dette come le più giuste? Prima di tutto gli onori, diciamo, che dopo aver assegnato agli dèi Olimpici e a quelli che proteggono la città, assegniamo agli dèi sotterranei: e distribuendo loro in numero pari le parti sinistre delle vittime che sono di seconda qualità, si raggiungerà il fine della pietà nel modo più giusto, mentre le parti destre che a queste sono superiori, in numero dispari, agli dèi che poco fa abbiamo menzionato. Dopo questi dèi, l'uomo assennato celebrerà anche i demoni, e dopo di essi gli eroi. Seguiranno gli omaggi che verranno tributati alle statue proprie degli dèi patri, secondo la legge, e, dopo di che, gli onori ai genitori ancora in vita: perché per volontà divina il debitore deve regolare i primi e più grandi debiti, e i più antichi fra tutti, e deve ritenere che tutte le cose che si è procurato e che possiede sono tutte quante di proprietà di chi lo ha generato ed allevato, e deve metterle al servizio di questi con ogni sforzo, a cominciare dalla ricchezza, e quindi, in secondo luogo, i beni del corpo, e infine quelli dell'anima, e bisogna che saldi così i debiti con chi anticamente ha prestato le proprie cure, sin dalla gioventù, sopportando pene e sacrifici, dando pertanto ai vecchi ciò di cui si ha bisogno durante la vecchiaia. Per tutta la vita è opportuno mantenere e aver mantenuto parole assai rispettose nei confronti dei propri genitori, perché è gravissimo il castigo per quelle parole pronunciate con leggerezza d'animo e che volano via - Nemesi, nunzio della giustizia, è stata posta come custode di tutte quelle mancanze che si riferiscono a quest'ambito -; mentre si deve cedere ai genitori che si adirano e che danno libero sfogo alla loro collera, sia che lo facciano con le parole o con i fatti, riconoscendo che quando un padre crede di essere stato offeso dal figlio, è naturale che si adiri con particolare veemenza. E quando i genitori moriranno, la tomba più sobria sarà la più bella, senza superare da un lato i fasti abituali, e senza essere inferiori, dall'altro, a quelle che gli antenati posero per i loro genitori; e allo stesso modo ogni anno, nell'anniversario della loro morte, si paghi il tributo d'onore. E se non si trascurerà di conservare la loro perenne memoria, si potrà così onorarli sempre di più, e si assegnerà ai defunti quella giusta porzione di spesa che fu concessa dalla sorte. Compiendo queste cose e vivendo in questo modo ciascuno si guadagnerà ogni volta la stima degli dèi e di quelli che fra noi hanno più valore, trascorrendo il resto della vita in mezzo alle buone speranze». Per quel che riguarda i doveri verso i figli, i parenti, gli amici, e i concittadini, e tutte quelle attenzioni volute dagli dèi nei confronti degli ospiti e i rapporti che si hanno con tutti questi - e chi riesce ad assolvere questi doveri secondo la legge dovrà rendere splendente e nobile la propria vita - vi sono le leggi stesse che ora esporremo, le quali, ora persuadendo, ora punendo con la forza e la giustizia chi non sa piegarsi alla persuasione dei costumi, rendono il nostro stato, sempre che gli dèi lo vogliano, beato e felice. Vi sono altre cose che il legislatore dovrebbe dire e che coincidono con il mio pensiero, ma che non converrebbe dire sotto forma di legge: mi sembra che a proposito di queste cose dovrebbe recare una prova a se stesso e a coloro per i quali egli legifera, esaminando tutto quel che rimane, per quanto è possibile, e dopo di che cominciare a stabilire le leggi. E sotto quale forma si potranno trattare meglio simili cose? Non è certamente facile dirle in una sola parola come in uno schizzo, ma cerchiamo di coglierle così, se riusciamo a fissare per quelle dei sicuri punti di riferimento.
CLINIA: Dicci quali.
ATENIESE: Vorrei che i cittadini fossero il più possibile obbedienti alla virtù, ed è chiaro che il legislatore tenterà di far ciò nell'approntare la sua legislazione.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Mi pare allora che quanto è stato detto serva a fare in modo che i moniti che sono stati espressi siano ascoltati con più dolcezza e benevolenza, se non vengano colti da un animo del tutto rozzo: sicché, anche se non di molto, ma di poco, renderanno colui che ascolta ciò che dice il legislatore più sereno e più ben disposto, questo ci renderà già contenti. Non si trovano facilmente e non sono molti quei cittadini che desiderano diventare il più possibile e il più rapidamente migliori, e molti dichiarano che è saggio Esiodo quando afferma che la strada che porta al vizio è piana e si può percorrere senza sudore, perché è assai breve, mentre egli dice, «dinanzi alla virtù gli dèi immortali hanno posto il sudore e lunga e ripida la strada che porta ad essa, aspra all'inizio: ma quando tu sia giunto al punto estremo è facile allora, anche se prima è stata dura».
CLINIA: Mi pare che dica bene.
ATENIESE: Senza dubbio. Voglio però esporvi ciò che il precedente discorso ha determinato in me.
CLINIA: Esponi pure.
ATENIESE: Diciamo allora al legislatore conversando con lui: «Dicci, legislatore: se tu sapessi che cosa noi dobbiamo fare e dire, non è chiaro che tu lo diresti?».
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: «Non ti abbiamo sentito dire un momento fa che il legislatore non deve permettere che i poeti facciano ciò che a loro piace? Non saprebbero infatti che cosa mai direbbero così da risultare contrario alle leggi, e quindi danneggerebbero lo stato».
CLINIA: Quello che dici è vero.
ATENIESE: E se invece dei poeti gli parlassimo in questo modo, non risulterebbero opportune queste parole?
CLINIA: Quali parole?
ATENIESE: Eccole: «Vi è un antico mito, legislatore, che viene sempre narrato da noi e che molti altri approvano, secondo il quale il poeta, quando siede sul tripode della musica, non è più in se stesso, ma come una fonte lascia scorrere subito ciò che gli affluisce, e dato che la sua arte consiste nell'imitazione, si vede costretto, quando rappresenta uomini che hanno stati d'animo opposti gli uni agli altri, ad affermare spesso il contrario di quello che pensa, e non sa neppure se fra le cose dette siano vere queste o quelle altre. Ma il legislatore non può far così nell'abito della legge, vale a dire stabilire due norme intorno ad un unico caso, ma deve sempre mostrare un solo criterio intorno ad un unico fatto. Vedi un po' questo ricavandolo dalle stesse cose che hai detto ora. Se vi è una sepoltura troppo sfarzosa, un'altra troppo povera, e un'altra media, scegliendo una sola di queste, quella media, questa prescrivi e lodi senza giri di parole: ma io, se dovessi rappresentare una donna che si distingue per la sua ricchezza, che mi ordinasse nel corso del poema di seppellirla, tesserei l'elogio della sepoltura eccessivamente sfarzosa, se invece l'ordine arrivasse da un uomo economo e povero, elogerei la forma di sepoltura povera, ed infine chi possegga una ricchezza in proporzioni moderate e sia egli stesso moderato, elogerebbe quel tipo di sepoltura che è come lui. Ma tu non devi dire così come hai detto adesso quando hai detto “medio”, ma devi dire in che cosa consiste questo medio e quantificarlo, altrimenti non pensare che un discorso come questo possa mai diventare legge».
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: Forse dunque chi ha ricevuto da noi l'incarico di redigere le leggi non formulerà alcuna avvertenza all'inizio delle leggi, ma spiegherà subito quel che si deve e quel che non si deve fare, e dopo aver minacciato la pena, rivolgerà le sue attenzioni ad un'altra legge, senza aggiungere a quanto è stato fissato per legge neppure un'esortazione o una parola di persuasione? Potrebbe a questo riguardo valere l'esempio di un medico: uno è solito curarci ogni volta in questo modo, un altro in quell'altro modo. Ricordiamoci allora l'uno e l'altro metodo, per pregare il legislatore proprio come bambini che domandano al medico di curarli nel modo più dolce. Che cosa vogliamo dire? Vi sono dei medici, diciamo, e certi collaboratori dei medici, ed anche questi li chiamiamo medici.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Che siano liberi o schiavi, apprendono l'arte conformandosi agli ordini dei padroni, e all'osservazione, e all'esperienza, ma non secondo la loro natura, così come invece gli individui liberi hanno imparato l'arte e la insegnano ai propri figli. Ammetti che queste siano due categorie di quelli che si chiamano medici?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Dunque ti rendi anche conto del fatto che, essendoci negli stati malati che sono schiavi e malati che sono liberi, gli schiavi curano gli schiavi, correndo spesso a casa loro o aspettandoli negli ambulatori, e nessuno di tali medici fornisce o accoglie ragione alcuna intorno alle singole malattie di ciascuno, ma prescrive ciò che gli sembra opportuno in base all'esperienza che ha, come se fosse perfettamente competente, con vanagloria come un tiranno, e quindi se ne va da un altro schiavo malato, e allevia così al padrone la cura dei malati: il medico libero, invece, cura e studia nella maggior parte dei casi le malattie dei liberi, esaminandole sin dal principio e secondo la loro natura, e rende partecipe l'ammalato stesso e i suoi amici della sua indagine e lui stesso apprende qualcosa dai malati, e, nello stesso tempo, per quanto gli è possibile, insegna al malato; e non prescrive nulla prima di averlo convinto, e allora, rendendo docile e preparando il paziente mediante la persuasione, tenta di riportarlo perfettamente alla salute. è migliore allora quel medico che procede nel primo modo o nel secondo? E quale maestro di ginnastica nel praticare la ginnastica? è migliore chi esprime la propria capacità con due metodi o chi si serve di uno solo, e per giunta del peggiore e del più rozzo dei due?
CLINIA: è assai superiore, straniero, il doppio metodo.
ATENIESE: Vuoi che osserviamo come questo doppio metodo e quello semplice si realizzano nella legislazione?
CLINIA: E come non vorrei?
ATENIESE: Coraggio, per gli dèi, quale sarà la prima legge che il legislatore stabilirà? Non stabilirà, per natura, nelle sue disposizioni, il principio riguardante l'origine degli stati?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E il principio della nascita di ogni stato non consiste forse nell'unione e nella relazione coniugale?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Probabilmente allora, se si stabiliscono per prime le leggi coniugali, risultano ben stabilite ed orientano lo stato nella giusta direzione.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Formuliamo in primo luogo la forma semplice della legge, che può suonare così: «Ognuno si deve sposare, tra i trenta e i trentacinque anni; in caso contrario, sia punito con una multa o con la privazione dei diritti civili, e la multa ammonti a tanto e a tanto, e in questo e in quel modo avvenga la privazione dei diritti civili». Sia tale la formulazione semplice della legge riguardante i matrimoni, mentre quella doppia sia così: «Ognuno si deve sposare, tra i trenta e i trentacinque anni, considerando che in certo modo il genere umano per una certa sua natura prende parte dell'immortalità, di cui ognuno ha innato e profondo desiderio: e questo desiderio consiste nel diventare celebri, evitando dì rimanere senza nome una volta che si è morti. La stirpe degli uomini è connaturata con il tempo nella sua totalità, perché lo accompagna e lo accompagnerà sino alla fine, e in tal modo è immortale, per cui, lasciando i figli e i figli dei figli e restando sempre identica ed una, mediante la generazione dei figli prende parte dell'immortalità: privarsi allora volontariamente di ciò non è cosa affatto pia, e deliberatamente agisce così chi trascura moglie e figli. Chi dunque rispetta la legge non sarà oppresso dalla punizione, chi al contrario non obbedisce, e non si è ancora sposato pur avendo raggiunto l'età di trentacinque anni, sia punito ogni anno con una multa che ammonta a tanto e a tanto, in modo che non pensi che il celibato gli porti qualche guadagno o sollievo, e non prenda parte di quegli onori che in uno stato i più giovani rendono ogni volta ai più anziani». Ascoltata la legge formulata in questo modo e messala a confronto con quell'altra, è possibile considerare, riguardo a ciascuna forma, se le leggi debbano essere in tal modo doppie, anche se di lunghezza limitata, e facciano ricorso alla persuasione e insieme alla minaccia, oppure se debbano servirsi della sola minaccia e siano semplici per quel che riguarda la lunghezza.
MEGILLO: Per il costume laconico, straniero, la brevità è sempre da preferirsi: in ogni caso se mi si invitasse ad essere giudice di questi due testi di legge per scegliere quale preferirei stabilire nello stato, la mia scelta ricadrebbe sul più lungo, e anche per quanto riguarda ogni legge, secondo questo modello, se ve ne fossero due, sceglierei sempre lo stesso. E a questo nostro Clinia non devono dispiacere le leggi che adesso abbiamo stabilito: è suo infatti lo stato che ora pensa di servirsi di tali leggi.
CLINIA: Hai detto bene, Megillo.
ATENIESE: Discorrere allora sulla lunghezza e sulla brevità dei testi delle leggi è davvero opera vana: credo infatti che bisogna stimare ciò che è migliore, non ciò ciò che è più breve o più lungo. E fra le leggi di cui ora si è parlato, non solo vi è un genere che è due volte migliore dell'altro in relazione all'utilità pratica, ma come ora dicevo, è stato assai opportuno presentare due categorie di medici. A questo proposito pare che nessuno dei legislatori abbia mai preso in considerazione questo fatto, e cioè che essendo possibile servirsi di due mezzi per stabilire le leggi, la persuasione e la forza, secondo quello che si può fare con la massa inesperta di educazione, essi si servono soltanto di uno solo: infatti nell'atto di legiferare non mescolano l'impetuosità con la persuasione, ma si servono solo della pura forza. Quanto a me, o beati, vedo che c'è bisogno di una terza via che sinora non si è mai seguita.
CLINIA: A quale via alludi?
ATENIESE: Essa è scaturita, grazie ad un dio, dalle cose che ora abbiamo detto nel corso della nostra discussione. Direi che da quando abbiamo cominciato a discorrere delle leggi - ed era l'alba, mentre ora si è fatto mezzogiorno e noi abbiamo raggiunto questo splendido luogo di riposo - pur non avendo fatto altro che conversare di leggi, mi sembra che solo un momento fa abbiamo cominciato a parlarne, mentre tutto quanto abbiamo detto prima valeva come proemio ad esse. Perché ho detto ciò? Quello che intendevo dire è che di tutti i discorsi e di tutto ciò che ha attinenza con la voce vi sono dei proemi e quasi dei preludi che rappresentano un abile punto di partenza utile per ciò che si dovrà sviluppare. E per le cosiddette leggi del canto citaredico e per ogni altro genere di musica vi sono proemi realizzati con mirabile cura: mentre per quelle che sono leggi a tutti gli effetti, come appunto affermiamo che siano quelle politiche, nessuno disse mai che vi fosse un proemio, e neppure venne composto e dato alla luce, come se non potesse esistere per natura. Ma la discussione che noi ora abbiamo affrontato, per quel che mi sembra, indica che il proemio esiste, e che quelle leggi che poco fa mi sembrarono e chiamai doppie, non erano doppie così, semplicemente, ma erano effettivamente due realtà distinte, la legge e il proemio della legge: e la prescrizione che abbiamo definito tirannica e che assomiglia alle prescrizione dei medici che abbiamo chiamato non liberi è la vera e propria legge allo stato puro, mentre ciò ciò che fu detto prima di questo, e che fu da costui definito persuasivo, è in effetti persuasivo, e ha il valore di un proemio dei discorsi. Mi pare evidente che tutto questo discorso - e chi lo tiene lo pronuncia per persuadere - sia detto proprio per questa ragione, e cioè perché colui al quale si rivolge l'attività legislativa del legislatore accolga benevolmente quell'ordine che è appunto la legge, e grazie alla benevolenza, diventi più docile ad apprenderla: perciò secondo il mio ragionamento, bisognerebbe più giustamente chiamare questa cosa proemio, e non testo di legge. Detto questo, che cosa vorrei quindi aggiungere? Questo, e cioè che il legislatore, badando a tutte quante le leggi, non deve lasciarle prive di proemio, ma deve assegnarlo a ciascuna, in modo che le leggi differiscano da se stesse nella misura in cui differivano le due leggi di cui ora si è detto.
CLINIA: A mio avviso dovremmo comandare chi conosce queste cose di non legiferare diversamente.
ATENIESE: Mi sembra, Clinia, che tu dica bene quando affermi che ogni legge deve avere il suo proemio e che, cominciando a stabilire il complesso delle leggi, bisogna premettere a tutto il testo il proemio che si adatti naturalmente a ciascuna parte - non è di scarso valore ciò che si dirà in seguito, e neppure riveste scarsa importanza ricordarsi chiaramente o no queste cose -, ed è fuor di dubbio che se comandassimo di premettere ugualmente proemi tanto dinanzi a leggi di grande importanza quanto a quelle di scarsa importanza, non diremmo bene. Non bisogna farlo né prima di un discorso o di un canto qualsiasi - anche se per natura essi sono in tutti i componimenti, non sono però necessari in tutti i casi - ma bisogna ogni volta affidare tale compito di comporli al retore, al musicista, e al legislatore.
CLINIA: Quello che dici mi pare verissimo. Ma, straniero, non stiamo qui a perdere più tempo, e ritorniamo al discorso, cominciando da quelle cose, se vuoi, che tu allora hai detto senza la precisa intenzione di voler fare un proemio. Ritorniamo dunque nuovamente indietro, dato che, come dicono i giocatori, la seconda prova è migliore della prima, svolgendo quindi il proemio, non un discorso a caso, come abbiamo fatto poco fa: riprendiamo dall'inizio, e accordiamoci sul fatto che facciamo il proemio. Per quel che riguarda l'onore verso gli dèi e il rispetto verso i genitori, quanto si è appena detto può bastare: proviamo a dire quel che segue, finché non ti sembri che il proemio sia stato detto in modo adeguato. Dopo di che passerai ad esporre le leggi stesse.
ATENIESE: Dunque sugli dèi e su coloro che li seguono, sui genitori ancora in vita e su quelli già morti, si è già fatto un adeguato proemio, come ora abbiamo detto: ora mi sembra che tu mi comandi di portare quasi alla luce quella parte di proemio che ancora resta da esporre.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ma dopo tali cose, sarebbe conveniente e di grande interesse per tutti riflettere sul modo con cui bisogna tendere o allentare la tensione nei confronti delle anime, dei corpi, e delle sostanze, così che chi parla e chi ascolta consegue, per quanto gli è possibile, l'educazione: e queste sono le cose che noi dobbiamo effettivamente dire ed ascoltare dopo di quelle.
CLINIA: E' giustissimo quello che dici.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO QUINTO
ATENIESE Presti attenzione chiunque ha appena udito ciò che ho detto sugli dèi e sui cari antenati: infatti fra tutti i beni che si possiedono l'anima è quello più divino dopo gli dèi, il più intimo.
Tutte le cose che ognuno possiede si dividono in due generi.
Il primo genere, superiore e migliore, comanda, il secondo, inferiore e peggiore, serve: bisogna allora preferire quelle cose che dentro di noi comandano rispetto a quelle che servono.
Dicendo allora che dopo gli dèi, che sono i padroni, e dopo quelli che seguono gli dèi, bisogna onorare come seconda la propria anima, formulo una giusta esortazione: eppure nessuno di noi, per così dire, onora rettamente la propria anima, anche se lo pensa.
L'onore infatti è un bene divino, mentre nessuno dei mali è degno di onore, e chi crede di accrescere la propria anima mediante discorsi, o doni, o certe concessioni non la rende assolutamente migliore da peggiore che era, e anche se crede di renderle onore, non lo fa affatto.
Non appena ogni individuo diventa uomo ritiene di essere in grado di conoscere ogni cosa e pensa di onorare la propria anima elogiandola, e le permette volentieri di fare ciò che vuole; ma secondo quel che diciamo ora, comportandosi in questo modo, la si danneggia e non la si onora: bisogna allora, come diciamo, considerarla seconda per importanza dopo gli dèi.
E quando un uomo non ritiene di essere responsabile dei propri sbagli e di moltissimi e gravissimi mali, ma incolpa gli altri esimendosi sempre da ogni responsabilità, non rende certo onore alla propria anima, come crede, ma ne è ben lontano: la danneggia.
E quando trae godimento dai piaceri oltre la norma e l'approvazione del legislatore, allora non le rende affatto onore, anzi la disonora riempiendola di mali e di pentimenti.
E neppure quando, al contrario, non si esercita a resistere, ma cede dinanzi alle fatiche, alle paure, alle sofferenze e ai dolori che vengono elogiati, allora cedendo non la onora: non la rende degna di onori, dunque, quando compie tutte queste cose.
E neppure quando ritiene che il vivere sia sotto ogni aspetto un bene, la onora, anzi, la disonora: quando infatti l'anima ritiene che tutto ciò che si trova nell'Ade sia malvagio, l'uomo cede e non sa reagire, invece di insegnarle e di dimostrarle che essa non sa neppure se, al contrario, presso gli dèi in quel luogo, vi sono i beni più grandi per noi.
E se si preferirà la bellezza alla virtù, non sarà altro che un effettivo e assoluto disonore per l'anima.
Questo discorso dice infatti che il corpo è più degno di onori dell'anima, ed è fallace: perché nessun essere nato dalla terra è più degno di onori degli dèi olimpi, ma chi sull'anima ha un'opinione diversa, trascura il fatto di possedere un bene meraviglioso.
E quando si prova l'ardente desiderio di possedere disonestamente delle ricchezze e non ci si tormenta di tale possesso, con questi doni non si onora la propria anima - tutt'altro - dato che l'onore e la sua bellezza vengono venduti per poco oro: e tutto l'oro che si trova sulla terra e sotto terra non è equivalente alla virtù.
In sintesi, chi non voglia da un lato staccarsi in alcun modo dalle cose che il legislatore ha giudicato e sancito malvagie e turpi, cercando dall'altro di coltivare con ogni sforzo quelle che di contro sono belle e buone, ogni uomo che si comporta così non sa che tratta l'anima, il bene più divino, nel modo più disonorevole e più sconveniente.
E nessuno, per così dire, calcola la pena che viene definita come la più grave e che è da porre in relazione con la malvagità: è pena gravissima il rendersi simili a chi è malvagio, e una volta diventati simili, evitare gli uomini e i discorsi onesti, e separarsi da essi, e congiungersi invece a quegli altri inseguendoli e intrecciando con loro fitti rapporti; è inevitabile che chi frequenta questo genere di persone faccia e subisca ciò che quelle persone sono solite fare e subire fra loro.
E questa condizione in cui ci si viene a trovare non coincide con la giustizia - la giustizia e il giusto sono realtà belle - ma con la punizione, che è la condizione che si accompagna all'ingiustizia, ed è infelice sia chi s'imbatte sia chi non s'imbatte in tale punizione, questo perché non guarisce, quello perché si annienta affinché molti altri si salvino.
In sostanza, l'onore consiste per noi nel seguire il meglio, e di rendere il peggio, che contiene la facoltà di migliorarsi, il meglio possibile.
Nell'uomo non vi è dunque nessun bene che più dell'anima sia nato allo scopo di evitare il male, da un lato, e a mettersi sulle tracce e ad afferrare, dall'altro, l'ottimo bene, e una volta afferratolo, vivere con esso per tutto il resto della vita: perciò abbiamo stabilito che l'anima fosse seconda quanto ad onore, mentre il terzo posto spetta - e chiunque può intenderlo - all'onore che per natura si riserva al corpo.
Bisogna quindi prendere in esame gli onori, e di questi alcuni sono veritieri, ed altri illusori, ma questo compito spetta al legislatore.
Mi sembra che egli indichi gli onori e dica che sono questi e che alcuni siano così: il corpo è onorato non perché è bello, forte, veloce, grande, e sano - anche se molti lo pensano -, e neppure per le sue qualità opposte, ma ciò che partecipa del giusto mezzo di tutte queste proprietà è quanto di più saggio e sicuro possa esserci, poiché le une rendono le anime vanitose e sfrontate, le altre misere e senza libertà.
Lo stesso vale per il possesso di ricchezze e di beni, i cui onori vengono scanditi in egual modo: l'eccesso infatti di tutti questi beni determina inimicizie e sedizioni negli stati e fra i privati cittadini, e la loro mancanza la schiavitù, nella maggior parte dei casi.
Nessuno ami eccessivamente le ricchezze per i figli, per lasciarli quanto più ricchi è possibile, perché non è la cosa migliore né per loro, né per lo stato.
Un patrimonio lasciato ai giovani che non li renda intemperanti, e neppure bisognosi del necessario, è il più eccellente e il migliore, perché accordando e armonizzando tutti gli aspetti della nostra vita la rende priva di sofferenze.
Ai figli bisogna lasciare in grande misura il senso del rispetto, non l'oro.
Noi crediamo che castigando i giovani che mancano di rispetto lasceremo loro questa virtù: non si può però far questo con le esortazioni impartite oggi ai giovani, secondo le quali si dice al giovane che deve aver rispetto di ogni cosa.
Il legislatore assennato consigliere piuttosto i più anziani a rispettare i giovani, e a fare attenzione che, più di ogni altra cosa, nessun giovane li veda o li ascolti mentre fanno o dicono qualcosa di turpe, perché se i vecchi mancano del pudore, è inevitabile che anche i giovani siano più sfacciati: un'educazione eccellente per i giovani così come per noi non è costituita dall'impartire ammonizioni, ma nel comportarsi espressamente, nel corso della vita, secondo gli ammonimenti che vengono impartiti ad un altro.
E chi onora e venera la parentela e tutti quelli che con lui condividono gli dèi protettori della famiglia e la natura dello stesso sangue avrà ragionevolmente gli dèi tutelari della nascita benevoli verso il seme dei suoi figli. E si procurerà amici e compagni benevoli nelle relazioni della vita, se riterrà i servizi che quelli gli rendono più importanti e ragguardevoli di quanto quelli credano, e se, d'altro canto, considererà i favori ch'egli rende agli amici meno grandi di quanto li ritengano invece gli amici e i compagni.
Per lo stato e i cittadini sarà dunque di gran lunga migliore chi, invece di vincere nelle gare di Olimpia e in tutte le competizioni che si svolgono in guerra e in pace, preferirà vincere per la fama di aver servito le leggi della sua patria, e di averle servite più nobilmente di tutti gli altri uomini nel corso della sua vita.
Bisogna inoltre ritenere che i rapporti con gli stranieri sono sacri al massimo grado: infatti tutte le colpe commesse dagli stranieri e quelle commesse nei loro confronti dipendono da un dio vendicatore più di quelle che riguardano i cittadini.
Poiché infatti lo straniero è solo, senza compagni e parenti, merita più pietà da parte degli uomini e degli dèi: chi ha la possibilità di vendicarlo lo aiuta più volentieri, e chi ha questa speciale possibilità è un demone che protegge ogni straniero e un dio che si accompagna a Zeus Ospitale.
Con molta precauzione, anche per chi abbia una scarsa previdenza, si può trascorrere tutta la vita sino alla fine senza compiere alcuna mancanza nei confronti degli stranieri.
Ma fra tutte le colpe che riguardano gli stranieri e i conterranei, la più grave per ciascuno è quella che si commette contro i supplici: perché il supplice, attraverso le sue suppliche, chiama un dio a testimoniare i suoi voti, e questo dio diviene un protettore particolare di colui che ha subito, sicché chi ha sofferto non subirà mai senza vendetta ciò che ha sofferto.
Abbiamo allora passato in rassegna i doveri che bisogna osservare nei confronti dei genitori, di se stessi, e dei propri averi, quelli riguardanti lo stato, gli amici, e la parentela, e, ancora, quelli verso gli stranieri e anche i conterranei.
Quanto alla disposizione in cui ci deve trovare per trascorrere la vita nel modo migliore, lo esaminiamo qui di seguito: sul fatto, cioè, che non la legge, ma l'azione educativa della lode e del biasimo rendono ogni persona docile e ben disposta alle leggi che stanno per essere fissate, proprio questo diremo qui di seguito.
La verità dunque guida tutti i beni tanto per gli dèi, quanto per gli uomini: e possa subito in principio prenderne parte chi vuole diventare beato e felice, in modo che trascorra la maggior parte del tempo insieme ad essa.
Questi, infatti, è una persona sincera: infido invece chi ama mentire volontariamente, stolto chi lo fa contro la sua volontà.
Ne l'uno ne l'altro si devono invidiare.
Senza amici è infatti chiunque sia infido e stolto, e, con il passare del tempo, divenuto noto per i suoi difetti, riserva per sé una totale solitudine, quando alla fine della vita si appressa la difficile vecchiaia, sicché, siano ancora in vita i suoi compagni e i suoi figli o non lo siano più, vive quasi come un orfano la sua esistenza.
Degno di onori, invece, chi non commette ingiustizia alcuna, e chi non lascia agli ingiusti commettere ingiustizie è più del doppio degno di onori rispetto a quell'altro: l'onore del primo, infatti, equivale ad un solo uomo, quello del secondo a molti altri, poiché segnala ai magistrati l'ingiustizia degli altri. E chi concorre con i magistrati, nei limiti delle sue possibilità, ad infliggere punizioni, lo si consideri uomo grande e perfetto nell'ambito dello stato, e lo si proclami vittorioso nella gara della virtù.
Questo stesso elogio si deve dire anche riguardo alla temperanza e all'intelligenza e a tutti gli altri beni che uno non solo ha la possibilità di avere, ma di cui può anche rendere partecipi gli altri: e colui che rende partecipe dei propri beni dev'essere onorato come il più valente, mentre bisogna lasciare al secondo posto chi non è in grado di rendere partecipe gli altri, ma lo vorrebbe, infine, chi è invidioso, e di sua volontà non rende amichevolmente partecipi di alcun bene gli altri, allora costui bisogna biasimare; mentre non si deve affatto biasimare il bene per chi lo possiede, bisogna bensì con ogni sforzo cercare di possederlo.
Chiunque gareggi con noi per la virtù, ma senza invidia.
Un uomo come questo incrementerà gli stati, gareggiando lui stesso, senza ostacolare gli altri con la calunnia; chi invece è invidioso, credendo di dover superare gli altri con la calunnia, diminuisce la sua tensione verso la vera virtù e getta nello scoramento quelli che gareggiano con lui, biasimandoli ingiustamente, e per queste ragioni rende l'intero stato privo di allenamento alla gara per la virtù e sminuisce, per quel che è il suo contributo, la buona fama.
Ogni uomo dev'essere irascibile, ma anche, per quel che gli è possibile, mite.
Non vi è infatti altro modo di sfuggire alle cattiverie degli altri, se esse sono moleste e difficili a curarsi o addirittura del tutto incurabili, che quello di combattere e difendersi riportando la vittoria, e di punire senza fare alcuna concessione: e non è possibile che ogni anima compia questo se non ha un cuore nobile.
Quanto agli errori di quelli che compiono ingiustizie, e sono curabili, bisogna innanzitutto riconoscere che ogni persona ingiusta è involontariamente ingiusta: nessuno vorrà mai per nulla al mondo procurarsi spontaneamente alcuno dei mali più grandi, soprattutto fra i suoi beni più degni di onore.
L'anima, abbiamo detto, è in verità il bene per tutti più degno di onori: e dunque in ciò che è più degno di onori nessuno riceverà mai spontaneamente il male più grande vivendo tutta la vita nel suo possesso.
Ma degno di pietà è l'ingiusto, come colui che ha in sé i mali, ed è lecito provare pietà per chi ha un male curabile e trattenendo la propria ira cercare di mitigarla, e non sdegnandosi ed inasprendosi come una donna, mentre verso chi assolutamente ed inesorabilmente si trova nell'errore e nel male bisogna dar libero corso alla propria collera: ecco perché diciamo che l'uomo onesto dev'essere ogni volta irascibile e mite.
Il più grande di tutti i mali è connaturato nell'anima di molti, e usando ognuno indulgenza nei propri confronti per questo male, non escogita alcun mezzo per sfuggirlo: questo è quel che si dice per sostenere che ogni uomo per natura è caro a se stesso, e che è giusto che debba essere così.
In verità, la ragione di tutti gli errori di ogni persona risiede ogni volta in un eccessivo amor proprio.
Chi ama infatti è cieco riguardo a ciò che ama, e giudica male il giusto, il buono, e il bello, ritenendo di dover sempre preferire alla verità ciò che lo riguarda: chi allora vuol essere un grande uomo non deve amare né se stesso, né le sue cose, ma il giusto, sia che venga compiuto da lui stesso, sia soprattutto che sia stato fatto da altri.
Da questo stesso errore è scaturito quell'errore per cui tutti pensano di identificare la propria ignoranza con la sapienza: per questa ragione, pur non sapendo nulla, per così dire, crediamo di sapere tutto, e non affidiamo ad altri ciò che non sappiamo fare, essendo così costretti a sbagliare facendolo da soli.
Bisogna perciò che ogni uomo eviti l'eccessivo amor proprio, e segua sempre ciò che è migliore di lui, senza porre innanzi il pretesto della vergogna che proverebbe in quel caso.
Vi sono cose meno importanti di queste e di cui spesso si parla, ma non meno utili, e di cui bisogna ricordarsi di parlare: come infatti bisogna che quando qualcosa scorre via, qualcos'altro al contrario affluisca, così il ricordo affluisce quando l'intelligenza vien meno.
Bisogna perciò trattenersi dalle risa e dai pianti eccessivi, ed ogni uomo deve ammonire un altro uomo, e nascondendo una grande gioia come un grande dolore bisogna cercare di mantenere un comportamento dignitoso, sia quando nella buona sorte il demone si mantiene stabile, sia quando nell'avversità alcuni demoni contrastano le nostre opere che vengono così a trovarsi come di fronte ad ostacoli altissimi ed insormontabili, e si deve sperare sempre che il dio, mediante i beni che ci dona, renderà più tenui invece che più pesanti le sventure che ci piombano addosso, e, ancora, che trasformerà in meglio la situazione presente, e che tutti i beni contrari a queste sventure sempre giungeranno insieme alla buona sorte.
Con queste speranze ciascuno deve vivere, ricordandosi di queste cose, senza astenersene affatto, e tanto nei divertimenti come nelle occasioni serie deve ricordarli espressamente a sé e agli altri.
Parlando dunque dei comportamenti che bisogna tenere e di come dev'essere ciascun individuo, ci siamo mantenuti in un ambito divino, mentre ora dobbiamo dire dei comportamenti umani: conversiamo infatti con uomini, non con dèi.
Connaturati in modo particolare alla natura umana sono i piaceri, i dolori, e i desideri, da cui è inevitabile che ogni essere mortale dipenda e sia come sospeso con i più grandi affanni.
Bisogna allora tessere l'elogio della vita più bella, non solo perché grazie alla sua forma esteriore ha la forza di procurarci buona fama, ma anche perché, se si vuole gustarne e non evitarla quando si è giovani, essa prevale anche sotto quell'aspetto che tutti cerchiamo, e cioè il godere di più e il soffrire di meno per tutta la vita.
E che sarà così, se si gusta rettamente, risulterà subito e assolutamente in tutta la sua evidenza.
Ma cos'è tale rettitudine? Questo dev'essere ormai esaminato attingendolo dal nostro discorso: sia che la nostra vita, disposta in un determinato modo, sia conforme a natura, sia che sia disposta in un altro e sia contro natura, confrontando un genere di vita con un altro, bisogna prendere in esame la vita più piacevole e quella più dolorosa in questo modo.
Noi da un lato vogliamo per noi il piacere, dall'altro non scegliamo e non vogliamo il dolore, mentre quando non vi sono né l'uno né l'altro, non vogliamo sostituire questa condizione con il piacere, ma desidereremmo scambiarla con il dolore: e se vogliamo minor dolore accompagnato da maggior piacere, non vogliamo minor piacere accompagnato da maggior dolore, mentre non saremmo in grado di dire con certezza se vorremmo che piacere e dolore si equivalessero.
Tutti questi casi differiscono o meno, a seconda della volontà che si ha nella scelta di ciascuna di queste cose, per numero e grandezza, per intensità e uguaglianza, e per quanto è ad essi contrario.
Essendo le cose inevitabilmente ordinate in questo modo, vogliamo vivere in quella vita in cui piaceri e dolori siano abbondanti, grandi, ed intensi, ma soprattutto i piaceri siano prevalenti, mentre non vogliamo vivere in una vita dove piaceri e dolori siano pochi, piccoli e quieti, e dove soprattutto siano i dolori a prevalere, e vogliamo vivere in una vita in cui vi sia tutto l'opposto.
Quanto al vivere in una vita in equilibrio fra piaceri e dolori, bisogna riflettere come si è fatto prima: vogliamo una vita equilibrata se prevale quel che ci è caro, non la vogliamo se prevale quel che ci è ostile.
Bisogna considerare tutti questi generi di vita come legati a queste proprietà, e bisogna vedere quali per natura vogliamo: se affermiamo di volere qualcosa di contrario a quel che si è detto, facciamo queste affermazioni per ignoranza e inesperienza della vita reale.
Quali e quanti sono i generi di vita, riguardo ai quali si deve preferire ciò che spontaneamente si desidera rispetto a ciò che non si vuole e non si desidera, considerandolo alla stregua di una legge stabilita in sé e preferendo così ciò che è caro e nello stesso tempo dolce, e ottimo e bellissimo, sicché l'uomo viva nel modo più beato possibile? Diciamo che un genere consiste nella vita temperante, un altro nella vita assennata, un altro ancora in quella valorosa, e stabiliamone ancora uno che coincide con la vita sana.
A questi generi di vita che sono quattro corrispondono altri quattro generi di vita opposti: la vita dissennata, quella vile, quella intemperante, e la malata.
Chi conosce la vita temperante ammetterà che essa è mite sotto ogni aspetto, ed offre quieti dolori e quieti piaceri, teneri desideri e amori che non sono furenti; mentre la vita intemperante è impetuosa sotto ogni aspetto, ed offre intensi dolori e intensi piaceri, forti e furibondi desideri e amori che sono il più possibile furenti; che nella vita temperante i piaceri prevalgono sui dolori, mentre nella intemperante i dolori superano i piaceri per grandezza, numero, e frequenza.
Di qui deriva necessariamente che, secondo natura, la prima è per noi la più piacevole delle vite, la seconda la più dolorosa, e non è possibile che chi voglia vivere piacevolmente viva volontariamente in modo intemperante, ma risulta invece ormai chiaro che, se è giusto quello che abbiamo detto ora, ogni uomo è di necessità intemperante contro la sua volontà: infatti o per ignoranza o per debolezza, o per entrambe le cose insieme, la maggior parte degli uomini vive senza la temperanza.
Le stesse considerazioni si possono fare a proposito della vita malata e di quella sana, e cioè che hanno in sé piaceri e dolori, e che i piaceri superano i dolori nella vita sana, mentre i dolori superano i piaceri nelle malattie.
Nell'atto di scegliere i generi di vita non vogliamo affatto che la parte di dolore sia eccessiva, ma anzi, giudichiamo più piacevole quella vita in cui il dolore sia superato.
Possiamo dunque dire che la vita temperante, quella assennata, quella valorosa hanno in sé piaceri e dolori meno numerosi, più deboli, e più rari della vita intemperante, dissennata, e vile, e che poiché le prime prevalgono sulle seconde per il piacere, e le seconde prevalgono sulle prime per il dolore, il valoroso vince il vile e l'assennato vince lo stolto, sicché vi è una vita più piacevole delle altre, vale a dire la vita temperante, valorosa, assennata e sana sono più piacevoli della vita vile, stolta, intemperante, e malata: in sintesi, allora, la vita che possiede la virtù relativamente al corpo e all'anima è più piacevole di quella vita che contiene la perversità, e sotto ogni altro aspetto eccelle per bellezza, rettitudine, virtù e buona fama, sicché in tutto e per tutto chi vive questa vita è più felice di chi segue quella opposta.
E qui abbia fine il proemio sulle leggi che abbiamo pronunciato.
Dopo il proemio segue di necessità la legge, o meglio, in verità, si devono tracciare le leggi della costituzione.
E come dunque per un tessuto o una qualsiasi opera di intreccio non è possibile che la trama e l'ordito siano realizzati con lo stesso materiale, ma è necessario che ciò che costituisce l'ordito sia di valore differente - infatti è forte ed ha una certa resistenza quando lo si piega, mentre la trama è più morbida e presenta una giusta pieghevolezza - così in un certo senso, allo stesso modo, si devono ogni volta dividere coloro che eserciteranno il potere negli stati da quelli che, secondo alcune prove, risultano avere una scarsa educazione.
Vi sono infatti due forme di costituzione: l'istituzione delle magistrature con la conseguente nomina di ciascun magistrato, e l'assegnazione delle leggi alle magistrature.
Ma prima di affrontare queste cose conviene fare le seguenti riflessioni.
Il pastore, o il bovaro, o l'allevatore di cavalli o di qualsiasi altra specie di animali che abbia ricevuto un intero gregge, non comincerà mai ad occuparsene se prima non lo abbia purificato secondo quelle purgazioni che convengono a ciascun gruppo, separando quelli sani da quelli che non lo sono, quelli di razza e quelli bastardi, e spedirà in altre greggi gli uni e si occuperà degli altri, pensando che vana e inefficace sarebbe quella fatica riguardante quei corpi e quelle anime che, corrotte dalla natura e da una malvagia educazione, corrompono inoltre quella parte che in ciascun gregge è sana e integra tanto nell'indole quanto nei corpi, se nessuno, appunto, operasse una purificazione degli animali posseduti.
L'allevamento degli altri animali richiede uno sforzo minore, e si è creduto opportuno di inserirlo nel discorso soltanto come esempio: quanto all'allevamento degli uomini, invece, esso richiede il massimo sforzo da parte del legislatore per esaminare ed indicare l'epurazione che convenga in ciascun caso e tutti gli altri metodi da seguire.
Per venire subito a noi, l'epurazione dello stato dovrebbe avvenire secondo questa modalità: fra i molti sistemi di purificazione alcuni sono più blandi, altri più duri, e questi ultimi che sono duri sono anche i migliori, ma solo un tiranno che sia nello stesso tempo legislatore potrebbe usarli, mentre un legislatore che privo di quel potere tirannico istituisca una nuova costituzione e nuove leggi, se riuscisse a operare purificazioni secondo la più blanda delle epurazioni, facendo così dovrebbe già ritenersi soddisfatto.
È doloroso il sistema migliore, come tutti medicamenti di questo genere, poiché conduce alla punizione mediante il giusto castigo applicando alla fine la pena della morte e dell'esilio: esso è solito disfarsi di coloro che hanno commesso i più gravi reati, e che sono ormai incurabili e rappresentano un gravissimo danno per lo stato.
Il sistema di epurazione più blando, secondo noi, avviene così: tutti quelli che per mancanza di cibo si dimostrano pronti e preparati a seguire i loro capi per assaltare, essi che non hanno alcun bene, quelli che invece possiedono i beni, costoro dunque, che sono come un morbo sviluppatesi nella città, vengono allontanati il più benevolmente possibile con un eufemismo, stabilendo il nome di “colonia”.
Questo in principio, in un modo o nell'altro, deve fare il legislatore, ma noi ora ci troviamo in una situazione meno penosa di quelle che adesso abbiamo esaminato: nella circostanza presente non si deve infatti escogitare il sistema della colonia né operare una selezione, ma come le acque che scorrono da molte fonti e da molti fiumi in un solo lago, è necessario prestare attenzione e sorvegliare affinché l'acqua che scorre sia la più pura possibile, attingendo una parte di essa, deviandone un'altra e facendola refluire altrove.
E la fatica, a quanto pare, e il rischio sono connessi alla costituzione dello stato.
Ma poiché ora noi compiamo queste operazioni solo con la parola e non nei fatti, sia già avvenuta questa raccolta di uomini, e, secondo il nostro progetto, anche l'epurazione: dopo che infatti avremo messo alla prova con ogni sistema di persuasione e per tutto il tempo necessario i malvagi fra quanti tentano di venir ad essere cittadini del nostro stato, impediremo loro di entrarvi, mentre con benevolenza e con gioia introdurremo, nei limiti delle nostre possibilità, le persone oneste.
Non dobbiamo ignorare la buona sorte che ora ci tocca e che, abbiamo detto, accompagnò la formazione delle colonie degli Eraclidi, secondo cui è possibile evitare quella terribile e pericolosa contesa riguardante la remissione dei debiti e la distribuzione delle terre.
E quando uno stato fondato in tempi antichi si vede costretto a fissare leggi su tale materia non può da un lato lasciare la situazione immutata, ma neppure mutarla secondo un certo orientamento: allora gli rimane solo, per così dire, una preghiera e il desiderio di una piccola e cauta riforma che operi gradualmente e in un lungo arco di tempo le novità seguenti.
Se ci sono sempre dei riformatori che dispongono di un'abbondanza di terra, e hanno molti debitori, e se desiderano venire incontro alle loro difficoltà rendendoli partecipi dei loro beni, grazie ad un loro sentimento di equità, ora rimettono i debiti, ora distribuiscono le ricchezze, usando un criterio di moderazione e ritenendo che la povertà consista non nella diminuzione della ricchezza, ma nell'aumento dell'insaziabilità.
Questo è allora il principio più importante della salvezza dello stato, e su questo principio come su una solida base è possibile per chiunque edificare in seguito quell'ordinamento politico che si adatta ad una simile formazione dello stato: ma se questa base è marcia, non vi sarà in alcun stato azione politica successiva che sia praticabile.
E a tale inconveniente, come diciamo, noi riusciamo a sfuggire: e tuttavia sarebbe assai giusto dire, nel caso non fossimo riusciti a sfuggire, dove mai potremmo trovare un modo per evitare un simile inconveniente.
E ora possiamo dire che non c'è altra via di scampo, né larga, né stretta, che non sia quel mezzo per cui si rinuncia ad amare in modo eccessivo le ricchezze secondo giustizia: e questo ora noi dobbiamo porre come base su cui poggia lo stato.
Bisogna che le ricchezze non diano luogo in un modo o nell'altro a litigi fra i cittadini, e non è opportuno per coloro che abbiano un po' di cervello procedere volontariamente in nuovi affari se prima non abbiano regolato le antiche questioni concernenti i dissidi reciproci: e per quanti, come per noi ora, il dio diede un nuovo stato da abitare senza che vi fossero inimicizie reciproche, il fatto di diventare causa di odio reciproco per la distribuzione della terra e delle case costituirebbe una totale malvagità e un'ignoranza non concepibile in termini umani.
Qual è dunque il modo di procedere ad una giusta spartizione? In primo luogo bisogna stabilire il numero dei cittadini e vedere quanto dev'essere grande, quindi bisogna convenire sulla distribuzione dei cittadini in classi, e cioè in quante classi bisogna dividerli e quanto numerose devono essere: in base a queste divisioni si devono spartire la terra e le case nel modo più equo possibile. Quanto al numero ideale degli abitanti, esso non può essere scelto secondo nessun'altra corretta procedura che non sia quella di rapportarlo alla terra e agli stati delle regioni vicine. La terra sarà tanto grande quanto può nutrire adeguatamente i cittadini che vivono secondo uno stile di vita temperante, e non dev'essere più grande; quanto al numero di cittadini, essi devono essere in un numero tale da poter scacciare le popolazioni vicine che cercano di aggredirli e venire in loro aiuto nel caso in cui fossero aggrediti, sempre che non si trovino in una condizione di assoluta necessità. E queste cose noi possiamo stabilire non solo in pratica, ma anche in teoria, dopo aver osservato la regione e i vicini: ed ora come se volessimo completare una figura o un disegno, il nostro discorso si sposti sulla legislazione.
Se si deve fissare un numero conveniente, siano stabiliti nel numero di cinquemilaquaranta i proprietari terrieri che siano anche in grado di difendere la loro porzione di terra: terra e case, allo stesso modo, siano divisi in altrettanti lotti, e ad ogni uomo corrisponda perfettamente un lotto.
Si divida dapprima il numero complessivo in due parti, e poi in tre parti: per natura è divisibile in quattro, in cinque, e così di seguito sino a dieci.
Riguardo ai numeri ogni legislatore deve fare una considerazione di questo genere, e cioè quale numero e di qual natura possa essere più utile per gli stati.
Dobbiamo dire che quel numero è quello che contiene in sé più divisori e che siano soprattutto uno di seguito all'altro.
Il numero nel suo complesso implica ogni sorta di divisione in vista di ogni fine: e il numero di cinquemilaquaranta, per quel che riguarda la guerra e tutti i contratti e gli affari che si stipulano in tempo di pace, e relativamente ai tributi e alle distribuzioni, non può essere diviso da più di cinquantanove divisori, di cui il numero dall'uno al dieci sono consecutivi.
Bisogna che con tutta tranquillità comprendano stabilmente queste divisioni coloro cui la legge ha affidato il compito di riceverle: non può essere infatti che così, ma bisogna ora che queste cose siano dette a chi fonda uno stato per questi motivi.
Sia che un tale edifichi un nuovo stato dal principio, sia che ricostruisca un antico stato che era stato distrutto, per quanto riguarda gli dèi e i templi che in uno stato devono essere eretti in onore di ciascuna divinità, e riguardo alle denominazioni che si devono assegnare agli dèi e ai demoni, nessuno che abbia un po' di intelligenza tenterà di mettere in scompiglio quanto hanno rivelato gli oracoli di Delfi, di Dodona, e di Ammone, o quelle antiche leggende che sono diventate oggetto di credenza e che hanno svolto la loro opera di persuasione con la nascita di visioni o grazie alla cosiddetta ispirazione divina; e una volta prestata fede a questi fenomeni, infatti, si istituirono sacrifici combinati insieme a cerimonie religiose, e sia che fossero sorti nella regione, sia che giungessero dalla Tirrenia, dalla Cipria, o da qualsiasi altra regione, in virtù di tali racconti si consacrarono oracoli, statue, altari, templi, e un recinto cinse ciascuno di queste costruzioni sacre.
Ora, il legislatore non deve mutare neppure il particolare più insignificante di queste cose sacre, ma a ciascuna parte dello stato dovrà assegnare un dio, o un demone, o un eroe, e nella divisione della terra darà a queste parti per prime gli appezzamenti scelti e tutto ciò che loro convenga, in modo che in periodi di tempo prefissati avvengano riunioni di cittadini di ciascuna parte dello stato le quali forniscano loro delle agevolazioni in merito ad ogni cosa di cui hanno necessità, ed essi si trattino amichevolmente fra loro durante i sacrifici, e acquisiscano familiarità e si conoscano; e in uno stato non vi è alcun bene più grande di questo, e cioè dell'acquisire appunto familiarità reciproca.
Dove non c'è la luce, ma ombra nelle loro relazioni reciproche, nessuno potrà mai ottenere rettamente quell'onore di cui è degno, né le cariche, né mai quella giustizia che gli spetta: bisogna che ogni uomo in ogni stato si sforzi di far questo, e cioè di non mostrarsi mai ingannevole verso alcuna persona, ma sempre schietto e sincero, e faccia in modo che nessun altro lo inganni essendo tale.
Dopo queste cose operiamo uno spostamento nell'ordinamento delle leggi, come se spostassimo delle pedine dalla linea sacra, spostamento certamente inconsueto, e che forse meraviglierà chi lo ascolta per la prima volta: ma ad un tale che rifletta con attenzione e abbia un po' di esperienza apparirà come una seconda fondazione dello stato dopo quello ideale.
Probabilmente qualcuno non vorrà accettarlo in quanto non adatto ad un legislatore che non sia tiranno: ma la cosa più giusta che si può fare è quella di esporre la costituzione migliore, poi la seconda, ed infine la terza, e esponendole, concedere la scelta a ciascuna persona che abbia l'autorità di fondare uno stato.
Secondo questo ragionamento facciamo così anche noi adesso, dicendo la forma di costituzione che è prima per virtù, la seconda e la terza: a Clinia concediamo ora la scelta, e anche a qualcun altro che sempre volesse, procedendo lungo una scelta del genere, riservarsi secondo il suo costume ciò che gli è caro della sua patria.
La prima forma di stato, e la costituzione e le leggi migliori, si ritrovano laddove si realizzi quanto più è possibile quell'antico detto che dice: davvero comuni sono le cose degli amici.
Se dunque questo detto trovi ora attuazione o la troverà un giorno - avere cioè in comune le donne, in comune i figli, in comune tutte quante le ricchezze -, se con ogni mezzo sia dovunque estirpato dalla vita ciò che si considera privato, se si escogiti il sistema che renda possibile di mettere in qualche modo in comune ciò che per natura è personale, come se ad esempio occhi, orecchi, e mani sembrino vedere, ascoltare, e agire sempre in comune, in modo che tutti quanti insieme, per quanto è possibile, facciano elogi o biasimi e per le stesse cose provino gioia o dolore, se, in sostanza, si voglia stabilire un altro criterio per giudicare la superiorità, rispetto alla virtù, di quelle leggi che cercano di unificare quanto più possono uno stato, non se ne troverebbe un altro più giusto e migliore di questo.
In tale stato, dove sia dèi, sia figli di dèi lo abitano e sono più di uno, i suoi abitanti vivono felici conformandosi a queste regole: perciò non bisogna cercare altrove un modello di costituzione, ma prendendo questa come punto di riferimento, bisogna ricercare quella che le si avvicini il più possibile.
Quanto allo stato cui ora abbiamo messo mano, esso sarà vicinissimo all'immortalità e secondo quanto ad unità: per quanto riguarda il terzo, se il dio lo vuole, lo prenderemo in esame in seguito.
Ma ora come definiremo questa seconda forma di stato e quale diremo che è la sua formazione?
Innanzitutto i cittadini si dividano terra e case, e non lavorino i campi in comune, dato che si è già detto che una cosa del genere sarebbe superiore a uomini che hanno ricevuto l'attuale nascita, formazione, ed educazione: ma si divida in ogni caso tenendo presente questa considerazione, e cioè chi ha ricevuto in sorte questa porzione deve considerarla come proprietà comune di tutto lo stato, e poiché sua patria è la terra deve venerarla di più di quanto i figli devono venerare la madre, ed essendo una dea, è signora degli esseri mortali; e bisogna avere le stesse opinioni riguardo agli dèi locali e ai demoni.
Perché questo assetto si conservi per tutto il tempo si deve considerare che il numero dei focolari che ora noi abbiamo distribuito deve rimanere sempre invariato, e non deve ne aumentare, ne diminuire.
Tale ordinamento può essere mantenuto stabilmente in tutto lo stato in questo modo: chi abbia ricevuto in sorte un lotto lasci fra i figli uno solo erede di questo patrimonio, quello che gli è più caro, che gli succederà e si occuperà degli dèi, della famiglia, dello stato, di quanti vivono e di quanti hanno ormai raggiunto il termine della vita.
Quanto agli altri figli, per quelli che ne hanno più di uno, diano in spose le femmine secondo la legge che stabiliremo in materia, e distribuiscano i maschi come figli a chi manca di discendenza, soprattutto per fare un favore, ma se ad alcuni manchino le occasioni per fare i favori, o se i figli maschi o femmine siano più del dovuto, o anche, al contrario, siano in numero minore, per una crisi delle nascite, di tutti questi problemi dovrà occuparsi l'autorità che abbiamo stabilito come la più importante e la più degna di onori, la quale, valutando che cosa si debba fare in caso di eccesso o di mancanza di figli fornisca un sistema grazie al quale le famiglie saranno sempre e soltanto cinquemilaquaranta.
I sistemi sono molti: si può vietare di procreare a quelli che nella procreazione sono troppo fecondi, e così al contrario si possono attuare le cure e le sollecitudini per incrementare le nascite mediante onori, castighi, e precetti formulati dai più vecchi e rivolti ai più giovani sotto forma di discorsi di esortazione, che permettono di raggiungere lo scopo di cui parliamo.
E se alla fine ci troveremo nell'assoluta difficoltà di mantenere invariato il numero di cinquemilaquaranta famiglie, verificandosi un esubero di cittadini a causa dell'amore reciproco dei coniugi, per questo imbarazzo esiste l'antico rimedio di cui spesso abbiamo parlato, cioè l'invio di colonie, ovvero amici che si separano da amici, formate secondo il criterio dell'opportunità: se al contrario avviene una sciagura che porta con sé un'ondata di malattie, o una rovina a seguito di guerre, e, rimanendo orfana, la popolazione diminuisce rispetto al numero stabilito, non bisogna introdurre volontariamente come cittadini coloro che hanno ricevuto un'educazione illegittima, e neppure il dio, si dice, può fare violenza sulla necessità.
Giunti a questo punto, supponiamo che il discorso che ora stiamo facendo ci esorti con queste parole: «O voi che siete i migliori di tutti gli uomini, non cessate mai di onorare secondo natura la somiglianza e l'uguaglianza, l'identità e ciò che viene stabilito di comune accordo, sia in relazione al numero, sia in relazione alla determinazione propria delle azioni belle e nobili: e anche adesso conservate innanzitutto per tutta la vita il numero di cui si è detto, e quindi non disprezzate l'importanza e la grandezza di quel patrimonio che precedentemente vi siete divisi secondo la giusta misura con la reciproca compravendita - perché in tali azioni non è vostra alleata né la sorte che fece quelle divisioni e che è un dio, né il legislatore -. Ora infatti la legge comanda per la prima volta al trasgressore, premettendo che chi vuole può o no partecipare alle distribuzioni per sorteggio della terra, che, essendo la terra prima di tutto cosa sacra a tutti gli dèi, e quindi dovendo i sacerdoti e le sacerdotesse fare voti nei primi, nei secondi, e anche nei terzi sacrifici, chi effettui compravendite di case o terre ricevute in sorte subisca pene adeguate per operazioni di questo genere. Questi sacerdoti collocheranno nei templi tavole di cipresso che essi avranno scritto, memorie scritte per il tempo futuro, e inoltre come custodi di queste norme, affinché siano attuate, saranno nominati quei magistrati che sembrino possedere vista assai acuta, in modo che non sfuggano loro le trasgressioni che ogni volta avvengono contro quelle, ma puniscano chi disobbedisce alla legge e insieme al dio.
Quanto grande sia il bene dell'attuale legge per tutti gli stati che la accettano, e l'ordinamento corrispondente che ad essa si aggiunga, secondo l'antico proverbio, nessuno che sia malvagio potrà saperlo, ma solo chi è esperto e possiede nobili costumi.
In tale ordinamento non c'è spazio per gli affari, e ad esso segue la norma per cui nessuno deve e può accumulare ricchezze facendo affari propri di persone che non sono libere, in quanto un mestiere considerato così vergognoso devia l'indole libera, ragion per cui non si ammetterà affatto un tale modo di raccogliere ricchezze».
A tutte queste regole segue inoltre la legge secondo cui non è possibile ad alcun privato cittadino possedere oro o argento, ma solo la moneta per gli scambi giornalieri che sono necessari agli artigiani e a tutti coloro che svolgono simili mansioni e devono pagare lo stipendio ai salariati, schiavi e stranieri.
Per questi motivi diciamo che essi devono possedere una moneta che abbia un valore interno, ma che non abbia alcun valore presso le altre genti: si può pensare ad una moneta comune a tutta la Grecia coniata per spedizioni militari e viaggi all'estero presso altre genti, come le ambascerie o qualche altra missione diplomatica di cui abbia bisogno lo stato, quando, in sostanza, si debba danaro straniero che aveva importato.
Chi prende moglie o sposerà la figlia non dia né riceva affatto dote di alcun genere; nessuno poi depositi danaro presso una persona che non sia di sua fiducia, né presti danaro ad interesse, poiché è consentito a chi ha ricevuto il prestito non pagare gli interessi né restituire il capitale.
Queste sono le consuetudini migliori che uno stato possa coltivare, se le si osservi in tal modo e le si giudichi rettamente, riferendole sempre ai principi e alle intenzioni che sono alla base del nostro discorso.
L'intenzione di un uomo politico che abbia un po' di intelligenza, noi diciamo, non è quella che molti ricordano, secondo cui il valente legislatore deve proporsi uno stato che sia il più esteso possibile, al quale rivolga il suo pensiero per stabilire buone leggi, e assai ricco e fornito di oro e di argento, e capace di comandare il maggior numero possibile di popoli per terra e per mare: e forse aggiungerebbero che chi legifera rettamente deve desiderare che lo stato sia il migliore e il più felice possibile.
Di tutte queste cose alcune sono possibili, altre no: e chi ordina uno stato potrà dunque volere ciò che è possibile, mentre sarà una sua velleità volere e tentare l'impossibile.
È quasi una necessità che chi è felice sia nel contempo onesto - e questo potrà volerlo -, ma è impossibile essere assai ricchi ed onesti ad un tempo, almeno se penso a quelli che la maggior parte delle persone considera ricchi: la maggior parte delle persone, infatti, considera ricchi i pochi uomini che dispongono di ricchezze quantificabili in grandi quantità di danaro; ricchezze, queste, che anche un malvagio vorrebbe avere.
Se la questione sta in questi termini, non potrò mai trovarmi d'accordo con chi sostiene che il ricco può diventare davvero felice anche se non è onesto: è impossibile che un tale sia superiore per onestà e per ricchezza nel contempo.
«Perché?», domanderà qualcuno.
«Perché», risponderemmo noi,«l'entrata che proviene da un'azione giusta e da una ingiusta è più del doppio di quella che proviene solo dall'azione giusta, e le spese di chi non vuole spendere né bene né male sono doppiamente minori di chi desidera fare spese oneste e per onesti motivi: non può allora diventare più ricco chi si comporta esattamente all'opposto di coloro che hanno doppie le entrate e dimezzate le spese».
Fra questi l'uno è onesto, l'altro non è malvagio se è economo, anche se talvolta può essere assai malvagio, in ogni caso non può essere mai onesto nel senso in cui lo si è inteso ora.
Chi si è arricchito in modo giusto o ingiusto e non spende né in modo giusto, né in modo ingiusto, se è anche economo, è ricco, chi invece è assai malvagio, essendo scialacquatore sotto molti aspetti, sarà assolutamente povero: ma chi fa spese oneste e chi si procura ricchezza solo attraverso giusti guadagni non potrà facilmente distinguersi per ricchezza e neppure diventare troppo povero.
Sicché è corretto il nostro ragionamento, secondo il quale, appunto, coloro che sono assai ricchi non possono essere onesti, e, di conseguenza, se non sono onesti, non possono neppure essere felici.
Il progetto delle nostre leggi si orientava in questa direzione: fare in modo cioè che i cittadini siano il più possibile felici e quanto più concordi fra di loro.
E i cittadini non saranno mai concordi dove molti saranno i processi celebrati gli uni contro gli altri e molte le ingiustizie, ma lo saranno dove queste cose saranno di scarsa importanza e ridotte ad un numero piccolissimo.
Noi diciamo allora che nello stato non devono esserci né oro, né argento, né un eccessivo volume di affari procurato mediante vili mestieri, usura, e turpe commercio di bestiame, ma quanto offre e produce la coltivazione della terra, e anche di questi non ci si deve arricchire in misura tale da trascurare il fine per cui nascono le ricchezze: mi riferisco all'anima e al corpo, che senza la ginnastica ed il resto dell'educazione non possono diventare degni di considerazione.
Perciò abbiamo detto più di una volta che bisogna riservare alla cura delle ricchezze l'ultimo posto negli onori: poiché fra tutte le cose sono tre quelle intorno a cui si concentrano le attenzioni degli uomini, la cura delle ricchezze occupa l'ultimo e terzo posto, se è correttamente inteso, le cure del corpo la posizione intermedia, e la cura dell'anima il primo posto.
E anche adesso, a proposito della costituzione che stiamo trattando, se si rispetta questa scala di valori, essa risulterà perfettamente costituita: ma se qualcuna delle leggi che sono stabilite risulterà nello stato rendere onore alla salute prima che alla temperanza, o alla ricchezza prima che alla salute e alla temperanza, è evidente che questa legge non sarà concepita in modo giusto.
Bisogna che il legislatore sottolinei frequentemente questo punto: «Che cosa intendo compiere?», e «Mi accade che questo si verifichi, oppure mi allontano dallo scopo?».
Così probabilmente potrà realizzare la legislazione, liberando gli altri da questa responsabilità, mentre non potrà mai fare in altro modo.
Chi dunque abbia ricevuto in sorte il proprio lotto, diciamo, lo possegga secondo le condizioni di cui prima si è detto.
Sarebbe bello che ciascuno giungesse nella colonia avendo uguali anche tutte le altre cose: e dato che ciò non è possibile, ma vi giungerà chi possiede più ricchezze e chi ne possiede di meno, bisogna che per molte ragioni, e specialmente perché vi sia una certa uguaglianza nelle diverse fasi della vita dello stato, ci siano classi di cittadini disuguali per censo, in modo che cariche, tributi, e distribuzioni, che vengono rapportati al valore di ciascuno, non siano regolati soltanto in base all'onore degli antenati o al proprio, né in base alla forza o alla bellezza dei corpi, ma anche secondo l'uso della ricchezza e la povertà, per cui, ricevendo onori e cariche nel modo più equo possibile proprio grazie a questa proporzionata disuguaglianza, non nascano discordie.
Per queste ragioni bisogna costituire quattro classi censuarie in base all'entità del patrimonio, assegnando ai componenti delle singole classi i nomi di primi, secondi, terzi, e quarti, o con quali altri nomi li si vogliono chiamare, sia che rimangano nella stessa classe, sia che - diventati più ricchi da poveri che erano, o poveri da ricchi - passino ciascuno nella classe che loro si adatta.
Su queste basi, io stabilirei il seguente progetto di legge: bisogna che in uno stato, diciamo, che non vuole convivere con quel gravissimo male che sarebbe più giusto chiamare “divisione” piuttosto che “sedizione”, non vi sia né una molesta condizione di povertà presso alcuni suoi cittadini e neppure la ricchezza, perché l'una e l'altra condizione determinano rispettivamente questi due mali: ora dunque il legislatore deve definire il limite di questi due mali.
Come limite della povertà sia fissato il valore del lotto ricevuto in sorte, il quale deve rimanere così com'è, e nessun magistrato e allo stesso modo nessuno fra gli altri che sia ambizioso di conseguire la virtù permetterà ad alcuno di renderlo minore.
Fissato quel limite come unità di misura, il legislatore permetterà che si possegga il doppio, il triplo, sino al quadruplo di quel lotto: e se uno possiederà sostanze oltre questi limiti, o perché le ha trovate, o perché gli sono state donate, o perché le ha guadagnate, o perché ne è venuto in possesso per altre circostanze di questo genere, distribuendo le ricchezze in eccesso allo stato e agli dèi che reggono lo stato, godrà di buona fama e non sarà punito; ma se qualcuno disobbedisce a questa legge, chiunque lo voglia potrà denunciarlo con la condizione di avere la metà di quel patrimonio in eccesso, e il colpevole stesso pagherà un'altra parte corrispondente all'intero suo acquisto, mentre l'altra metà sarà versata agli dèi.
Ogni acquisto che superi il lotto che tutti hanno ricevuto in sorte sia iscritto in un pubblico registro tenuto in custodia dai magistrati incaricati dalla legge, in modo che i processi riguardanti gli arricchimenti illeciti siano facili e assolutamente chiari.
Dopo di che bisogna che innanzitutto la città sia collocata al centro della regione, avendo prima scelto il luogo che offre tutti quei vantaggi che può offrire ad una città, e che non è affatto difficile pensare o dire: bisogna quindi che il legislatore divida la città in dodici parti, dopo aver stabilito innanzitutto il luogo sacro a Estia, a Zeus, e ad Atena, e che prenderà il nome di “acropoli”.
Quindi, dopo averlo recintato tutt'intorno, da quel luogo prenderà avvio la divisione in dodici parti della città stessa e di tutta la regione.
Le dodici parti dovranno essere equivalenti, e cioè più piccole quelle che hanno terra buona e più grandi quelle che hanno terra peggiore.
Bisognerà dividere cinquemilaquaranta lotti, e a sua volta ciascuno di questi andrà diviso in due porzioni, e le due porzioni verranno assegnate a sorte perché una delle due sia vicina alla città, l'altra lontana: il primo lotto sarà formato dalla porzione più vicina alla città con quella che si trova presso gli estremi confini, il secondo lotto dalla seconda porzione partendo dal centro della città con quella seconda porzione partendo dai confini, e così per tutti gli altri.
Anche in queste divisioni in due bisogna escogitare il sistema che ora si è detto sul valore o meno del terreno, facendo equivalere la grandezza o la piccolezza della parte assegnata.
Anche i cittadini dovranno essere divisi in dodici parti, e così il resto del patrimonio si dovrà ordinare in dodici parti che siano il più possibile uguali, dopo averle tutte inventariate: e dopo aver dedicato dodici lotti a dodici dèi, si dia a ciascuna parte il nome di ciascun dio cui essa è stata assegnata in sorte e gliela si consacri, e si chiami ciascuna “tribù”.
Allo stesso modo la città dev'essere divisa in dodici parti così come si è diviso anche il resto della regione: e ciascuna avrà due case, una vicina al centro, l'altra vicino agli estremi confini.
E abbia così termine la fondazione dello stato.
Bisogna che facciamo in ogni caso questa considerazione, e cioè che tutto ciò che ora abbiamo detto non può avvenire sempre in circostanze tali che si verifichi tutto secondo il nostro ragionamento: cittadini, per intenderci, che non siano maldisposti verso una comunità organizzata in questo modo, ma, anzi, che tollerino di avere ricchezze limitate e modeste per tutta la vita, e di generare figli secondo le prescrizioni che abbiamo detto per ciascuno, e di essere privati dell'oro e delle altre cose che espressamente il legislatore proibirà secondo quanto si è detto prima, e poi ancora, il rapporto fra il centro della città e la regione circostante, e le abitazioni tutt'intorno, come il legislatore ha detto, parlando come fosse in un sogno, o plasmando uno stato e i suoi cittadini come sulla cera.
Tali osservazioni non sono malvagie, e bisogna che il legislatore le riprenda in se stesso in questo modo.
Ecco che dunque il legislatore parla nuovamente così: «Non pensate, amici, che in questi discorsi non mi sfugga che proprio quanto si è detto ora ha riguardato in un certo senso l'esposizione di cose vere.
Ma in ogni progetto per il futuro ritengo che sia assai giusto che chi presenta un modello, spiegando come l'opera intrapresa deve realizzarsi, non deve trascurare ciò che è più bello e più vero.
Se poi gli risulta impossibile che una di queste cose si realizzi, deve lasciarla perdere e non cercare di compierla, mentre deve trovare il sistema di realizzare quella che fra le restanti cose le è più vicina ed è più affine a ciò che conviene realizzare.
Al legislatore si conceda di portare a termine quanto intende fare, e una volta che lo ha portato a termine, allora si dovrà valutare insieme a lui che cosa è utile delle cose dette e che cosa è molesto della sua legislazione: d'altra parte, anche l'artigiano che godrà della più scarsa considerazione deve rendere in ogni caso la sua opera coerente a se stessa».
Ed ora, dopo aver convenientemente diviso lo stato in dodici parti, dobbiamo sforzarci di vedere in che modo le dodici parti, che contengono al loro interno moltissime divisioni, e quelle che ad esse si accompagnano, e altre ancora che nascono da quest'ultime, sino a giungere al numero di cinquemilaquaranta - di qui le fratrie, i demi, i villaggi, e il disporre e il condurre gli eserciti in battaglia, e ancora il sistema monetario e le misure di solidi e liquidi, e i pesi - in che modo allora la legge debba evidentemente fissare le proporzioni di tutte queste cose e i loro reciproci accordi.
Non si abbia inoltre paura di essere accusati di pedanteria, dato che, secondo le disposizioni impartite, tutti quanti gli utensili che si posseggono non possono superare le misure consentite, e si ritiene comunemente che in ogni circostanza siano utili le divisioni e le combinazioni di numeri, sia che avvengano in se stesse, sia che si combinino con la lunghezza e la profondità, e nei suoni e nei movimenti diretti verso l'alto, verso il basso, e nei movimenti circolari: tenendo in considerazione tutte queste cose il legislatore deve ordinare a tutti i cittadini di non trascurare, nei limiti del possibile, un simile ordinamento.
In vista dell'economia domestica, della costituzione, e di qualsiasi altra arte, nessuna disciplina appresa da bambini ha un'importanza così grande come lo studio dei numeri: ma la cosa più importante è che questo studio sveglia chi è indolente e ha naturali difficoltà di apprendimento, rendendolo ben disposto ad apprendere, capace di ricordare, e perspicace, e lo fa progredire oltre la sua natura in virtù di un artificio divino.
In seguito, se con altre leggi e con altri metodi si riesca ad estirpare l'illiberalità e l'amore sfrenato per le ricchezze dall'anima di chi vuole studiare queste discipline in modo adeguato e vantaggioso, allora esse potrebbero diventare un nobile e conveniente metodo educativo: in caso contrario, si compie inconsapevolmente quella che si definisce un'operazione astuta al posto della sapienza, come ora si può vedere presso gli Egiziani e i Fenici, e molti altri popoli che sono stati formati dall'illiberalità propria di altri costumi e di altri generi di ricchezze, ridotti a tale livello da un legislatore di scarso valore, o per una sorte sventurata, o per un altro caso simile voluto dalla natura.
E infatti, Megillo e Clinia, non dobbiamo dimenticarci che ci sono luoghi differenti rispetto ad altri per la generazione di uomini migliori o peggiori, e la legge non deve opporsi a questi fattori: alcuni infatti si rivelano prodigiosi e propizi grazie alle varie influenze dei venti e all'azione del sole, altri per le acque, altri ancora per lo stesso nutrimento che proviene dalla terra, che non solo è in grado di fornire ai corpi alimenti migliori o peggiori, ma è non meno capace di sortire gli stessi effetti sulle anime.
Fra tutti questi luoghi saranno assolutamente superiori quelli in cui spira un certo soffio divino e che sono stati assegnati in sorte a demoni, che possono accogliere benevolmente o meno quelli che sempre verranno ad abitarli.
E un legislatore che abbia un po' di intelligenza, sulla base dell'osservazione di questi fattori, per quanto un uomo è capace di osservare tali cose, tenterà di stabilire in questo modo le leggi.
E questo è quello che devi fare tu, Clinia, dato che questa è la prima cosa cui deve pensare chi vuole colonizzare una regione.
CLINIA Quello che dici è giustissimo, straniero di Atene, ed io devo fare così.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO SESTO
ATENIESE: Dopo tutto quello che è stato detto ora, credo che tu possa istituire nel tuo stato le magistrature.
CLINIA: E' così.
ATENIESE: Vi sono allora due fasi nell'ordinamento dello stato: la prima fase riguarda l'istituzione delle magistrature e la nomina dei magistrati, quante devono essere e in che modo vengono istituite; in seguito si devono assegnare le leggi per ciascuna magistratura, e vedere quante e quali sono adatte a ogni singola magistratura. Ma prima di fare questa scelta fermiamoci un momento, e facciamo un certo discorso che si rivela adatto a questo proposito.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Questo. è chiaro a chiunque il fatto che, pur essendo di grande importanza l'opera legislativa, se uno stato ben costituito mettesse a capo delle sue leggi ben stabilite magistrati incapaci, non solo non si avrebbe alcun vantaggio da quelle leggi ben stabilite, derivandone anzi una grande risata, ma da esse credo che scaturirebbero i danni più ingenti e le vergogne più turpi per gli stati.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Dobbiamo pensare che questo è il rischio che ora può capitare nella tua costituzione e nel tuo stato, amico. Anche tu ti rendi conto che coloro che vogliono accedere correttamente alle cariche pubbliche devono prima di tutto aver fornito una prova adeguata, essi stessi e la famiglia di ciascuno, dalla giovinezza sino all'età dell'elezione, e in secondo luogo è necessario che coloro che dovranno compiere la scelta si siano formati nelle consuetudini delle leggi e siano stati ben educati in modo da essere in grado di scegliere ed escludere rettamente, con la loro disapprovazione o approvazione, chi sia degno dell'una o dell'altra sorte: e allora nel nostro caso, persone che si sono appena riunite e non si conoscono fra di loro, ancora prive di educazione, come potrebbero compiere una scelta eccellente dei magistrati?
CLINIA: Non sarebbe possibile.
ATENIESE: Ma dicono che la gara non ammette scuse: e ora io e te dobbiamo allora fare questa cosa, poiché tu hai dato la tua parola al popolo dei Cretesi per impegnarti, insieme ad altri nove, nella fondazione di quello stato, come ora dici, e io perché ti ho promesso che ti avrei aiutato in questo racconto che ora noi stiamo facendo. Dunque non lascerei volentieri senza una testa il discorso che sto facendo: infatti, vagando in ogni luogo in tali condizioni sembrerebbe senza forma.
CLINIA: Quello che dici è giustissimo.
ATENIESE: Non solo, ma farò così, per quanto mi è possibile.
CLINIA: Senza dubbio, facciamo così come diciamo.
ATENIESE: Sarà così, se il dio lo vuole e se vinceremo la nostra vecchiaia sino a tal punto.
CLINIA: è verosimile che il dio lo voglia.
ATENIESE: Sì, è verosimile. Seguiamolo e prendiamo in esame questo punto.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Il fatto che con coraggio e a costo di correre dei pericoli nella presente circostanza verrà da noi fondato questo stato.
CLINIA: A che cosa pensi, e come soprattutto hai ora potuto fare questa affermazione?
ATENIESE: Mi riferisco al fatto che con estrema facilità e senza timori noi stiamo legiferando per uomini inesperti, perché mai accolgano un giorno le leggi che ora sono state fissate. In ogni caso è chiaro a chiunque, Clinia, anche a chi non ha affatto sapienza, che in principio nessuno le accetterà facilmente, ma bisognerà che noi attendiamo che i giovani abbiano gustato le leggi, e cresciuti insieme a quelle e acquisita nei loro confronti una sufficiente familiarità, possano prendere parte all'elezione dei magistrati che si svolgono nello stato: avvenuta questa cosa di cui parliamo, sempre che avvenga secondo un certo meccanismo e in modo corretto, io credo che d'ora in poi vi saranno probabilità assai sicure che uno stato educato in questo modo sarà destinato a durare.
CLINIA: E questo è logico.
ATENIESE: Vediamo allora se procedendo lungo questa direzione troviamo una strada adatta alla nostra ricerca. Io sostengo, Clinia, che i Cnossi, diversamente dagli altri Cretesi, non debbano consacrare in maniera sbrigativa la regione che voi ora colonizzate, ma impegnarsi intensamente perché le principali magistrature, nei limiti del possibile, si basino sulle fondamenta più solide e migliori. Per quanto riguarda le altre, si tratta di un lavoro più breve, mentre è assai necessario che con ogni sforzo noi scegliamo per primi i custodi delle leggi.
CLINIA: Qual è la strada che porta a questo scopo, e quale criterio troveremo?
ATENIESE: Eccola. Io dico, o figli di Creta, che i Cnossi, per il fatto di avere una tradizione politica più antica rispetto agli altri stati, devono scegliere, insieme agli altri che sono giunti per fondare questa colonia, fra loro e fra quelli, trentasette uomini in tutto, diciannove fra i coloni, gli altri fra gli abitanti della stessa Cnosso: i Cnossi daranno al tuo stato questi uomini, e ti persuaderanno, facendoti una lieve violenza, ad essere cittadino di questa colonia, ed uno dei diciotto.
CLINIA: Perché anche tu e Megillo, straniero, non venite a far parte del nostro stato?
ATENIESE: Troppo orgogliosa, Clinia, è Atene, e troppo orgogliosa è anche Sparta, e le une e le altre sono troppo distanti: per te, invece, la cosa è ragionevole sotto tutti gli aspetti, e lo stesso discorso vale per gli altri abitanti della colonia. E se ciò che avviene adesso è quanto di più opportuno può avvenire in seguito a questi fatti, si dica come avverrà l'elezione dei magistrati, quando sarà passato un po' di tempo e la costituzione dello stato avrà consolidato le sue basi. All'elezione dei magistrati prendano parte tutti coloro che portano le armi come cavalieri o come fanti, e abbiano partecipato alla guerra, nei limiti delle forze consentite dalla loro età: l'elezione si tenga nel tempio che la città ritiene più degno di onori, e ciascuno porti all'altare del dio il suo voto, dopo aver scritto sopra una tavoletta il nome del padre del candidato, della tribù e del demo al quale appartiene, e abbia aggiunto accanto il proprio nome, secondo lo stesso procedimento.
Sia concesso a chi lo vuole di levar via una qualsiasi tavoletta che non appaia opportunamente scritta, e di collocarla sulla piazza per un periodo non inferiore ai trenta giorni. I magistrati mostrino pubblicamente a tutto lo stato le tavolette che saranno scelte fra le prime, sino al numero di trecento, e, secondo le stesse procedure, lo stato torni nuovamente a votare chi di questi ciascuno vorrà votare, e i primi cento candidati prescelti in questo secondo turno siano nuovamente mostrati a tutti. Si voti infine per la terza volta e si scelga il candidato che si vuole fra quei cento, facendo riti di giuramento: e i trentasette cui andranno la maggioranza dei voti, siano giudicati e dichiarati magistrati.
Ma quali uomini, Clinia e Megillo, organizzeranno tutto ciò nel nostro stato riguardo alle magistrature e alla valutazione dei magistrati? Non pensiamo che in stati appena uniti insieme si presenti la necessità che ci siano alcune persone preposte a tutte le magistrature, ma che in realtà non è possibile che ci siano? In un modo o nell'altro bisogna trovarli, e non uomini di scarso valore, ma assai validi. Nei proverbi si dice che il principio è a metà di tutta l'opera, e noi ogni volta elogiamo quando si comincia bene: ed anzi, per quel che mi sembra, cominciare bene è già più della metà, e nessuno lo ha mai elogiato abbastanza, quando si è ben realizzato.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Consapevoli di questo, non trascuriamo la questione lasciando che passi sotto silenzio, senza cercare di chiarire a noi stessi in quali termini si può risolverla. Quanto a me, non saprei trovare nessun altro discorso se non uno soltanto che in questo momento mi sembra necessario ed utile.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Io dico che questo stato che abbiamo intenzione di fondare non ha, per così dire, un padre o una madre che non sia lo stato stesso che lo fonda, pur non essendo ignaro del fatto che vi sono state e vi saranno sempre molte discordie fra gli stati che sono stati fondati e quelli fondatori. Ora, nella circostanza presente, il nostro stato, come un bambino, se anche un giorno entrerà in discordia con i suoi genitori, ama ed è amato dai genitori, venendosi ancora a trovare nelle difficoltà proprie della fanciullezza, e sempre si rifugia presso i familiari, trovando soltanto in essi i necessari alleati: e questi rapporti di cui ora parlo hanno immediatamente riguardato i Cnossi nei confronti del nuovo stato, grazie all'impegno che essi si sono assunti nei confronti di quella colonia, e il nuovo stato nei confronti dei Cnossi.
Io dico, come ho detto adesso - ma ripetere due volte la cosa ben detta non fa male - che i Cnossi devono insieme prendersi cura di tutte queste cose, scegliendo non meno di cento uomini fra coloro che sono giunti nella colonia, presi nei limiti del possibile fra i più anziani e i migliori; e ad essi si aggiungano altri cento presi tra gli stessi Cnossi. Bisogna che costoro, e lo ripeto, una volta giunti nel nuovo stato, uniscano i loro sforzi insieme a quei cento per istituire le magistrature secondo le leggi, e, dopo che sono state istituite, esaminare i magistrati: svolti questi compiti, i Cnossi torneranno ad abitare a Cnosso, mentre il nuovo stato cercherà da solo di mantenersi e di prosperare. Quelli che fanno parte dei trentasette magistrati, ora e in futuro, per tutto il tempo, siano eletti per queste funzioni: prima di tutto siano custodi delle leggi, e in seguito di quei registri sui quali ciascuno avrà denunciato per scritto ai magistrati l'entità del proprio patrimonio, fatta eccezione di quattro mine per chi appartiene alla prima classe, di tre per chi appartiene alla seconda, di due per la terza, e di una per la quarta. Se qualcuno risulterà possedere altro patrimonio oltre a quello che ha denunciato, gli venga confiscata questa eccedenza, ed inoltre chi vuole intenti una causa contro di lui, non bella e neppure onorata, ma turpe, se viene riconosciuto colpevole di disprezzare le leggi a causa dei guadagni che ha realizzato. Dopo averlo denunciato per turpe guadagno, chi vuole lo conduca in tribunale dinanzi agli stessi giudici custodi delle leggi: e se l'accusato viene riconosciuto colpevole, non prenda parte dei beni comuni, e se vi sia una distribuzione nello stato, rimanga escluso tranne per il lotto ricevuto in sorte, e sia scritta la sua condanna, finché vive, in un luogo dove chiunque vuole potrà prenderne conoscenza. Il custode delle leggi non rimanga in carica più di vent'anni, e non sia eletto a tale magistratura prima dei cinquant'anni: e chi viene eletto a sessant'anni rimanga in carica solo dieci anni, e così di seguito, secondo la stessa proporzione, in modo che chi oltrepassi i settant'anni, non pensi di esercitare una carica così autorevole fra questi magistrati.
Queste dunque sono le tre tre regole che riguardano i magistrati che custodiscono le leggi, e, procedendo innanzi la legislazione, sarà ciascuna delle leggi che prescriverà a questi uomini di che cosa essi dovranno occuparsi, oltre alle cose che sono state dette ora: adesso parliamo, qui di seguito, dell'elezione delle altre magistrature. Dopo i custodi delle leggi, bisogna eleggere gli strateghi, e assegnare loro, come aiutanti in guerra, gli ipparchi, i filarchi, e coloro che ordinano le schiere di fanti per tribù, ai quali si adatterebbe benissimo quel nome di “tassiarchi” con cui generalmente li chiamano. Fra tutti questi i custodi delle leggi propongano gli strateghi scelti da tutto il corpo dello stato, e fra coloro che sono stati proposti venga effettuata la scelta da parte di tutti quelli che hanno partecipato alla guerra in gioventù, e vi partecipano ogni volta che si presenti la necessità. Se a qualcuno sembri che uno degli esclusi sia migliore di qualcuno di quelli che invece sono stati proposti, faccia il nome di chi propone e di chi vuole sostituito, e dopo aver giurato faccia la contro proposta: chi dei due risulti eletto mediante alzata di mano, sia giudicato fra gli eleggibili. I tre che avranno ricevuto più voti per alzata di mano saranno strateghi, e amministreranno gli affari della guerra, dopo essere stati esaminati come i custodi delle leggi. Gli strateghi eletti proporranno i loro dodici tessiarchi, un tessiarco per ogni tribù, e la controproposta, la votazione, e l'esame avverranno per i tassiarchi secondo le stesse modalità seguite per gli strateghi. Questa assemblea, al momento attuale, prima che siano eletti i pritani e il consiglio, sarà convocata dai custodi delle leggi, nel luogo più sacro e più adatto, e vi siederanno gli opliti separati dai cavalieri, e in terzo luogo, tutto quanto il contingente militare: tutti eleggeranno per alzata di mano gli strateghi e gli ipparchi; per i tassiarchi votino coloro che portano gli scudi; tutta quanta la cavalleria elegga i filarchi; mentre gli strateghi eleggano i capi dei fanti armati alla leggera, degli arcieri e di qualche altro settore dell'esercito. Ci rimane ancora da parlare dell'elezione degli ipparchi. Questi siano proposti da coloro che proposero anche gli strateghi, e la scelta e la controproposta avvengano secondo le stesse modalità: la cavalleria li voterà alla presenza e sotto gli occhi della fanteria, e i due cui andrà la maggioranza dei voti saranno i comandanti di tutti i cavalieri. Le contestazioni per alzata di mano possono essere sino a due: se si farà una terza contestazione decideranno coloro cui è affidata l'enumerazione di ciascun voto. Il consiglio dev'essere composto di trenta dozzine - il numero di trecentosessanta membri si adatterebbe bene alle suddivisioni -: e si dividano allora questi membri in quattro parti di novanta membri ciascuna, in modo che in ogni classe si votino novanta consiglieri. In primo luogo dovranno tutti necessariamente votare per quelli della prima classe, e chi non obbedisca sia punito secondo la pena stabilita: concluse le votazioni, i voti siano contrassegnati, il giorno dopo si voti per quelli della seconda classe seguendo le stesse procedure di prima, il terzo giorno per quelli della terza classe, e voti chi vuole, ma il voto è obbligatorio per gli appartenenti alle prime tre classi, mentre quelli della quarta ed ultima classe siano liberi da pena se non vogliono votare. Il quarto giorno tutti votino per la quarta e ultima classe, e siano liberi da pena gli appartenenti alla quarta o terza classe che non abbiano intenzione di votare: ma chi non voti e appartiene alla seconda e alla prima classe sia punito, quelli della seconda classe con una pena tripla rispetto a quella del primo giorno, quelli della prima con una pena quadrupla. Il quinto giorno i magistrati renderanno pubblici i nomi contrassegnati, perché tutti i cittadini possano venirne a conoscenza, e tutti dovranno votare, altrimenti vi sarà la pena pari a quella del primo giorno: scelti così centottanta da ogni classe, ne verranno tratti a sorte la metà, e, una volta esaminati, saranno i consiglieri per quell'anno.
Il sistema elettorale che avvenga in questi termini si trova ad essere in mezzo fra la costituzione monarchica e quella democratica, e sempre in mezzo ad esse deve trovarsi la costituzione: infatti schiavi e padroni non potranno mai diventare amici, e neppure uomini di scarso valore e uomini valenti lo diventeranno in base ad un decreto sull'uguaglianza, dato che per gli ineguali l'uguaglianza diventa ineguaglianza, se non vi è la misura.
E a causa di questi due elementi, le costituzioni sono piene di sedizioni. è vero quell'antico detto, secondo cui l'uguaglianza produce amicizia, ed è un detto assai giusto e conveniente: ma poiché non si capisce con sufficiente chiarezza quale sia questa uguaglianza che è in grado di produrre questa cosa, questo dubbio ci mette in grande difficoltà. Vi sono infatti due specie di uguaglianza, che hanno sì lo stesso nome, ma in pratica sono quasi opposte, sotto molti aspetti: per quanto riguarda la prima specie, qualsiasi stato e qualsiasi legislatore può introdurla nella distribuzione degli onori, e riguarda l'uguaglianza nella misura, nel peso, e nel numero, e nelle suddivisioni si può regolare con il sorteggio; quanto alla seconda, essa è la più autentica e la migliore uguaglianza, e non tutti possono vederla facilmente. Solo Zeus è in grado di scorgerla, e agli uomini viene sempre raramente in soccorso, ma per quanto venga in aiuto a stati e a privati cittadini, realizza ogni sorta di beni: al maggiore distribuisce di più, al minore di meno, assegnando all'uno e all'altro quanto è conveniente secondo loro natura, e attribuisce onori maggiori a chi possiede maggiore virtù, mentre a coloro che si trovano nella condizione opposta per virtù ed educazione assegna ciò che loro conviene in proporzione. Questa giustizia riguarda secondo noi anche la sfera politica: e prendendo di mira e considerando questa uguaglianza, Clinia, noi dobbiamo costruire lo stato che ora sta nascendo. E se qualcuno mai fondi un altro stato, deve legiferare in vista dì questo stesso fine, e non nell'interesse di un piccolo numero di tiranni, o di uno solo, o del potere del popolo, ma sempre in vista della giustizia intesa nel senso che abbiamo detto adesso, e cioè capace di assegnare ogni volta agli ineguali l'uguaglianza, che spetta loro per natura. è necessario che ogni stato adoperi tali denominazioni, se non vuole partecipare in qualche sua parte delle sedizioni che talvolta possono nascere: l'equità, infatti, e l'indulgenza sono un'infrazione del significato compiuto e perfetto della giustizia autentica, quando ciò avviene, e perciò bisogna servirsi dell'uguaglianza della sorte per contrastare il malumore della folla, invocando allora, nelle nostre preghiere, il dio e la buona fortuna perché dirigano la sorte nella direzione di ciò che è più giusto. Così ci si deve necessariamente servire delle due forme di uguaglianza, ma il più raramente possibile della seconda, perché necessita della sorte.
Per queste ragioni, amici, uno stato che vuole conservarsi in modo duraturo deve comportarsi in questo modo: perché come una nave che traversa il mare ha bisogno sempre, giorno e notte, di protezione, così uno stato che passa in mezzo ai marosi degli altri stati e vive nel continuo pericolo di essere colto dalle insidie, ha bisogno che dal giorno sino alla notte, e dalla notte sino alla venuta del giorno, i magistrati si succedano ai magistrati, i guardiani sì sostituiscano ai guardiani, senza mai cessare di trasmettersi le consegne. E poiché la massa non sarà mai in grado di svolgere nessuna di queste operazioni con rapidità, è necessario che, mentre la maggior parte dei consiglieri viene lasciata riposare per lunghi periodi di tempo, attendendo ai propri affari e disponendo in ordine le proprie case, si assegni lo stato, nel corso dei dodici mesi, alla dodicesima parte di essi, in modo che, a turno, questi custodi sappiano trattare prontamente con chi viene da fuori o anche dallo stato stesso, sia che costui venga con l'intenzione di recare notizie, sia che voglia richiedere qualcuna di quelle informazioni che conviene che uno stato fornisca ad altri stati, o delle quali conviene che riceva risposta, se lo stato abbia interrogato altri stati; ed inoltre essi dovranno vigilare perché non si verifichino quelle insurrezioni politiche di ogni genere che ogni volta sono solite avvenire nello stato, e se accadono, dovranno informare il più presto possibile lo stato perché ponga rimedio a quanto è accaduto. Per tali ragioni questo corpo che è a capo dello stato deve sempre avere l'autorità di convocare o di sciogliere le assemblee, sia quelle che si svolgono secondo la legge, sia quelle che si tengono in situazioni di emergenza improvvisa per lo stato. Sarà la dodicesima parte del consiglio che disporrà tutte queste cose, mentre si riposerà negli altri undici mesi dell'anno: ma questa parte del consiglio deve esercitare tale vigilanza sullo stato in comune accordo con gli altri magistrati.
Tutto ciò che riguarda lo stato è stato ordinato come si doveva: quale cura, invece, e quale disposizione bisogna assegnare a tutto il resto della regione? E dal momento che tutta la città e tutta la regione sono state divise in dodici parti, non bisogna designare dei soprintendenti che si prendano cura delle strade della stessa città, delle case, degli edifici, dei porti, della piazza, delle fontane, dei luoghi sacri, dei templi, e di altre cose simili?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Diciamo allora che ai templi si devono assegnare guardiani, sacerdoti, e sacerdotesse. Quanto alle strade, agli edifici, e al loro ordine, affinché sia gli uomini, sia le bestie non causino danni, e perché venga mantenuto l'ordine che si conviene alle città tanto all'interno della stessa cinta muraria della città, quanto nei sobborghi esterni, bisogna eleggere tre specie di magistrati e chiamare “astinomi” quelli che si occupano di quanto si è appena detto, “agoranomi” invece coloro che si occupano dell'ordine relativo alla piazza. Non si devono toccare quei sacerdoti e quelle sacerdotesse dei templi che hanno ricevuto la dignità sacerdotale dai padri: ma se, com'è naturale che avvenga in tali stati che vengono fondati per la prima volta, non ve ne siano, o ve ne siano pochi, se non sono stati istituiti, bisogna istituire sacerdoti e sacerdotesse che siano guardiani degli dèi. Nell'atto di istituire tutte queste cariche, bisogna che alcune siano elette, altre tirate a sorte, mescolando, in vista della reciproca concordia, il demo con chi non appartiene al demo, in ogni regione e città, per giungere alla massima concordia. Quanto alle cariche sacerdotali, sia lasciata al dio stesso la facoltà di scegliere quello che più gli è gradito, e si proceda al sorteggio, affidando così l'elezione alla sorte divina: si esamini quindi il sorteggiato per vedere se in primo luogo sia fisicamente integro e di nobile stirpe, e se, in secondo luogo, proviene da una famiglia conservatasi il più possibile pura, e ancora, se lo stesso sorteggiato, e allo stesso modo suo padre e sua madre abbiano vissuto immuni da uccisione e da tutte le altre colpe del genere che si commettono dinanzi agli dèi. Bisogna che le leggi riguardanti tutte le cose divine provengano da Delfi, e si devono seguire, dopo che si sia ricorsi ad interpreti appositamente istituiti per esse. Ciascuna carica sacerdotale deve durare un anno e non più a lungo, e chi vuole adeguatamente esercitare i riti divini secondo le sacre leggi non deve avere, secondo noi, meno di sessant'anni: le stesse regole abbiano validità anche per le sacerdotesse. Gli interpreti siano eletti in tre tempi, e volta a volta quattro tribù eleggano quattro interpreti, e ciascuno provenga da una tribù. I tre ai quali andrà la maggioranza dei voti vengano esaminati, gli altri nove siano inviati a Delfi, dove il dio ne sceglierà uno per ogni terna: quanto alle procedure dell'esame e all'età valgano le stesse regole adottate per i sacerdoti. Costoro però siano interpreti per tutta la vita, e se uno viene a mancare, le quattro tribù eleggano un sostituto dalla tribù donde quello è mancato. Per ciascun tempio siano eletti, fra coloro che appartengono alla prima classe, in qualità di amministratori responsabili delle sacre ricchezze, dei luoghi sacri, dei frutti provenienti da questi, e degli affitti, tre amministratori per i tempi più grandi, due per quelli più piccoli, uno per i più modesti: quanto alla loro elezione e al relativo esame valgano le stesse norme seguite per gli strateghi.
Tali dunque siano le norme che regolano questi riti sacri.
Nulla per quanto è possibile rimanga incustodito. La sorveglianza dello stato sia di competenza degli strateghi, dei tassiarchi, degli ipparchi, dei filarchi, dei pritani, degli astinomi e degli agoranomi, dopo che siano da noi eletti e adeguatamente preparati.
Quanto al resto della regione sia interamente sorvegliato in questo modo. Noi abbiamo diviso l'intera regione in dodici parti il più possibile uguali: ogni tribù, cui è stata assegnata per sorteggio ciascuna di queste parti, offra ogni anno cinque persone in qualità di agronomi e di frurarchi; e a questi cinque sia consentito di scegliere dalla propria tribù dodici giovani che non abbiano meno di venticinque anni e non superino la trentina. Ad essi vengano assegnate mese per mese le parti di regione, ogni parte a ciascuno, affinché diventino tutti quanti esperti e competenti di tutta la regione.
Questo comando e questa sorveglianza abbiano la durata, per le guardie e i capi, di due anni. Quale che sia la parte ricevuta in sorte per la prima volta, vale a dire i diversi luoghi della regione, si trasferiscano sempre, ogni mese, spostandosi nel luogo adiacente, e siano guidati dai frurarchi circolarmente verso destra, e per destra si intende verso oriente.
Trascorso il primo anno, nel corso del secondo, affinché la maggior parte delle guardie non diventi soltanto esperta della regione per una sola stagione dell'anno, ma perché apprenda, oltre alla topografia, anche le peculiarità di ciascun luogo in ciascuna stagione, coloro che allora li guidano li conducano nuovamente verso sinistra, facendoli continuamente mutare luogo, fino a che sia trascorso il secondo anno. Nel corso del terzo anno si scelgano altri cinque agronomi e frurarchi che si prenderanno cura di dodici giovani. Ecco di che cosa dovranno occuparsi nel corso della loro permanenza in ciascun luogo: prima di tutto che il luogo sia il più possibile ben fortificato contro i nemici, scavando fossati, dove se ne presenti l'esigenza, e costruendo trincee e fabbricando fortificazioni per tenere il più possibile lontano qualsiasi tentativo di recar danno alla regione e alle sue ricchezze.
Per questi lavori potranno servirsi di bestie da soma e degli schiavi che incontreranno in ciascun luogo, e mediante quelli lavoreranno, dirigendoli durante il lavoro, e sceglieranno il più possibile quei momenti in cui essi saranno liberi dalle occupazioni domestiche. Si faccia in modo di rendere ogni parte del territorio inaccessibile ai nemici, mentre lo si renda accessibile agli amici, uomini, bestie da soma, ed armenti, prendendosi cura delle strade, perché siano, ciascuna di quelle strade, il più possibile tranquille, e delle acque piovane, perché non rechino danno alla regione, ma piuttosto sì rivelino utili scorrendo dalle alture verso le profonde valli fra i monti: allora tentino di convogliarle in canali rinchiudendole con sbarramenti e fossati, in modo che quelle valli, assorbendo l'acqua e imbibendosi, generino ruscelli e sorgenti per tutti i campi e i luoghi sottostanti, e rendano anche i luoghi più aridi ricchi e abbondanti di buona acqua.
Cerchino di abbellire le acque sorgive - fiumi o fonti che siano - con piante e costruzioni, rendendole più decorose, e facendo confluire le acque dei ruscelli mediante canali sotterranei rendano fertile ogni parte del luogo; e se vi sia un bosco o un luogo sacro nelle vicinanze, mediante le irrigazioni in ogni stagione dell'anno, lo abbelliscano indirizzando i corsi d'acqua verso i luoghi sacri degli dèi. Dovunque, in luoghi del genere, bisogna che i giovani allestiscano ginnasi per sé e per i vecchi, dotandoli di bagni caldi per i vecchi, e fornendoli abbondantemente di legna secca: tali ginnasi recheranno vantaggio a coloro che sono spossati dalle malattie e a quanti hanno il corpo consumato dalle fatiche dei campi, e vi troveranno benevola accoglienza, accoglienza che sarà di gran lunga migliore di un medico non troppo saggio.
Tutti questi lavori e gli altri simili a questi renderanno ordinati quei luoghi e saranno loro di utilità, offrendo nel contempo un divertimento che non sarà affatto privo di godimento: ma l'aspetto serio delle loro occupazioni sia il seguente.
I sessanta agronomi custodiscano ciascuno il proprio luogo non solo dai nemici, ma anche da coloro che assicurano di essere amici: se un vicino o un altro cittadino commette ingiustizia a danno di un altro, sia egli schiavo o libero, rendano giustizia a chi afferma di averla subita, e se si tratta dì cause di scarsa importanza siano gli stessi cinque capi a rendere giustizia, se invece si tratta di cause più importanti, sino a giungere al valore di tre mine, siano i diciassette a giudicare, vale a dire i cinque e i dodici giovani, e giudichino tutte le accuse che un cittadino avanza nei confronti di un altro.
Nessun giudice o magistrato deve giudicare o governare senza essere tenuto a rispondere delle proprie azioni, se non chi giudica in ultima istanza, come i re.
E se questi agronomi si mostrano prepotenti nei confronti di quelli di cui si prendono cura, dando ordini iniqui e tentando di prendere e portar via i prodotti dell'agricoltura senza domandare permesso, e se accettano qualcosa che viene donato loro per corromperli, o se amministrano ingiustamente la giustizia, per aver ceduto a tali lusinghe sopportino il peso del disonore in tutto lo stato; per le altre colpe commesse ai danni della gente del luogo fino al valore di una mina, si rimettano spontaneamente alla pena decisa dagli abitanti del luogo e dai vicini; per quelle più gravi, ogni volta che avvengono, o anche per quelle minori, nel caso in cui non vogliano sottomettersi, confidando nel fatto di potervi sfuggire dato che ogni mese si trasferiscono in un altro luogo, a tal proposito, dunque, chi ha subito l'ingiustizia si rivolga ai pubblici tribunali, e se vince la causa, esiga da questi che voleva sfuggire e non voleva sottomettersi spontaneamente alla punizione il doppio della pena.
Questi magistrati e questi agronomi, nel corso dei loro due anni, conducano un tenore di vita che sia il seguente: vi sia innanzitutto in ogni luogo l'istituzione dei pasti in comune, nei quali tutti devono prendere in comune il vitto.
Chi anche per un giorno solo non partecipa ai pasti in comune, o se ne vada via di notte, senza che i magistrati glielo abbiano permesso o senza che si sia presentata una stretta necessità, se i cinque lo denunciano e stabiliscono di esporre il suo nome scritto sulla piazza come di persona che ha trascurato il suo turno di guardia, subisca il disonore come se avesse tradito la costituzione, per quel che gli competeva, e sia punito impunemente con percosse da chi si imbatta in lui e voglia punirlo.
E se è uno degli stessi capi che compie qualcosa di simile, bisogna che si occupino del caso tutti i sessanta, e chi si accorge del fatto o ne viene informato e non intenti una causa sia sottoposto alle stesse leggi e sia punito con una pena più severa di quelle dei giovani: sia inoltre dichiarato indegno di esercitare ogni carica relativa ai giovani.
I custodi delle leggi sorveglino attentamente queste illegalità perché esse non avvengano, o nel caso avvengano, siano punite secondo la giusta pena.
Bisogna che ogni uomo consideri, estendendo la riflessione a tutti gli uomini, che chi non è stato schiavo non potrà neppure essere un padrone degno di lode, e che bisogna compiacersi maggiormente del fatto di avere servito bene che di aver ben comandato, prima di tutto le leggi, poiché questo è un servizio reso agli dèi, e in secondo luogo, se si è giovani, i più vecchi e coloro che hanno vissuto in modo onorevole.
Dopo di che bisogna che chi è stato agronomo in questi due anni abbia assaporato quel quotidiano tenore di vita frugale e rustico.
Non appena eletti i dodici, riuniti agli altri cinque, decidano, come fossero dei servi, che non avranno per sé altri servi e altri schiavi, e non utilizzeranno i servi degli altri contadini e degli abitanti del luogo per i loro servizi privati, ma solo per le faccende di carattere pubblico: per il resto devono pensare di vivere servendosi essi stessi reciprocamente, esplorando inoltre tutta la regione d'estate e d'inverno, girando armati, per sorvegliare e conoscere tutti i luoghi.
Probabilmente non c'è conoscenza migliore che conoscere con esattezza la propria regione.
Per questo un giovane deve dedicarsi alla caccia con il cane o ad altri generi di caccia, non meno che per il piacere e il vantaggio che tutti possono trarre da attività di questo tipo.
E sia che costoro - e la loro attività - li si chiami “cripti” o “agronomi”, o comunque li si voglia chiamare, ogni uomo, nei limiti delle sue possibilità, deve dedicarsi volentieri a quest'attività, almeno quelli che vogliono salvaguardare il loro stato in modo adeguato Dopo di che seguiva per noi, riguardo all'elezione dei magistrati, l'elezione degli agoranomi e degli astinomi.
Ai sessanta agronomi seguono tre astinomi, i quali, dividendo per tre le dodici parti della città, ad imitazione degli agronomi, si prendano cura delle vie della città e di quelle strade che dalla regione conducono sempre verso la città, e degli edifici, perché siano tutti conformi alle leggi, e delle acque che saranno loro consegnate ed affidate dalle guardie dopo essersene presi cura, in modo che giungano alle fonti in quantità sufficiente e pure, e abbelliscano e siano di utilità alla città.
è necessario che anche costoro siano uomini capaci e abbiano tempo disponibile per occuparsi dei pubblici affari: perciò ogni persona potrà proporre chi vuole purché provenga dalla prima classe, e dopo che siano stati eletti per alzata di mano e coloro che hanno ottenuto la maggioranza dei voti siano giunti al numero di sei, chi è preposto a queste operazioni estragga a sorte quei tre che, dopo essere esaminati, diventino magistrati secondo le leggi stabilite per essi.
Subito dopo si eleggano cinque agoranomi tratti dalla seconda e dalla prima classe, per il resto l'elezione segua le stesse procedure adottate per gli astinomi: fra i dieci che rispetto agli altri avranno ottenuto più voti per alzata di mano, si estraggano a sorte cinque, e dopo un esame siano dichiarati magistrati.
Chiunque deve votare per tutti: e chi non vuole, se viene denunciato ai magistrati, sia punito con una multa di cinquanta dracme, oltre a meritarsi la fama di cattivo cittadino.
Chiunque voglia può recarsi all'assemblea e alla pubblica adunanza, mentre sia obbligatorio per gli appartenenti alla prima e alla seconda classe, che saranno multati di dieci dracme se verrà provata la loro assenza alle riunioni: l'obbligo non sussiste per gli appartenenti alla terza e alla quarta classe, e non siano puniti con la multa, se non nel caso in cui i magistrati abbiano intimato a tutti di parteciparvi per una qualche necessità.
Gli agoranomi abbiano il compito di sorvegliare l'ordine relativo alla piazza stabilito dalle leggi, essi prendano cura dei templi e delle fontane che sorgono sulla piazza, perché nessuno rechi danno ad alcuna cosa; e chi causi danni sia punito, con percosse e catene se si tratta di schiavi o stranieri, se invece sia uno del luogo che commette tali disordini, sino a cento dracme siano gli stessi agoranomi ad avere l'autorità di infliggere la pena, mentre per una pena sino alle duecento dracme condannino il colpevole insieme agli astinomi.
Allo stesso modo anche agli astinomi sia consentito di multare e di punire nell'ambito della propria giurisdizione, ed essi possano multare sino ad una mina, mentre infliggano il doppio della multa insieme agli agoranomi.
Dopo di che converrà istituire i magistrati che si occupano di musica e di ginnastica, e dell'una e dell'altra vi siano due specie magistrati: quelli che si occupano dell'educazione e quelli relativi alle gare.
Quanto ai magistrati dell'educazione la legge intende riferirsi a coloro che si occupano dell'ordine e dell'educazione che viene impartita nei ginnasi e nelle scuole, prendendosi cura della frequenza in tali scuole e degli alloggi dei giovani e delle giovani; quanto ai magistrati delle gare, invece, la legge intende riferirsi a coloro che giudicheranno gli atleti che affrontano le gare ginniche e musicali, e questi si divideranno di nuovo in due specie, quelli che si occupano della musica e gli altri che si occupano della ginnastica.
Per le gare degli uomini e per le gare ippiche i giudici siano sempre gli stessi, per la musica, invece, converrebbe che alcuni fossero giudici del canto monodico e di quello imitativo, altri, dei rapsodi, ad esempio, dei citaredi, e dei flautisti, e di altri simili, altri dei canti corali.
In primo luogo bisogna eleggere i magistrati che sovrintendano a quel divertimento corale di fanciulli, di uomini, e di fanciulle che si realizza nella danza e in tutto ciò che viene ordinato dalla musica: in questo caso è sufficiente un solo magistrato che abbia non meno di quarant'anni.
E uno solo sia sufficiente anche per il canto monodico, il quale non abbia meno di trent'anni: costui abbia il compito di introdurre alle gare i concorrenti e sia in grado di giudicare in modo adeguato.
Ed ecco il modo con cui si dovrà eleggere il magistrato preposto all'ordine dei cori.
Quanti amano la danza corale si rechino insieme alla riunione, e siano puniti con una multa se non si recano - di questo fatto siano giudici i custodi delle leggi -, mentre non vi sia alcun obbligo per gli altri, se non hanno intenzione di parteciparvi.
Chi avanza la proposta deve farla scegliendo fra gli esperti dell'arte, e nel corso dell'esame l'unico argomento favorevole o contrario sia questo: per gli uni il candidato sarà inesperto, per gli altri esperto dell'arte.
E quell'unico che fra i dieci che hanno raccolto più voti per alzata di mano sia sorteggiato e sia sottoposto all'esame sia per un anno il magistrato dei cori secondo la legge.
Allo stesso modo e secondo le stesse procedure, chi viene sorteggiato fra coloro che si sono presentati per essere giudicati eserciti per quell'anno la magistratura sui canti monodici e sulla musica strumentale, dopo che il sorteggiato sia stato affidato al giudizio dei giudici.
Dopo di che è necessario eleggere dalla terza e anche dalla seconda classe coloro che presiedono le gare riguardanti le competizioni di uomini e quelle ippiche: vi sia l'obbligo di recarsi all'elezione per le prime tre classi, mentre l'ultima sia esente da pena.
Siano tre i sorteggiati fra i venti più votati per alzata di mano, e questi tre abbiano anche ottenuto il voto favorevole degli esaminatori che li valutano: se qualcuno viene respinto all'esame in relazione a qualsiasi carica, sia quando si sorteggia, sia quando si giudica, se ne elegga un altro con la stessa procedura, e allo stesso modo si conduca l'esame.
Rimane ancora un magistrato riguardo a quel che abbiamo detto prima: si tratta di chi sovrintende l'educazione maschile e femminile.
Uno solo sia, secondo le leggi, chi detiene questa carica, non abbia meno di cinquant'anni, sia padre di figli legittimi, se possibile figli maschi e figlie femmine, altrimenti dell'uno o dell'altro sesso.
Tanto chi viene preferito quanto chi lo preferisce nel giudizio rifletta sul fatto che questa carica è assolutamente la più importante fra le massime cariche che vi sono nello stato.
Infatti il primo germoglio di ogni pianta, se comincia a crescere bene, ha moltissime possibilità, in relazione al valore della sua natura, di compiere qualcosa di vantaggioso, e questo non vale solo per le piante in genere, ma anche per gli animali domestici e selvatici, e per gli uomini: e l'uomo, noi diciamo, è un essere domestico, e tuttavia se ha ottenuto in sorte una retta educazione e un'indole felice, è solito diventare il più divino e il più mite degli esseri viventi, ma se non è stato allevato in maniera adeguata o in modo non onorevole diventa il più selvaggio fra gli esseri che la terra fa nascere.
Per queste ragioni il legislatore non deve permettere che l'educazione dei fanciulli diventi un fatto secondario o puramente accessorio, ma bisognerà prima di tutto cominciare a scegliere bene chi dovrà occuparsi dei bambini, e, nei limiti del possibile, bisognerà far sovrintendere alla loro educazione colui che sotto ogni aspetto risulti il migliore fra quelli che vi sono nello stato.
Tutti i magistrati, allora, fatta eccezione per il consiglio e i pritani, si riuniscano presso il tempio di Apollo e votino in gran segreto, fra i custodì delle leggi, quello che ciascuno ritiene che possa detenere nel modo migliore questa carica che riguarda l'educazione: chi abbia avuto la maggioranza dei voti e sia stato esaminato dagli altri magistrati che abbiano preso parte all'elezione, fatta eccezione per i custodi delle leggi, detenga la carica per cinque anni; nel sesto anno, con la stessa procedura, si elegga un altro per questa carica.
Nel caso in cui chi detiene una carica pubblica muoia più di trenta giorni prima dello scadere del suo mandato, secondo la stessa procedura, chi si deve occupare di queste cose lo sostituisca con un altro nella magistratura.
E se muoia un tutore di orfani, i parenti che risiedono nello stato, da parte di padre e di madre, sino ai figli dei cugini, ne nominino un altro entro dieci giorni, o ciascuno sia punito con una multa di una dracma al giorno, finché non abbiano nominato un tutore ai bambini.
Uno stato in cui i tribunali non fossero istituiti come si deve non sarebbe più uno stato: un giudice che non parla, e che nelle fasi istruttorie non dice una parola in più di quanto dicono le parti in causa, come negli arbitrati, un giudice come questo non sarà mai in grado di giudicare nelle questioni concernenti la giustizia.
Per questi motivi non è facile giudicare bene se si è in molti, ma neppure se si è in pochi e di scarso valore.
Bisogna che ciò che costituisce il fulcro della controversia sia messo sempre in chiaro da una parte e dall'altra; e il tempo, e insieme la lentezza, e la serrata indagine preliminare servono a mettere in luce questa controversia.
Ecco perché prima di tutto bisogna che le parti in causa si rivolgano ai vicini, agli amici, a coloro che conoscono maggiormente i fatti che sono oggetto della controversia, e se non si ottenga in questi tribunali una sentenza soddisfacente, ci si rechi presso un altro tribunale.
Il terzo tribunale, se i primi due tribunali non siano in grado di portare ad una riappacificazione, ponga fine alla causa.
In un certo senso anche le istituzioni dei tribunali rappresentano una forma di elezione dei magistrati: è inevitabile infatti che ogni magistrato sia anche giudice di alcune questioni, ed il giudice, pur non essendo magistrato, in un certo senso lo diventi, e non un magistrato di scarso valore, nel giorno in cui, fornendo la sentenza, pone fine alla causa.
Considerando allora anche i giudici come magistrati, dobbiamo dire quali siano quelli adatti, in quale ambito possono giudicare, e quanti devono essere per ciascun ambito.
Il tribunale più autorevole sia dunque quello che ciascuna delle parti avrà indicato l'una all'altra, scegliendo in comune alcuni giudici.
Per il resto, vi siano due corti di giustizia: l'una quando un privato accusa un altro di aver commesso ingiustizia contro di lui, e lo porta in giudizio e vuole che sia giudicato; l'altra quando un cittadino ritiene che un privato abbia arrecato danno allo stato, e vuole venire in soccorso della comunità.
Bisogna ora dire chi devono essere i giudici e quale dev'essere la loro natura.
Prima di tutto dobbiamo avere un tribunale comune a tutti i privati che sono in controversia fra loro dopo aver fatto ricorso per la terza volta, e tale tribunale sia organizzato in questo modo.
Tutti i magistrati che sono in carica per un anno e anche più di un anno, il giorno prima dell'inizio del nuovo anno, nel mese seguente al solstizio d'estate, bisogna che si riuniscano tutti in un tempio, e dopo aver giurato in nome del dio, offrano al dio, come una primizia di ogni magistratura, un giudice che nella propria carica si stimi essere stato il più valente, e dia l'impressione di amministrare la giustizia per i cittadini, nell'anno seguente, nel modo migliore e più santo.
Non appena siano stati eletti, siano sottoposti all'esame da parte degli stessi che li hanno eletti, e se uno viene respinto, venga eletto un altro al suo posto seguendo le stesse procedure; quelli che risultano eletti e hanno ottenuto l'approvazione giudicheranno le cause di chi ha lasciato gli altri tribunali, e daranno il loro voto senza scrutinio segreto.
Uditori e spettatori di questi processi siano necessariamente i consiglieri, e gli altri magistrati che li hanno eletti, e tutti gli altri che lo desiderano.
Se un tale accusa un giudice di aver emesso volontariamente una sentenza ingiusta, deponga la sua accusa presso i custodi delle leggi: e quello che sia ritenuto colpevole in tale processo sia condannato a pagare alla parte lesa la metà del danno recato, e se si ritiene che meriti una pena maggiore, i giudici che si sono occupati della causa facciano una stima delle pena che deve subire oltre a quella che gli è stata comminata, o quanto in più deve pagare alle casse dello stato o all'accusa.
Quanto alle imputazioni che riguardano i delitti contro lo stato, è in primo luogo necessario che il popolo partecipi al giudizio - tutti infatti hanno ricevuto ingiustizia quando uno ha recato danno allo stato, e quindi avrebbero ragione di sopportare a malincuore di essere esclusi da processi dì questo genere - ma bisogna che al popolo siano affidate la fase iniziale e quella finale di una simile causa, mentre la fase investigativa dev'essere lasciata alle tre magistrature più importanti sulle quali si metteranno d'accordo accusatore e accusato: se essi non saranno in grado di giungere ad un accordo, il consiglio giudicherà la scelta dell'una e dell'altra parte.
Bisogna che anche per le cause private tutti vi partecipino, nei limiti del possibile: e chi non partecipa di questa facoltà di giudicare, non si ritiene affatto partecipe della vita dello stato.
Per questi motivi è necessario che vi siano i tribunali per le tribù, e i giudici, estratti a sorte, giudichino immediatamente senza lasciarsi corrompere da nessuna richiesta; ma il giudizio finale di tutte queste cause spetta a quel tribunale di cui abbiamo parlato e che abbiamo cercato di rendere, nei limiti delle umane possibilità, il più incorruttibile possibile, in modo che sia in grado di risolvere le vertenze di coloro che non sono riusciti a riconciliarsi né presso i tribunali dei vicini, né presso quelli delle tribù.
Ora a proposito dei nostri tribunali - e in tal caso non è facile dire in maniera incontestabile se si tratta o no di magistrature - abbiamo tracciato uno schizzo e delineato i suoi contorni, precisando alcune cose e tralasciandone altre: infatti solo al termine della legislazione si possono esattamente stabilire e ripartire nel modo assolutamente più corretto le leggi che si occupano della giustizia.
E queste cose, dunque, ci attendono alla fine, mentre per quanto riguarda invece l'istituzione delle altre magistrature, possiamo dire che esse hanno assunto un ruolo assai esteso nella legislazione.
Naturalmente, una conoscenza complessiva e precisa di ognuna e di tutte quante le strutture che regolano lo stato e la vita civile, non può diventare del tutto evidente prima che la trattazione, che è partita dall'inizio e ha sviluppato una seconda parte e poi quella intermedia, sia completa di tutte le sue parti e giunga alla fine.
E ora, nella circostanza presente, si possa dare un'adeguata conclusione a quella parte che giunge sino all'elezione dei magistrati, e si cominci a fissare le leggi che non ammettono più ritardo o incertezze.
CLINIA: Sono pienamente d'accordo, straniero, con quel che hai detto prima: e ora il fatto di collegare l'inizio di ciò che dovrai dire con la fine di ciò che è stato detto mi soddisfa ancora di più.
ATENIESE: Sin qui ci siamo allora intrattenuti bene in questo saggio passatempo di vecchi.
CLINIA: Mi pare che alluda evidentemente ad una onorevole occupazione propria di uomini valenti.
ATENIESE: è vero: ma vediamo se anche tu sei d'accordo con me su questo punto.
CLINIA: Quale punto? E di che cosa si tratta?
ATENIESE: Tu sai che l'attività dei pittori, quando ritraggono un qualsiasi oggetto, non sembra avere mai fine, e pare che non finiscano mai di abbellire l'opera caricando o attenuando i colori, o come chiamano questa tecnica gli allievi dei pittori, sicché i dipinti non possano più evolversi in bellezza ed espressione.
CLINIA: Capisco anch'io quello che dici, almeno per quel che ho sentito dire, dato che non mi sono mai dedicato a tale arte.
ATENIESE: E non hai perso niente. Ma noi serviamoci di questo ragionamento sull'arte che ora si è presentato nella nostra discussione, e facciamo la seguente considerazione. Se un pittore pensasse di rappresentare l'opera più bella, tale da non perdere mai il suo valore, ma da migliorare continuamente con il passare del tempo, ti rendi conto che, essendo mortale, se non nascerà un successore che restauri i danni provocati dall'azione del tempo, capace inoltre di abbellirla colmando quelle mancanze determinate dalla sua stessa incapacità tecnica, questa fatica gli sopravviverà per ben poco tempo?
CLINIA: Vero.
ATENIESE: E allora? Non credi che questa sia l'intenzione del legislatore? Prima di tutto deve tracciare le leggi nel modo più preciso possibile e in quantità sufficiente; in seguito, con il passare del tempo, mettendo alla prova dei fatti le sue decisioni, credi che vi sarà un legislatore così stolto da non riconoscere che inevitabilmente ha lasciato molti aspetti incompiuti, e che quindi un successore dovrà correggerli, perché la costituzione non peggiori, ma migliori, e l'ordine regni sempre nello stato da lui fondato?
CLINIA: Questa - e come non potrebbe esserlo - potrebbe verosimilmente essere la volontà del legislatore.
ATENIESE: E se qualcuno possedesse un qualche sistema per giungere a questo fine, e con i fatti e con le parole insegnasse ad un altro, migliore o peggiore di lui, in che modo si acquisisce la nozione per custodire e correggere le leggi, non è vero che non finirebbe mai di spiegare questa cosa prima di giungere al fine proposto?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E in questo momento io e voi non dobbiamo fare così?
CLINIA: Di che cosa parli?
ATENIESE: Dato che stiamo per legiferare, e abbiamo già scelto i custodi delle leggi, e poiché siamo al tramonto della vita, mentre quelli rispetto a noi sono giovani, come andiamo dicendo, dobbiamo legiferare, e nello stesso tempo tentare di rendere anche costoro legislatori e custodi delle leggi, nei limiti del possibile.
CLINIA: Certamente, sempre che siamo abbastanza capaci!
ATENIESE: Dobbiamo in ogni caso tentare e impegnarci.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Diciamo dunque loro: «Amici che salvaguardate le leggi, noi tralasceremo - ed è inevitabile - moltissimi elementi riguardanti ogni questione di cui si occupano le leggi che stabiliamo, ma ciò che è di importanza essenziale e tutto l'insieme non lasceremo che non venga spiegato, ma cercheremo di delinearlo: bisognerà che voi completiate quest'abbozzo. Ora dunque ascoltate che cos'è che dovete considerare nel compiere quest'impresa. Megillo, Clinia, ed io ne abbiamo parlato non poche volte fra di noi, e abbiamo convenuto che si è parlato bene: dunque vogliamo che anche voi siate dello stesso avviso e diventiate nostri discepoli, tenendo in considerazione quegli stessi princìpi sui quali abbiamo convenuto insieme che il custode delle leggi e il legislatore devono concentrare la loro attenzione. Il punto principale sul quale ci siamo trovati d'accordo era questo, e cioè che in qualunque modo un uomo possa diventare onesto, possedendo la virtù dell'anima che si addice ad un uomo, grazie ad una consuetudine, ad un costume di vita, ad un possesso, ad un desiderio, ad un'opinione, ad una qualche disciplina, siano coloro che vivono nello stato maschi o femmine, giovani o vecchi, egli deve tendere per tutta la vita con qualsiasi sforzo al fine di cui parliamo; e che nessuno, chiunque sia, deve mostrare di preferire, fra le altre cose, quelle che costituiscono un impedimento a questo scopo, e questo infine vale anche per lo stato, nel caso in cui risulti necessario che esso venga distrutto prima ch'esso accetti di piegarsi al giogo servile e di essere governato dalle persone più malvagie, o se sarà necessario abbandonarlo volontariamente con l'esilio. Bisogna sopportare tutte queste cose, prima di passare sotto una forma di governo che per sua natura rende gli uomini malvagi. Questi sono i punti sui quali noi ci siamo precedentemente messi d'accordo, e ora voi, in vista dell'uno e dell'altro fine che ci siamo proposti, elogiate e biasimate le leggi, e biasimate quelle che non sono in grado di perseguirli, mentre prediligete e accogliete benevolmente quelle che possono perseguirli, e in esse vivete: quanto alle altre consuetudini, che tendono ad altri cosiddetti beni, bisogna dire loro addio».
E il principio delle leggi che noi qui di seguito stabiliremo sia questo, e prenda avvio dalla materia sacra. Dobbiamo innanzitutto riprendere il numero cinquemilaquaranta, e tutte le utili suddivisioni che conteneva e che contiene, sia nella sua totalità, sia diviso per tribù; e abbiamo stabilito che questa tribù fosse la dodicesima parte dell'intero, la quale risulta esattamente dal prodotto di ventuno per venti. Come il numero intero è divisibile per dodici, dodici è anche il numero delle tribù: e ciascuna parte dev'essere considerata come sacra, dono del dio, poiché si accompagna ai mesi e alla rivoluzione annuale dell'universo.
Perciò l'innato principio divino guida tutto lo stato e rende sacre le divisioni stesse: altri forse avranno diviso più correttamente di altri, e le avranno consacrate al dio più felicemente. Noi ora in ogni caso diciamo di aver scelto nel modo migliore il numero cinquemilaquaranta, che ha per divisori tutti i numeri dall'uno al dodici, eccezion fatta per l'undici - ma si tratta di cosa facilmente rimediabile, e si risanerà in ambedue i casi se si tolgono due famiglie -; e che le cose stanno davvero così, se avessimo tempo, potremmo darne dimostrazione con un discorso neppure troppo lungo.
Prestando ora fede a questa voce e a questo ragionamento dividiamo lo stato, e dopo aver attribuito a ciascuna sua parte un dio o un figlio di dèi, assegnando loro altari e ciò che è conveniente per il culto, facciamo delle riunioni presso di essi due volte al mese per fare sacrifici: dodici nella frazione della tribù, e dodici nella suddivisione dello stato, in primo luogo per ottenere il favore degli dèi e di tutti quelli che hanno rapporti con essi, in secondo luogo per acquisire con essi familiarità, per favorire la conoscenza reciproca, come diciamo, e per stringere ogni sorta di relazione. Per quanto riguarda le relazioni e le unioni matrimoniali è necessario fare piena luce sulla famiglia da cui proviene la sposa, e su chi la prende in sposa, e a quali condizioni viene stipulato il patto, valutando con estrema attenzione il fatto di non commettere errori, nei limiti del possibile, in circostanze come queste. Per queste motivazioni così serie bisogna organizzare le feste corali in cui fanciulli e fanciulle danzino, e nello stesso tempo osservino e si lascino osservare, nudi tanto gli uni quanto le altre, nella misura in cui lo ammette un saggio senso del pudore che è in ciascuno, secondo criteri ragionevoli, e in quanto la loro età fornisce giustificazioni plausibili. Si prenderanno cura di tutte queste cose, e le ordineranno, i magistrati dei cori, e diventeranno legislatori, insieme ai custodi delle leggi, per quanto noi tralasciamo di ordinare: è necessario, come dicevamo, che il legislatore tralasci molti particolari di scarsa importanza come questi, mentre coloro che anno dopo anno diventano esperti di queste cose, apprendendole dalla pratica, stabiliscano regole, e, correggendole, le riformino di anno in anno, finché non si giunga ad un'adeguata definizione di tali norme e delle relative consuetudini. Pertanto un periodo di tempo giusto e sufficiente per acquisire esperienza potrà essere rappresentato da dieci anni di sacrifici e di danze corali, nel corso del quale si disporrà ogni cosa, in generale e in particolare: finché vive il legislatore che ha ordinato queste cose, bisogna accordarsi con lui, ma quando muore, le singole magistrature, presentando ai custodi delle leggi gli aspetti carenti della loro magistratura, li correggano, finché non si pensi che ogni cosa ha raggiunto il termine ultimo della perfezione; allora tali norme diventino immutabili, e si ricorra ad esse insieme alle altre leggi che in principio il legislatore aveva fissato stabilendole per le magistrature.
E queste ultime norme, per nulla al mondo, nessuno deve mai riformare di sua spontanea volontà, e se mai sembra che se ne presenti una qualche necessità, bisogna consultare tutti i magistrati, tutto il popolo, e tutti gli oracoli degli dèi, e se tutti sono d'accordo, si potrà così procedere alla riforma, altrimenti mai, in alcun modo, sarà possibile, ed anzi avrà sempre la meglio, secondo la legge, chi impedirà le riforme.
Quando un uomo, compiuti venticinque anni, osservando ed essendo osservato dagli altri, è convinto di aver trovato una persona che corrisponda ai suoi propositi, e gli sembri adatta alla comune procreazione dei figli, chiunque, allora, si sposi, entro i trentacinque anni, ma prima ascolti come si deve ricercare ciò che risulta conveniente ed adatto: prima della legge, infatti, come dice Clinia, bisogna premettere quel proemio che si adatta a ciascuna.
CLINIA: Ricordi benissimo, straniero, e nel discorso hai colto un'occasione che mi sembra assai adatta.
ATENIESE: Dici bene. «Figlio», diciamo allora a chi proviene da valorosi antenati, «bisogna sposarsi secondo le nozze approvate dai saggi, i quali ti consiglieranno di non evitare le nozze dei poveri, e neppure di inseguire con particolare desiderio quelle dei ricchi: se invece tutte le condizioni si equivalgono, conviene sempre preferire di unirsi in nozze con chi è leggermente inferiore.
Tali matrimoni saranno vantaggiosi tanto per lo stato, quanto per le famiglie che si verranno a formare: infatti l'omogeneità e la misura sono per la virtù mille volte superiori dell'intemperanza.
Chi sa di essere più impetuoso e di lasciarsi trasportare con più veemenza del dovuto in ogni sua azione deve sforzarsi di diventare genero di padri equilibrati, mentre chi per natura è il contrario bisogna che vada a cercare parenti opposti. E in generale una sia la regola sul matrimonio: bisogna che ciascuno aspiri a nozze che risultino vantaggiose per lo stato, e non a quelle che procurano il massimo piacere a se stessi. Ogni individuo viene sempre attratto, per natura, verso chi gli è simile, per cui l'intero stato risulta eterogeneo per ricchezze e modi di vita: di qui nascono quei mali che non vogliamo che accadano presso di noi, mentre accadono assai frequentemente presso la maggior parte degli stati. Il fatto di prescrivere e di redigere queste norme sotto forma di legge, per cui il ricco non sposi il ricco, e chi è in grado di compiere molte azioni non sposi un'altra persona che gli sia simile, ma si costringa la natura esuberante ad unirsi in nozze con chi è più tranquillo, e chi è più tranquillo con chi ha natura esuberante, oltre a suscitare risa, in molti potrebbe risvegliare l'ira: non è facile capire che lo stato dev'essere mescolato secondo giuste proporzioni come una coppa, nella quale il vino, appena versato, è forte e ribolle, ma se viene moderato da un altro dio temperante, ottiene una buona mescolanza e diventa una buona e temperata bevanda. Nessuno, per così dire, è in grado di vedere che una cosa del genere accade nell'unione per la procreazione dei figli: per questi motivi è necessario che si lascino perdere tali aspetti dal punto di vista della legge, ma bisogna tentare di persuadere ciascuno, quasi con un incantesimo, a stimare più importante il conseguire l'omogeneità nell'avere figli piuttosto che contrarre nozze uguali che portano verso un insaziabile desiderio di ricchezze, e a dissuadere, mediante il rimprovero, chi nel proprio matrimonio si occupa esclusivamente di ricchezze, senza però costringerlo con una legge scritta».
Queste siano le esortazioni riguardanti il matrimonio, e così quelle che si sono dette in precedenza, secondo cui bisogna attenersi alla natura che spinse continuamente a procreare lasciando dopo di sé i figli dei figli in qualità di servitori al dio che prendano il nostro posto. Tutte queste ed altre cose ancora si potrebbero dire riguardo alle nozze, e su come bisogna sposarsi, se si vuole comporre correttamente un proemio: e se qualcuno non obbedisce volentieri, e vive nello stato come uno straniero, e non prende parte ad alcun legame sociale, e giunge a trentacinque anni senza essersi sposato, paghi ogni anno cento dracme se appartiene alla prima classe, settanta, se alla seconda, sessanta, se alla terza, e trenta, se è alla quarta. Questo danaro sia sacro ad Era.
E chi anno dopo anno non paga, sia condannato a pagare il decuplo: e questa operazione venga compiuta dall'amministratore della dea, e se non la compie, sia condannato a pagare lui stesso, ed ognuno, nel rendiconto, risponda di questo danaro. Chi non vuole sposarsi sia allora condannato a pagare una multa come questa, e sia privato degli onori che i più giovani gli dovrebbero tributare, e nessuno dei giovani voglia mai spontaneamente obbedirlo in qualcosa: se tenta di punire qualcuno, ognuno venga in soccorso di chi è vittima dell'ingiustizia e lo difenda, ma chi non presta aiuto, pur trovandosi presente al fatto, sia dichiarato dalla legge cittadino vile e malvagio.
Della dote abbiamo già parlato anche prima, ma si ripeta ancora che i poveri non hanno minori possibilità, per la mancanza di ricchezze, di unirsi in matrimonio o di sposare la propria figlia, quando invecchiano: infatti in questo stato tutti possiedono il necessario, e quindi minore sarà l'insolenza delle donne, e minore quella meschina e servile schiavitù che a causa delle ricchezze può sorgere nei mariti.
Chi segue queste norme, farà del bene: ma chi non obbedisce, e dà, o riceve, più di cinquanta dracme per il vestito della sposa, se appartiene all'ultima classe, più di una mina, se appartiene alla terza, più di una mina e mezza, se è della seconda, e più di due mine, se è della prima, versi altrettanto alle casse dello stato, e la somma data o ricevuta sia sacra a Era e a Zeus, e sia riscossa dagli amministratori delle due divinità, secondo quanto si è detto che gli amministratori di Era ogni volta debbono fare riguardo a coloro che non si possono sposare, se non vogliono pagare la multa di tasca propria.
La promessa di matrimonio più autorevole sia in primo luogo quella del padre, seconda per autorità sia quella del nonno, terza quella dei fratelli nati da uno stesso padre; e se mancano queste persone, sia ugualmente autorevole la promessa fatta da parte materna, secondo lo stesso ordine; se poi si verificherà una sorte del tutto inconsueta, valga sempre l'autorità dei parenti più prossimi, insieme ai tutori.
Quanto ai riti preliminari delle nozze, e ad ogni altro sacrificio che devono compiere coloro che si devono sposare, quelli che si stanno sposando, e quelli che sono sposati, bisogna che ognuno pensi che tutto può avvenire in modo conveniente, se interroga gli interpreti e da quelli si lascia guidare.
Per quanto riguarda i banchetti nuziali, bisogna invitare non più di cinque amici dello sposo e non più di cinque amici della sposa, e altrettanti devono essere i rispettivi parenti ed amici. Nessuno faccia una spesa superiore al proprio patrimonio, e quindi per chi è della prima classe il massimo della spesa è una mina, mezza mina per chi è della seconda, e così via, secondo la classe cui appartiene ciascuno. Tutti devono avere parole di elogio per chi obbedisce a questa legge, mentre i custodi delle leggi puniscano chi disubbidisce come persona rozza che non è stata formata dalle leggi delle Muse nuziali. Non conviene bere sino ad ubriacarsi, se non nelle feste in cui il dio offre il vino, e questo atteggiamento non garantisce sicurezza alcuna, soprattutto per chi si impegna seriamente nell'esperienza delle nozze, nel corso delle quali conviene invece che lo sposo e la sposa siano assai assennati, dal momento che compiono un cambiamento di vita non piccolo, e perché i figli, nei limiti del possibile, nascano sempre da genitori assennati: non è mai chiaro, infatti, in quale notte o in quale giorno il figlio venga concepito con l'aiuto del dio.
E inoltre bisogna che il concepimento dei figli non avvenga da corpi disgregati dall'ubriachezza, ma il figlio deve formarsi robusto, solido, e tranquillo. L'uomo in preda al vino si muove in ogni direzione, e tutto mette in movimento, essendo furioso nel corpo e nell'anima: l'ubriaco depone incerto e malamente il suo seme, sicché genera figli anormali, infidi, senza un'indole retta, né un corpo lineare, com'è verosimile che sia. Perciò piuttosto per tutto l'anno e per tutta la vita, ma specialmente in quel tempo in cui si genera, bisogna prestare attenzione perché non si agisca in modo da contrarre malattie e non si faccia nulla che contenga in sé violenza o ingiustizia: è inevitabile, infatti, che l'ubriaco imprima l'impronta del proprio male nelle anime e nei corpi dei suoi figli, e dia in ogni caso alla luce esseri inferiori.
In modo particolare quel giorno e quella notte gli sposi devono astenersi da quel che si è detto: il principio della vita che è collocato negli uomini è un dio che mette in salvo ogni cosa, se riceve il dovuto onore da parte di ciascuno di quelli che se ne servono.
Bisogna che l'uomo che si sposa consideri una delle due case che sono nel suo lotto come luogo in cui nasceranno e verranno allevati i suoi figli, e qui, separato dal padre e dalla madre celebrerà le nozze, e abiterà e nutrirà sé e i figli. Se nelle relazioni amichevoli vi sia un certo desiderio, esso cementa e lega insieme tutti i rapporti affettivi: ma una molesta compagnia, che non tenga vivo attraverso il tempo il desiderio, fa in modo di allontanare gli uni dagli altri a causa di un'eccessiva sazietà. Per queste ragioni bisogna lasciare al padre, alla madre, e ai parenti della moglie le loro case, e come se fossimo giunti in una colonia, qui bisogna abitare, facendo loro visite e ricevendole, e generare e allevare i figli, e consegnare gli uni agli altri la vita, come una fiaccola, prendendosi cura degli dèi, secondo le leggi.
Dopo tale questione, passiamo al possesso dei beni: quali sono le sostanze più adatte che un tale può possedere? Pensare o possedere molte di esse non è difficile, mentre è in ogni caso difficile possedere i servi. E la ragione risiede nel fatto che di essi si dicono cose giuste e cose che in un certo senso sono sbagliate: i nostri discorsi infatti ora vanno nel senso opposto agli usi che ne facciamo, ora sono conformi ad essi.
MEGILLO: Che cosa stiamo dicendo? Non capiamo, straniero, che senso ha quello che ora stai dicendo.
ATENIESE: Ma è del tutto verosimile, Megillo: fra tutti i Greci, infatti la condizione degli Iloti a Sparta potrebbe dare adito a molte perplessità e fornire occasione di disputa fra chi ritiene che si tratta di una buona istituzione e chi la disapprova - minori occasioni di disputa offre la schiavitù che gli abitanti di Eraclea esercitano sui Mariandini che hanno asservito, o sulla servitù dei Penesti presso i Tessali -; e dunque, considerando tutti questi casi ed altri simili, come dobbiamo comportarci riguardo al possesso dei servi? Ecco quello che di sfuggita mi è capitato di dire nel discorso, e di cui tu mi hai giustamente domandato spiegazioni: come sappiamo, tutti noi diciamo che bisogna acquistare schiavi assolutamente ben disposti e ottimi; e molti di essi, in effetti, furono per qualcuno più che fratelli e figli, per quel che concerne la virtù, e hanno messo in salvo padroni, beni, e tutte le loro case. Sappiamo che questo si dice degli schiavi.
MEGILLO: Certamente.
ATENIESE: E non si dice forse anche il contrario, e cioè che un'anima servile non ha nulla di sano, e che chi ha un po' di intelligenza non deve mai fidarsi di una razza come questa? Il più sapiente dei nostri poeti ha anche dichiarato, parlando di Zeus, che «Metà della mente, Zeus dall'ampio sguardo toglie agli uomini, sui quali si abbatte il giorno della schiavitù». Ciascuno può considerare in modo diverso queste riflessioni, e così alcuni non prestano fede alcuna nella categoria dei servi, e come se avessero natura di bestie col pungolo e la frustra rendono non solo tre volte, ma infinite volte schiava la loro anima, altri, invece, fanno tutto il contrario.
MEGILLO: Certamente.
CLINIA: Come dobbiamo allora comportarci, straniero, dato che ci sono opinioni così diverse, riguardo al possesso e alla disciplina degli schiavi che vi sono nella nostra regione?
ATENIESE: Che cosa faremo, Clinia? Dal momento che è evidente che l'uomo è un animale difficile a trattarsi e non sembra affatto prestarsi a quella necessaria divisione secondo la quale dividiamo lo schiavo, il libero, e il padrone, si tratta di un difficile possesso: e questo nei fatti viene spesso dimostrato dalle frequenti ed abituali rivolte dei Messeni, e da quei mali che avvengono in quegli stati dove si possiedono molti servi che parlano la stessa lingua, e, ancora, da quei furti di ogni specie e da quelle sventure causate da coloro che vengono chiamati vagabondi e sono in Italia. Considerando tutti questi fatti, si potrebbero nutrire non poche perplessità sul comportamento da assumere in casi del genere. Non restano che due sistemi: chi vuole possedere senza difficoltà gli schiavi faccia in modo, per quanto è possibile, che non siano dello stesso paese e non parlino la stessa lingua, in secondo luogo li allevi come si deve, non solo nel loro interesse, ma preoccupandosi soprattutto per se stessi; e allevare questa gente significa non usare violenza verso i servi, e, se possibile, essere nei loro confronti meno ingiusti di quanto lo si sarebbe verso i propri eguali. Chi per sua natura, e non con la finzione, venera la giustizia e detesta realmente l'ingiustizia, apparirà evidentemente tale nei rapporti con quelle persone con le quali sarebbe facile per lui commettere ingiustizia. E chi nelle sue consuete relazioni e nel suo modo di comportarsi con gli schiavi non è contaminato dall'empietà e dall'ingiustizia, sarà perfettamente capace di seminare quei semi che faranno germogliare la virtù, e lo stesso discorso sì può giustamente fare a proposito di un signore, di un tiranno, e di chiunque detiene la sua signoria su chi è più debole di lui. Bisogna giustamente punire gli schiavi, ma non si deve fare in modo di svigorirli ammonendoli come si fa con gli individui liberi: bisogna che la parola che si rivolge al servo sia quasi un comando, e non si deve mai scherzare, per nulla al mondo, con i servi, femmine o maschi che siano. Molti amano instaurare con i propri servi rapporti di questo genere, e assai sconsideratamente li svigoriscono, rendendo a quelli più difficile la vita e l'obbedienza, e a se stessi il comandarli.
CLINIA: Quello che dici è giusto.
ATENIESE: Quando allora un cittadino si sia procurato dei servi che, nei limiti del possibile, per numero e per capacità siano in grado di prestare aiuto al padrone in ogni suo lavoro, non bisogna allora, dopo di ciò, fare una descrizione delle abitazioni?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Parlando di uno stato nuovo e disabitato in precedenza, bisogna, a quanto pare, prendersi cura di tutto l'aspetto, per così dire, riguardante gli edifici, per vedere quale sarà la disposizione di ciascuno di quelli, sia rispetto ai templi, sia rispetto alle mura. Queste cose andavano dette prima dei matrimoni, Clinia, ma, poiché lo stato nasce solo in teoria, è assolutamente possibile trattarle ora in questo modo: quando invece esso si realizzerà concretamente, prima dei matrimoni bisognerà occuparci di questa materia, se il dio lo vuole, e quindi con i matrimoni ultimeremo tali cose. Adesso, però, brevemente, cerchiamo di delinearle almeno in un abbozzo.
CLINIA: Certo.
ATENIESE: Bisogna edificare i templi tutt'intorno alla piazza, e costruire la città intera in cerchio presso i luoghi elevati per ragioni di difesa e di igiene: presso i templi vi siano gli edifici dei magistrati e i tribunali, dove, come in luoghi quanto mai sacri, si riceveranno e si emaneranno le sentenze, sia perché in questi luoghi ci si occupa di cose sacre, sia perché vi sono le dimore degli dèi, e fra queste vi saranno i tribunali, in cui si celebreranno quei processi che riguardano gli omicidi, e tutte quante le azioni delittuose che meritano la pena di morte. Per quanto riguarda le mura, Megillo, sarei d'accordo con Sparta: lasciare cioè che dormano distese a terra, e non alzarle, ed ecco le ragioni.
è bello quel canto che i poeti intonano a tal proposito, dicendo che le mura devono essere di bronzo e di ferro piuttosto che di terra: ed inoltre ci esporremmo giustamente al ridicolo, se, da un lato, ogni anno inviassimo i giovani nella regione a scavare fossati, a costruire trincee, e a fermare i nemici attraverso fortificazioni, per non permettere loro di varcare i confini della regione, e intanto costruissimo, dall'altra, delle mura che in primo luogo non sono affatto utili alla salute degli stati, e in secondo luogo rendono solitamente effeminati gli animi degli abitanti, invitandoli a rifugiarsi al loro interno senza respingere i nemici, e a non cercar salvezza, collocando alcune guardie che sorvegliano di notte e durante il giorno, ma a pensare che, protetti in questo modo da mura e da porte, anche quando dormono avranno realmente dei mezzi per stare al sicuro, così da essere nati per non faticare, senza sapere che è dalle fatiche che in realtà nasce la comodità, mentre, io credo, da una vergognosa comodità e dall'indolenza derivano nuovamente le pene. Ma se le mura sono necessarie agli uomini, bisogna che sin dal principio si gettino le basi delle case private, perché tutta la città sia come un solo muro, e tutte le case siano disposte, secondo criteri di uniformità e somiglianza, lungo le strade, in modo da essere adatte alla difesa: e non è spiacevole vedere uno stato che abbia la forma di un'unica casa, ed essendo più semplice la sorveglianza esso si distinguerebbe totalmente e sotto ogni aspetto per la sicurezza.
E proprio di queste cose, di mantenere cioè l'assetto urbanistico originario, sarebbe bene che si occupassero soprattutto gli abitanti, ma in ogni caso sono gli astinomi che se ne devono occupare, costringendo a mettersi in regola con delle multe colui che non si dà pensiero, e devono curarsi di tutto quello che attiene alla pulizia della città, perché nessun privato invada il terreno pubblico né con costruzioni, né con scavi di ogni genere. Essi devono anche preoccuparsi affinché le acque piovane scorrano agevolmente, e devono curare quanto conviene regolare dentro e fuori la città: diventando consapevoli di tutto ciò grazie all'esperienza, i custodi delle leggi stabiliranno a questo proposito le norme relative, e su tutto quanto il resto la legge ha tralasciato per le difficoltà che si presentano. Ora però che questi edifici, quelli che sorgono sulla piazza, i ginnasi, e tutte le scuole sono stati costruiti e attendono i loro frequentatori, e così i teatri i loro spettatori, procediamo verso la materia che vien dopo i matrimoni, e occupiamoci della legislazione successiva.
CLINIA: Certo.
ATENIESE: Supponiamo che le nozze siano già avvenute, Clinia: vi è, in seguito, un periodo di vita, precedente alla nascita di bambini, che dura non meno di un anno, e la cosa più difficile fra tutte - e ciò si riferisce a quel che si diceva adesso - è proprio dire in che modo uno sposo e una sposa devono vivere questo periodo all'interno di uno stato che vuole superare tutti gli altri. E poiché non sono poche le norme di questo genere di cui prima abbiamo parlato, questa ancor più difficilmente di quelle verrà accettata dalla massa. Ma ciò che sembra giusto e vero bisogna in ogni caso dirlo, Clinia.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Chi pensa di emanare leggi per gli stati sul modo in cui esse devono regolare la vita civile e compiere gli affari pubblici e di comune interesse, e ritiene che non vi sia necessità di fare la stessa cosa nell'ambito degli affari privati, pensando che ciascuno debba avere libertà di vivere la giornata come vuole; e tutto non debba per forza avvenire secondo un determinato ordine, e lascia che gli affari privati non siano regolamentati dalle leggi, credendo che i cittadini vorranno vivere secondo le leggi nella vita pubblica e nell'adempimento degli affari comuni, non pensa in modo corretto. Perché mai ho detto questo? Perché noi affermeremo che i nostri sposi devono prendere i pasti in comune non meno di come facevano nel tempo precedente le nozze.
E questa usanza, che provocò stupore quando in principio entrò in vigore per la prima volta presso di voi, fu una qualche guerra che la fissò verosimilmente come legge, o qualche altro fatto di grande valore, per chi si trovò ad avere penuria di uomini, trovandosi in gravi difficoltà. E dopo che si assaggiarono quei pasti in comune e ci fu la necessità di servirsene, l'istituzione di quella consuetudine sembrò diventare assai importante per la salvezza dello stato, e in questo modo venne fondata la pratica dei pasti in comune.
CLINIA: Mi pare di sì.
ATENIESE: Quello che volevo dire è che se allora tale usanza destò stupore e timore in alcuni, ora non dovrebbe essere ugualmente difficile stabilirla come legge per chi volesse fissarla: quell'usanza che invece verrebbe immediatamente dopo questa, e che se si attuasse sarebbe ottima cosa, ma che oggi non trova attuazione da nessuna parte e che per poco costringerebbe il legislatore, come si dice per scherzo, a cardare il fuoco, e a compiere molte altre cose ma senza risultato, non è facile a dirsi, né, una volta che si è detta, a realizzarsi.
CLINIA: Che cos'è, straniero, questa cosa che cerchi di dire, pur sembrando in grande esitazione?
ATENIESE: Ascoltate, perché non si indugi troppo a lungo ed invano su una materia come questa. Tutto ciò che avviene nello stato e partecipa dell'ordine e della legge produce ogni sorta di beni, mentre ciò che è privo di ordine o è disposto in cattivo modo dissolve molte altre di quelle cose che erano state ben disposte. E proprio la questione sulla quale ci siamo fermati riguarda quello che sto dicendo. Presso di voi, Clinia e Megillo, i pasti in comune, riguardo agli uomini, sono stati istituiti giustamente, e, come dicevo, destando stupore, per una qualche necessità divina, ma per quanto riguarda lo stile di vita delle donne si è permesso che del tutto ingiustamente non fosse regolato da legge alcuna, e per loro non è venuta alla luce la consuetudine dei pasti in comune: e così questo genere umano che rispetto al nostro tende maggiormente, per natura, alla dissimulazione e all'astuzia, il genere femminile appunto, a causa della sua debolezza, il legislatore, facendo un'ingiusta concessione, rinunciò ad ordinarlo.
A causa di tale rinuncia, molte cose vi sfuggirono di mano, e sarebbero andate molto meglio di come vanno ora, se vi fosse stata una legge: il fatto di permettere che le donne siano prive di ordine non rappresenta solo metà del danno, come parrebbe, ma nella misura in cui la natura femminile è peggiore, sotto l'aspetto della virtù, di quella maschile, di tanto, ed è più del doppio, è il danno che ne deriva. Sarebbe allora meglio, pensando alla felicità dello stato, riprendere, rivedere, e riordinare insieme tutta la materia che regola l'insieme delle consuetudini riguardanti le donne e gli uomini: ma ora il genere umano è stato condotto verso una sorte così sventurata che in altri luoghi e in altri stati dove i pasti in comune non sono affatto entrati a far parte delle consuetudini dello stato, non è proprio di persona assennata neppure farne menzione. E allora come qualcuno potrà tentare, senza essere ridicolo, di costringere praticamente le donne ad assumere cibi e bevande sotto gli occhi di tutti? Non c'è alcuna cosa che quel genere sopporterebbe più difficilmente di quella: abituate come sono a vivere ritirate e nell'ombra, trascinate con violenza alla luce, si opporrebbero con ogni resistenza, e avrebbero di gran lunga la meglio sul legislatore.
Altrove, come dico, non sopporterebbero neppure di sentirne parlare, quand'anche si facesse un discorso giusto, senza sollevare grida, qui forse ci ascolterebbero. Se vi sembra che il ragionamento che abbiamo affrontato sulla costituzione, così, per il desiderio di discorrere, sia riuscito, voglio spiegarvi come quello che dico è buono e conveniente, se voi siete d'accordo ad ascoltarmi, altrimenti lasciamo perdere.
CLINIA: Ma, straniero, noi siamo straordinariamente d'accordo sul fatto che ti vogliamo ascoltare.
ATENIESE: Ascoltiamo. E non stupitevi se vi sembrerò ricominciare da un poco indietro: noi abbiamo il vantaggio di aver tempo a disposizione, e nessuna urgenza ci impedisce di esaminare sotto ogni aspetto la materia concernente le leggi.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Torniamo nuovamente alle cose che abbiamo detto prima. Conviene che ogni uomo comprenda bene questo fatto, e cioè che la generazione degli uomini o non ha mai avuto alcun principio, e non avrà mai una fine, ma era e sarà sempre in ogni caso, oppure dev'essere trascorso un periodo di tempo incredibilmente lungo dal principio della sua nascita.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ebbene? Non pensiamo che vi furono fondazioni e distruzioni di stati, e ogni sorta di consuetudini ordinate e prive di ordine, infiniti modi di cibarsi, e ogni sorta di desideri di bere e di mangiare, dappertutto in ogni regione della terra, e, ancora, ogni specie di rivolgimenti delle stagioni, nel corso delle quali è naturale che gli animali subissero moltissimi mutamenti?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: E allora? Crediamo che le viti siano apparse in un certo momento, e che prima non ci fossero? E così anche gli ulivi e i doni sacri a Demetra e a Core? E che un Trittolemo era stato scelto dalla dea Demetra perché andasse ad insegnare le tecniche dell'agricoltura. Trittolemo divenne servo di questi doni? E non crediamo che in quel tempo in cui queste cose non c'erano, gli animali si volgessero a divorarsi l'un l'altro, come adesso?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E ancora oggi vediamo che presso molti popoli si è conservata l'usanza dei sacrifici umani: e, al contrario, sentiamo che presso altri popoli non vi era, un tempo, neppure il coraggio di gustare la carne di bue, e agli dèi non si sacrificavano animali, ma focacce, e frutti inzuppati nel miele, e simili altre incontaminate offerte, e non si toccava carne, quasi fosse empio mangiarne, e così macchiare di sangue gli altari degli dèi, ma quelli che di noi allora vivevano seguivano le cosiddette regole orfiche, nutrendosi di esseri inanimati e astenendosi al contrario da tutto ciò che era animato.
CLINIA: Hai parlato di cose che sono state ripetute frequentemente e degne di essere credute.
ATENIESE: Per quale motivo, qualcuno potrebbe chiedere, vi ho detto tutte queste cose ora?
CLINIA: Giusta supposizione, straniero.
ATENIESE: Allora, se posso, cercherò di spiegare le cose che seguono, Clinia.
CLINIA: Parla.
ATENIESE: Vedo che tutto presso gli uomini dipende da tre specie di bisogni e desideri, per cui, se sono opportunamente guidati, scaturisce la virtù, se sono guidati male, deriva tutto il contrario.
Essi sono il mangiare e il bere che sono presenti non appena si nasce, e per i quali ogni essere vivente nutre un amore innato, ed è pieno di ardente furore, e non presta ascolto a chi gli dice di fare qualcos'altro che non sia il soddisfare i piaceri e i desideri legati a tutte queste cose, e che è necessario liberarsi da tutti quei tormenti: vi è quindi il terzo desiderio che è in noi, la necessità più urgente, l'amore più violento che per ultimo rompe, e rende gli animi degli uomini del tutto ardenti di follia, e bruciando costringe gli uomini con la sua smisurata violenza a spargere il seme della generazione. Bisogna cercare di arrestare questi tre mali, volgendoli in meglio contrariamente a quello che viene definito come il massimo piacere, mediante tre grandi mezzi, che sono la paura, la legge, e il veritiero ragionamento, valendosi della collaborazione delle Muse e degli dèi presenti nelle gare, mitigando lo sviluppo e il dilagare di quelle passioni.
Dopo i matrimoni, definiamo ora la questione riguardante la nascita dei bambini, e dopo la loro nascita, il problema della loro formazione ed educazione: e forse, procedendo così nei discorsi, ciascuna nostra legge verrà sviluppata, andando avanti, quando giungeremo ai pasti in comune - e vedremo meglio, mescolandoci da vicino ai partecipanti, se in tali riunioni devono partecipare le donne o solo gli uomini - e quanto precede queste cose, e ancora adesso non è disciplinato dalla legge, noi ci proporremo di ordinarlo per tutelarlo, e quindi, come si diceva adesso, esamineremo con maggior precisione i pasti in comune, e assegneremo loro le leggi convenienti ed adatte.
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: Conserveremo nella memoria quello che abbiamo appena detto: forse avremo bisogno di tutto questo.
CLINIA: Che cosa ci esorti a conservare nella memoria?
ATENIESE: Quelle cose che abbiamo distinto con tre termini: mangiare, dicevamo, e per secondo bere, e terzo un forte impulso sessuale.
CLINIA: Cercheremo di ricordare assolutamente, straniero, quanto tu ci consigli di ricordare.
ATENIESE: Bene. Ritorniamo ai nostri sposi, insegnando loro come e in qual modo bisogna avere figli, e se non obbediscono, minacciamoli con alcune leggi.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Bisogna che la sposa e lo sposo si convincano di offrire allo stato i figli più belli e i migliori possibili. Tutti gli uomini che insieme prendono parte ad un'azione, quando controllano se stessi e riflettono sull'azione che stanno compiendo, realizzano ogni cosa bella e buona, se invece non riflettono o non prestano attenzione, fanno tutto il contrario. Lo sposo allora presti attenzione alla sposa e alla procreazione dei figli, e allo stesso modo la sposa, soprattutto in quel periodo in cui non si hanno ancora figli. Controllino queste cose quelle donne che scegliamo, e che saranno ora di più, ora di meno, a seconda di quante e di quando sembrerà opportuno ai magistrati stabilire: ogni giorno esse si riuniranno nel tempio di Ilitia per almeno venti minuti, e una volta riunite insieme, si informeranno l'una con l'altra, nel caso in cui, ad esempio, abbiano visto un uomo, o anche una donna, che stanno per avere figli, che si orientano in direzioni diverse rispetto a ciò che era stato stabilito dai sacrifici e dai riti sacri nel corso delle nozze.
La procreazione dei figli e la sorveglianza su quelli che li concepiscono sia di dieci anni, e non oltrepassi questo periodo di tempo, quando il matrimonio sia risultato fecondo: quelli che invece in questo periodo di tempo sono rimasti senza figli si separino, consigliandosi con i parenti e con le donne preposte a questo compito sul meglio da farsi per l'uno e per l'altra. Se sorgono delle controversie intorno a ciò che è conveniente o più utile per l'uno e per l'altra, dopo aver scelto dieci custodi delle leggi ai quali affideranno la vertenza, gli sposi dovranno attenersi alle prescrizioni che essi hanno ordinato.
Le donne, entrando nelle case dei giovani, ora per ammonire, ora per minacciare, li facciano desistere dall'errore e dall'ignoranza: e se non riescono, si rechino dai custodi delle leggi per spiegare la questione, e siano allora questi a trattenerli dall'errore. E se neppure quelli sono in grado di far ciò, lo denuncino pubblicamente, scrivendo i nomi degli sposi, e assicurando con un giuramento di non essere stati in grado di renderli migliori. Chi abbia il proprio nome affisso pubblicamente, a meno che in tribunale non vinca la causa contro i suoi accusatori, sia privato dei seguenti diritti: non può assistere alle nozze, né alle cerimonie per la nascita dei bambini, e se si reca ugualmente, chiunque voglia lo punisca impunemente con percosse. Le stesse regole valgano anche per la donna: non potrà uscire insieme alle altre donne, non potrà godere di onori, e non potrà prendere parte alla frequentazioni in occasione di nozze e della nascita dei figli, se per la sua indisciplina sia stato affisso pubblicamente il suo nome e non abbia vinto la causa.
Se si generano i figli secondo le leggi, ed un tale abbia rapporti sessuali con la donna di un altro per un simile scopo, o una donna con un altro uomo, nel caso in cui possano ancora avere figli, subiscano le stesse pene che si sono già dette per chi è ancora in età da generare: dopo questo termine, chi, uomo o donna, sia saggio e temperante, goda di buona reputazione in tutto questo campo, chi si comporta in modo opposto, goda di onori opposti, anzi, venga disonorato.
E dove la maggior parte delle persone si comporti in maniera moderata intorno a questa materia, non si stabiliscano delle leggi e si mantenga il silenzio, se invece regni l'indisciplina si stabiliscano delle leggi e si agisca secondo le leggi stabilite. Il primo anno di vita sia considerato per ciascuno il principio di tutta la vita: e bisognerebbe scriverlo nei templi dei padri come principio della vita. Al bambino e alla bambina venga scritto, sopra una parete bianca in ogni fratria, il numero degli arconti da cui si calcola il numero degli anni: i membri viventi della fratria siano sempre scritti vicini, e si cancellino quelli che lasciano la vita. Per una ragazza i limiti di tempo per sposarsi siano compresi fra i sedici e i vent'anni, per un ragazzo tra i trenta e i trentacinque anni. Per l'accesso alle cariche pubbliche le donne devono avere quarant'anni, e gli uomini trenta.
Alla guerra siano abili gli uomini compresi fra i venti e i sessant'anni di età: alla donna, se si ritiene che debba risultare di qualche utilità alle necessità della guerra, dopo aver generato i figli, si ordini, nei limiti delle sue possibilità e dell'opportunità di ciascuna, di prestare servizio sino ai cinquant'anni.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO SETTIMO
ATENIESE: Una volta che i figli, maschi o femmine, sono nati, sarebbe assai giusto che di conseguenza noi parlassimo della loro formazione e dell'educazione, su cui non è assolutamente possibile tacere; e quel che diremo risulterà chiaro che somiglia di più ad una serie di insegnamenti e di consigli piuttosto che a delle leggi. In privato e all'interno delle case avvengono molte cose insignificanti che non sono evidenti a tutti, ed essendo facilmente determinate dal dolore, dal piacere, e dai desideri di ciascuno sono così diverse aspetto alle decisioni del legislatore che renderebbero assai vari e dissimili gli uni dagli altri i costumi dei cittadini. Ma questo è un male per gli stati: in ogni caso, a causa dell'insignificanza e della frequenza con cui avvengono queste cose, sarebbe inopportuno e sconveniente stabilire in questo campo leggi e relative pene, senza considerare che queste cose annientano le leggi scritte, dato che gli uomini sono soliti violare la legge proprio in quelle azioni insignificanti che avvengono di frequente. Sicché ci troviamo in difficoltà non sapendo se si deve legiferare intorno a queste cose, ma non potendo, d'altra parte, tacere. Bisogna che metta chiaramente in evidenza le cose che dico, portandole alla luce con degli esempi: perché ora sembra che queste parole rimangano nell'ombra.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Il fatto che una corretta formazione deve assolutamente mostrare di essere capace di rendere bellissimi e il più possibile virtuosi i corpi e le anime, è un'affermazione ben fatta.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: I corpi bellissimi, io credo, ed è la cosa più semplice, devono essere sviluppati il più regolarmente possibile sin da quando i bambini sono giovani.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ebbene? Non abbiamo mai riflettuto su questo punto, e cioè che il primo sviluppo di ogni essere vivente è senz'altro il più importante e il più ampio, così da offrire a molti lo spunto per una disputa sul fatto che il corpo umano dai primi cinque anni per tutti i restanti vent'anni non si sviluppa in grandezza neppure del doppio?
CLINIA: Vero.
ATENIESE: E non sappiamo forse che quando interviene uno sviluppo eccessivo, privo di molti e convenienti esercizi fisici, questo sviluppo determina un'innumerevole serie di mali nei nostri corpi?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dunque c'è bisogno di un maggior numero di esercizi fisici, nel momento in cui maggiore è la crescita dei corpi.
CLINIA: Che cosa vuoi dire, straniero? Ai bambini appena nati e ai giovanissimi noi dovremo prescrivere un grandissimo numero di esercizi fisici?
ATENIESE: Nient'affatto, ma ancor prima, quando ricevono il nutrimento dentro le loro madri.
CLINIA: Che cosa vuoi dire, carissimo? Parli di quelli che sono nel grembo materno?
ATENIESE: Sì. E non è per nulla incredibile che voi non conosciate la ginnastica di esseri così piccoli, che, anche se sembra assurda, vorrei illustrarvi.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Presso di noi sarebbe più facile comprendere una cosa del genere per il fatto che molti si dilettano in certi divertimenti più di quanto si dovrebbe: da noi infatti, non solo i giovani, ma anche certi anziani allevano certe specie di uccelli per farli combattere fra di loro. Essi sono ben lontani dal credere che in tali esercitazioni possano bastare quegli esercizi che gli fanno fare l'uno contro l'altro, nel corso dei quali li spingono ad allenarsi: e inoltre prendendo ciascuno di nascosto questi animaletti, i più piccoli fra le mani, e i più grandi sotto il braccio, se ne vanno a spasso percorrendo molti stadi, al fine di rinvigorire non i propri corpi, ma quello delle bestiole, e mettono in luce questo fatto, per chi è in grado di comprendere, e cioè che tutti i corpi, mossi instancabilmente da ogni sorta di scosse e di movimenti, ricevono giovamento, sia che si muovano da se stessi, o su di un'altalena, o per mare, o anche trasportati sui cavalli, o per effetto di qualsiasi altro corpo, e facendoci perciò digerire il nutrimento di cibi e di bevande, sono in grado di conferirci salute, bellezza, e tutte le altre forze. Che cosa potremmo dire, stando così le cose, che si deve fare dopo di ciò?
Volete che spieghiamo, pur con il rischio di esporci al ridicolo, e stabiliamo per legge che le donne incinte devono passeggiare, e plasmare il bambino come se fosse di cera, finché è tenero, e avvolgerlo in fasce sino a due anni? E dobbiamo costringere le nutrici, punendole con la legge, a portare i bambini in campagna, o nei templi, o dai parenti, finché non stiano in piedi da soli, e anche allora, le obbligheremo a vigilare affinché, essendo ancora giovani e appoggiandosi con violenza, non si sloghino le membra, e poi ad assumersi la fatica di portarli in braccio sino all'età di tre anni? E bisogna prescrivere che esse siano le più forti possibile, e non una sola? E per ciascuna di queste regole, nel caso in cui non vengano rispettate, dobbiamo stabilire per iscritto una multa per i trasgressori? O siamo molto lontani da ciò? Perché quel che abbiamo appena detto, sarebbe davvero eccessivo.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Saremmo veramente assai ridicoli, oltre al fatto che le nutrici non vorrebbero ubbidire, per la loro indole di donne e di schiave.
CLINIA: Ma per quale ragione dicevamo che bisognava parlarne?
ATENIESE: Per questa ragione: i padroni, gli uomini liberi che vi sono nello stato, grazie all'indole che hanno, ascoltando tutte queste cose, giungerebbero alla giusta considerazione che senza una corretta amministrazione privata all'interno dello stato, invano si potrebbe pensare di avere, nell'amministrazione pubblica, una certa stabilità dal punto di vista legislativo, e in considerazione di queste cose, ci si potrà servire di quelle leggi di cui ora si è parlato, e servendosi di quelle, si potrebbe amministrare bene la propria casa ed insieme il proprio stato, ed essere felici.
CLINIA: Parli in modo assolutamente verosimile.
ATENIESE: Non potremo allora smettere di trattare questa legislazione, se prima non avremo assegnato la condotta che le anime dei bambini ancora piccoli devono tenere, così come abbiamo cominciato a fare sviluppando i discorsi relativi agli esercizi del corpo.
CLINIA: è assai giusto.
ATENIESE: Prendiamo dunque, come elemento fondamentale per l'una e per l'altra cosa, per il corpo e l'anima dei bambini ancora piccoli, il fatto che sono vantaggiosi per tutti, e soprattutto per i neonati, l'assistenza e il movimento quando siano il più possibile costanti per tutta la notte e per tutto il giorno, e se fosse possibile, essi dovrebbero vivere, come se navigassero continuamente: e ora noi dovremmo fare in modo di aderire il più possibile a questa regola riguardo ai neonati.
Questa cosa noi possiamo argomentarla dal fatto che le nutrici dei bambini e quelle donne che hanno trovato un rimedio ai Coribanti hanno appreso questo metodo dall'esperienza riconoscendone la validità: quando infatti le madri vogliono mettere a dormire i loro bambini che non riescono ad addormentarsi, non li tengono fermi, ma al contrario li muovono, cullandoli di continuo fra le braccia, e non stanno in silenzio, ma cantano loro qualche melodia, ammaliandoli, così come vengono guariti coloro che sono fuori di sé per i furori bacchici, ricorrendo alla danza corale e alla musica.
CLINIA: E qual è la causa di simili effetti per noi, straniero?
ATENIESE: Non è difficile riconoscerla.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Entrambe queste due condizioni rappresentano una situazione di timore, e questo timore è determinato da un particolare stato di debolezza dell'anima. Quando qualcuno dall'esterno imprime uno scossa a tali condizioni, il movimento che viene impresso dal di fuori supera il movimento della paura e della follia interna, e dominandolo, sembra determinare nell'anima una tranquilla serenità, e acquieta i molesti battiti del cuore: ed è cosa davvero desiderabile, perché agli uni permette di prendere sonno, e agli altri, che invece rimangono svegli, e danzano e suonano il flauto insieme a quegli dèi cui ciascuno ha innalzato sacrifici propiziatori, fa in modo di renderli sani di mente, da quella condizione di follia in cui si trovavano. Questa, anche se in breve, è la ragione plausibile di questi effetti.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Se queste cose hanno tale potere, occorre considerare, in relazione ad esse, che ogni anima che sin da giovane vive insieme alla paura, si abituerà ad essere timorosa: e chiunque potrebbe dire che questo è un esercizio di viltà e non di virilità.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Al contrario potremmo affermare che sin da giovani la pratica della virilità consiste nel vincere le paure e i timori che ci assalgono.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Possiamo allora dire che la ginnastica che i bambini praticano quando fanno movimento contribuisce grandemente a quella parte di virtù dell'anima.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E la tranquillità o meno nell'anima riveste un ruolo non piccolo in relazione alla buona o cattiva disposizione dell'anima.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Bisogna spiegare in che modo possiamo allora ingenerare nel neonato uno dei due stati d'animo che vorremmo, quale che sia il modo e in che misura riusciamo a realizzarli.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Io dico che, secondo il nostro modo di vedere, la mollezza rende le indoli dei giovani inquiete, irascibili, ed eccessivamente mutevoli per delle piccolezze, mentre al contrario una soggezione troppo violenta, facendoli meschini, schiavi, e misantropi, li rende persone del tutto malevole.
CLINIA: Come dunque lo stato deve educare chi non è ancora in grado di intendere parola e non può gustare il resto dell'educazione?
ATENIESE: Così: ogni essere vivente, quando nasce, è solito emettere alte grida, e soprattutto la stirpe umana, che, oltre alle grida, è più degli altri esseri viventi incline al pianto.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dunque, le nutrici che cercano di sapere quali sono i desideri dei bambini, lo deducono proprio da questi segni, nell'atto di offrire qualcosa: se quando offrono qualcosa il bambino sta in silenzio, credono che la loro offerta sia buona, se piange e grida, l'offerta non è buona. Per i bambini, i pianti e le grida sono una manifestazione di ciò che amano ed odiano, e non sono affatto segni di buon augurio: questo periodo di tempo non dura meno di tre anni, e non è una piccola parte della vita per essere vissuta bene o male.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Non vi sembra che una persona scontenta e per nulla gioiosa pianga facilmente si lamenti, molto di più di quanto farebbe una persona valente?
CLINIA: Mi sembra.
ATENIESE: E allora? Se nel corso di quei tre anni si tentasse di proporre un qualsiasi mezzo perché il bambino che è oggetto delle nostre cure abbia a che fare il più raramente possibile con la sofferenza, le paure, e il dolore, non pensiamo di rendergli l'anima ilare e gioiosa?
CLINIA: è chiaro, soprattutto nel caso, straniero, che gli si riesca a procurare un gran numero di piaceri.
ATENIESE: Su questo punto non sarei d'accordo con Clinia, o uomo meraviglioso. Infatti un simile comportamento rappresenterebbe la più grande rovina, perché si verificherebbe al principio dell'educazione. Ma vediamo se quello che diciamo ha un senso.
CLINIA: Dicci quale.
ATENIESE: Il nostro attuale discorso non ha poca importanza. Considera anche tu, e giudica insieme a noi, Megillo. Ora il mio discorso vuole dire che una vita vissuta rettamente non deve inseguire i piaceri, e neppure, d'altro canto, evitare del tutto i dolori, ma deve invece prediligere quella via di mezzo che ora abbiamo definito “serenità”, disposizione che tutti senza sbagliarci, secondo la voce profetica di una divinazione, attribuiamo alla divinità. E dico che chiunque di noi voglia diventare un essere divino deve inseguire questa condizione, e non essere del tutto incline ai piaceri, come se potesse evitare i dolori, e non deve permettere ad un altro, giovane o vecchio, maschio o femmina, di subire questa stessa condizione, e soprattutto se si tratta di un bambino appena nato: in quella fase della vita, infatti, in ogni individuo si forma il carattere, e si forma grazie all'abitudine. Se non dessi l'impressione di scherzare, direi ancora che bisogna prendersi cura delle donne che sono incinte, in quell'anno in cui sono gravide, perché non abbiano a che fare con molti e smodati piaceri o dolori, ma trascorrano tutto quel tempo prediligendo la serenità, la benevolenza, e la mitezza.
CLINIA: Non c'è bisogno, straniero, che tu chieda a Megillo chi di noi due ha detto meglio: io infatti sono d'accordo con te che tutti devono fuggire una vita di puro dolore e anche di puro piacere, e che bisogna sempre tendere alla via di mezzo. Dunque hai detto bene, e bene mi hai ascoltato.
ATENIESE: Perfetto, Clinia. Adesso noi tre, sempre riguardo a queste cose, riflettiamo su questo punto.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Il fatto è che tutte queste norme che ora stiamo passando in rassegna sono definite da molti “leggi non scritte”: e quelle che alcuni chiamano “leggi patrie” altro non sono se non queste stesse norme. E inoltre la discussione da noi svolta ha detto bene che non si deve permettere di definire leggi queste cose, ma che non bisogna neppure tacerle: queste norme sono i legami di ogni costituzione, e stanno in mezzo fra le leggi scritte e stabilite e quelle che ancora devono esserlo, proprio come quelle norme patrie ed arcaiche, le quali, essendo ben stabilite e diventate ormai consuetudine, avvolgono e salvaguardano le leggi scritte; ma se invece si allontanano sconvenientemente dal bene, come se cadessero giù i puntelli centrali che sorreggono le costruzioni, fanno cadere insieme tutto il resto, e ogni cosa giace sotto l'altra, non solo quegli stessi puntelli ma anche le parti che in seguito erano state ben costruite, in seguito alla caduta dei primi. In considerazione di queste cose, Clinia, bisogna connettere insieme ogni parte del tuo nuovo stato, senza tralasciare, nei limiti del possibile, nessun particolare di grande o di scarsa importanza, nulla di ciò che viene chiamato con il nome di leggi, costumi, consuetudini: uno stato risulta connesso insieme attraverso tutti questi legami, e nessuno di quelli è stabilmente unito senza un sostegno reciproco, sicché non bisogna stupirsi se affluiscono molte consuetudini ed usanze che ci sembrano senza importanza e che conferiscono alle leggi una lunghezza eccessiva.
CLINIA: Quello che dici è giusto, e anche noi siamo dello stesso parere.
ATENIESE: Se dunque queste norme vengono scrupolosamente applicate ad un bambino e ad una bambina di tre anni, e non si ricorre superficialmente ai principi che abbiamo detto, deriva un non piccolo vantaggio per quei bambini che stiamo allevando: il carattere di un bambino di tre, di quattro, di cinque, e di sei anni ha bisogno di giochi, ma bisogna già tenerli lontani dalla mollezza mediante punizioni, e non con disprezzo, ma, come quando, parlando degli schiavi, si diceva che si deve evitare di punirli violentemente per non suscitare in coloro che sono stati puniti l'ira, e neppure lasciarli impuniti per non determinare in loro mollezza, questo stesso atteggiamento dev'essere mantenuto nei confronti di individui liberi. Per bambini di questa età vi sono giochi naturali che essi scoprono quando si riuniscono insieme. Bisogna allora che tutti i bambini di questa età, dai tre sino ai sei anni, si riuniscano nei luoghi sacri presso ogni villaggio, e quelli di ciascun villaggio presso lo stesso luogo: e, ancora, le nutrici si devono occupare di loro perché rispettino l'ordine e non siano indisciplinati, mentre a capo delle nutrici stesse e di tutto il loro gruppo sarà stabilita, al fine di mantenere l'ordine, una delle dodici donne di cui prima si parlava, una per ogni villaggio, e la stabiliranno ogni anno i custodi delle leggi. Le scelgano le donne che sono responsabili della cura delle nozze, una da ciascuna tribù, e della loro stessa età: e quella che assume la carica, la eserciti frequentando ogni giorno il luogo sacro, e punisca sempre chi commette ingiustizia, servendosi di qualche schiavo dello stato se si tratta di uno schiavo o di una schiava, e di uno straniero o di una straniera; conducendo invece al cospetto degli astinomi, perché lo giudichino, quel cittadino che contesti la punizione, e punendolo essa stessa se non vi è motivo di contestazione. Dopo che i bambini e le bambine avranno compiuto sei anni, si separino gli uni dagli altri: i fanciulli trascorrano il loro tempo con i fanciulli, e allo stesso modo le fanciulle stiano insieme fra di loro. Bisogna intanto che gli uni e gli altri si rivolgano agli studi: i maschi devono andare dai maestri di equitazione, d'arco, di giavellotto e di fionda, e le femmine, se acconsentono, si rivolgano pure a questi studi, almeno a livello di conoscenza, e apprendano soprattutto l'uso delle armi. E a tal proposito tutti hanno un pregiudizio di cui non riescono quasi a rendersi conto.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Il fatto, cioè, che in noi la destra e la sinistra sono per natura diverse rispetto al loro impiego in ciascuna azione che svolgiamo, relativamente alle azioni che compiamo con le mani, mentre per quanto riguarda i piedi e gli altri arti inferiori non risulta esserci alcuna differenza in relazione alla loro attività: ma per quel che riguarda le mani, a causa della stoltezza di nutrici e di madri, siamo diventati ciascuno come zoppi. E se per natura l'uno e l'altro arto si equivalgono, noi stessi, per abitudine, li abbiamo resi differenti, usandoli in modo scorretto.
Vi sono alcune azioni in cui è irrilevante l'uso dell'una o dell'altra mano, come ad esempio il tenere la lira con la mano sinistra e il plettro con la destra, ed altre simili azioni: ma servirsi di queste cose come di modelli anche per altri casi dove non bisognerebbe servirsene, è quasi da stolti. La dimostrazione arriva dall'usanza degli Sciti che non usano soltanto l'arco con la sinistra, tirando verso di sé la freccia con la destra, ma usano indifferentemente entrambe le mani per l'una e l'altra operazione: e vi sono molti altri esempi del genere, come nel caso di tenere le redini e in a1tri ancora, in cui è possibile rendersi conto che agiscono contro natura coloro che rendono la sinistra più debole della destra.
E queste cose, come dicevo, non rivestono grande importanza se si tratta di plettri di corno o di altri strumenti musicali come questi: ma quando si devono usare armi di ferro per la guerra, archi, giavellotti e ognuna di queste armi, la cosa riveste invece una grande importanza, ed è ancora più importante se bisogna usare armi contro armi. E vi è una grandissima differenza fra chi conosce l'arte e chi non la conosce, e fra chi è esercitato e chi non lo è. Come infatti chi è ben allenato al pancrazio, al pugilato, alla lotta è capace di combattere anche con la sinistra, e non zoppica, e non si trascina in modo sconveniente, nel caso in cui l'avversario lo costringa a spostare dalla parte opposta il peso della lotta, allo stesso modo io credo che anche nelle armi e in tutti gli altri casi bisogna correttamente preventivare che chi dispone di due braccia per difendersi e per assalire gli altri non deve lasciarli inattivi e privi di allenamento, per quanto è possibile: e se qualcuno nascesse con una natura simile a quella di Gerione o di Briareo bisognerebbe che con le cento mani fosse in grado di scagliare cento dardi. Bisogna che si occupino di queste cose magistrati uomini e donne: le donne sorveglieranno i giochi e la formazione dei bambini, gli uomini vigileranno sull'apprendimento delle varie discipline, perché tutti, maschi e femmine, abbiano piedi e mani robuste, e con le loro abitudini non danneggino le loro nature, nei limiti del possibile.
Le discipline, per così dire, saranno di due specie, e dipenderanno dal loro uso: la ginnastica è in relazione al corpo; la musica alla fortezza d'animo. Vi sono poi due specie di ginnastica: la danza e la lotta. Della danza vi è una parte che rappresenta mimicamente la parola della Musa, cercando di custodire la magnificenza e la liberalità, un'altra è funzionale al benessere, all'agilità, alla bellezza delle membra e delle parti del corpo e studia come convenientemente quelle possono flettersi e distendersi, assegnando a ciascuna di esse un loro ritmico movimento che si diffonde e si accompagna adeguatamente per tutta la danza. Per quanto riguarda la lotta, non merita discorrere di ciò che Anteo o Cercione escogitarono nelle loro arti per un vano desiderio di competizione, o, nel pugilato, dei ritrovati di Epeo ed Amico, poiché non hanno alcuna utilità in vista della guerra: per quanto riguarda la lotta eretta, nella quale si cerca di liberare il collo, le mani, e i fianchi, e si combatte con ardore, determinazione, ed eleganza per procacciare forza e salute, essendo vantaggiosa sotto ogni aspetto, non si deve trascurare, ma bisogna imporla agli scolari e ai maestri, quando si giungerà a quel punto nella nostra legislazione, affinché i primi sappiano donare tutte queste cose con benevolenza, e gli altri perché ne facciano volentieri tesoro. Non si devono inoltre trascurare tutte quelle imitazioni che nella danza corale è conveniente imitare, come le danze armate dei Cureti che sono diffuse in questo luogo, o quelle dei Dioscuri a Sparta. Anche da noi la vergine e signora, dilettandosi nel divertimento della danza, non ritenne di doversi divertire a mani vuote, ma ornata dell'intera armatura, così svolge la danza: e questa cosa sarebbe bene che i ragazzi e le ragazze la imitassero completamente, rendendo onore alla benevolenza della dea, e preparandosi al bisogno della guerra ed alle feste.
I bambini subito, e fino a quando non sia giunto per loro il tempo di andare in guerra, devono prendere parte alle processioni e ai cortei in onore di tutti gli dèi, sempre adornati di armi e di cavalli, e danzando e procedendo ora più rapidi, ora più lenti, nelle danze e nelle processioni, rivolgeranno supplici le loro preghiere agli dèi e ai figli degli dèi. Ed anche le gare e gli esercizi preliminari ad esse non devono avere nessun altro scopo se non questo: questi esercizi sono infatti utili tanto in pace quanto in guerra, sia allo stato, sia ai privati, mentre le altre fatiche, gli altri divertimenti, e le altre occupazioni riguardanti il corpo non sono proprie di uomini liberi, Megillo e Clinia. Quella ginnastica che nelle battute iniziali della discussione dicevo che bisognava trattare, l'abbiamo trattata ora, ed è terminata: e se voi ne avete una migliore di questa, esponetela e mettetela in comune.
CLINIA Non è facile, straniero, andando oltre quanto è stato esposto, trovare altre cose migliori da dire riguardo alla ginnastica e alle gare.
ATENIESE: Quanto a quello che viene dopo queste cose, i doni, cioè, delle Muse e di Apollo, allora, come se avessimo parlato di tutto, credevamo che rimanesse soltanto la ginnastica: ma ora è evidente ciò che si doveva dire e che viene prima di tutte le altre cose. E allora diciamolo qui di seguito.
CLINIA: Dobbiamo senz'altro dirlo.
ATENIESE: Ascoltatemi, così come mi avete ascoltato in precedenza: in ogni caso, chi parla e chi ascolta deve stare in guardia rispetto ad argomenti strani ed insoliti, e così deve essere anche per noi ora. Ora farò un discorso che non si può pronunciare senza timore, e tuttavia, facendomi coraggio, non rinuncerò a pronunciarlo.
CLINIA: Qual è questo discorso che vuoi dire, straniero?
ATENIESE: Io dico che in tutti gli stati si disconosce generalmente l'enorme importanza che il genere del divertimento riveste nell'ordinamento delle leggi, riguardo al fatto, cioè, che esse siano più o meno stabili. Se questo genere di divertimento sia stabilito in modo che le stesse persone prendano sempre parte degli stessi divertimenti nello stesso modo e si dilettino degli stessi giochi, ciò permette allora che anche il complesso delle leggi, stabilito con serie intenzioni, sia stabile; se invece mutano e si rinnovano, essendo sempre soggetti ad altri cambiamenti, se i giovani non definiscono mai piacevoli le stesse cose, se non riescono mai a stabilire di comune accordo ciò che è conveniente e ciò che non lo è negli atteggiamenti del corpo e nel modo di vestirsi, mentre prediligono in modo particolare chi porta una qualche innovazione e introduce una novità diversa dal solito per quanto riguarda i loro atteggiamenti del corpo, nei colori e in tutte le altre cose di questo genere, noi possiamo allora dire senza sbagliarci che non vi sarebbe per lo stato rovina più grande di questa cosa. Tale cosa fa in modo che inconsapevolmente si mutino i costumi dei giovani, e ciò che è antico venga da essi disprezzato, mentre sia onorato ciò che rappresenta la novità. Ripeto di nuovo che per qualsiasi stato non vi è danno più grande di un discorso e di una simile credenza: ma ascoltate bene quanto è grave questo male.
CLINIA: Intendi il fatto che negli stati si disprezzi l'antichità?
ATENIESE: Certamente.
CLINIA: Avrai allora ascoltatori non disinteressati nei confronti di questo discorso, ma il più possibile bendisposti.
ATENIESE: è verosimile.
CLINIA: Parla allora.
ATENIESE: Avanti, prestiamo maggior attenzione nell'ascoltare noi stessi, e nel parlarci reciprocamente. Noi troveremo che il mutamento di qualsiasi cosa, fatta eccezione per ciò che è già malvagio di per sé, è assai pericoloso - come il mutamento nelle stagioni, nei venti, nelle diete dei corpi, nelle abitudini delle anime -, e non dico in alcune cose sì, in altre no, se non, come ho appena detto, per le malvagie: sicché, se uno prende in considerazione i corpi, può vedere come essi si abituano a tutti i cibi, a tutte le bevande, a ogni specie di fatica, e che, se in un primo tempo sono turbati da quelli, in seguito, con il passare del tempo, grazie all'azione di quei cibi e di quelle bevande, le loro carni si adattano naturalmente ad essi, e accettando e abituandosi e familiarizzandosi ad un tale regime, vivono ottimamente in vista del piacere e della salute; e se mai si è costretti a mutare uno qualsiasi di quei regimi di vita giudicati buoni, turbati in principio da malattie, a stento ci si riesce a rimettere, quando ci si abitui alla nuova alimentazione. Bisogna dunque pensare che la stessa cosa avvenga anche per la mente degli uomini e la natura delle anime. Se quelle leggi in cui sono cresciute le anime degli uomini sono rimaste immutate, per una sorte fortunata e divina, per molti e lunghissimi tempi, in modo che nessuno ricordi o abbia sentito dire che esse un tempo erano diverse da come sono ora, ogni anima nutre rispetto nei loro confronti e si mostra timorosa nel voler mutare ciò che è rimasto immutabile. Bisogna allora che il legislatore escogiti, in un modo o nell'altro, un mezzo perché queste condizioni si verifichino nel suo stato. E io lo trovo in questo modo: tutti pensano che anche se si mutano i giochi dei bambini, come dicevamo prima, rimangono effettivamente dei giochi, e ritengono che da questi cambiamenti non scaturisca un serio motivo di preoccupazione o un gravissimo danno, per cui non li dissuadono, ma li assecondano compiacenti; e non calcolano che questi bambini che innovano continuamente i loro giochi diventeranno necessariamente uomini diversi dai bambini che erano in precedenza, e diventando altre persone, ricercheranno un'altra vita, e ricercandola, saranno desiderosi di altre consuetudini e di altre leggi, e quindi alla fine si verificherà quel male gravissimo per lo stato di cui parlavo prima, e del quale nessuno di essi mostra di aver timore. Gli altri mutamenti che riguardano solo gli aspetti esteriori determineranno mali minori, ma quei frequenti mutamenti che riguardano l'elogio o la critica dei costumi di vita, io credo, sono i più gravi di tutti, e necessitano della più scrupolosa cautela.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Ebbene? Dobbiamo prestare fede ai nostri discorsi di prima, quando dicevamo che tutto ciò che riguarda i ritmi e la musica in genere è imitazione dei costumi migliori o peggiori degli uomini? O come?
CLINIA: Quella nostra opinione non può essere affatto cambiata.
ATENIESE: Dunque, diciamo, non si deve assolutamente escogitare un sistema perché i nostri bambini non abbiano desiderio di intraprendere altre imitazioni nelle danze e nel canto, e nessuno tenti di incantarli con piaceri di ogni sorta?
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: E nessuno fra noi possiede un'arte migliore di quella che posseggono gli Egizi. Non è vero?
CLINIA: Di quale arti parli?
ATENIESE: Di quell'arte per cui si consacra ogni danza e ogni canto, stabilendo dapprima le feste e calcolando, anno per anno, quali feste e in quali tempi bisogna celebrarle, e a quali dèi e figli di dèi, e demoni devono devono essere dedicate. Dopo di che bisogna stabilire i canti che devono essere intonati in occasione dei singoli sacrifici in onore degli dèi, e vedere con quali danze bisogna celebrare i vari sacrifici. Alcuni dovranno stabilire tutto ciò, e una volta stabilito, tutti i cittadini, dopo aver celebrato sacrifici in onore delle Moire e di tutti gli altri dèi, e facendo libazioni, consacrino ciascun canto ai singoli dèi e agli altri esseri: se qualcuno introdurrà altri inni o canti contrari a questi già stabiliti, i sacerdoti e le sacerdotesse insieme ai custodi delle leggi glielo proibiscano, e tale proibizione sia dovuta a motivi di santità e sia conforme alle leggi, e se chi è stato impedito non accetta volontariamente questa proibizione, chiunque voglia potrà accusarlo di empietà per tutto il corso della sua esistenza.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Giunti ora a questo punto del discorso, disponiamoci nello stato d'animo più conveniente a noi stessi.
CLINIA: Di che cosa parli?
ATENIESE: Ogni giovane, e non solo, ma anche un vecchio, vedendo o ascoltando qualcosa di insolito e di strano, non correrebbe immediatamente per mostrare il suo assenso a quelle cose di cui è dubbioso, ma arrestandosi come se fosse giunto ad un incrocio di tre strade e non sapendo assolutamente quale strada prendere, sia che viaggi da solo o in compagnia di altri, interrogherà se stesso e gli altri sul suo dubbio, e non si muoverà prima di aver valutato con sicurezza dove conduce quella strada. E anche noi dobbiamo fare così nella presente circostanza: essendoci imbattuti in uno strano discorso sulle leggi, è necessario condurre un'attenta analisi, e alla nostra età non possiamo parlare con faciloneria di un argomento tanto importante, sostenendo di avere qualcosa di chiaro, non appena si presenta una questione.
CLINIA: Vero.
ATENIESE: Concediamo un po' di tempo a tale questione, e decideremo con sicurezza quando l'avremo adeguatamente esaminata: e per non impedire invano lo sviluppo dell'esposizione delle leggi che ora stiamo ordinando in sequenza, procediamo alla loro conclusione. Forse, se il dio lo vuole, la stessa esposizione delle leggi, una volta che sia adeguatamente conclusa, indicherà la via di uscita alla presente difficoltà.
CLINIA: Benissimo, straniero, e facciamo come dici.
ATENIESE: Rimanga stabilita, diciamo, questa stranezza, e cioè che per noi i canti sono divenuti leggi. E come gli antichi così chiamavano, a quanto pare, i canti che si accompagnavano con la cetra - in modo che forse neppure quelli si allontanavano del tutto da ciò che ora diciamo, e forse qualcuno nel sonno o anche da sveglio, come in un sogno, ebbe tale divinazione -, così dunque sia stabilito questo decreto riguardo a questo punto: nessuno canti, né danzi in modo contrario a quei canti che sono dello stato e sono sacri, e a tutte le danze dei giovani, e nessuno trasgredisca questo decreto più di qualsiasi altra legge. E chi farà in tal modo sia lasciato andare libero da pena, ma per chi disobbedisce, come si è detto ora, i custodi delle leggi, i sacerdoti, e le sacerdotesse lo puniscano. Dobbiamo introdurre ora tali regole nel nostro piano legislativo?
CLINIA: Sì, introduciamole.
ATENIESE: Ma come potrebbe un legislatore non esporsi completamente al ridicolo stabilendo tali norme? Vediamo ancora questa cosa a tal proposito. La cosa più sicura da fare è cominciare innanzitutto a formare con la parola alcuni esempi che si riferiscano a queste norme, e fra questi esempi ve n'è uno, il seguente, di cui voglio parlare: se, diciamo, dopo un sacrificio, bruciate le sacre offerte secondo la legge, qualcuno, figlio o fratello del sacrificante, stando insolitamente dinanzi agli altari e alle sacre offerte, proferisse ogni sorta di bestemmie, non diremmo che parlando così susciterebbe nel padre e negli altri famigliari uno scoramento, e un malvagio augurio, e un triste presagio?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Questo fatto si verifica, per così dire, nei nostri luoghi, in quasi tutti gli stati, salvo rare eccezioni: quando infatti un qualche magistrato ha compiuto pubblicamente un sacrificio, in seguito non un solo coro, ma una moltitudine di cori si avvicina, e stando non lontano dagli altari, ma vicinissimi agli altari, riversano ogni sorta di bestemmie sulle sacre offerte, e con parole, ritmi, e armonie lamentevoli stimolano l'anima degli ascoltatori, e vince il premio della vittoria che riesce a far piangere improvvisamente la città mentre compie sacrifici. Non aboliremo questa usanza? E se i cittadini devono ascoltare questi lamenti quando i giorni non siano puri ma nefasti, non bisognerebbe forse che vengano da fuori cori pagati per cantare, come avviene nei funerali dove alcuni vengono pagati per accompagnare il morto con nenie carie? Questo sarebbe adatto anche per i canti di questo genere: e come abbigliamento, non corone, non ornamenti d'oro sarebbero adatti a questi canti funebri, ma tutto il contrario, per non dilungarmi ancora su tali questioni. A questo punto torno di nuovo a interrogare noi stessi per vedere se, fra gli esempi, questo primo esempio che riguarda i nostri canti ci sia di nostro gradimento e possa essere stabilito fra le nostre leggi.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Che si pronuncino parole di buon augurio, e anche che il genere del canto sia per noi in ogni caso favorevole? O non dovrei fare questa domanda, ma stabilire così la cosa?
CLINIA: Stabiliscila senz'altro: questa legge vince con tutti i voti.
ATENIESE: E dopo la legge sul buon augurio, quale sarà la seconda legge della musica? E i canti non sono preghiere rivolte agli dèi cui ogni volta si fanno sacrifici?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: La terza legge, io credo, consiste nel fatto che i poeti devono riconoscere che le preghiere sono richieste rivolte agli dèi, e che dunque essi devono prestare molta attenzione a non domandare inconsapevolmente il male al posto del bene: si verrebbe a verificare, io credo, una situazione ridicola, se le preghiere avvenissero in tal modo.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ma non ci siamo persuasi, un poco sopra nel discorso, che né ricchezza d'argento, né d'oro deve abitare ed essere collocata nello stato?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Per quale ragione abbiamo mai riportato questo esempio nel presente discorso? Forse per questo motivo, e cioè perché la stirpe dei poeti non è del tutto idonea a riconoscere ciò che è buono da ciò che non lo è? Se dunque un poeta tanto nelle parole quanto nel canto commetterà tale errore, e quindi non formulerà preghiere in modo corretto, farà in modo che i nostri cittadini, per le loro questioni più importanti, rivolgeranno agli dèi preghiere opposte rispetto a ciò che desiderano. E senza dubbio, come dicevamo, non troveremo molti errori più gravi di questo. Stabiliamo anche questa norma fra le leggi attinenti alla musica e fra i suoi caratteri distintivi?
CLINIA: Quale? Spiegacelo più chiaramente.
ATENIESE: Il poeta non può comporre null'altro che sia contrario a quanto le leggi dello stato hanno stabilito come giusto. bello, e buono; le composizioni non devono essere mostrate a nessuno dei privati cittadini, se non sono state prima giudicate ed approvate dai giudici e dai custodi delle leggi che sono stati designati a questo scopo: e noi abbiamo designato quei giudici che abbiamo scelto per la musica e la cura dell'educazione. Ebbene?
Come io domando di frequente, dobbiamo stabilire, come legge, anche questo terzo tratto distintivo, questo terzo esempio. O come è meglio fare?
CLINIA: Dobbiamo stabilirla senz'altro.
ATENIESE: Dopo di che si potranno assai rettamente intonare inni e canti di lode agli dèi insieme alle preghiere, e dopo gli dèi, allo stesso modo, si potranno innalzare preghiere, insieme ai canti di lode, i quali siano più convenienti per tutti questi, rivolte ai dèmoni e agli eroi.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Dopo di che seguirà immediatamente, senza suscitare invidia alcuna, la seguente legge: quei cittadini che siano giunti al termine della vita, avendo compiuto belle ed ardue opere con il corpo e con l'anima, e avendo obbedito alle leggi, sì ritenga opportuno di elogiarli.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Non è cosa sicura rendere onori con encomi e con inni a coloro che sono ancora in vita, prima che uno abbia percorso tutta la sua esistenza e sia arrivato alla conclusione in modo onorevole: tutti questi onori siano per noi comuni agli uomini e alle donne che si sono distinti per il loro valore. In tal modo si devono stabilire i canti e le danze.
Vi sono delle belle e numerose composizioni musicali di antichi poeti, e così delle danze per i corpi; e fra queste, senza alcun problema, potremo scegliere quella che più conviene e si adatta alla costituzione che stiamo fondando. Il loro esame e la relativa scelta devono essere compiuti da persone che non abbiano meno di cinquant'anni selezionate per questo incarico; essi sceglieranno fra le opere antiche quelle che sembreranno essere più adatte, mentre respingeranno nel modo più assoluto quelle difettose o del tutto inadatte: quanto a quelle composizioni che sono da riprendere e correggere, le correggeranno, assumendo come collaboratori poeti e musici, e servendosi delle loro competenze artistiche, non concederanno nulla, o al limite ben poco, ai loro gusti o ai loro desideri, ma spiegheranno loro le intenzioni del legislatore, secondo le quali la danza, il canto, e tutta quanta l'arte corale devono essere composti in modo conforme allo spirito di quelle intenzioni. Ogni brano poetico che sia disordinato, quando assume un ordine, anche se non avrà in sé la dolcezza della musica, sarà mille volte migliore: in ogni caso il piacere è comune a tutte le opere.
Chi da bambino fino all'età adulta della ragione è vissuto coltivando una musa saggia ed ordinata, ascoltando quella contraria, la detesta, e la definisce illiberale, mentre chi è stato allevato nella musa volgare e dolce, dice che quella opposta è fredda e sgradevole: sicché, come ora dicevo, relativamente al piacere e all'assenza di esso, nessuna delle due supera l'altra, se non che l'una rende, ogni volta, migliori, l'altra peggiori coloro che in essa sono stati allevati.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: Inoltre bisognerebbe separare, stabilendo un certo criterio, i canti che sono convenienti per le donne e quelli per gli uomini, e occorrerebbe adattarli a ritmi ed armonie: sarebbe preoccupante infatti che si cantasse in disaccordo con l'intera armonia, o non si rispettassero i ritmi, senza assegnare a ciascuno di questi canti tali elementi che loro si adattano. Bisogna fissare per legge un progetto di massima anche in questo campo. è possibile assegnare l'uno e l'altro di questi elementi all'uno e all'altro sesso, perché necessariamente vi si adattino, ed è necessario distinguere con chiarezza ciò che appartiene all'uomo e ciò che appartiene alla donna, sulla base della distinzione stessa che passa fra la diversa natura dei due sessi. E quindi bisogna dire che la nobiltà d'animo e la tendenza al coraggio sono propri del maschio, mentre la propensione all'ordine e alla saggezza si devono riconoscere alla natura femminile, tanto nella legge, quanto nel nostro discorso. E questo è l'ordinamento generale della materia.
Dopo di che si deve parlare dell'insegnamento e della trasmissione di tali cose, e in che modo vanno fatte ciascuna di queste cose, e da chi, e quando. Come ad esempio un costruttore di navi, quando comincia la sua opera, costruendo la carena, traccia quella che sarà la forma delle navi, anche a me pare di far la stessa cosa, quando cerco di tracciare i vari schemi delle vite, distinguendole a seconda dei tratti distintivi delle diverse anime, e mi sembra in effetti di fabbricare la loro carena, valutando correttamente con qual mezzo, e con quali costumi vivendo, compiremo questa navigazione della vita. Le questioni umane non sono degne di grande interesse, ma bisogna interessarsi ad esse: e non si tratta certo di una cosa fortunata. Ma dal momento che siamo giunti a questo punto, sarà forse per noi conveniente fare questa cosa come si deve. Che cosa mai voglio dire? Se qualcuno replicasse in questo modo al mio discorso, replicherebbe bene.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Io dico che dobbiamo occuparci di ciò che è serio, e non di ciò che serio non è: e per natura ciò che è divino è degno di ogni interesse, come un essere beato, mentre l'uomo, come dicevamo prima, è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi, ed in effetti questa è la sua parte migliore. In conseguenza di questa concezione, ogni uomo e ogni donna devono vivere giocando al meglio possibile questo gioco, pensando il contrario di ciò che oggi si pensa.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Oggi si pensa che le cose serie siano in funzione dei divertimenti: si ritiene, ad esempio, che le questioni riguardanti la guerra, che sono appunto cose serie, debbano essere ben stabilite in funzione della pace. Ma ciò che accade in guerra non è per natura un divertimento, e non ha e non avrà mai una funzione educativa che meriti la nostra attenzione, mentre questa diciamo che secondo noi è la cosa più impegnativa: ognuno deve trascorrere il più possibile e il meglio possibile la propria esistenza in pace. Quale sarà allora un retto criterio per vivere? Bisogna vivere giocando i propri giochi, facendo sacrifici, cantando e danzando, in modo da poter rendere benevoli a se stessi gli dèi, respingendo i nemici e vincendoli in battaglia. Quali siano i canti e quali le danze che bisogna compiere per realizzare questi due obiettivi, lo si è detto almeno nei suoi lineamenti generali, e le strade attraverso le quali si deve procedere sono state aperte, prevedendo che anche il poeta dirà bene quando afferma: «Telemaco, alcuni pensieri penserai tu stesso nel tuo animo, altri il tuo demone te li suggerirà: non credo infatti che tu sia nato e cresciuto contro il volere degli dèi». Le stesse cose dovranno pensare i nostri allievi, e dovranno ritenere che quanto è stato detto è sufficiente, e che quel che manca intorno ai sacrifici e alle danze sarà loro suggerito da un demone o da un dio: essi suggeriranno cioè a quali divinità bisogna fare sacrifici, e quando ciascuno deve essere celebrato, e quali renderanno propizi, in modo da poter vivere conformemente alla natura umana, essendo per lo più come delle marionette, e partecipando in piccola parte della verità.
MEGILLO: Straniero, tu nutri nei confronti del genere umano un assoluto disprezzo.
ATENIESE: Non stupirti, Megillo, e piuttosto perdonami: ho parlato con lo sguardo rivolto alla divinità, e in queste condizioni ho detto le cose che ho appena detto. Non sia di scarso valore il nostro genere, se ti piace, ma sia degno di un qualche interesse. Per quanto riguarda quel che segue, si è già parlato delle costruzioni dei ginnasi e delle scuole pubbliche che si troveranno nel centro della città in tre luoghi distinti; mentre all'esterno della città, in altri tre luoghi intorno ad essa, vi saranno dei maneggi e dei vasti campi adeguatamente allestiti per il tiro con l'arco e gli altri lanci, e saranno in funzione dell'istruzione e dell'allenamento dei giovani: se allora queste regole non sono state stabilite in modo adeguato, ripetiamole ora nel discorso insieme alle nostre leggi. In tutti questi edifici abiteranno in qualità di ospiti i maestri di ogni disciplina, attratti e convinti dal compenso, e insegneranno agli allievi che frequenteranno le lezioni tutte quante le discipline attinenti la guerra e la musica; e per quanto riguarda la frequenza, non si frequenteranno le lezioni se il padre lo vuole, mentre se non lo vuole, si trascurerà l'educazione, ma tutti, come si dice, uomini e ragazzi, nei limiti del possibile, dovranno necessariamente istruirsi, poiché appartengono di più allo stato che ai genitori. La mia legge direbbe per le donne le stesse cose dette per gli uomini, e cioè che anche le donne dovrebbero praticare gli stessi esercizi: e farei questo discorso senza temere neppure quel che si dice dell'equitazione e della ginnastica, e cioè che quegli esercizi sono più convenienti per gli uomini, e non lo sono per le donne. Mi sono convinto di queste cose ascoltando antichi racconti, e anche ora so, per così dire, che vi è un numero immenso di donne che vivono nel Ponto, e che chiamano Sauromatidi, alle quali non viene soltanto ordinato, come i maschi, di prendere confidenza con i cavalli, ma anche nell'uso degli archi e delle altre armi, e, allo stesso modo dei maschi, di esercitarsi in tali pratiche. Inoltre a tal proposito posso fare quest'altra riflessione: io dico che se queste cose possono avvenire in tal modo, la cosa più stolta di tutte che oggi avviene nei nostri luoghi è che uomini e donne non si applicano con ogni sforzo concordemente a queste pratiche.
E in un certo senso uno stato che si trova o viene ad essere in tali condizioni, partendo con gli stessi fini e dovendo affrontare le stesse fatiche, ottiene la metà dei risultati, anziché il doppio: e questo sarebbe un incredibile errore del legislatore.
CLINIA: Pare di sì. Però molte delle regole di cui stiamo parlando vanno in senso contrario alle consuete forme di governo. Ma tu hai detto di lasciare che il discorso si sviluppasse, e una volta sviluppato, si doveva scegliere quel che sembrava migliore, e hai detto così, parlando in modo assai conveniente, e ora hai fatto in modo che io rimproveri me stesso per aver detto queste cose: continua, allora, e parla di quello che preferisci.
ATENIESE: Questo, Clinia, vorrei dire, e l'ho già detto prima, e cioè che se non si desse adeguata dimostrazione con i fatti che tali cose possono avvenire, solo allora si potrebbe contestarle col discorso; ma ora chi non voglia accettare questa legge, deve ricercarne un'altra, mentre la nostra esortazione a tal proposito non smetterà di sostenere che il genere femminile presso di noi deve prendere parte dell'educazione e di tutto il resto come il sesso maschile. Ed ecco la riflessione che a tal proposito si dovrebbe fare. Avanti, se le donne non partecipassero insieme agli uomini del loro modo di vivere, non sarebbe forse necessario predisporre per loro un altro ordinamento?
CLINIA: Necessario.
ATENIESE: Quale fra le regole che oggi si presentano noi preferiremmo al posto di questa comunanza di vita che ora noi abbiamo loro ordinato? Dovremmo comportarci come i Traci e molte altre genti che si servono delle donne per coltivare la terra, pascolare gli animali e le greggi, e compiere altri servizi, senza che vi sia alcuna distinzione con gli schiavi? O fare come facciamo noi e i nostri vicini? Presso di noi la cosa avviene in questo modo: dopo aver ammassato insieme, come si dice, tutti i beni in un'unica abitazione, affidiamo alle donne il compito di amministrarle, e di coordinare i lavori al telaio e tutta la tessitura in genere.
Oppure, Megillo, proponiamo quel sistema che sta a metà fra questi, quello Laconico? E quindi le ragazze devono trascorrere la vita prendendo parte della ginnastica e della musica, mentre le donne, pur non occupandosi della tessitura, devono vivere secondo uno stile di vita severo, che non sia per nulla vile e volgare, e che raggiunga una via di mezzo fra la cura della casa, l'amministrazione domestica e l'allevamento dei figli, senza partecipare alla guerra? Sicché, se per caso vi fosse necessità di combattere in battaglia per lo stato e i figli, non sarebbero capaci di usare con l'arte l'arco, come le Amazzoni, o le altre armi da lancio, né di imitare la dea quando prende in mano lo scudo e la lancia, così da opporsi nobilmente al saccheggio della patria, ma, se non altro, sarebbero forse in grado di provocare la paura nei nemici presentandosi schierate. Vivendo secondo questo stile di vita, esse non avrebbero affatto il coraggio di imitare le Sauromatidi, ma accanto ad altre donne queste donne sembrerebbero uomini. Colui che fra di voi voglia elogiare su questo punto i vostri legislatori, lo faccia pure; per quanto mi riguarda, invece, non muterò parere: il legislatore non deve lasciare le cose a metà, ma deve completarle; se egli permette che le donne si concedano alla mollezza, e le perde abbandonandole ad un tenore di vita sconsiderato, prendendosi cura solo dei maschi, egli lascia in eredità allo stato una vita che è felice solo a metà, e non doppia.
MEGILLO: Che faremo, Clinia? Lasceremo che questo straniero assalti in questo modo la nostra Sparta?
CLINIA: Sì. Poiché gli abbiamo lasciato libertà di parola, ora dobbiamo lasciarlo parlare finché non abbiamo esposto completamente e in modo adeguato le leggi.
MEGILLO: Giusto.
ATENIESE: Dunque devo cercare di spiegare quello che segue?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Quale sarà il tenore di vita di uomini che si sono procurati in giusta misura le cose necessarie, a vantaggio dei quali sono stati affidati ad altri i mestieri, e affidata agli schiavi la coltivazione dei campi, che offrono le primizie della terra sufficienti per vivere decorosamente, uomini per i quali sono stati preparati i pasti in comune, tenendo separati quelli dei maschi e avvicinando ad essi quelli delle loro famiglie, bambini, donne, e madri? Uomini per cui tutti i pasti in comune sono affidati ai magistrati di entrambi i sessi con il compito di scioglierli, dopo aver osservato e controllato ogni giorno la condotta dei commensali? E dopo aver assolto questi doveri, essi, i magistrati, e gli altri fanno libagioni agli dèi cui quella notte e quel giorno sono consacrati, e fatto ciò, se ne vanno a casa? Per uomini che vivono secondo un ordine simile non rimane nessun'altra attività necessaria e assolutamente opportuna se non quella di dover vivere, ciascuno di quelli, ingrassando come buoi? Noi diciamo che questo non è giusto e non è bello, e chi vive in questo modo non potrà sfuggire alla sorte che gli merita, così come l'animale pigro e che con noncuranza è ingrassato diventerà preda di un altro animale che il coraggio e le fatiche hanno reso magro ed agile. Se noi ricercassimo con sufficiente precisione queste cose, forse non raggiungeremmo mai lo scopo, finché avremo donne, figli, e abitazioni private, e privatamente avremo tutte le altre cose del genere, appositamente allestite per ciascuno di noi: ma se avessimo ciò che abbiamo detto che occupa il secondo posto dopo quelle cose, l'avremmo in misura del tutto conveniente.
Agli uomini che vivono in questo modo diciamo che rimane un'attività non piccola, e neppure di scarso valore, ma anzi, forse la più importante di tutte che possa essere stabilita da una giusta legge: e infatti, in confronto a quella vita che non assicura tempo libero per tutte le altre attività, la vita cioè di chi cerca di conseguire la vittoria nelle gare Pitiche e Olimpiche, quella vita che con assoluta correttezza si è detto che si prende cura del corpo e dell'anima in funzione della virtù, è priva in misura doppia e anche di più di tempo libero. Nessun impegno superfluo in altre attività deve essergli d'impedimento durante l'apporto di quegli esercizi fisici e del nutrimento che convengono al corpo, o di nozioni e di abitudini all'anima; ma direi quasi che tutta una notte e un giorno non sono sufficienti, per chi voglia agire in questo modo, a realizzare in modo compiuto ed adeguato questo genere di vita: stando in questi termini la natura di tali cose, bisogna che tutti gli uomini liberi occupino il loro tempo secondo un ordine stabilito, cominciando dall'aurora, senza interruzione, sino all'altra aurora, e al sorgere del sole.
Se un legislatore enunciasse quelle numerose, e frequenti, e piccole norme concernenti il governo di una casa, non apparirebbe dignitoso, e neppure apparirebbe dignitoso se enunciasse tutte quelle altre norme sulla veglia notturna e su coloro che desiderano prestare una completa e scrupolosa sorveglianza su tutto lo stato. Tutti però devono ritenere vergognoso e indegno di un uomo libero che un qualsiasi cittadino trascorra tutta la notte dormendo, e non si mostri dinanzi ai suoi servi sveglio e alzato per primo, in qualsiasi modo si debba chiamare questo fatto, “legge” o “consuetudine”: e che una padrona in una casa si faccia svegliare dalle ancelle, e non sia essa stessa la prima che svegli le altre, ebbene, lo schiavo, la schiava, il figlio, e se possibile, tutta l'intera famiglia devono denunciare questo fatto vergognoso.
Bisogna che di notte tutti stiano svegli e ognuno svolga i propri compiti riguardanti lo stato e l'amministrazione dello stato, i magistrati nello stato, i padroni e le padrone nelle case private. Il sonno eccessivo non si adatta per natura né ai nostri corpi, né alle nostre anime, né alle azioni che essi devono compiere. Se uno dorme non è degno di alcuna considerazione, non di più, almeno, di chi non vive: ma chi di noi si preoccupa maggiormente di vivere e di riflettere, rimane sveglio il più a lungo possibile, custodendo soltanto quella parte di sonno che gli serve per mantenere la salute, e in realtà non è molto il sonno, se uno ha preso una buona abitudine. I magistrati che negli stati rimangono svegli di notte incutono paura nei malvagi, siano essi nemici o cittadini, ma sono amati e onorati dalle persone giuste e assennate, perché sono utili a se stessi e allo stato.
Una notte trascorsa in tal modo, oltre a tutti i vantaggi di cui si è detto, infonde un certo coraggio nelle anime dei singoli cittadini: e quando si fa giorno bisogna mandare i ragazzi dai maestri, perché come nessun gregge e nessun altro animale può vivere senza il pastore, neppure i ragazzi possono fare a meno dei pedagoghi, né i servi dei padroni. Il bambino è senza dubbio il più difficile a trattare fra tutti gli altri animali: quanto più la sua fonte del pensiero non ha ancora raggiunto un suo ordine, tanto più diviene insidioso, scaltro, il più ribelle di tutti gli animali. Perciò bisogna tenerlo a freno con molti legami, come le briglie dei cavalli, e innanzitutto, quando si libera dalla sorveglianza di nutrici e di madri, bisogna affidarlo ai pedagoghi perché si prendano cura della loro giovane età, e poi ai maestri che insegneranno loro quelle discipline che si convengono ad un uomo libero. E qualsiasi uomo libero punisca, come se fosse uno schiavo, il ragazzo stesso, e il pedagogo, e il maestro, nel caso in cui uno di questi compiano un qualche sbaglio. E se pur presentandosi l'occasione non lo punisce secondo giustizia, diventi innanzitutto oggetto della più grave vergogna, e in seguito quel custode delle leggi che sia stato scelto in qualità di sovrintendente all'educazione dei bambini sorvegli questo individuo che, imbattendosi nelle persone di cui parliamo, non le punisce, pur dovendole punire, o le punisce in modo non corretto, e lo stesso custode, tenendo sotto stretta osservazione e curandosi in modo particolare della formazione dei ragazzi, cerchi di correggere le loro indoli naturali, rivolgendole sempre in vista del bene, conformemente alle leggi. Come la legge potrebbe adeguatamente istruire quel custode delle leggi? Sino a questo momento, infatti, non si è parlato per niente in modo esplicito ed esauriente, ma qualche volta sì, altre volte no: nei limiti del possibile, nulla si deve allora tralasciare, ma tutto il discorso dev'essergli spiegato, perché questi a sua volta diventi interprete ed educatore nei confronti di altri. Per quel che riguarda il complesso della danza corale, ovvero il canto e le danze, si è già detto, e così quali componimenti si debbano scegliere e quali tratti distintivi devono avere, e come devono essere corretti e consacrati: ma per quanto riguarda i componimenti in prosa, e cioè con quali componimenti devono avere a che fare, e in che modo, i giovani da te educati, non lo abbiamo ancora detto, o nobilissimo sovrintendente della gioventù. Eppure, mentre attraverso il nostro discorso sei venuto a conoscenza di quelle cose che essi debbono imparare per la guerra e nelle quali devono esercitarsi, per quanto riguarda le lettere innanzitutto, e in secondo luogo per quel che concerne la lira e quei calcoli di cui diciamo che ciascuno deve avere conoscenza per farne uso in guerra, e nell'economia domestica, e nell'amministrazione dello stato, e per quanto riguarda ancora quelle utili conoscenze, in vista sempre di questi stessi fini, sulle rivoluzioni dei corpi celesti, degli astri, cioè, del sole, e della luna, tutte cose che risultano necessarie per la guida di ogni stato, ebbene, che cosa voglio dire con queste cose? Mi riferisco cioè alla disposizione dei giorni nell'arco dei mesi, e dei mesi nell'arco di ogni anno, perché le stagioni, i sacrifici, e le feste, assumendo ciascuna un proprio ordine, siano condotti secondo natura, e rendano vivo e sveglio lo stato, e onorino gli dèi, e rendano gli uomini maggiormente saggi in tali cose. Tutto ciò, amico, non è stato ancora sufficientemente delineato dal legislatore: presta dunque attenzione a quel che sarà detto ora.
Abbiamo detto che in primo luogo non sei stato sufficientemente istruito per quel che riguarda le lettere; ma che cosa rimproveravamo a quel che si disse? Questa cosa: non ti è stato ancora spiegato se chi aspira a diventare un buon cittadino deve procedere in direzione di una perfetta conoscenza di questa disciplina o se deve metterla da parte, e lo stesso si dica della lira. Noi sosteniamo che lo studio di queste discipline vadano affrontate. Tre anni sono un tempo ragionevole per apprendere la grammatica per un bambino di dieci anni, mentre possono cominciare a prendere in mano la lira a tredici anni, e potranno continuare per altri tre anni. E questi termini di tempo non siano allungati o ridotti dal padre o dall'allievo stesso; e all'allievo, che ami la disciplina o la detesti, non sia concesso di occuparsi di un tempo maggiore o minore di tali cose, andando contro la legge: e chi non obbedisce sia privato degli onori dell'educazione, di cui dovremo parlare fra poco. Prima di tutto impara che cosa i giovani devono apprendere e che cosa i maestri devono insegnare in questo periodo di tempo. I giovani devono esercitarsi nella grammatica, finché non siano capaci di leggere e scrivere: lasciamo stare se ad alcuni la natura non è venuta in aiuto, negli anni stabiliti, per perfezionare la scrittura e la lettura sotto l'aspetto della bellezza e della velocità. Quanto agli insegnamenti dei poeti che ci sono rimasti per iscritto ma che non sono adatti all'uso della lira, alcuni in versi, altri senza divisioni ritmiche, e che in ogni caso sono stati scritti con uno stile discorsivo, e sono privi di ritmo ed armonia, si tratta di opere che noi dobbiamo considerare pericolose, e ci sono state lasciate da molti uomini di questo genere: come vi regolerete, o voi che siete fra tutti i migliori custodi delle leggi? Come il legislatore potrà introdurle nello stato, secondo corrette disposizioni? Prevedo che si troverà in grande difficoltà.
CLINIA: Perché mai, straniero, mostri di parlare a te stesso con così tanta incertezza?
ATENIESE: Giusta osservazione, Clinia. E dato che insieme discutiamo sulle leggi, è necessario spiegare tanto quel che appare semplice, quanto quello che non lo è.
CLINIA: Ebbene? Che cosa vuoi dire a proposito di quest'argomento e qual è il tuo stato d'animo a questo riguardo?
ATENIESE: Lo dirò: non è affatto semplice fare delle affermazioni contrarie a quelle che escono da moltissime bocche.
CLINIA: E dunque? Ti sembra che fra le cose che in precedenza abbiamo detto sulle leggi sono poche e di scarso interesse quelle che contrastano con l'opinione della maggioranza?
ATENIESE: è proprio vero quello che dici: tu mi esorti, almeno così mi pare, a percorrere la stessa strada che a molti è ostile, ma che da altri, non inferiori di numero - e se inferiori, non per il loro valore - è invece prediletta. Insieme a costoro mi esorti allora a percorrere l'attuale via della legislazione che è stata aperta dai precedenti discorsi, affrontando i dovuti rischi e con animo coraggioso, senza arrendersi.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E non mi arrenderò. Dico allora che noi abbiamo moltissimi poeti che hanno composto in esametri, in trimetri, e in tutti gli altri generi che si dicono “metri”, alcuni mossi verso serie intenzioni, altri tendenti al riso; e sono molti quelli che dicono che i giovani che aspirano ad essere educati rettamente devono essere allevati in mezzo a quelle composizioni e che bisogna renderli sazi, facendo sì ch'essi ascoltino con attenzione e si erudiscano nelle loro letture, imparando per intero i poeti a memoria. Alcuni poi, scegliendo fra tutte le composizioni quelle più importanti e radunando insieme alcuni passi per intero, dicono che si devono imparare a memoria, se uno vuole diventare buono e saggio, grazie ad una molteplice esperienza e a un lungo apprendimento. Tu mi consigli allora di mostrare a costoro, con franchezza, che cosa dicono o che cosa non dicono di buono?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Come potrei adeguatamente spiegare in una parola tutte queste cose? Questo, io credo, direi in linea di massima - e su questo punto chiunque potrebbe trovarsi d'accordo con me -, e cioè che ciascuno di loro ha detto molte cose buone, e molte cose che al contrario non lo sono: e se le cose stanno così, dico che un'erudizione approfondita è assai rischiosa per i giovani.
CLINIA: Che cosa consiglieresti allora al custode delle leggi?
ATENIESE: Riguardo a che cosa?
CLINIA: Riguardo al modello cui dovrebbe rivolgere la propria attenzione, e in base a cui permette che tutti i giovani apprendano alcune cose, vietandone altre. Parla e non avere esitazioni.
ATENIESE: Mio buon Clinia, può darsi che in qualche modo ci sia riuscito.
CLINIA: In che cosa?
ATENIESE: Nel fatto che non ho assolutamente difficoltà per il modello. Considerando ora i discorsi che noi abbiamo passato in rassegna dall'aurora sin qui - e mi pare che non sia mancata l'ispirazione divina - mi sembrano assolutamente simili ad un'opera di poesia. E così non si insinua in me alcun sentimento di meraviglia, quando, provando un certo piacere, getto uno sguardo su tutti questi discorsi, ormai familiari, riuniti insieme: e mi sembrano i più convenienti e i più adatti da fare ascoltare ai giovani, fra i molti che ho appreso e ascoltato in poesia e in prosa.
Non avrei altro modello migliore di questo, credo, da esporre al custode delle leggi, all'educatore, se non appunto quello di esortare i maestri ad insegnare ai ragazzi queste stesse cose, ed altre simili a queste; e se avviene che, scorrendo le opere dei poeti e gli scritti in prosa, o anche semplici detti, giunti così, senza essere stati scritti, alcuni siano come fratelli di questi discorsi, in alcun modo li lascino sfuggire, ma li scrivano. E in primo luogo costringa i maestri ad apprenderli e a farne l'elogio, e non si serva della collaborazione di quei maestri cui queste opere non piacciono, mentre si deve valere del contributo di coloro che trova concordi nell'elogio, e a costoro affidi l'istruzione e l'educazione dei giovani. A questo punto e in tal modo abbia termine questo mio racconto sulle lettere e sui maestri di grammatica.
CLINIA: Secondo le nostre premesse, straniero, non mi pare che ci siamo allontanati dai discorsi che avevamo stabilito di fare: se poi essi nel complesso siano corretti o meno, sarebbe difficile affermarlo con sicurezza.
ATENIESE: Ma questo, Clinia, risulterà con maggior chiarezza, a quanto pare, quando, come abbiamo detto spesso, saremo giunti alla conclusione di tutto questo trattato sulle leggi.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Dunque dopo il maestro di grammatica, non dobbiamo parlare del maestro di cetra?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Se ci ricordiamo i discorsi precedenti, io credo che noi dobbiamo assegnare ai maestri di cetra ciò che è conveniente al loro insegnamento e a tutta l'educazione che è relativa a quest'ambito.
CLINIA: Di che cosa parli?
ATENIESE: Dicevamo, credo, che i sessantenni cantori di Dionisio devono possedere una spiccata sensibilità, sia nei ritmi sia nelle combinazioni delle armonie, perché ciascuno possa distinguere e scegliere l'imitazione musicale buona da quella malvagia, quando l'anima si trovi in tali passioni, e quei canti che assomigliano all'imitazione buona e a quella contraria, in modo da respingere gli uni e presentare gli altri, eseguendoli e incantando le anime dei giovani, ed invitando ciascuno di loro ad acquistare la virtù, accompagnandolo attraverso le rappresentazioni.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Bisogna che per queste ragioni il maestro di cetra e il suo allievo si servano dei suoni della lira, in virtù del suono puro delle sue corde, facendo in modo che i suoni della lira siano accordati con quelli della voce: quanto alle diversità di voci e alle variazioni sulla lira, e ai differenti suoni che le corde possono dare rispetto a quelli che ha stabilito il poeta quando ha composto il canto, e per quanto riguarda l'accostamento e l'opposizione di suoni frequenti e rari, rapidi e lenti, acuti e gravi, e, allo stesso modo, per l'adattamento ai suoni della lira di ogni sorta di variazione dei ritmi, ebbene, tutte queste cose non servono ai ragazzi, che in tre anni devono scegliere con rapidità quel che vi è di utile nella musica. Infatti elementi opposti fra di loro procurano turbamento e sono difficili da apprendere, mentre bisogna che i ragazzi possano imparare il più possibile con facilità: e le discipline che essi necessariamente hanno l'ordine di apprendere non sono poche, né di scarso valore, e le indicherà lo stesso discorso, procedendo nel tempo. In ogni caso l'educatore si prenda cura in questo modo di queste cose concernenti la musica. Quanto ai canti stessi e alle loro parole, in che modo e quali i maestri dei cori devono insegnare, anche questi punti noi li abbiamo tutti trattati nei discorsi che precedono, quando dicevamo che questi canti devono essere consacrati, adattando ciascuno di essi alla sua festa, in modo da procurare allo stato un fortunato e vantaggioso piacere.
CLINIA: Anche queste cose che hai detto sono vere.
ATENIESE: Verissime davvero. E quindi il magistrato scelto a sovrintendere la musica, ricevendo questa nostra verità, se ne prenda cura, accompagnandosi a una sorte benevola, mentre noi aggiungeremo qualche parola a quanto abbiamo detto prima sul complesso della danza e sulla ginnastica del corpo: come per la musica abbiamo detto ciò che restava da dire sul suo insegnamento, così facciamo anche per la ginnastica. Bisogna che ragazzi e ragazze imparino a danzare e a praticare la ginnastica. O no?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: I ragazzi avranno rispettivamente i loro maestri e le loro maestre di danza perché si esercitino nel modo più opportuno.
CLINIA: Sia così.
ATENIESE: Chiamiamo di nuovo colui che ha la la maggior parte della responsabilità, il sovrintendente dell'educazione, il quale, occupandosi della musica e della ginnastica, non avrà molto tempo libero.
CLINIA: Come sarà possibile che una persona così vecchia si occupi di questioni così importanti?
ATENIESE: Facilmente, amico. La legge gli ha dato e gli darà facoltà di assumere, in vista di questo gravoso incarico, quei cittadini, uomini o donne che siano, ch'egli vorrà; e conoscerà chi deve scegliere, e non vorrà sbagliarsi in questa sua scelta, nutrendo saggiamente un senso di rispetto e riconoscendo l'importanza della carica, e rifletterà sul fatto che se i giovani sono stati e sono bene allevati, tutto nella nostra navigazione funzionerà correttamente, altrimenti… ma si tratterebbe di un discorso sconveniente, e noi non lo diremo parlando di un nuovo stato, per rispetto nei confronti di coloro che sono amanti delle profezie.
Molte parole sono state spese su questi argomenti, sia riguardo alle danze, sia riguardo a ogni movimento della ginnastica: noi stabiliamo fra gli esercizi ginnici tutte quelle esercitazioni fisiche riguardanti la guerra, come l'arte di tirare con l'arco e l'arte del lancio in genere, l'arte di combattere con armi leggere e quella che nel suo complesso riguarda le armi pesanti, le evoluzioni tattiche, le marce, l'accamparsi, e tutte le nozioni riguardanti l'equitazione. I maestri di tutte queste arti devono essere pubblici, e saranno remunerati dallo stato, mentre i loro discepoli saranno non solo i ragazzi, ma anche gli uomini adulti che sono nello stato, e le ragazze e le donne che devono imparare tutte queste cose. Quando sono ancora ragazze, esse devono esercitarsi in ogni specie di danza armata e di combattimento, quando diventano donne, devono conoscere le disposizioni tattiche, l'ordine delle schiere, il deporre e il riprendere le armi, se non altro perché, se vi fosse mai la necessità di uscire in massa a combattere con tutto l'esercito abbandonando lo stato, coloro che custodiscono i bambini e il resto dello stato siano capaci di fare questo; o, nel caso contrario - ma si tratta di casi di cui è impossibile giurare che avvengano -, se dall'esterno i nemici, siano essi barbari o Greci, diano l'assalto con una grande forza militare ed una inaudita violenza, e mettano lo stato nella necessità di dover combattere per la sua stessa salvezza, sarebbe un grave male per il nostro stato che vi fossero delle donne allevate in modo così vergognoso da non essere pronte a morire e ad affrontare tutti i pericoli, così come fanno le femmine degli uccelli che per i figli combattono contro qualsiasi degli animali più feroci, ma capaci soltanto di correre immediatamente ai luoghi sacri, affollando tutti gli altari e i templi, e contribuendo così a diffondere la fama secondo la quale il genere umano sarebbe per natura la più vile fra tutti gli animali.
CLINIA: No, per Zeus, straniero, questo fatto non sarebbe affatto conveniente per lo stato dove avvenisse, senza considerare che si tratterebbe di un male.
ATENIESE: Dobbiamo allora stabilire questa legge, e cioè che sino a tal punto le donne non devono trascurare gli affari riguardanti la guerra, ma che anzi, tutti i cittadini se ne devono occupare, maschi e femmine indistintamente?
CLINIA: Sono d'accordo.
ATENIESE: Della lotta, dunque, abbiamo parlato, ma, io direi, non abbiamo detto la cosa più importante, che d'altra parte non è facile da dirsi a parole, senza mostrarla con i movimenti del corpo. Giudicheremo meglio questa cosa quando la parola, accompagnandosi al gesto, darà adeguata dimostrazione delle altre cose che abbiamo già detto e ci dimostrerà che questa stessa lotta è quella che si avvicina molto di più di tutti gli altri movimenti al combattimento bellico, e che deve essere praticata in funzione della guerra, mentre non si deve apprendere l'arte militare in vista della lotta.
CLINIA: Dici bene.
ATENIESE: E sia sufficiente quel che si è detto sin qui sul valore degli esercizi praticati nella palestra: per quanto riguarda gli altri movimenti del corpo, si potrebbe far rientrare la maggior parte di essi, secondo una giusta definizione, nella danza. Bisogna considerare che vi sono due aspetti della danza, la prima che rappresenta mimicamente i corpi più belli, rivolgendosi alla loro nobiltà, l'altra i corpi più deformi rivolgendosi alla loro viltà; e ancora vi sono due altre specie, a seconda che si imiti ciò che è vile o ciò che è nobile. L'imitazione di ciò che è nobile consiste, da un lato, nell'imitare i corpi belli in atteggiamenti di guerra, mentre si esercitano in fatiche impegnative, e nell'imitazione di un'anima virile, dall'altro nella rappresentazione di anime sagge e temperanti che vivono nella prosperità e in moderati piaceri: quest'ultima danza si potrebbe chiamare, secondo la sua natura, “danza di pace”. Si potrebbe invece correttamente definire “pirrica” la danza della guerra, che è diversa da quella della pace; essa rappresenta mimicamente come si evitano tutti i colpi inferti e quelli delle armi da getto, piegandosi, e retrocedendo in ogni modo, e saltando in alto e abbassandosi, e rappresenta i movimenti contrari a questi, quelli che portano alle movenze d'attacco, nei lanci delle frecce e dei dardi, cercando di rappresentare mimicamente ogni altro tipo di colpo. Se le danze sono eseguite correttamente e anche in modo energico, quando vi sia l'imitazione di corpi e di anime valorosi, una perfezione ritmica pervade tutte le membra del corpo, e allora tale danza è davvero corretta, in caso contrario, non possiamo accettarla come tale.
Quanto alla danza di pace bisogna osservarla così in ciascuno dei due casi, e vedere cioè se, afferrando correttamente la bellezza della danza o muovendosi contro natura, tali danze si eseguono in modo conveniente a cittadini ben governati. Bisogna innanzitutto separare e distinguere la danza che è oggetto di contestazione da quella che invece non lo è. Quali sono allora queste danze? E come si devono separare le une dalle altre? Tutte le danze bacchiche e quelle che ad esse si accompagnano, che prendono il nome, come dicono, da Ninfe, Pan, Sileni e Satiri, rappresentano uomini ebbri, e vengono eseguite nel corso di alcuni riti di purificazione e di iniziazione: tutto questo genere di danze, dunque, non si può facilmente definire né di pace, né di guerra, e non è facile dire qual è il loro intento. Mi sembra allora che la cosa più giusta da fare sia quella di tenere appunto distinto questo genere di danze, separandolo sia da quello della guerra, sia da quello della pace, e affermare che questo genere di danza non ha attinenza con lo stato, e quindi lo si può lasciare qui dove lo si è trovato: ora possiamo ritornare alle danze della pace e a quelle della guerra delle quali dobbiamo indiscutibilmente occuparci. Il genere della musica non di guerra di coloro che nelle danze onorano gli dèi e i figli degli dèi forma un unico genere e si sviluppa nella convinzione della prosperità. Possiamo dividerlo in due specie: la prima specie, quando si sfugge da certe fatiche e da certi pericoli per giungere ad una situazione migliore, produce piaceri più intensi, l'altra specie, mantenendo il benessere conquistato precedentemente e accrescendolo, procura piaceri meno intensi dei primi. In queste danze ogni uomo si muove secondo un numero maggiore di movimenti del corpo, se i piaceri sono più intensi, secondo un numero minore, se sono meno intensi; e l'uomo ben regolato e che è soprattutto ben esercitato al coraggio si muove secondo un numero minore di movimenti, mentre l'individuo meschino che non si è esercitato alla temperanza muta in misura maggiore e in modo eccessivo i suoi movimenti. In generale, chi si esprime sia con il canto, sia con le parole, non è certamente in grado di stare fermo con il corpo; ecco perché la rappresentazione delle parole compiuta attraverso i gesti ha permesso di realizzare tutto il complesso dell'arte della danza. Dunque fra di noi, vi è chi in tutti questi casi si muove con grazia e armoniosamente, chi invece scompostamente.
E se pensiamo ai nomi che gli antichi hanno dato alle cose, siamo costretti ad elogiarne molti in quanto sono convenienti e conformi alla natura delle cose: e fra questi ve n'è uno, e riguarda le danze di coloro che si trovano nella buona sorte, e che sono moderati nei confronti dei piaceri, e con questo nome appropriato e attinente al campo musicale, un tale, chiunque fosse, chiamò tutte queste danze “emmelie”, ed esso fu imposto ad esse secondo il procedimento analogico. Egli stabilì così due forme di nobili danze, quella “pirrica” propria della guerra, e quella “emmelia” propria della pace, assegnando così a ciascuna il nome più conveniente ed adatto. Il legislatore dovrà allora illustrare i tratti distintivi di tali danze, mentre il custode delle leggi dovrà ricercarle, e una volta scoperte, dovrà ordinare la danza insieme al resto della musica, e assegnandola a tutte le feste, distribuirà quella adatta per ogni sacrificio. Dopo aver consacrato così tutto quanto e disposto secondo un preciso ordine, non deve mutare più nulla per il resto del tempo, né per quel che riguarda la danza, né per quel che riguarda il canto, e parimenti lo stesso stato e i cittadini, trascorrendo il loro tempo nei medesimi piaceri, saranno sempre simili a se stessi nei limiti del possibile, e vivranno bene e felicemente.
Abbiamo dunque portato a termine quella parte riguardante le danze proprie di bei corpi e di nobili anime, dicendo come queste danze devono essere; ora occorre osservare e conoscere meglio le rappresentazioni imitative di corpi e di pensieri deformi, e ciò che si orienta verso le canzonature ridicole, per mezzo della dizione, del canto, della danza, e delle imitazioni comiche che si realizzano in tutti questi casi. Non è possibile infatti comprendere ciò che è serio senza il ridicolo, e ogni cosa senza il suo relativo contrario, se si vuole essere persone assennate, ma non si può fare l'una e l'altra cosa, se si vuole partecipare, anche in piccola parte, della virtù: si devono dunque apprendere anche queste cose di per se stesse, e cioè proprio perché mai si compia o si dica, a causa dell'ignoranza, quanto è ridicolo, senza alcuna necessità. Bisogna invece che sia ordinato a schiavi e a stranieri stipendiati di fare tali rappresentazioni, senza mai interessarsi direttamente di nessuna di tali occupazioni; e nessun individuo libero, uomo o donna che sia, faccia sapere pubblicamente di apprendere tali cose, e sempre nuove appaiano queste rappresentazioni. Queste dunque siano le disposizioni che stabiliamo secondo la legge e il nostro ragionamento per quel che riguarda quei giochi che hanno come fine quello di suscitare il riso.
Quanto ai nostri poeti seri, come si dicono, quelli che si occupano della tragedia, se alcuni di loro venissero da noi e ci interrogassero così: «Stranieri, possiamo frequentare il vostro stato e la vostra regione oppure no? E possiamo portare ed introdurre la nostra poesia, o come avete stabilito che dobbiamo comportarci a questo riguardo?». Quale risposta daremo alle domande di questi uomini divini? Una risposta del genere, mi pare: «Ospiti nobilissimi, noi stessi siamo poeti di una tragedia che, nei limiti del possibile, è la più bella e la più nobile: tutta la nostra costituzione politica si è formata sull'imitazione della vita più bella e più nobile, e in questo noi diciamo che consiste in realtà la tragedia più vera. Poeti siete voi, poeti lo siamo anche noi, poeti della stessa materia, vostri rivali nell'arte, vostri antagonisti nel comporre il dramma più bello che soltanto la vera legge può per natura compiere, come noi ora speriamo: non pensate che vi lasceremo tanto facilmente venire da noi a piantare le vostre scene nella piazza, e di introdurvi attori con una bella voce, che strepitano più di noi, non pensate che vi lasceremo parlare da demagoghi ai bambini, alle donne, e a tutta la folla di persone, lasciando che voi diciate, riguardo agli stessi costumi, cose diverse dalle nostre, ed anzi, per lo più e nella maggior parte dei casi, contrarie. Saremmo, per così dire, completamente pazzi, noi e tutto lo stato, se vi lasciassimo fare ciò che abbiamo appena detto, prima che i magistrati abbiano giudicato se le vostre composizioni possono essere rese pubbliche oppure no.
Ora dunque, figli delle tenere Muse, mostrate prima di tutto i vostri canti ai magistrati confrontandoli con i nostri, e se risulterà evidente che voi dite le stesse cose che diciamo noi, e in maniera anche migliore, noi vi daremo un coro, altrimenti, amici, non potremo affatto». Queste dunque siano le norme, stabilite per legge, riguardanti il complesso della danza corale e l'insegnamento di queste materie, e una parte, se vi sembra opportuno, riguarderà gli schiavi ed un'altra i padroni.
CLINIA: Come ora non potrei essere d'accordo con te?
ATENIESE: Vi sono ancora tre discipline che le persone libere devono apprendere: la prima è costituita dai calcoli e dalla scienza dei numeri, la seconda dall'arte di misurare le lunghezze, le superfici, e i solidi, la terza studia le rivoluzioni degli astri e la natura dei loro percorsi reciproci. La maggior parte delle persone non sarà tenuta ad esercitarsi in tutte queste discipline, il cui studio richiede una certa precisione, ma soltanto alcuni pochi - e di questi, procedendo nel discorso, parleremo alla fine, quando sarà conveniente -. Quanto alla massa, vi sono tutte quelle nozioni relative a queste discipline che, come si dice assai giustamente, sono necessarie e per i molti è una vergogna non sapere, anche se non è facile e non è assolutamente possibile ricercarle tutte con estrema precisione. Non si può in ogni caso rigettare quel che di queste scienze è necessario, e pare che a questo pensasse chi per primo parlò per proverbi sulla divinità, dicendo che neppure il dio risulta combattere la necessità, quelle necessità, io credo, che sono divine: parlare infatti delle necessità umane, alle quali molti pensano quando dicono questo proverbio, sarebbe il discorso di gran lunga più stolto fra tutti.
CLINIA: Quali sono, straniero, le necessità non umane ma divine nell'ambito di tali discipline?
ATENIESE: Ritengo che siano quelle necessità per cui, se uno non le pratica o non le conosce affatto, non potrà mai essere per gli uomini né un dio, ne un demone, né un eroe capace di prendersi seriamente cura degli uomini: sarebbe assai lontano dal divenire uomo divino chi non conosce l'uno, e il due, e il tre, né il complesso dei numeri pari e dispari, se non sa affatto contare, se non è in grado di calcolare i giorni e le notti, se si trova in difficoltà sulle rivoluzioni delle orbite della luna, del sole, e degli altri astri. Se si ritenesse che tutte queste nozioni non fossero necessarie per chi aspira a conseguire qualsiasi delle scienze più belle, ebbene, questa sarebbe una considerazione assai sciocca. Ma quali di ciascuna di queste nozioni, e quante, e quando si devono apprendere, e quali insieme ad altre e quali separatamente dalle altre, e come si possono combinare tutte insieme, queste sono le prime cose che dobbiamo correttamente comprendere, e quindi, passare ad apprendere le altre sotto la guida di quelle. Questa è la necessità stabilita dalla natura contro la quale noi diciamo che nessun dio può né potrà mai combattere.
CLINIA: Mi pare, straniero, che le parole che ora hai detto siano giuste e conformi alla natura delle cose.
ATENIESE: Ed è così, Clinia, soltanto che è difficile legiferare nell'ambito di questa materia che è stata precedentemente ordinata in tal modo: ma in un'altra occasione, se vi pare, potremo legiferare in modo più preciso.
CLINIA: Ci sembra, straniero, che tu abbia paura della nostra consueta inesperienza in materia. Ma si tratta di una paura sbagliata: prova a parlare senza nascondere le vere ragioni delle cose.
ATENIESE: In effetti ho paura di queste cose che tu ora dici, ma temo ancora di più coloro che si sono avvicinati a queste discipline, e si sono avvicinati malamente. La totale ignoranza non è affatto un male terribile, e neppure il più grave o il più grande, ma l'esperienza e l'erudizione che si rivolgono in molteplici direzioni, insieme ad una cattiva guida, rappresentano un danno molto più grande.
CLINIA: Vero.
ATENIESE: Va dunque affermato che gli uomini liberi devono apprendere di ciascuna di queste discipline tutto quanto in Egitto apprende anche una gran massa di bambini, insieme alle lettere. In primo luogo si sono ritrovate, riguardo al calcolo, delle nozioni semplici da insegnare ai bambini, che si accompagnano a piacevoli divertimenti, come le distribuzioni di mele o di corone ad un numero più grande e più piccolo di bambini, adattando sempre gli stessi numeri, o l'attesa dei pugili e dei lottatori, che sono già accoppiati, cui viene assegnato il turno e la successione per il combattimento, come per natura avviene in queste cose. E giocando ora a mescolare coppe d'oro, di bronzo, e d'argento, e di altri materiali in genere, ora a separarli tutti, devono necessariamente, come dicevo, usare i numeri per adattarli al loro gioco, e questo serve agli allievi per apprendere le disposizioni degli eserciti, e a guidare le marce e le spedizioni militari, ma anche per condurre l'amministrazione della propria casa, e rendono gli uomini più utili a se stessi e più desti: e inoltre, la capacità di misurare tutto ciò che ha lunghezza, larghezza, profondità, libera tutti gli uomini da quell'ignoranza ridicola e vergognosa che si insinua in essi e che riguarda tutte queste cose.
CLINIA: Di quale ignoranza parli e in che cosa consiste?
ATENIESE: Caro Clinia, ho sentito io stesso molto tardi parlare di questa nostra condizione e mi sono assolutamente stupito: mi sembrò che essa non fosse degna di uomini, ma piuttosto di maiali, e provai vergogna non solo per me, ma anche per tutti i Greci.
CLINIA: Di che cosa? Dillo, straniero.
ATENIESE: Te lo dico, o piuttosto te lo dimostrerò con delle domande. E rispondimi un po': sai che cos'è la lunghezza?
CLINIA: Certo.
ATENIESE: E la larghezza?
CLINIA: Ma certamente.
ATENIESE: E che queste sono due dimensioni, e la terza è la profondità?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E non ti sembra che tutte queste dimensioni sono commensurabili fra loro?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: La lunghezza, secondo quel che pensiamo, si può allora misurare con la lunghezza, la larghezza con la larghezza, e ugualmente la profondità con la profondità.
CLINIA: Assolutamente sì.
ATENIESE: E se alcune dimensioni non sono né molto né poco commensurabili, ma alcune sì, altre no, mentre tu le ritieni tutte, come credi che ti disporrai nei loro confronti?
CLINIA: Male, è evidente.
ATENIESE: E quanto alla lunghezza e alla larghezza in relazione alla profondità, o alla larghezza e alla lunghezza nelle loro relazioni reciproche? Non pensiamo tutti noi Greci che sono commensurabili fra di loro in un modo o nell'altro?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E se vi sono dei casi in cui è impossibile fare queste misurazioni, mentre tutti noi Greci, come dicevo, pensiamo che sia possibile, non dovremmo forse vergognarci di tutti loro e dire: «O nobilissimi fra tutti i Greci, questa non è forse una di quelle cose di cui dicevamo che è turpe non conoscere, e non è affatto un bene conoscere le cose necessarie?»
CLINIA: Come no?
ATENIESE: E inoltre ci sono altri casi affini a questi in cui noi cadiamo in errore, e in errori che sono fratelli di questi.
CLINIA: Quali?
ATENIESE: La natura delle relazioni reciproche fra grandezze commensurabili ed incommensurabili. E queste cose vanno analizzate e studiate con attenzione, se non si vuole essere persone di scarso valore, e proponendoci sempre uno all'altro la questione, passeremo il tempo in modo molto più piacevole di quanto faremmo giocando al tavoliere, come, fanno i vecchi, e potremo così gareggiare in dispute che sono all'altezza dì questi problemi.
CLINIA: Può essere. Ma mi pare che non bisogna poi tenere così distinti fra loro il gioco del tavoliere e queste discipline.
ATENIESE: Io dico, Clinia, che i giovani devono apprendere queste cose: e infatti non sono dannose né difficili, e se si apprendono con il gioco, saranno utili e non danneggeranno affatto il nostro stato. se qualcuno dice in modo diverso, bisogna ascoltarlo.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Se queste discipline risultano essere così come si è detto, è chiaro che le giudicheremo opportune per il nostro stato, altrimenti le respingeremo.
CLINIA: è chiaro.
ATENIESE: Dunque, stranieri, dobbiamo stabilirle fra le discipline necessarie, perché non vi siano lacune nel nostro sistema di leggi?
Stabiliamole allora, ma come un pegno che si può staccare dal resto della costituzione, se a noi che le abbiamo poste o anche a voi per cui sono state stabilite non soddisfacessero più.
CLINIA: Questa è una giusta proposta.
ATENIESE: Vedi se dopo queste cose dobbiamo approvare o meno lo studio degli astri per i giovani, che ora esporremo.
CLINIA: Parla!
ATENIESE: Riguardo a tali questioni si verifica un fatto assai strano e per nulla tollerabile.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Noi solitamente affermiamo che non si deve ricercare l'essenza della divinità suprema o dell'intero universo, né ci si deve preoccupare di indagarne le ragioni - non sarebbe un'azione pia - ma pare che sarebbe meglio fare tutto il contrario.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Quel che dico è assai singolare, e si potrebbe pensare che non sia adatto a dei vecchi: ma se uno crede che si tratti di una disciplina nobile e vera, e inoltre vantaggiosa per lo stato e cara al dio, non potrà in alcun modo rinunciare ad esporla.
CLINIA: Quello che dici è giusto: ma quale disciplina simile troverai fra gli astri?
ATENIESE: Carissimi, noi tutti Greci affermiamo oggi il falso, per così dire, quando ci riferiamo alle divinità supreme, il Sole e la Luna.
CLINIA: E qual è questa menzogna?
ATENIESE: Diciamo che essi non percorrono mai la stessa strada, e così alcuni altri astri che sono insieme a questi, e che chiamiamo appunto “pianeti”.
CLINIA: Per Zeus, straniero, quello che dici è proprio vero: spesso infatti, nel corso della mia vita ho visto io stesso che Lucifero, Vespero, e alcuni altri astri non percorrono mai la stessa orbita, ma planano in ogni luogo, e che il sole e la luna si comportano come tutti sappiamo.
ATENIESE: Queste sono le cose, Megillo e Clinia, che ora dico che i nostri concittadini e i giovani devono sapere sugli dèi del cielo, e per quel tanto che non debbano bestemmiare su di essi, ma possano invece dire parole di buon augurio quando compiono sacrifici ed innalzano religiose preghiere.
CLINIA: Questo è giusto, se in primo luogo si può apprendere ciò di cui parli: in secondo luogo, se ora non diciamo nulla di giusto riguardo ad essi, ma lo diremo quando lo apprenderemo, sono d'accordo sul fatto che si deve imparare nel modo che tu hai detto. Se le cose stanno allora in questi termini, prova a darne completa spiegazione, mentre noi ti seguiremo e impareremo.
ATENIESE: Ma non è facile apprendere quello che dico, e neppure del tutto difficile, e non richiede neanche un tempo lunghissimo. Ecco la prova: benché né da giovane, né anticamente, io abbia avuto notizia di queste cose, ora sarei in grado di mostrarvele in non molto tempo. Se fossero difficili, non sarei mai capace, all'età che ho, di mostrarle a voi che avete raggiunto una veneranda età.
CLINIA: Vero. Ma qual è questa disciplina che definisci così singolare, e che sarebbe opportuno che i giovani imparassero e noi non conoscessimo? Cerca di fornire di essa la spiegazione più chiara possibile.
ATENIESE: Ci proverò. Intanto non è giusta, carissimi, quella credenza secondo la quale la luna, il sole, e gli altri astri sono erranti, ma se mai tutto il contrario: ciascuno di essi compie infatti la stessa strada, e non molte, ma una sola e sempre circolarmente, così da sembrare di percorrerne molte. E non è neppure corretto pensare che il corpo più veloce sia il più lento, e viceversa.
Se tale è la natura delle cose, ma le nostre convinzioni non si conformano ad essa, se pensiamo allo stesso modo dei cavalli che corrono ad Olimpia e degli uomini che corrono la lunga corsa, definendo più lento il più veloce, e più veloce il più lento, se nel comporre gli elogi cantiamo il vinto come se fosse vincitore, credo che la nostra attribuzione degli elogi ai corridori, che sono uomini, non risulterebbe né giusta, né gradita: ora noi facciamo gli stessi errori nei confronti degli dèi, e non pensiamo che ciò che allora, in quell'esempio che abbiamo fatto, risultava ridicolo e ingiusto, ora, in questo caso, e in questioni così importanti, non è affatto ridicolo, ma sgradito agli dèi, poiché innalziamo inni agli dèi affermando false dicerie.
CLINIA: Verissimo, se le cose stanno così.
ATENIESE: E se dimostreremo che stanno effettivamente così, non si dovranno apprendere tutte queste cose sino al punto che abbiamo indicato, mentre se non riusciremo a darne dimostrazione, dovremo lasciar perdere? Anche su questo siamo d'accordo?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Possiamo ormai dire di aver terminato la legislazione riguardante l'educazione e l'insegnamento: e allo stesso modo si deve pensare riguardo alla caccia e a tutte le altre cose simili. Può essere che quanto viene ordinato al legislatore non si limiti soltanto al compito di stabilire le leggi, ma ci sia qualche altra cosa in più che, oltre le leggi, sta naturalmente in mezzo fra l'ammonimento e le leggi stesse, e si tratta di una cosa in cui ci siamo imbattuti spesso nei nostri discorsi, come ad esempio riguardo all'allevamento dei bambini piccoli. Noi diciamo che queste cose non si debbono tacere, ma quando si dicono, sarebbe assai stolto che si pensasse di stabilirle come leggi. E supponendo che tutte le leggi siano già state scritte e così l'intera costituzione nel modo in cui noi le abbiamo concepite, risulta imperfetto l'elogio del cittadino che vuole distinguersi per la sua virtù, se si dirà che il cittadino onesto è colui che serve nel modo migliore le leggi e ad esse assolutamente obbedisce: sarebbe infatti più completo dire così, e cioè che cittadino onesto è colui che abbia trascorso un'esistenza all'insegna della purezza obbedendo non solo alle leggi scritte, ma anche ai consigli del legislatore, sia quando approva, sia quando critica.
Questo è il più giusto discorso con cui si possa elogiare un cittadino, e chi è effettivamente un legislatore non deve soltanto scrivere le leggi, ma, oltre alle leggi, deve scrivere ed intrecciare insieme ad esse ciò che gli pare buono e ciò che non gli pare buono, e il cittadino perfetto si sentirà vincolato da questi giudizi non meno che dalle pene che sono state stabilite dalle leggi. E se chiamiamo a testimone il discorso che in questo momento stiamo facendo, potremmo dimostrare meglio ciò che vogliamo dire. La caccia è un'attività che si presenta in modo assai vario, che ora è compresa sotto un unico nome. Una buona parte di essa riguarda gli animali acquatici, un'altra i volatili, e molti sono i tipi di caccia che riguardano anche gli animali terrestri, e non solo animali, perché anche la caccia agli uomini si può pensare come caccia, come quella che si svolge in guerra o come buona parte di quella che avviene in amore, l'una degna di lode, l'altra di critica. E anche i furti commessi da predoni o da eserciti a danno di altri eserciti sono delle cacce.
Un legislatore che deve legiferare in materia di caccia non può non chiarire questi aspetti, e neppure può stabilire su tutte le cacce indiscriminatamente ordini e punizioni, fissando delle norme che contengano minacce. Come dunque deve comportarsi a tal proposito? Il legislatore, da un lato, deve elogiare e criticare quel che riguarda la caccia, in vista degli esercizi e delle pratiche che i giovani devono seguire, mentre il giovane, dall'altro, ascoltandolo, deve obbedire, e né il piacere né la fatica gli devono essere d'impedimento, e renda onore agli ammonimenti che il legislatore enuncia insieme a parole di elogio ancora di più che alle norme che per ogni singolo caso sono fissate per legge e che si accompagnano alle minacce delle pene, ed esegua quanto gli viene ordinato.
Dette queste premesse, potrebbe seguire un conveniente elogio e un conveniente biasimo della caccia, lodando quella caccia che rende migliori le anime dei giovani, e biasimando quella opposta. Diciamo dunque quel che segue rivolgendoci ai giovani sotto forma di preghiere: «Amici, non vi colga mai la passione e l'amore per la caccia in mare, né per la pesca con l'amo, né in generale per la caccia di animali acquatici, e non esercitatevi in quella caccia che si pratica pigramente con le reti, sia da svegli che addormentati. Non vi prenda il desiderio di cacciare gli uomini sul mare, né quello della pirateria, che vi renderebbe cacciatori crudeli e fuori legge: e non vi sfiori neppure nell'anticamera del cervello il fatto di compiere dei furti nella regione e nello stato. E mai assalga alcuno dei giovani il seducente desiderio di cacciare i volatili, che non è degno di uomini liberi». Ai nostri atleti rimane soltanto la caccia e la cattura degli animali terrestri, fra le quali ve n'è una che è chiamata “notturna”, praticata da cacciatori che dormono a turno, uomini pigri, che non è degna di lode, né degna di lode è quella caccia che offre pause di riposo in quantità non minore di quante sono le fatiche e che consiste nel dominare la forza selvaggia delle fiere non con la vittoria di un'anima che ama la fatica, ma con reti e con lacci: rimane una per tutti, ed è la migliore, la caccia ai quadrupedi che si effettua con i cavalli, con i cani, e con le proprie forze, ma su tutte queste cose dominano i cacciatori che con le proprie mani corrono, colpiscono, scagliano frecce, e mi riferisco a quanti coltivano il divino coraggio.
Il discorso che abbiamo appena esposto sarà un punto di riferimento per la lode o il biasimo di queste cose; questa invece sia la legge: nessuno impedisca a questi che sono effettivamente i cacciatori sacri di cacciare dove e come vorranno, e nessuno mai permetta al cacciatore notturno di cacciare in alcun luogo, fidando nelle reti e nei lacci. Non si impedisca al cacciatore di uccelli di cacciare nei campi selvatici e sui monti, ma nei campi coltivati e nei boschi sacri lo impedisca chiunque vi s'imbatte. Quanto al cacciatore di animali acquatici, gli sia consentito di cacciare in tutti gli altri luoghi fatta eccezione per i porti, i fiumi sacri, gli stagni e i laghi, e non si serva di veleni. Ora conviene dire che che tutto il complesso della legislazione che riguarda l'educazione è terminato.
CLINIA: Puoi ben dirlo.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO OTTAVO
ATENIESE: In relazione a queste cose bisogna ordinare e fissare per legge le feste, con l'ausilio dell'oracolo di Delfi, vedendo quali sacrifici sarebbe meglio e preferibile che lo stato eseguisse, e per quali dèi; e quando e quanti di numero. Credo che forse su alcune di queste cose sarebbe nostro compito legiferare.
CLINIA: Probabilmente sul numero.
ATENIESE: Parliamo per primo del numero: essi, i sacrifici, non dovranno essere di meno di trecentosessantacinque, in modo che un magistrato faccia sempre sacrifici a qualcuno degli dèi o dei demoni in favore dello stato, dei cittadini stessi, e delle loro ricchezze. Interpreti, sacerdoti, sacerdotesse, e indovini si riuniscano insieme ai custodi delle leggi e stabiliscano ciò che il legislatore deve necessariamente tralasciare: e dovranno essere essi stessi ispettori di ciò che viene tralasciato. La legge fisserà dodici feste in onore dei dodici dèi da cui trae il nome ciascuna tribù, e per ciascuno di questi ogni mese si faranno sacrifici, con cori e agoni musicali e altre gare ginniche, distribuendoli in modo conveniente agli dèi e ad ogni singola stagione e ripartendo le feste femminili in quelle che è conveniente celebrare senza gli uomini e in quelle che non è conveniente. E inoltre non bisogna confondere, ma, anzi, si devono tenere ben distinti i sacrifici in onore degli inferi e quelli in onore di quegli dèi che dobbiamo chiamare “celesti”, e quanti ad essi si accompagnano, assegnando per legge ai primi il dodicesimo mese, quello di Plutone. E questa divinità non sia odiata dagli uomini che si trovano in guerra, ma venga onorata come la divinità migliore per il genere umano: l'unione di anima e di corpo non è infatti migliore della loro dissoluzione, come vorrei dire parlando seriamente. Inoltre coloro che vorranno ripartire in modo adeguato queste feste devono avere in mente tale pensiero, e cioè che fra gli stati attuali non si troverebbe alcun altro stato come il nostro che abbia abbondanza di tempo libero e di occupazioni necessarie, così da poter vivere bene come vivrebbe un singolo individuo.
Coloro che vogliono vivere felici non devono innanzitutto compiere essi stessi ingiustizia, né devono subirla da altri: la prima di queste due condizioni non è difficile da realizzare, mentre è assai difficile da ottenere la seconda, vale a dire avere tanta forza da evitare le ingiustizie, ed essa non si può perfettamente conseguire se non si diventa completamente buoni cittadini. La stessa cosa avviene per lo stato, che se sarà buono vivrà in pace, se sarà malvagio, vivrà in guerra dentro e fuori i suoi confini. Se le cose stanno press'a poco così, ognuno non deve esercitarsi alla guerra in guerra, ma in tempo di pace. Bisogna che lo stato che abbia intelligenza ogni mese si eserciti alla guerra, per un giorno almeno, o anche più, se i magistrati lo ritengono opportuno, senza tener conto del freddo e del caldo, e tutti, anche donne e fanciulli vi prendano parte, se ai magistrati parrà opportuno condurre fuori dallo stato tutto il popolo, ora separatamente, ora a turno: e alcuni bei divertimenti si devono allestire insieme ai sacrifici perché le battaglie della festa imitino le battaglie della guerra il più chiaramente possibile. Si distribuiscano premi e ricompense ai vincitori di ciascuna di queste gare, e ci si faccia reciprocamente elogi o critiche, a seconda di come ciascuno si è comportato negli agoni e nel corso di tutta la vita, esaltando chi si è ritenuto migliore e criticando chi non lo è stato. Poeta di questi componimenti non sia una persona qualunque, ma innanzitutto uno che non abbia meno di cinquant'anni, e non sia scelto fra coloro che posseggono in se stessi un'adeguata capacità poetica e musicale, ma non hanno mai composto alcuna opera bella ed illustre: si cantino invece le composizioni di coloro che sono buoni e onorati nello stato, e sono autori di nobili opere, anche se per natura non sono musicali. La scelta di questi poeti sia di competenza dell'educatore e degli altri custodi delle leggi, che assegneranno loro il privilegio di godere essi soli della libertà di parola in poesia, mentre nessun altro avrà mai questa libertà, né oserà cantare un canto che non sia passato al vaglio e non sia stato giudicato favorevolmente dai custodi delle leggi, neppure se si tratta di un canto più dolce di Tamiri e di quelli di Orfeo.
Riceveranno l'approvazione solo i componimenti giudicati sacri e dedicati agli dèì, e quelli, opera di uomini valorosi, in cui si critica o si biasima qualcuno, e che, sempre secondo il giudizio generale, abbiano svolto adeguatamente questo compito. Lo stesso discorso che ho fatto sulle esercitazioni militari e sulla libertà poetica deve valere ugualmente per le donne e per gli uomini.
Bisogna che il legislatore, rivolgendosi a se stesso, si proponga questo discorso: «Avanti, quali cittadini allevo, dopo che ho allestito tutto lo stato? Atleti preparati a gare impegnative, dinanzi ai quali stanno un numero incalcolabile di avversari?» «Certamente», risponderebbe giustamente qualcuno. Ebbene?
Se allevassimo degli atleti per il pugilato o per il pancrazio o per qualche altra gara di questo genere, li faremmo scendere in gara senza averli precedentemente allenati con nessuno, giorno dopo giorno? E se noi stessi fossimo pugili, non cercheremmo di imparare a combattere molti giorni prima della gara, e non ci eserciteremmo ad imitare tutte quelle mosse di cui in seguito potremo aver bisogno quando gareggeremo per la vittoria? E avvicinandoci il più possibile alla verosimiglianza della gara non ci legheremmo delle palle al posto di cesti per allenarci a dare e a parare i colpi nel modo migliore? E se fossimo in grande difficoltà nel reperire compagni di allenamento, temendo il riso degli sciocchi, non avremmo il coraggio di appendere un fantoccio e di esercitarci con esso? E trovandoci in tale difficoltà da non riuscire a reperire né uomini, né fantocci, in assenza di compagni di allenamento non avremmo il coraggio di combattere contro noi stessi combattendo effettivamente contro la nostra ombra? O in quale altro modo si potrebbe dire che si svolge l'allenamento del pugile che mena le mani di qua e di là?
CLINIA: Direi, straniero, in nessun altro modo se non in quello che tu ora hai enunciato.
ATENIESE: Ebbene? La forza militare del nostro stato oserà ogni volta andare incontro alla più importante delle gare meno preparata di questa gente, quando si combatte per la propria vita, per quella dei figli, per le ricchezze, e per tutto lo stato? E il legislatore, temendo che gli esercizi in cui i cittadini si esercitano reciprocamente appaiano ridicoli a qualcuno, non dovrà stabilire leggi in proposito, ordinando soprattutto di compiere ogni giorno piccole esercitazioni militari senza l'uso delle armi, orientando in questo senso i cori e tutta quanta la ginnastica? E non comanderà che si facciano più grandi e anche meno grandi esercitazioni militari non meno dì una volta al mese, lasciando che i cittadini facciano gare fra di loro in tutta la regione e si esercitino ad occupare luoghi e a tendere imboscate, ed imitino la guerra in ogni suo aspetto, lottando come nel pugilato e lanciando dardi che si avvicinino il più possibile a quelli veri, servendosi di pericolose armi da getto, in modo che il gioco che vede impegnati gli uni contro gli altri non sia del tutto privo di timore, ma susciti invece qualche preoccupazione, mettendo così in un certo senso in evidenza chi è coraggioso e chi non lo è? E distribuendo rettamente onori e disonori agli uni e agli altri, non preparerà lo stato intero perché nel corso di tutta la sua vita sia pronto ad affrontare la vera battaglia? E se qualcuno viene ucciso nel corso di queste esercitazioni, dato che l'uccisione è stata involontaria, il legislatore stabilirà che l'uccisore, dopo aver compiuto i riti purificatori previsti dalla legge abbia le mani pure, pensando che da un lato non sono molti gli uomini che muoiono, mentre d'altro canto altri nasceranno non peggiori di quelli, ma che se morirà il timore, non si riuscirà più a mettere alla prova, nel corso di tali esercitazioni, i migliori e i peggiori, e questo per lo stato sarebbe un male ben più grave di quell'altro.
CLINIA: Anche noi siamo d'accordo, straniero, che tutto lo stato deve stabilire per legge tali pratiche e in esse deve esercitarsi.
ATENIESE: Conosciamo tutti la ragione per cui ora in questi stati tali competizioni corali non abbiano affatto luogo, se non in piccola misura? O diciamo che ciò avviene a causa dell'ignoranza della maggior parte di persone e di coloro che stabiliscono le leggi?
CLINIA: Forse.
ATENIESE: Nient'affatto, caro Clinia: conviene affermare che due sono le ragioni di questi fenomeni, e sono ampiamente sufficienti.
CLINIA: Quali sono?
ATENIESE: La prima è costituita dall'amore per la ricchezza che occupa tutto il tempo, impedendo di curare altre faccende che non siano la cura dei propri beni, e dalla cura di questi beni dipende ogni anima di ogni cittadino che non può più occuparsi di altre cose che non siano il guadagno quotidiano: e se vi sia un qualche studio o anche una certa pratica che conduca a questi scopo, ogni cittadino privatamente è prontissimo ad apprenderla e ad esercitarsi in essa, facendosi beffe di tutto il resto. E conviene dire che tutto ciò è una sola cosa, e che questa è l'unica ragione per cui uno stato non vuole seriamente occuparsi di questa pratica né di nessun altra che sia bella e buona, ma ogni cittadino, per il desiderio insaziabile di oro e di argento si piega volontariamente a qualsiasi mestiere, a qualsiasi espediente, bello o disonorevole che sia, pur di diventare ricco, e accetta di compiere una qualsiasi azione, lecita o illecita che sia, o addirittura vergognosa, senza farsi remore alcune, solo perché possa avere la possibilità, come un animale, di mangiare ogni genere di cibi e allo stesso modo di bere tutto quel che vuole, e di saziare completamente il desiderio di sesso.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Questa ragione di cui parlo sia da noi stabilita come una delle cause che impedisce e non permette agli stati di esercitarsi in modo adeguato a nessun bene e neppure alla guerra, ma fa in modo che quegli uomini che sarebbero moderati per natura siano mercanti, imprenditori marittimi, e in genere servi, e rende gli individui coraggiosi ladri, scassinatori, profanatori di templi, attaccabrighe e tiranni, trasformandoli così in sventurati, anche se talvolta non sono privi di qualche dote naturale.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Come dovrei chiamare costoro se non assolutamente disgraziati, dal momento che trascorrono necessariamente tutta la vita con un'incessante fame nell'anima?
CLINIA: Questa dunque è la prima ragione: qual è allora la seconda ragione di cui parli, straniero?
ATENIESE: Me l'hai ricordata a proposito.
CLINIA: Questa, come tu dici, è una delle due cause, e consiste in quell'insaziabile ricerca che dura tutta la vita, e non lasciando a nessuno neppure un momento di libertà, impedisce ai singoli di esercitarsi come si deve in relazione alla guerra.
Ebbene, ora dicci la seconda.
ATENIESE: Vi do l'impressione che invece di parlare stia indugiando, perché mi trovo in difficoltà?
CLINIA: No, ma ci sembra che che tu abbia punito questo costume di vita più del dovuto, come se lo detestassi, con il discorso che ora si è presentato.
ATENIESE: Avete fatto benissimo a rimproverarmi, stranieri: e ascoltate quel che segue, se vi pare.
CLINIA: Parla.
ATENIESE: Direi che la seconda ragione consiste in quelle non costituzioni di cui spesso ho parlato nei precedenti discorsi, e che sono la democrazia, l'oligarchia, e la tirannide. Nessuna di queste è una costituzione politica, ma si potrebbero più correttamente definire tutte quante “sedizioni”: nessuna di esse esercita volontariamente il suo potere su sudditi che volontariamente l'accettano, ma comanda deliberatamente contro la volontà dei sudditi, sempre con una qualche violenza, e poiché chi comanda teme coloro che sono governati non permetterà volentieri ch'essi diventino nobili, ricchi, forti, valorosi, e assolutamente non addestrati alla guerra. Queste sono dunque le due cause di tutti i mali in generale, e di questi in particolare. Ma l'attuale costituzione, della quale stiamo dicendo le leggi, sfugge all'una e all'altra: essa gode infatti del massimo tempo libero, e liberi sono i cittadini gli uni dagli altri, e sono assai poco amanti delle ricchezze, io credo, grazie a queste leggi, sicché verosimilmente e ragionevolmente una costituzione fondata in modo simile è l'unica, fra quelle attuali, capace di accogliere l'educazione che abbiamo appena esposto e insieme la formazione alla guerra, che è stata portata a termine dal nostro discorso.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: E in conseguenza di queste cose, non dobbiamo ricordare, riguardo a tutte le gare ginniche, che bisogna praticare quante di esse costituiscono delle esercitazioni finalizzate alla guerra e bisogna stabilire dei premi per la vittoria, mentre quelle che non offrono tutto questo bisogna lasciarle perdere? Sarebbe meglio dire dal principio quali sono, e fissarle per legge. Non dobbiamo innanzitutto fissare quelle gare che riguardano la corsa e in genere la velocità?
CLINIA: Dobbiamo fissarle.
ATENIESE: L'agilità del corpo in genere, tanto dei piedi, quanto delle mani, è la qualità che più di tutte ha attinenza con la guerra: quella dei piedi serve per fuggire ed afferrare i nemici, mentre nella mischia la battaglia e lo scontro hanno bisogno di vigore fisico e di forza.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Nessuna delle due ha grande utilità se si è sprovvisti di armi.
CLINIA: Come potrebbero averle?
ATENIESE: In primo luogo il nostro araldo, secondo la consuetudine attuale, chiamerà in gara chi corre uno stadio, e questi entrerà in gara armato: non stabiliremo nessun premio per l'atleta che è sprovvisto delle armi. Per primo allora entrerà in gara colui che, armato, correrà lo stadio, per secondo quello che correrà il diaulo, terzo chi correrà la corsa a cavallo, quarto chi correrà la lunga corsa, quinto il corridore che, primo fra gli armati con armi pesanti, lasceremo partire perché percorra una distanza di sessanta stadi sino al tempio di Ares, ritornando indietro, e lo chiameremo “oplita”, proprio perché armato con l'armatura più pesante, ed effettuerà la sua gara percorrendo una strada più pianeggiante, un altro, infine, l'arciere, correrà, con tutta l'armatura propria dell'arciere, cento stadi sino al tempio di Apollo e di Artemide, superando nella gara le montagne e una gran varietà di regioni: e noi che abbiamo stabilito la gara li attenderemo finché non giungano al traguardo, e assegneremo il premio al vincitore di ogni gara.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Consideriamo queste gare divise in tre categorie, una per i bambini, un'altra per gli adolescenti, e un'altra ancora per gli uomini: per le gare degli adolescenti stabiliremo che la lunghezza della corsa sia di due terzi, per i bambini la metà di questi due terzi, sia che gareggino armati da opliti o da arcieri. Quanto alle donne, se sono bambine che non hanno ancora raggiunto la pubertà, stabiliremo che percorrano nude lo stadio, il diaulo, la corsa a cavallo, e la lunga corsa, gareggiando così nelle stesse corse, se hanno tredici anni devono continuare sino alle nozze, per un periodo di tempo che non vada oltre i vent'anni e non sia inferiore ai diciotto: e queste ultime dovranno gareggiare in tali corse con un armamento che sia loro adatto. Queste le norme circa le corse degli uomini e delle donne.
Quanto alle gare di forza, invece della lotta e di altre simili gare, che oggi si considerano pesanti, si possono introdurre combattimenti armati, in cui si combatte uno contro uno, due contro due, sino a dieci avversari che combattono fra loro contro dieci avversari. Per definire che cosa si debba fare e che cosa non si debba subire, e quale sia il punteggio per vincere, così come attualmente nella lotta quelli che si occupano della lotta stessa hanno stabilito qual è l'attività del buon lottatore e quale quella di quello cattivo, allo stesso modo bisogna che, chiamando i migliori nel combattimento ad armi pesanti, ordiniamo a costoro di disporre insieme leggi per stabilire chi sia il legittimo vincitore di questi combattimenti, quali colpi deve infliggere o evitare, e così per chi perde, in base a quale ordinamento sia giudicato tale. Le stesse norme valgano anche per le donne sino all'età del matrimonio. Bisogna che al combattimento del pancrazio sia contrapposto l'arte del peltasta, e si gareggerà con archi, scudi leggeri, giavellotti, pietre scagliate a mano o con la fionda, e si stabiliranno leggi anche in tale ambito, e si debbono attribuire premi e vittorie a chi avrà osservato nel modo migliore tali norme. Dopo di che bisogna stabilire le norme relative ai concorsi ippici: noi non abbiamo un grande bisogno di molti cavalli, e non sono di grande utilità, data la conformazione fisica di Creta, sicché è inevitabile che anche l'interesse relativo al loro allevamento e alle gare che con essi si possono disputare sia minore. Qui da noi non c'è assolutamente nessuno che allevi cavalli da corsa, e nessuno nutre ragionevolmente questa ambizione, sicché non avrebbe senso e non parrebbe intelligente istituire simili gare, dato che non sono conformi all'usanza della regione: se stabilissimo invece gare per cavalli da sella - per puledri di prima dentizione, o per puledri adulti ma solo per metà, e per coloro che abbiano raggiunto la maturità - potremmo così fornire, in conformità con la natura della regione, il divertimento ippico che le spetta. Le gare e le contese di questi atleti abbiano luogo secondo la legge, e ai filarchi e agli ipparchi sia affidato in comune il giudizio di tutte queste corse e di tutti quelli che scendono in gara con le armi: non sarebbe invece opportuno stabilire per legge delle gare, né ginniche, né quelle dì cui ora stiamo parlando, per coloro che sono sprovvisti di armi. Gli arcieri a cavallo non sarebbero inutili a Creta, e neppure i lanciatori di dardi, sicché anche quelli abbiano le loro contese e le loro gare finalizzate al divertimento.
Quanto alle donne, non si può costringerle a prendere parte a queste gare con la forza delle leggi e delle prescrizioni: ma se a causa della educazione ricevuta in precedenza esse vi si abituano, e la loro natura accetta tali gare e non è maldisposta, bambine e vergini non ancora sposate vi prendano parte, e non le si critichi.
Per quanto riguarda le gare e la disciplina della ginnastica, quella relativa agli allenamenti nelle gare e quella che apprendiamo ogni giorno dai maestri di ginnastica, abbiamo ormai completato il discorso. Allo stesso modo, anche la parte relativa alla musica è già stata in buona misura trattata; mentre per quanto riguarda i rapsodi e quanti ad essi si accompagnano, e 1e gare dei cori che necessariamente si svolgono nelle feste, stabiliti i mesi, i giorni, gli anni dedicati agli dèi e alle altre divinità, si potranno allora ordinare, stabilendo che abbiano luogo ogni tre anni, oppure ogni cinque, e distribuendole a seconda dell'ordine che gli dèi intendano attribuire. Bisogna prevedere che in questi casi si terranno a turno anche le gare musicali, e saranno stabilite dai giudici di gara, dai sovrintendenti all'educazione dei giovani e dai custodi delle leggi, che si riuniranno insieme per decidere in proposito e diverranno legislatori, stabilendo quando, e chi, e con chi si terranno le competizioni relative a tutte le specie di coro e alla danza corale. Come debbano essere ciascuna di queste composizioni, secondo la parola, i canti, e le armonie combinati con i ritmi e le danze, è stato ripetuto più volte dal primo legislatore, e dunque i legislatori che verranno in un secondo tempo devono legiferare in conformità, e attribuiranno le gare convenienti a ciascun sacrificio nei tempi opportuni, assegnando allo stato le feste da celebrare. In ogni caso non è difficile sapere in che modo tutte queste cose ed altre simili ad esse devono assumere un ordine stabilito dalla legge, e neppure mutando qualcosa qua e là si potrebbe avere un grande vantaggio o un grande danno per lo stato: vi sono invece questioni che non hanno scarso rilievo, alle quali è difficile persuadere, e che dovrebbero essere soprattutto opera di un dio, se tali ordini provenissero mai da quello. Ora invece può darsi che occorra un uomo coraggioso, il quale, tenendo in particolar conto la libertà di parola, dirà quel che gli sembra meglio per lo stato e per i cittadini, ordinando ad anime corrotte ciò che conviene e si adatta al complesso della nostra costituzione, ed affermando il contrario di quel che suggeriscono i desideri più intensi, senza avere nessun uomo come aiutante, ma seguendo unicamente la sola ragione.
CLINIA: Qual è il discorso che ora stiamo facendo, straniero? Non capiamo.
ATENIESE: è naturale: ma cercherò di spiegarvelo più chiaramente. Non appena giunsi nel mio discorso alla questione riguardante l'educazione, vidi ragazzi e ragazze che si facevano reciprocamente manifestazioni d'affetto: e fui naturalmente colto dal timore, pensando che cosa si dovesse fare in uno stato simile in cui i giovani e le giovani sono bene allevati, liberi dalle fatiche più pesanti che attenuano il desiderio di eccessi, occupati tutti quanti, per tutta la vita, a fare sacrifici, feste, e cori. In che modo allora, in questo stato, si potrà stare lontani da quelle passioni che gettano la maggior parte delle persone in condizioni di estrema gravità, passioni da cui la ragione ordina di astenersi, se solo potesse diventare legge? E non c'è da stupirsi se le norme precedentemente stabilite tengono a freno la maggior parte di quelle passioni - il proibire infatti di arricchirsi eccessivamente costituisce un bene non piccolo per la temperanza; e tutto il complesso dell'educazione è stato ordinato secondo delle leggi che mirano a questi stessi scopi; ed inoltre l'occhio dei magistrati, obbligato a non guardare altrove, ma a controllare sempre e soprattutto i giovani, cerca di frenare, per quanto è umanamente possibile, le altre passioni -; ma come guardarsi dagli amori dei bambini, maschi e femmine, e da quelli delle donne che assumono il ruolo di uomini, o da quelli degli uomini che assumono il ruolo di donne, donde scaturisce tutta una serie di mali sia per gli uomini in privato, sia per gli stati interi? E quale farmaco, adatto in ciascuno di questi casi, si potrebbe trovare per sfuggire ad un simile rischio? Non è per nulla facile la questione, Clinia. E infatti, se tutta Creta e Sparta ci vengono non poco in aiuto in tutte le altre cose, quando fissiamo delle leggi che sono diverse dalle comuni consuetudini, intorno agli amori - diciamolo con franchezza dato che siamo fra di noi - ci sono assolutamente contrarie. Se qualcuno allora, conformandosi alla natura, ristabilisse la legge in vigore prima di Laio, affermando che è giusto che i maschi non si uniscano con i maschi o con i ragazzi, come se fossero donne, nell'unione sessuale, e chiamasse a testimone la naturale inclinazione degli animali, dimostrando a tal proposito che nessun maschio ha relazioni con un altro maschio perché questo è contro natura, ricorrerebbe forse a un'argomentazione persuasiva, ma in totale disaccordo con i vostri stati. Inoltre, proprio quel fatto su cui diciamo che il legislatore deve riporre la massima attenzione, non si accorda con questa materia. Noi infatti cerchiamo sempre quale, fra le leggi stabilite, conduce alla virtù e quale no: coraggio, allora, se fossimo d'accordo nel stabilire per legge che le consuetudini attuali sono buone o, in ogni caso, nient'affatto vergognose, quale contributo potrebbero darci per incrementare la virtù? Forse esse susciteranno nell'anima di chi viene persuaso l'inclinazione al coraggio, o in quella di chi persuade il genere della temperanza? O nessuno dovrebbe mai lasciarsi persuadere da queste cose, facendo, piuttosto, tutto il contrario? E non biasimerà ognuno la mollezza di chi cede ai piaceri e non è in grado di resistervi? E non criticherà quell'uomo che imita la donna e cerca di farsi simile ad essa?
Chi fra gli uomini stabilirà per legge questo costume di vita?
Nessuno, credo, se ha in mente che cos'è la vera legge. Ma come possiamo dire che quello che diciamo è vero?
In effetti è necessario osservare qual è la natura dell'amicizia, della passione, e dei cosiddetti amori, se si vogliono comprendere rettamente tali questioni: due sono le specie di questi stati d'animo, e da queste due specie scaturisce un'altra terza specie, ma poiché vi è un solo nome che tutte le comprende, nascono difficoltà di ogni genere che rendono oscura l'intera materia.
CLINIA: E come è possibile?
ATENIESE: Noi diciamo che il simile ama il suo simile, riguardo ad una qualche virtù, e l'uguale il suo uguale, ma diciamo anche che l'indigenza ama la ricchezza, che è di genere opposto: ora quando l'una o l'altra di queste inclinazioni si fanno intense, diamo il nome di amore.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: L'attrazione che scaturisce dai contrari è terribile e selvaggia, e spesso non trova in noi rispondenza, mentre quella che scaturisce dai simili è dolce e trova tutta la vita rispondenza: quella che nasce dalla combinazione delle due innanzitutto non è da intendersi, né è facile comprendere che cosa vuole che accada chi ha in sé questa terza specie d'amore; e poi si è perplessi, perché uno è trascinato in opposte direzioni, e uno stato d'animo lo incita a cogliere la stagione della giovinezza, e l'altro glielo vieta. Chi infatti ama il corpo, e ha fame della giovinezza come di un frutto maturo, incita se stesso a saziarsene, e non attribuisce alcun onore alla disposizione dell'anima della persona amata: chi invece assegna un valore secondario al desiderio del corpo, osservandolo piuttosto che amandolo, mentre la sua anima concupisce un'altra anima, ritiene oltraggioso che un corpo voglia saziarsi di un altro corpo, e rispettando e venerando la temperanza, il coraggio, la nobiltà d'animo, l'intelligenza, vorrebbe sempre vivere castamente insieme al casto oggetto del suo desiderio. Questa è la terza specie d'amore che risulta dalla mescolanza di quelle due, e che ora abbiamo trattato per terza.
E se tale è la natura di queste tre specie d'amore, forse bisogna che la legge le impedisca tutte e tre, vietando che nascano in noi, o non è chiaro che vorremmo che nel nostro stato vi fosse l'amore per la virtù, quell'amore che desidera che il giovane diventi il migliore, mentre impediremmo, nei limiti del possibile, gli altri due? Come dobbiamo parlare, caro Megillo?
MEGILLO: Quello che hai detto ora intorno a queste cose è assolutamente giusto, straniero.
ATENIESE: Dunque, a quanto pare, sei d'accordo con me, amico, e del resto lo pensavo: non ho bisogno di esaminare che cosa la vostra legge pensi a tal proposito, ma mi è sufficiente accettare il fatto che tu in questo discorso sia d'accordo con me. Dopo di che, più avanti, cercherò di persuadere anche Clinia, incantandolo. Questa è dunque una concessione che fate a me, ma ora torniamo a dare completa esposizione delle leggi.
MEGILLO: Giustissimo.
ATENIESE: Dovendo stabilire questa legge, posseggo in questo momento un'arte, per certi versi facile, ma che, in un certo senso, è in assoluto la più difficile.
MEGILLO: Come dici?
ATENIESE: Noi sappiamo che anche ora la maggior parte degli uomini, benché viva illegalmente, evita a proposito e diligentemente le relazioni intime con le belle persone, e non lo fa involontariamente, ma il più possibile di sua spontanea volontà.
MEGILLO: E quando?
ATENIESE: Quando un tale abbia ad esempio un bel fratello o una bella sorella. E allo stesso modo la stessa legge non scritta che riguarda il figlio e la figlia osserva in modo assai conveniente che non ci si corichi con loro, né apertamente, né di nascosto, o che non si abbiano contatti con costoro per un affetto inteso diversamente da come lo si dovrebbe intendere: e in ogni caso non si insinua affatto nella maggior parte delle persone il desiderio di simili relazioni.
MEGILLO: Vero.
ATENIESE: Dunque un piccolo discorso spegne tutti i piaceri come questi?
MEGILLO: Quale discorso?
ATENIESE: Affermare cioè che queste sono azioni assolutamente empie, odiose alla divinità, e le più turpi fra tutte le azioni vergognose. E non è forse questo il motivo, cioè che a tal proposito tutti dicono la stessa cosa, e ciascuno di noi come nasce sente sempre e ovunque raccontare le stesse cose, tanto nella commedia destinata a suscitare riso, quanto in ogni rappresentazione seria che viene detta “tragedia”, quando vengono introdotti in scena i Tieste, gli Edipi, o i Macarei, inconsapevoli amanti delle loro sorelle, che, avendo visto la verità dei fatti, infliggono prontamente a se stessi la morte come castigo della loro colpa?
MEGILLO: Quel che dici è giustissimo, vale a dire che questa fama tramandata ha un'incredibile potenza, se nessuno emette in alcun modo neppure un soffio che sia contrario alla legge.
ATENIESE: è dunque giusto ciò che si diceva un momento fa, e cioè che il legislatore che vuole assoggettare quella passione che rende particolarmente schiavi gli uomini può vedere facilmente come trattarla: rendendo sacra presso tutti questa tradizione, allo stesso modo presso gli schiavi e i liberi, i fanciulli e le donne, e così presso tutta la città, darà solidità a questa legge.
MEGILLO: Certamente. Ma come sarà possibile far sì che tutti sostengano volentieri una cosa di questo genere?
ATENIESE: Giusta osservazione: e proprio questo ho detto prima, e cioè che ero in grado di possedere un'arte in vista di questa legge che regola secondo natura le unioni carnali finalizzate alla procreazione, evitando che ci si astenga dall'unione fra maschi, in modo che non si elimini premeditatamente il genere umano disperdendo il seme sulle pietre e sui sassi, dove mai il seme potrà mettere le sue radici e trovare una natura feconda, e lo si possa tenere lontano da ogni grembo di donna nel quale tu non vorresti che nascesse. Se questa legge avrà durata e potere, così come ora ha potere sulle unioni carnali con i genitori, se giustamente vincerà anche nelle altre unioni illecite, allora determinerà una serie infinita di beni. Prima di tutto si fonda sulla natura, e, quindi, fa in modo di tenere lontani gli uomini dal furore e dalla follia erotica, da tutti gli adulteri, da tutti gli eccessi nel bere e nel mangiare, e li rende affettuosi verso le loro mogli: ma molti altri beni potrebbero nascere, se si riuscirà ad essere padroni di questa legge. Forse potrebbe comparire dinanzi a noi un uomo energico e giovane, pieno di molto sperma, e ascoltando la legge che abbiamo stabilito ci insulterà aspramente come se avessimo stabilito delle norme sciocche e impossibili, e urlerà dappertutto: in considerazione di queste cose io feci quel discorso, e cioè che possedevo un'arte, da un lato la più facile di tutte, e dall'altro la più difficile, che controllasse che questa legge, una volta stabilita, durasse nel tempo. è infatti assai facile comprendere quale legge è possibile applicare, e come - diciamo infatti che se questa norma verrà adeguatamente consacrata renderà schiava ogni anima e farà in modo che con senso di timore obbediscano alle leggi stabilite -, ma ora siamo giunti ad un punto che sembra che ciò non possa verificarsi, così come non si crede possibile che uno stato intero trascorra tutta la vita praticando la consuetudine dei pasti in comune. Ma i fatti provano che anche presso di voi avviene così, benché neppure nei vostri stati viene ritenuto conforme a natura il fatto che Le donne vi prendano parte. Per questa ragione, allora, e cioè per la forza dell'incredulità, ho detto che era assai difficile stabilire per legge queste due consuetudini.
MEGILLO: Quello che tu dici è giusto.
ATENIESE: Volete che io faccia il tentativo di dirvi un certo discorso, che ha in sé un certo grado di persuasione, dicendo qualcosa che non è al di sopra delle umane possibilità, ma può avvenire?
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Si asterrà più facilmente dai piaceri d'amore e si conformerà volentieri e in modo conveniente alla norma stabilita intorno a questa materia chi ha un bel corpo e non trascura di esercitarlo, oppure chi ha un corpo debole?
CLINIA: Molto dì più chi non trascura di esercitare il proprio corpo.
ATENIESE: E non abbiamo mai sentito parlare del Tarantino Icco a proposito della gara olimpica e di altre competizioni?
Per l'ambizione di vincere queste gare, possedendo tanto l'arte quanto il coraggio, insieme alla temperanza, nel suo animo, secondo quanto si racconta, non toccò mai donna o bambino in tutto quel periodo in cui l'allenamento era più intenso: e lo stesso discorso vale per Crisone, Astio, Diopompo, e molti altri. Eppure erano educati, per quanto riguarda le anime, in maniera di gran lunga peggiore rispetto ai miei e ai tuoi concittadini, Clinia, mentre pieni di vigore erano i loro corpi.
CLINIA: Quello che dici è vero. Anche gli antichi sostengono con forza, parlando di questi atleti, che allora le cose avvennero effettivamente così.
ATENIESE: Ebbene? Costoro per conseguire una vittoria nella lotta, nelle corse, e in altre gare del genere ebbero il coraggio di astenersi da quella pratica che molti definiscono felice, mentre i nostri figli non riusciranno a resistere in vista di una vittoria molto più nobile, vittoria di cui noi parleremo loro sin da bambini nei miti, e nei racconti, e nei canti, come della più bella che si possa conseguire, e della quale, incantandoli, li affascineremo?
CLINIA: Di quale vittoria parli?
ATENIESE: Della vittoria sui piaceri, per cui, se si riesce a dominarli, si vive felici, mentre se si è dominati, accade tutto il contrario. Ed inoltre la paura di compiere qualcosa che non sia affatto lecito non avrà, secondo noi, una forza tale che li farà dominare su quelle passioni sulle quali altri, inferiori a loro, hanno dominato?
CLINIA: è naturale.
ATENIESE: Poiché siamo giunti a questo punto parlando di questa legge, e siamo caduti in difficoltà a causa della malvagità dei molti, io dico che la nostra legge deve assolutamente procedere, dicendo, riguardo a queste stesse questioni, che i nostri cittadini non devono essere peggiori degli uccelli e di molti altri animali, i quali, generati in grandi frotte, sino all'età della procreazione, non ancora accoppiati, vivono casti e puri, e quando giungono all'età giusta, il maschio si accoppia con la femmina che più gli è gradita, e la femmina con il maschio, e vivono tutto il resto del tempo nella santità e nel rispetto della giustizia, mantenendo stabili i primi accordi del loro amore: bisogna che i nostri cittadini siano appunto migliori delle bestie. E se si lasciano corrompere dagli altri Greci e dalla maggior parte dei barbari, vedendo e anche sentendo dire che quell'Afrodite che è detta priva di ordine ha grande potere presso di loro, e così quelli non siano più capaci di dominarsi, bisogna che i custodi delle leggi, diventando legislatori, cerchino di escogitare una seconda legge.
CLINIA: Quale legge hai deciso di stabilire per loro, se la legge che ora è stabilita sfugge loro di mano?
ATENIESE: è chiaro che è quella che viene per seconda, subito dopo questa, Clinia.
CLINIA: Di quale parli?
ATENIESE: Parlo di una legge che renda quanto più è possibile senza allenamento la forza dei piaceri, volgendo in altre parti del corpo, attraverso le fatiche, l'afflusso e il nutrimento di quella forza. Questo potrebbe avvenire, se nel comportamento riguardante i piaceri sessuali non vi fosse una totale mancanza di pudore: se per vergogna, infatti, quelli facessero scarso uso dei piaceri sessuali, anche la padrona che hanno in sé risulterà indebolita.
Ritengano dunque nobile compiere tali pratiche di nascosto, e questa consuetudine, considerata come usanza e legge non scritta, diventi legge, mentre sia turpe il non nascondersi, ma non il non agire affatto in tal modo. E così questo comportamento vergognoso e nobile sia stabilito nella nostra legge secondariamente, avendo un valore di secondaria importanza, e comprendendo in tre generi quell'unico genere formato da quelli che sono corrotti nella loro natura, e che diciamo che sono inferiori a se stessi, li si costringerà a non andare contro la legge.
CLINIA: Quali sono questi generi.
ATENIESE: La pietà verso gli dèi, l'amore per gli onori, e il desiderio non di bei corpi, ma delle nobili indoli dell'anima. Queste cose che abbiamo detto come in un mito sono delle preghiere che, se si realizzassero, rappresenterebbero un gran bene per tutti gli stati. Forse, se il dio vorrà, riusciremo con la forza ad ottenere l'una o l'altra di queste due condizioni riguardo ai piaceri d'amore: o che nessuno abbia il coraggio di toccare nessun cittadino libero e legittimo che non sia, per il marito, la sua sposa, e che nessuno sparga semi illegittimi e bastardi su concubine, o, essendo sterile, sui maschi, andando contro natura; oppure che si eliminino del tutto le relazioni intime fra maschi, e riguardo alle donne, se qualcuno avrà relazioni intime con qualcuna che non sia entrata in casa sua con l'auspicio degli dèi e con le sacre nozze, sia essa comprata o sia stata acquistata in qualche modo, e questo fatto non sia nascosto a nessuno, uomini e donne, risultino da noi fissate correttamente, a quanto pare, le leggi, se stabiliamo la norma per cui egli sia privato dei diritti civili, come fosse realmente uno straniero. Questa legge, sia che si debba dire che è una, o anche che sono due, sia stabilita a proposito dei piaceri sessuali e di tutti i piaceri d'amore in genere che, mossi da questi desideri, fanno in modo che noi intrecciamo delle relazioni, comportandoci più o meno rettamente.
MEGILLO: Per quanto mi riguarda, straniero, accetto molto volentieri questa legge, e lo stesso Clinia esprima il suo parere in merito.
CLINIA: Questo avverrà, Megillo, quando mi sembrerà che sia giunta l'occasione propizia: ma ora lasciamo che lo straniero proceda ancora nella sua esposizione delle leggi.
MEGILLO: Giusto.
ATENIESE: E ora procedendo innanzi siamo ormai giunti all'istituzione dei pasti in comune - e abbiamo detto che altrove tale consuetudine è difficile da realizzare, mentre a Creta nessuno penserebbe di dover fare diversamente -: quanto alle modalità con cui devono avvenire, se come in questo luogo, o come a Sparta, o se vi è una terza specie di pasti in comune che sia diversa e migliore di queste due, questo non mi sembra difficile da scoprire, anche se non penso che, una volta scoperta, possa determinare grandi vantaggi, dato che anche adesso essi hanno una buona organizzazione.
Ai pasti in comune segue l'organizzazione pratica della vita, e il modo in cui essa debba conformarsi a quelli. La vita negli altri stati è organizzata nei modi più diversi e le rendite provengono da molte parti, e anzi, sono doppie rispetto a quelle di questo stato: il nutrimento viene fornito alla maggior parte dei Greci dalla terra e dal mare, mentre ai nostri cittadini viene solo dalla terra. Questo fatto rappresenta una facilitazione per il legislatore: basteranno infatti non soltanto la metà delle leggi, ma molte di meno, e solo quelle che si adattano agli uomini liberi.
Dunque il legislatore si libera dalle leggi che riguardano armatori, commercianti all'ingrosso e al minuto, albergatori, riscossori di imposte, minatori, e quanti fanno prestiti e cercano di realizzare interessi su interessi, e da altre leggi che riguardano molte altre questioni come queste, dicendo loro addio, mentre fisserà leggi per gli agricoltori, per i pastori, per gli apicultori, per coloro che custodiscono i loro prodotti, e per quanti fabbricano i loro strumenti di lavoro, avendo già del resto stabilito leggi sulle questioni più importanti, ovvero sulle nozze, e sulla generazione e sull'allevamento dei figli, e ancora sulla loro educazione, e sull'istituzione delle magistrature nello stato: ora sarebbe dunque necessario che il legislatore si volgesse a legiferare per quelli che procurano il nutrimento e per i loro aiutanti.
Vi siano in primo luogo le leggi che prendono il nome di “agrarie”. Prima legge sia quella dì Zeus, dio dei confini, e reciti così: nessuno rimuova i confini della terra, né se è di un vicino che è suo concittadino, né se è di uno straniero di uno stato confinante, nel caso in cui abbia acquistato un terreno ai confini dello stato, pensando che questo vorrebbe dire muovere veramente ciò che non si può muovere. Chiunque preferisca tentare di muovere la pietra più grande, ma che non costituisca un confine, piuttosto che una piccola pietruzza che delimita l'inimicizia e l'ostilità stabilita dai giuramenti degli dèi: e dell'uno è testimone Zeus protettore di chi è della stessa tribù, dell'altro Zeus protettore degli stranieri, i quali si risvegliano con le guerre più feroci. E chi obbedirà alla legge non subirà alcun male proveniente da essa, ma chi la disprezza sarà sottoposto a doppia punizione, una derivante dagli dèi, ed è la prima, e la seconda dalla legge.
Nessuno allora rimuova volontariamente i confini della terra dei suoi vicini: e se qualcuno invece li rimuove, chiunque lo voglia, lo segnali agli agricoltori, e quelli lo conducano in tribunale. Se in questa causa viene riconosciuto colpevole di invalidare la suddivisione delle terre con la frode e la violenza, il tribunale decida quale multa o pena egli deve pagare.
Vi sono poi molti e piccoli torti che avvengono fra vicini, ma che a causa della loro frequenza determinano una mole considerevole di inimicizia e rendono assai molesta la vicinanza. Perciò bisogna che il vicino eviti nel modo più assoluto di fare qualcosa di spiacevole al vicino, evitando sempre in modo particolare, fra il resto, di non coltivare il campo altrui: danneggiare infatti non è affatto cosa difficile da fare, ed anzi ogni uomo è capace, mentre il recare vantaggio non è affatto semplice per nessuno. Chi allora, superando i confini, lavora nel campo del vicino, paghi il danno, e per rimediare alla sua impudenza e alla sua illiberalità, paghi al danneggiato il doppio del danno: di questi e di tutti gli altri delitti di questo genere siano arbitri, giudici, ed estimatori dell'entità della pena gli agronomi; per quelli più gravi, come si diceva in precedenza, il giudizio spetti all'intero ordine di ciascuna delle dodici parti, per i meno gravi ai frurarchi.
E se qualcuno fa pascolare sul terreno di un altro il suo bestiame, constatando l'entità del danno, essi giudichino e stabiliscano la pena. E se qualcuno si appropria degli sciami d'api di un altro, e, adattandosi a quello che le api avvertono come un piacere, produce un rumore metallico e così se le porta a casa, paghi il danno. E se un tale bruciando il bosco non ha riguardi per i beni del vicino, sia punito in base alla multa decisa dai magistrati. E se uno piantando delle piante non rispetti le misure di distanza dai terreni del vicino, subisca quelle pene che sono già state formulate adeguatamente da molti legislatori, legislatori di cui si possono utilizzare le leggi, e non è affatto necessario che il più importante ordinatore dello stato venga a legiferare su tutte le numerose questioni di scarso interesse, che possono essere benissimo di competenza di un qualsiasi legislatore: poiché infatti anche per quanto riguarda le acque sono stabilite delle antiche e belle leggi che interessano gli agricoltori, non è il caso di farle scorrere nei nostri discorsi.
Ma chi vuole condurre l'acqua nel suo terreno, la conduca pure facendola derivare dalle pubbliche fontane, e senza intercettare le fonti che appartengono chiaramente ad un privato; conduca allora l'acqua per dove vuole, ma non attraverso case, luoghi sacri, e monumenti, limitando i danni alla sola costruzione del canale. Se un'aridità connaturata a certi luoghi, per le caratteristiche specifiche della terra, trattiene l'acqua piovana, e viene così a mancare l'acqua potabile necessaria, si faccia uno scavo nel proprio terreno sino a trovare l'argilla, e se a questa profondità in alcun modo si incontra l'acqua, la si attinga dai vicini, sino a giungere alla quantità necessaria d'acqua per ciascun familiare. E se anche i vicini dispongono di una quantità limitata entro precisi termini, gli agronomi stabiliscano la quantità d'acqua, in modo che ogni giorno ciascuno si porti via quanto gli spetta, e in tal modo si prenda parte con i vicini dell'acqua. E se quando piove, un contadino, stando più in basso, reca danno a chi sta più in alto o anche a chi gli è attiguo, non lasciando che l'acqua defluisca, o, al contrario, chi sta in alto danneggia chi sta in basso lasciando che i corsi d'acqua scorrano a caso, e su tali cose non ci si voglia mettere d'accordo vicendevolmente, chiunque lo voglia chiami in città l'astinomo, in campagna l'agronomo, e si stabilisca che cosa bisogna fare per l'una e per l'altra parte in causa. E chi non si sottomette alla decisione sia denunciato come persona invidiosa e malevola, e l'accusato paghi il doppio del danno alla parte lesa, poiché non ha voluto obbedire ai magistrati.
Bisogna che tutti partecipino della stagione dei frutti maturi nel modo che segue. La dea di questa stagione ci offre due graditi doni: uno è costituito dal divertimento dionisiaco, che non può essere custodito, l'altro per natura nasce per essere riposto. E questa sia la legge riguardante i frutti autunnali: chi degusti frutta selvatica, uva o fichi, prima che sia giunta la stagione della raccolta che si accompagna al sorgere della stella di Arturo, sia che si trovi nel suo terreno, sia che si trovi in quello altrui, paghi a Dionisio cinquanta dracme se ha colto i frutti dal suo campo, una dracma se ha colto da quello dei vicini, e due parti di mina, se da altri ancora. Chi vuole cogliere l'uva che ora si dice pregiata o i fichi pregiati, e li coglie nel suo terreno, li colga come e quando vuole, se li coglie da altri senza autorizzazione, sia punito in conformità alla legge secondo cui non si deve toccare ciò che non è stato deposto: se uno schiavo, senza l'autorizzazione del padrone tocca questi prodotti della terra, sia frustato con un numero di colpi pari agli acini d'uva e ai fichi che ha preso.
Lo straniero immigrato colga, se vuole, la frutta pregiata, ma deve pagarla, e se lo straniero di passaggio ha desiderio, strada facendo, di mangiare frutta, prenda quella pregiata, se vuole, insieme ad uno che lo accompagni, senza pagarla e ricevendola come dono ospitale, ma la legge vieti qui da noi agli stranieri di prendere parte della frutta selvatica e di prodotti simili: e se lo straniero o uno schiavo, ignorando tale disposizione, tocca questa frutta, lo schiavo sia punito con la verga, mentre il libero sia spedito via dopo che lo si è ammonito e gli si è insegnato di cogliere l'altra frutta che non è adatta ad essere conservata per farne uva passa, vino, e fichi secchi. Non sia ritenuto vergognoso cogliere di nascosto pere, mele, melagrane e tutti gli altri frutti del genere, ma chi viene colto e abbia meno di trent'anni, sia battuto e allontanato senza ferite, e anche ad un uomo libero non sia affatto consentito ricorrere alla giustizia per tali percosse.
Allo straniero sia consentito di prendere parte di questi prodotti così come si è visto per i frutti maturi: se un cittadino più vecchio di trent'anni tocca questa frutta, e se la mangia sul posto senza portarsela via, prenda parte di questi frutti come lo straniero; ma se non obbedisce alla legge, corra allora il rischio di non partecipare alle competizioni per la virtù, nel caso in cui si ricordino ai giudici della gara i precedenti che lo riguardano.
L'acqua è assai indicata per nutrire gli orti, ma si inquina facilmente: né la terra, né il sole, né i venti, che con l'acqua concorrono al nutrimento dei vegetali che crescono dalla terra, si possono facilmente inquinare con i veleni, o deviare, o rubare, mentre per quanto riguarda la natura dell'acqua, è possibile che avvenga tutto questo; ecco perché essa ha bisogno dell'aiuto della legge. Questa sia dunque la legge sull'acqua: se uno inquina volontariamente con veleni l'acqua di un altro, sia di fonte o anche raccolta, o con scavi la devia e la ruba, il danneggiato lo denunci agli astinomi, mettendo per iscritto la stima del danno. E se quel tale risulti colpevole di aver danneggiato con dei veleni, oltre alla multa purifichi la fonte o la riserva d'acqua, a seconda delle modalità indicate dalle norme degli interpreti delle leggi secondo le quali deve ogni volta avvenire la purificazione per ciascuno.
Per quanto riguarda il trasporto di tutti i prodotti agricoli, sia consentito a chi vuole di trasportare i propri prodotti in ogni luogo, facendo però in modo da non danneggiare nessuno in alcun modo, o che il suo guadagno sia triplo rispetto al danno arrecato al vicino: arbitri di tali questioni siano i magistrati, e così di tutti gli altri danni che vengono volontariamente arrecati, con la violenza o con la frode, a chi non vuole subirli - alla persona e al suo patrimonio - nell'uso dei propri beni; in tutti questi casi la parte lesa segnali la situazione ai magistrati e sporga denuncia, per ottenere la punizione della controparte, se il danno non supera le tre mine. Se uno accusa un altro di aver subito un danno maggiore, portando la causa dinanzi ai pubblici tribunali, si punisca chi ha arrecato l'offesa. E se uno dei magistrati sembra giudicare il danno con un'ingiusta sentenza, sia condannato a pagare il doppio alla parte lesa: e a proposito delle ingiustizie dei magistrati, chiunque lo voglia denunci ogni singola ingiustizia dinanzi ai pubblici tribunali. E poiché vi sono tutta una serie di piccole norme che stabiliscono come devono avvenire le punizioni, e riguardano le querele, l'istituzione dei processi, le citazioni in giudizio, la convocazione dei testimoni, se bisogna convocarne due o quanti, e tutte le altre questioni di questo genere, esse non possono non essere disciplinate dalla legge, e non sono neppure degne di un legislatore anziano. Sono dunque i giovani che devono regolare questa materia con delle leggi imitando la normativa dei precedenti legislatori, le norme piccole ad imitazione delle grandi, e devono ricorrere all'esperienza che gli deriva dalla pratica necessaria con tali cose, finché tutto non risulti essere adeguatamente disposto: allora le renderanno immobili, e finché vivono si serviranno di esse che risponderanno finalmente a dei criteri ben precisi.
Quanto agli artigiani, conviene comportarsi così. In primo luogo nessuno indigeno, o nessun servo di uomo indigeno, si accosti alle attività degli artigiani. Il cittadino infatti è già sufficientemente impegnato in un'attività che richiede molto esercizio e molto studio, al fine di salvaguardare e mantenere l'ordine nello stato, ed è un'impresa che non richiede un impegno marginale: nessuna natura umana può coltivare con sufficiente precisione due occupazioni o due professioni, e non è in grado di esercitarsi in una di queste, e di controllare che un altro si eserciti nell'altra. Questa condizione deve innanzitutto realizzarsi nel nostro stato: nessun fabbro eserciti il mestiere di falegname, e a sua volta nessun falegname si prenda cura degli altri fabbri più che del suo mestiere, con il pretesto secondo cui, dovendo occuparsi di molti servi che lavorano per lui, sarà naturalmente più impegnato nel seguire costoro, dato che guadagnerà di più facendo in quel modo che occupandosi della propria arte; mentre nello stato ciascuno abbia un solo mestiere e tragga da quello il necessario per vivere. Sarà cura degli astinomi salvaguardare questa legge, e l'indigeno, se ripiega verso un certo mestiere piuttosto che verso la cura della virtù sia punito con pubblici biasimi e privazioni di diritti, finché non lo abbiano ricondotto sulla retta strada; e se uno straniero esercita due mestieri, lo puniscano con carcere, con multe, con l'espulsione dallo stato, costringendolo ad essere un solo uomo, e non molti. Per quanto riguarda il loro pagamento e i lavori che si incaricano di compiere, se qualcuno commetta ingiustizia nei loro confronti, o siano essi stessi che la compiono nei confronti di qualcun altro, sino a cinquanta dracme giudichino gli astinomi, oltre a questa somma siano i pubblici tribunali a giudicare secondo la legge.
Nessuno paghi alcuna tassa nello stato né per i beni esportati, né per quelli importati: per quanto riguarda l'incenso e tutti i profumi stranieri, simili a quello, che si usano nei sacrifici agli dèi, e per quanto riguarda la porpora e tutte le tinture che non sono prodotte nella regione, o qualsiasi altra materia prima di cui si richieda l'importazione per una qualche arte, se non vi è reale necessità, non li si dovranno importare, né si esporti ciò che necessariamente deve rimanere nello stato: arbitri e sovrintendenti di tutte queste questioni siano, con l'eccezione dei cinque anziani, i dodici custodi delle leggi che seguono per età.
Per quanto riguarda le armi e tutti gli strumenti che servono per la guerra, se c'è bisogno di importare o una qualche arte, o una pianta, o metalli, o una lega, o animali, proprio per quest'uso, gli ipparchi e gli strateghi siano i responsabili dell'importazione e dell'esportazione di queste cose, come se fosse lo stato a dare e a ricevere, mentre i custodi delle leggi fisseranno delle leggi convenienti ed adeguate alla materia: e in ogni caso non si faccia commercio al minuto di queste cose né di nient'altro, a scopo di lucro, sia in tutta la regione, sia nella nostra città. Circa l'alimentazione e la distribuzione dei prodotti della regione, mi pare che sarebbe giusto aderire in un certo senso alla legge cretese.
Bisogna dividere tutti i prodotti della regione in dodici parti, e bisogna consumarli così: ogni dodicesima parte - ad esempio di frumento o d'orzo, e di tutti gli altri prodotti che ad essi si accompagnano e che devono essere distribuiti, e così di tutti gli animali da vendere che sono nei singoli luoghi - sia suddivisa in tre parti, secondo una proporzione, e cioè una parte per i liberi, una per i loro servi; la terza per gli artigiani e per gli stranieri in genere, sia quelli che, venuti ad abitare stabilmente da noi hanno bisogno del nutrimento necessario, sia quelli che ogni volta giungono per trattare un qualche affare con lo stato o con un privato. Di tutti questi generi di prima necessità, questa terza parte, una volta distribuita, è l'unica che si dovrà obbligatoriamente vendere, mentre non vi sia alcun obbligo di vendere le altre due parti. Ma come si potranno vendere nel modo più giusto queste cose? Prima di tutto è chiaro che per certi versi si dividerà in parti uguali, mentre per certi altri disuguali.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: è inevitabile che la terra faccia nascere e nutra ciascuno di questi prodotti, in modo peggiore o migliore.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Sotto questo aspetto nessuna delle parti, che sono tre, abbia nulla in più, né quella assegnata ai padroni o ai servi, né quella degli stranieri, ma la distribuzione assegni a tutti una parte che risponda a criteri di uguaglianza: una volta che ciascuno dei cittadini abbia ricevuto le due parti, abbia facoltà di distribuirle a schiavi e liberi, quanto e come vuole. Quel che avanza bisogna distribuirlo così, secondo le misure e il numero: calcolato il numero di tutti gli animali che necessitano del nutrimento che proviene dalla terra, si divida in base a quel numero.
Dopo di che bisogna che le case di queste persone siano disposte separatamente: questo è l'ordine che si adatta a tali cose. Bisogna che vi siano dodici villaggi, ciascuno al centro di ognuna delle dodici parti dello stato; in ciascun villaggio si scelga innanzitutto il luogo per i templi e per la piazza, luoghi sacri agli dèi e ai demoni che seguono gli dèi, sia che siano divinità locali dei Magneti, sia che siano costruzioni sacre di antiche divinità di cui si sia conservata memoria, cui si dovranno rendere gli onori già loro tributati dagli antenati; e ovunque sorgano costruzioni sacre in onore di Estia, Zeus, Atena, e a qualsiasi altra divinità che sia a capo di ciascuna delle dodici parti. I primi edifici costruiti siano situati intorno a queste costruzioni sacre, dove il luogo sia più elevato, e servano da ricovero fortificato per le guardie, ed esso sia il più possibile munito: il resto della regione sia tutto quanto fornito di artigiani divisi in tredici gruppi, e uno di questi gruppi si stabilisca in città, diviso anche questo a sua volta nelle dodici parti della città intera; ed essi siano distribuiti all'esterno e circolarmente; in ciascun villaggio avranno sede quelle categorie di artigiani che sono utili ai contadini. Responsabili di tutta questa gente siano i capi degli agronomi che decideranno di quanti e di quali artigiani ciascun luogo ha bisogno, e dove andando ad abitare procureranno i minori fastidi e il vantaggio più grande ai contadini. Allo stesso modo saranno gli astinomi che si prenderanno cura degli artigiani che risiedono in città.
Gli agoranomi devono occuparsi di ogni cosa che riguarda l'agorà. Dopo aver controllato che nessuno rechi danno ai templi che sono presso l'agorà, si prendano cura in secondo luogo delle relazioni fra gli uomini, vigilando sulla temperanza e sull'insolenza, e punendo secondo il necessario. Quanto alle cose che sono messe in vendita, e soprattutto riguardo a ciò che i cittadini devono vendere agli stranieri, controllino in primo luogo se tutto avviene secondo la legge. Ed ecco la legge per ogni caso: il primo giorno del mese gli incaricati, gli stranieri per i cittadini o anche gli schiavi, portino al mercato quella parte di derrate che devono essere vendute agli stranieri, prima di tutto la dodicesima parte del grano, e gli stranieri in quel primo giorno facciano provvista di frumento e delle altre granaglie per tutto il mese; il decimo giorno del mese gli uni vendano e gli altri acquistino i liquidi, che siano in quantità sufficiente per tutto il mese. Il ventitreesimo giorno avvenga la vendita degli animali: si dovranno vendere e comprare a seconda delle esigenze di ciascuno, e si effettuerà la vendita agli agricoltori di tutti gli utensili e di tutti i beni, come ad esempio pelli e vestiti di ogni genere, tessuti, feltri, e altre cose simili che gli stranieri sono necessariamente costretti a comprare da altri. Per quanto riguarda il commercio al minuto di queste cose, dell'orzo o delle farine, o anche per tutto il resto del nutrimento, non si deve vendere ai cittadini e ai loro schiavi, e non si deve comperare da questa gente; mentre lo straniero, all'interno dei mercati riservati agli stranieri, possa vendere agli artigiani e ai loro schiavi, scambiando vino e grano e vendendoli, ed è appunto questa operazione che i più definiscono “commercio al minuto”. I macellai, tagliata a pezzi la carne degli animali, la vendano agli stranieri, agli artigiani, e ai loro servi. Lo straniero che lo voglia potrà comprare ogni giorno all'ingrosso tutta la legna da ardere da coloro che localmente sono incaricati della vendita di tale merce, e potrà rivenderla agli stranieri, quanta e quando vuole. Quanto a tutti gli altri beni ed utensili che possono essere necessari a ciascuno, si vendano portandoli al mercato comune e sistemando ogni cosa nel luogo dove i custodi delle leggi e gli agoranomi, insieme agli astinomi, avranno indicato come la sede adatta; quindi si stabiliranno i confini del luogo dove la merce viene venduta, e all'interno di tali confini si possono scambiare danaro con merci e merci con danaro, purché uno non faccia credito all'altro: chi, fidandosi, fa credito, che sia pagato o no, si rassegni pure perché non si può intentare alcuna azione giudiziaria per dei contratti simili.
Per quanto riguarda la merce comprata o venduta in quantità maggiore o ad un prezzo più alto di quello consentito dalla legge, poiché la legge ha già stabilito quali sono i due parametri al di sotto o al di sopra dei quali non si devono effettuare queste due operazioni, presso i custodi delle leggi sia annotata l'eccedenza, mentre sia cancellata la differenza. Le stesse norme siano valide anche per gli stranieri per quel che riguarda l'iscrizione del patrimonio. Chiunque lo voglia può venire ad abitare nel nostro stato, ma a determinate condizioni: la residenza viene concessa a quegli stranieri che vogliono e possono venire ad abitare, purché abbiano un mestiere e rimangano per non più di vent'anni da quando sono stati registrati, e non dovranno pagare neppure la più piccola tassa di residenza se non la buona condotta, né alcuna altra tassa sulla compravendita. Trascorso il tempo stabilito, prendano le proprie cose e se ne vadano. E se in questi vent'anni è accaduto che uno di questi si sia distinto per aver reso qualche importante beneficio allo stato, e confida dì persuadere il Consiglio e l'Assemblea, credendo di avere tutto il diritto di avere una dilazione della sua partenza, o anche la possibilità di fermarsi per tutta la vita, si rechi dinanzi al consiglio, e quel che in seguito alle sue richieste gli viene accordato abbia valore definitivo.
Per i figli degli stranieri, se artigiani e giunti ai quindici anni d'età, il periodo della loro residenza comincerà dall'età di quindici anni, e, in aggiunta a questi anni, chiunque potrà rimanere per vent'anni ancora, e quindi se ne vada dove vuole; e se vuole rimanere, rimanga pure ma con l'autorizzazione richiesta secondo le stesse procedure di prima: chi se ne va, se ne vada pure, ma dopo essere stato cancellato dai registri sui quali i magistrati lo avevano precedentemente iscritto.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO NONO
ATENIESE: Dopo di che si dovrebbero trattare i procedimenti giudiziari che, secondo l'ordine naturale delle nostre leggi, dovrebbero seguire tutti quei fatti di cui si è detto precedentemente. Riguardo ai fatti per cui devono aver luogo questi procedimenti, alcuni sono stati detti, e si tratta di quelli che riguardano l'agricoltura e quanto ad essa è connesso, mentre gli altri, quelli più importanti, non li abbiamo ancora trattati, e non abbiamo ancora parlato di essi singolarmente: e proprio questi bisogna allora trattare qui di seguito, stabilendo quale pena richiede ciascun fatto, e a quali giudici ci si debba rivolgere.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: è cosa in un certo senso vergognosa stabilire tutte queste leggi, come ora stiamo per fare, in uno stato che, come diciamo, dovrà essere ben governato, e fornito di ogni perfezione utile alla pratica della virtù: anche il credere che in un simile stato possa nascere qualcuno che prende parte di quelle degenerazioni più gravi della malvagità proprie degli altri stati, sicché bisogna legiferare facendo azione di prevenzione e di minaccia nei confronti di chi potrebbe diventar tale e si devono porre leggi per questi individui, come se fossero già nel nostro stato, per distoglierli dai delitti o per punirli, nel caso li abbiano già commessi, questo fatto, dunque, come dicevo, è in un certo senso vergognoso.
Ma dato che non siamo più nelle condizioni in cui si trovavano gli antichi legislatori che legiferavano per gli eroi figli di dèi, come ora si dice, e provenendo essi stessi dagli dèi legiferavano per altri che similmente discendevano dagli dèi, ma siamo uomini e dobbiamo ora legiferare per stirpi di uomini, non deve dispiacerci se temiamo che qualcuno dei nostri cittadini sia duro come i semi toccati dalle corna di buoi e abbia una natura talmente inflessibile da non poterla ammorbidire: e come quei semi resistono al fuoco, ora temiamo che costoro non si lascino ammorbidire dalle leggi, anche se quelle hanno la stessa forza del fuoco.
Per queste ragioni, mi toccherà l'ingrato compito di esporre per prima la legge riguardante il saccheggio dei luoghi sacri, se mai vi sia qualcuno che abbia il coraggio di compiere un tale delitto.
Noi non vorremmo e non avremmo affatto motivo di sperare che uno dei cittadini che sono stati rettamente educati si ammalasse di tale malattia, mentre i loro servi, e gli stranieri, e i loro schiavi avranno molte possibilità di porre mano a tali delitti.
Per queste persone soprattutto, pur essendo tuttavia vigile nei confronti della debolezza della natura umana nel suo complesso, formulerò la legge sui ladri sacrileghi, e su tutti gli altri crimini di questo genere che sono difficili a guarire e addirittura insanabili.
A tutte queste leggi si deve premettere un brevissimo proemio, secondo gli accordi che abbiamo preso in precedenza.
Conversando e nello stesso tempo consigliandolo, si potrebbe parlare in questo modo all'uomo che un malvagio desiderio di compiere furti sacrileghi nei luoghi sacri stimola di giorno e tiene sveglio di notte: «Straordinario uomo, non è un male umano, né divino ciò che ora ti muove e ti spinge a compiere un furto sacrilego, ma un assillo che si è generato in te a causa di antiche ed inespiate colpe degli uomini, e che funesto si aggira, e sul quale con ogni sforzo devi vigilare. Cerca di capire in che cosa consiste questa vigilanza.
Quando ti capita di essere colto da questi pensieri, vai a compiere sacrifici espiatori, vai supplice presso i templi delle divinità tutelari, vai a cercare la compagnia di quelle persone che da voi sono dette oneste, ora ascoltandole, ora tentando di dire tu stesso che ogni uomo deve onorare ciò che è bello e giusto: e fuggi senza voltarti dalla compagnia di uomini malvagi.
E se ti comporterai in questo modo, il male cesserà; altrimenti considera più onorevole la morte e abbandona la vita».
Questo è il proemio che noi cantiamo per coloro che concepiscono di compiere tutte queste azioni empie e dannose allo stato, e se uno vi obbedisce bisogna che la legge stia in silenzio, ma se uno non obbedisce, dopo il proemio, bisogna cantare a gran voce così: chi è sorpreso a rubare nei templi, se schiavo o straniero, sia segnato con il segno della sventura sulla fronte e sulle mani, e sia frustato tante volte quanto sembrerà opportuno ai giudici, e quindi sia bandito, nudo, dai confini della regione.
Forse, infliggendogli questa pena, diventerà migliore e avrà modo di rinsavire.
Nessuna pena stabilita secondo la legge mira allo scopo di far del male, ma realizza semplicemente una di queste due condizioni: o rende migliore, o, se non altro, meno malvagio chi la subisce.
Se invece è un cittadino che risulta compiere un tale delitto, compiendo gravi ingiustizie - di cui non si potrebbe neppure parlare - contro gli dèi, o i genitori, o lo stato, il giudice deve ritenerlo ormai incurabile, considerando il fatto che, nonostante l'educazione e la formazione ricevuta sin da bambino, non si è astenuto da questi gravissimi mali.
Per lui la pena consisterà nella morte, il minore dei mali, e il suo esempio servirà a tutti gli altri, e senza onore sparirà al di fuori dei confini della regione: i suoi figli e la sua stirpe, se evitano i costumi del padre, conseguano gloria ed onore per il fatto che, allontanandosi dal male, si sono rivolti con onestà e coraggio verso il bene.
Ad una costituzione come la nostra, che prevede di dover mantenere sempre identici ed uguali i lotti, non conviene confiscare i beni di queste persone.
Quanto al pagamento delle multe, quando qualcuno risulti arrecare un danno che si può materialmente quantificare, paghi se ci sia un eccedenza rispetto al valore del lotto di cui ciascuno è stato dotato, e la multa rimanga in questi termini, e non paghi di più: i custodi delle leggi, esaminando con la dovuta precisione i registri, riferiscano sempre ai giudici il chiaro ammontare dei patrimoni, perché qualche lotto non sia lavorato per mancanza di ricchezze.
E se si ritiene che uno debba meritare una multa maggiore, nel caso non vi sia qualche amico che voglia farsi garante per lui e così liberarlo, pagando la somma dovuta, lo si metta in carcere per lungo tempo e pubblicamente, e lo si punisca con alcuni alte oltraggiosi castighi, ma assolutamente nessuno sia mai privato dei diritti civili, né per una delle sue colpe, né se tenta la fuga oltre i confini dello stato: sia condannato a morte, o al carcere, o alle frustate, o a sedere o a stare in piedi in atteggiamenti sconvenienti, o all'allontanamento verso templi situati presso gli estremi confini della regione, o a pagare delle multe secondo le procedure indicate prima.
Giudici della pena di morte siano i custodi delle leggi e un collegio di magistrati, scelti secondo il merito, fra quelli che erano in carica l'anno prima: per quanto riguarda le ammissioni di queste cause, le citazioni, e tutte le altre operazioni simili e il modo in cui debbono avvenire, spetta ai legislatori più giovani occuparsene, mentre nostro compito è quello di presentare la legge sulle modalità di voto.
Il voto assegnato sia palese, ma prima di esso i nostri giudici seggano vicini, uno accanto all'altro secondo l'anzianità, di fronte all'accusatore e all'accusato, e tutti i cittadini che hanno tempo libero siano uditori attenti del processo.
Parleranno a turno, prima l'accusatore, e dopo l'accusato: dopo questi discorsi, comincerà a interrogarli il giudice più anziano, procedendo a un attento esame dei fatti esposti; dopo il più anziano tutti, uno dopo l'altro, devono cercare di sapere dalle due parti in causa che cosa si desidera che sia detto o non sia detto.
Chi non desidera sapere nulla, lasci ad un altro l'inchiesta.
Fra le cose dette vengano secretati i punti che si ritengono di particolare importanza, e, suggellati da tutti i magistrati, siano deposti sull'altare di Estia.
Il giorno dopo si riuniscano di nuovo nello stesso luogo, e interrogandoli allo stesso modo, porteranno avanti l'inchiesta, firmando le deposizioni rese: ripetute queste operazioni per tre volte, dopo che si è raccolto un numero sufficiente di prove e di testimonianze, ciascuno deponga il sacro voto, e prometta in nome di Estia di giudicare nei limiti del possibile secondo giustizia e verità, e così il processo abbia fine.
Dopo i delitti contro gli dèi, vi sono quelli contro lo stato.
Chi asservisce le leggi conducendole sotto il potere degli uomini, e rende lo stato suddito di una fazione politica, e si muove contro le leggi facendo tutto ciò in modo violento e risvegliando la sedizione, costui va considerato il nemico peggiore di tutto lo stato: bisogna che al secondo posto per malvagità sia considerato quel cittadino che, pur non prendendo parte ad alcuno di quei delitti, ma detenendo le più importanti cariche dello stato, sia che sia stato informato oppure che sia rimasto all'oscuro di questi fatti, per viltà non vendichi la patria stessa.
Ogni uomo, anche se è scarso il vantaggio che arreca, denunci ai magistrati, conducendolo in tribunale, colui che trama una trasformazione violenta e illegale della costituzione: i giudici siano gli stessi che giudicavano i ladri sacrileghi, e tutto il processo avvenga secondo quelle stesse modalità, e si decreti la morte con la maggioranza dei voti.
In una parola, conviene ripetere che il disonore e i castighi del padre non devono accompagnare nessuno dei figli, a meno che qualcuno non abbia il padre, il nonno, e il bisnonno che siano stati uno dopo l'altro condannati a morte: lo stato li mandi in esilio, rimandandoli alla loro antica patria, e conceda di portarsi via le loro sostanze, escludendo completamente tutto ciò che è stato fornito in sorte.
E così, fra i cittadini che abbiano più di un figlio che non abbia meno di dieci anni si traggano a sorte dieci di questi bambini, e il padre o il nonno paterno o materno li presentino, e i nomi dei sorteggiati siano inviati a Delfi: quello che il dio sceglierà, sia stabilito, come erede, nella casa di coloro che sono andati via, e lo accompagni migliore fortuna.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: Vi sia una terza legge comune ed uguale a quelle che precedono, sia riguardo ai giudici che devono emettere la sentenza, sia riguardo alle modalità dei processi, e questo valga per coloro che sono condotti in tribunale con un'accusa di tradimento: allo stesso modo vi sia un'unica legge per i discendenti di questi tre, il traditore, il ladro sacrilego, e colui che ha annientato con la violenza le leggi dello stato, la quale regola la permanenza o l'espulsione dalla patria.
Per il ladro, sia che abbia commesso un grande o un piccolo furto, vi sia una sola legge e una sola pena valida per tutti: si deve innanzitutto pagare il doppio di quello che è stato rubato, se uno viene condannato in una causa come questa e dispone di un altro patrimonio, oltre il lotto che ha ricevuto in sorte, sufficiente a pagare la multa, altrimenti, sia incarcerato fino a quando non abbia pagato o non abbia convinto il suo avversario a concedergli il condono.
Se un tale viene riconosciuto colpevole di aver rubato il patrimonio pubblico, dopo aver persuaso lo stato a concedergli il condono, o dopo aver pagato il doppio di ciò che ha rubato, venga scarcerato.
CLINIA: Come possiamo dire, straniero, che non vi è differenza alcuna fra chi ha commesso un grande furto e chi porta via poche cose, e fra furti sacri e furti profani? E così per ogni altra differenza che riguardi l'intera materia del furto, alla cui varietà il legislatore deve adeguarsi, evitando di stabilire pene simili.
ATENIESE: Benissimo, Clinia.
Mi stavo lasciando trasportare, per così dire, dal discorso, quando tu, urtandomi, mi hai svegliato, richiamandomi alla memoria una riflessione già fatta anche prima, e cioè che la materia riguardante la formulazione delle leggi non ha mai richiesto, in alcun modo, uno sforzo così impegnativo come nell'argomento di cui ora ci è toccato di parlare.
Che vogliamo dire con questo? Non era malvagia l'immagine che abbiamo trovato nel descrivere tutti coloro che sono governati dalla legge come schiavi curati da medici schiavi.
Bisogna sapere con certezza che se uno di quei medici che pratica la medicina grazie alla sua esperienza, ma senza il supporto dello studio, sorprendesse un medico libero mentre discorre con un suo paziente, cittadino libero, usando un linguaggio assai vicino a quello filosofico, e tratta la malattia sin dall'origine risalendo alla natura del corpo, l'altro si farebbe subito una sonora risata, e non direbbe altre parole se non quelle che la maggior parte di questi cosiddetti medici ha sempre a portata di mano in questi casi:
«Sciocco», direbbe, «tu non curi il malato, ma quasi pretendi di educarlo, come se volesse diventare medico, e non uomo sano».
CLINIA: E parlando così non direbbe bene?
ATENIESE: Forse sì, ma solo se pensasse che chiunque espone la materia concernente le leggi, così come noi ora stiamo facendo, educa i cittadini, e non vuole solo fissare delle leggi.
E non avrebbe ragione se si esprimesse in questo modo?
CLINIA: Forse.
ATENIESE: Felice è in ogni caso la condizione in cui ora ci troviamo.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Essa consiste nel fatto che non siamo incalzati da alcuna urgenza di legiferare, per cui, trovandoci nella circostanza di esaminare una costituzione politica nel suo complesso, cerchiamo di scorgere in essa l'elemento migliore e quello assolutamente necessario, e in che modo potrebbero realizzarsi.
E ci è anche possibile, a quanto pare, se lo vogliamo, esaminare l'elemento migliore e, se vogliamo, quello assolutamente necessario riguardo alle leggi: prendiamo quello dei due che preferiamo.
CLINIA: Ma è ridicola, straniero, la scelta che ci proponiamo di fare, e saremmo senz'altro simili a quei legislatori che sono costretti da una grave necessità a legiferare immediatamente, come se l'indomani non fosse già più possibile: ma a noi è concesso, grazie a un dio, come a muratori o a chi comincia a mettere insieme qualsiasi altra cosa, di ammassare confusamente il materiale, da cui sceglieremo ciò che ci è utile per la costruzione che stiamo per realizzare, e di fare questa scelta in tutta tranquillità.
Supponiamo allora di essere non come costruttori incalzati dalla necessità, ma come chi con tranquillità mette insieme una parte del materiale, e un'altra parte la sistema: sicché è giusto dire che ormai una parte delle leggi ha già avuto una sua sistemazione, mentre un'altra parte è in attesa di essere sistemata.
ATENIESE: Dunque, Clinia, il nostro sguardo generale sulle leggi è sempre più conforme alla loro natura. Facciamo allora questa considerazione, per gli dèi, riguardo ai legislatori.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Negli stati vi sono opere scritte e discorsi scritti lasciati da molti altri scrittori, ma anche i discorsi del legislatore sono opere scritte.
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Forse dobbiamo prestare attenzione agli scritti degli altri, sia dei poeti, sia di quanti, scrivendo in prosa o in versi, hanno deposto nella memoria i loro consigli di vita, e non dobbiamo invece rivolgere attenzione alle opere dei legislatori? Oppure dobbiamo prestare molta più attenzione a costoro?
CLINIA: Molta di più a costoro.
ATENIESE: Ma non dovrebbe essere soltanto il legislatore che, fra gli scrittori, fornisce consigli sulla bellezza, l'onestà, e la giustizia, insegnando in che cosa consistono, e come devono essere praticati da coloro che vogliono essere felici?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: Ma sarebbe forse più turpe per Omero, Tirteo, e gli altri poeti fissare negli scritti consigli malvagi circa la vita e le consuetudini, e meno per Licurgo, Solone, e quanti, divenuti legislatori, lasciarono opere scritte? O non è giusto che, fra tutte le opere scritte che vi sono negli stati, quelle che svolgono la materia delle leggi appaiano come le più belle e le più nobili, mentre tutte le altre o devono adeguarsi a queste, o se sono discordi devono essere ridicole?
Dobbiamo allora immaginarci, a proposito delle leggi scritte, che la loro redazione negli stati sia come un padre e una madre pieni di amore e di attenzione, o come un tiranno o un signore che scolpisce sui muri i suoi ordini minacciosi, e quindi se ne va? Vediamo anche noi ora se dobbiamo provare a parlare delle leggi immaginandole come in quel primo caso, e, sia che ne siamo capaci, sia che non lo siamo, mettiamoci d'impegno: e procedendo lungo questa strada, se anche ci fosse qualche difficoltà da affrontare, affrontiamola. Speriamo che così tutto vada bene, se anche il dio lo vorrà.
CLINIA: Hai detto bene, e facciamo come dici.
ATENIESE: Bisogna innanzitutto prendere accuratamente in esame, come già abbiamo cominciato a fare, la legge riguardante i furti sacrileghi, e il furto in genere, e tutte le ingiustizie che vengono compiute, e non dobbiamo infastidirci se nell'atto di legiferare, abbiamo già fissato alcune leggi, mentre altre attendono ancora di essere esaminate: infatti stiamo per diventare legislatori, ma non lo siamo ancora, e forse lo diventeremo.
Se vi sembra allora opportuno che si prendano in esame le questioni di cui ho parlato, e nei termini in cui ne ho parlato, prendiamole in esame.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Riguardo alla bellezza ed alla giustizia nel loro complesso, cerchiamo di vedere dove ci troviamo ora d'accordo, e dove invece dissentiamo, noi che diciamo di sforzarci, se non altro, di distinguerci dalla maggior parte delle persone, proprio dove i più dissentono fra loro.
CLINIA: A quali nostri dissensi intendi alludere?
ATENIESE: Tenterò di spiegarvelo. Siamo tutti d'accordo nel sostenere che la giustizia in genere, e gli uomini giusti, e i fatti e le azioni giuste sono tutte cose belle, sicché, neppure se un tale affermasse con sicurezza che gli uomini giusti, anche se sono deformi nel corpo, sono assai belli proprio per il fatto di tenere una condotta all'insegna dell'assoluta giustizia, nessuno, per così dire, parlando così, penserebbe di dire qualcosa di stonato.
CLINIA: E non è giusto?
ATENIESE: Forse. Ma vediamo come, se tutto ciò che prende parte della giustizia è bello, anche i nostri stati d'animo appartengono a tutte queste cose, e in ugual misura alle nostre azioni.
CLINIA: E allora?
ATENIESE: Un'azione, se è giusta, nella misura in cui prende parte della giustizia, partecipa in altrettanta misura della bellezza.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E dunque anche a proposito di uno stato d'animo che partecipa della giustizia. se ammettessimo che esso è tanto bello quanto è giusto, non faremmo un discorso discordante, non è vero?
CLINIA: Vero.
ATENIESE: Se ammettessimo che uno stato d'animo, pur essendo giusto, è turpe, forse metteremmo in contraddizione il giusto e il bello, dicendo appunto che ciò che giusto è assai turpe.
CLINIA: Che senso ha quello che hai detto?
ATENIESE: Non è difficile da capire: quelle leggi che abbiamo fissato poco fa sembrano dichiarare tutto il contrario di quello che ora stiamo dicendo.
CLINIA: Quali cose?
ATENIESE: Noi prima abbiamo considerato che il ladro sacrilego e il nemico delle leggi ben stabilite sono giustamente condannati a morte, ed essendo sul punto di stabilire altre norme simili, ci siamo fermati, vedendo che esse vengono a determinare infiniti stati d'animo per numero e grandezza, che sono i più giusti e nello stesso tempo i più turpi fra tutti gli stati d'animo. E così le cose giuste e belle non ci appariranno ora tutte la stessa cosa, ora del tutto opposte fra loro?
CLINIA: Può darsi.
ATENIESE: Così la maggior parte delle persone parla di queste cose in modo contraddittorio, separando il bello dal giusto.
CLINIA: Pare di sì, straniero.
ATENIESE: Per quanto ci riguarda, Clinia, vediamo di nuovo come possiamo stabilire un accordo intorno a questi problemi.
CLINIA: Quale accordo e su quale problema?
ATENIESE: Nei precedenti discorsi credo di aver parlato chiaramente, e se non l'ho fatto prima, lasciate che ve lo dica ora.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Che tutti i malvagi sono in ogni caso involontariamente malvagi: stando così la questione, è inevitabile che ad essa si accompagni il discorso che segue.
CLINIA: Di quale discorso parli?
ATENIESE: Alludo al fatto che l'uomo ingiusto è malvagio, e il malvagio è tale involontariamente.
Non ha senso ritenere che chi agisce involontariamente compie un'azione volontaria: chi crede involontario il compiere ingiustizia, ritiene che l'ingiusto compie l'ingiustizia involontariamente, e anch'io ora concordo su questo punto.
Affermo infatti che tutti compiono ingiustizia involontariamente, anche se qualcuno per amor di polemica o per ambizione sostenesse che, certo, gli ingiusti sono tali involontariamente, ma molti commettono volontariamente ingiustizia; e in ogni caso il mio discorso è quell'altro, non questo.
Ma come potrò essere d'accordo con i miei discorsi? Se voi, Clinia e Megillo, mi chiedeste: «Straniero, stando le cose in questi termini, che ci consigli di fare circa la legislazione dello stato dei Magneti?
Bisogna legiferare oppure no?» «Come no?», dirò.
«Ma distinguerai per loro ingiustizie involontarie e volontarie, e stabiliremo punizioni maggiori per le colpe e le ingiustizie commesse volontariamente, e minori per le altre? Oppure saranno uguali per tutte, come se non ci fossero affatto ingiustizie volontarie?».
CLINIA: Quello che dici è giusto, straniero: e come ci regoleremo con queste parole che ora hai detto?
ATENIESE: Bella domanda. Prima di tutto regoliamoci così.
CLINIA: Come?
ATENIESE: Ricordiamoci che poco fa dicevamo bene che intorno al giusto vi è da parte nostra grande confusione e disaccordo.
Riprendendo di nuovo questo punto, interroghiamo noi stessi così: «Se non diamo una soluzione a questa difficoltà, e non teniamo conto che queste cose sono distinte le une dalle altre, e in base a questa distinzione in tutti gli stati e da tutti i legislatori si ritiene vi siano due specie di ingiustizie, le une volontarie, le altre involontarie, e di conseguenza, in base ad essa si stabiliscono leggi, non è vero che il discorso che ora abbiamo pronunciato, come se fosse pronunciato da un dio, dopo aver detto solo questo avrà termine, e, non avendo dato spiegazione di quel che giustamente è stato detto, in un certo senso fisseremo leggi che vanno in senso contrario a quel che si è detto?».
Non è possibile, ma è necessario che prima di legiferare si dimostri che queste sono due specie di ingiustizie e che vi sono altre differenze, così che, quando si stabiliscono le pene per l'una o per l'altra specie, ognuno possa seguire i nostri discorsi, e sia in grado di giudicare la pena che è stata convenientemente stabilita e quella che non lo è.
CLINIA: Quel che dici ci pare giusto, straniero, e quindi, ora, delle due l'una: o non si deve affermare che tutte le ingiustizie sono involontarie, oppure, facendo prima la dovuta distinzione, si deve dimostrare che questa affermazione è corretta.
ATENIESE: Di queste due affermazioni, non riesco assolutamente a tollerare che la prima abbia senso, non dire cioè quel che io credo sia il vero - poiché questo non sarebbe lecito né permesso.
Dunque in che modo possiamo dire che vi sono due specie di ingiustizie, se non vale la distinzione in ingiustizie involontarie e volontarie? Ma in un modo o nell'altro dobbiamo dimostrare che vi è un altro criterio di distinzione.
CLINIA: Assolutamente sì , straniero, noi non possiamo pensarla in modo diverso.
ATENIESE: Sarà così. Ebbene, nei loro commerci e nelle loro relazioni sono molti i danni che i cittadini, a quanto pare, arrecano gli uni agli altri, e una grande quantità di essi sono volontari ed involontari.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Non si creda allora, considerando tutti i danni come delle ingiustizie, che anche nell'ambito dei danni le ingiustizie siano di due specie, alcune volontarie, altre involontarie: i danni involontari, infatti, non sono, in genere, inferiori né per numero né per importanza a quelli volontari.
Vedete un po' se quello che sto per dire ha senso, o se non lo ha affatto.
Non dico, Clinia e Megillo, che se un tale danneggia un altro senza volerlo, involontariamente, commette ingiustizia, involontaria certamente, e non farò una legge in base a questo principio, stabilendo una legge come se questa fosse una colpa involontaria, ma anzi non considererò affatto un'ingiustizia un simile danno, sia che abbia colpito qualcuno in misura maggiore sia minore: spesso noi diremo, se ho ragione, che commettere ingiustizia consiste nel determinare un vantaggio tale da non risultare un giusto vantaggio.
Non bisogna, amici, affermare così, con semplicità, che è giusto o ingiusto ciò che uno dà o sottrae ad un altro, ma un legislatore deve osservare se un tale arreca vantaggio o danneggia un altro con un'indole e un comportamento ispirati a giustizia, e a questi due termini deve guardare, ingiustizia e danno: quanto al danno, deve risanarlo, nei limiti del possibile, con le leggi, salvando ciò che va in rovina, ristabilendo ciò che uno aveva fatto cadere, curando ciò che è condannato a morire o è ferito, e dopo aver conciliato con le ammende previste dalle leggi quelli che hanno compiuto e subito ciascun danno, deve sempre cercare di riportarli all'amicizia da una precedente condizione di discordia.
CLINIA: Bene.
ATENIESE: Per quanto riguarda i danni e i guadagni ingiusti, nel caso in cui, cioè, un tale, comportandosi ingiustamente, faccia guadagnare un altro, di questi mali, in quanto essi sono mali dell'anima, bisogna curare quelli curabili: e la guarigione dell'ingiustizia dobbiamo dire che si volge in questa direzione.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: La legge dovrà istruire chiunque commette un'ingiustizia, grande o piccola che sia, e dovrà costringerlo a non avere neppure più il coraggio di commettere volontariamente una simile ingiustizia in avvenire, o comunque in misura molto minore, oltre al risarcimento del danno.
Questo deve avvenire sia con i fatti, sia con le parole, con i piaceri o con i dolori, con gli onori o i disonori, con le multe o i doni, o anche in qualsiasi altro modo si dovrà far sì che si detesti l'ingiustizia, e si ami, o per lo meno non si detesti la natura del giusto, e questo è appunto compito delle leggi più belle.
E se il legislatore si rende conto che uno è incurabile sotto questo aspetto, quale pena e quale legge stabilirà in questi casi? E sapendo che per tutti costoro sarebbe meglio non vivere, e che gioverebbero doppiamente agli altri se abbandonassero la vita, diventando da un lato un esempio per gli altri perché non commettano ingiustizie, e facendo in modo, dall'altro, che lo stato venga abbandonato dagli uomini malvagi, così, riguardo a questa gente, è necessario che il legislatore punisca le colpe commesse assegnando loro la morte, e non si comporti affatto in alcun altro modo.
CLINIA: Mi pare che tu parli in modo assai conveniente, ma noi ascolteremmo con molto più piacere un'esposizione ancora più chiara che riguardi la differenza fra ingiustizia e danno, fra azioni volontarie e involontarie, e su come queste cose si compongono variamente fra loro.
ATENIESE: Tenterò di agire e di parlare come mi consigliate. è chiaro che parlando fra di voi e sentendo parlare dell'anima, sapete che una sua proprietà e una parte della sua natura è costituita dall'ira, litigiosa e ribelle, suo naturale possesso, che insieme ad una violenza irrazionale determina molti sconvolgimenti.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Noi dunque diciamo che il piacere, che non lo si può proprio definire identico all'ira, esercitando il suo dominio con una forza contraria all'ira, riesce a far fare, con la persuasione unita ad una seducente violenza, tutto ciò che la sua volontà desidera.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E se si dicesse che l'ignoranza è la terza causa dei delitti, non si direbbe una menzogna: a questo proposito sarebbe meglio che il legislatore la dividesse in due, ritenendo che di essa vi è una forma semplice che è causa di errori leggeri, e una forma doppia, quando non si è soltanto oppressi dall'ignoranza, ma anche da una certa credenza di saggezza, per cui si crede di essere pienamente sapienti riguardo a ciò che non si conosce affatto.
Il legislatore considererà tali mali, accompagnati dal vigore e dalla forza, causa di gravi e di grossolani delitti, mentre se accompagnati dalla debolezza, li considererà errori propri dei bambini e dei vecchi, e pur tuttavia li considererà errori, e per essi stabilirà delle leggi, anche se più miti e più indulgenti.
CLINIA: Quello che dici è naturale.
ATENIESE: Noi tutti diciamo che il piacere e l'ira, per così dire, ora ci dominano, e ora li dominiamo: e in effetti le cose stanno così.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: E invece non abbiamo mai sentito dire che l'ignoranza ora ci domina, e ora la dominiamo.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Noi diciamo che tutte queste forze, traendoci ciascuna al proprio volere, spesso ci spingono a compiere azioni contrarie a quelle che faremmo.
CLINIA: Assai spesso.
ATENIESE: Ora ti posso fornire una spiegazione chiara e senza troppi fronzoli circa la distinzione fra ciò che è giusto ed ingiusto, secondo la mia definizione.
Definisco assolutamente ingiustizia la tirannide dell'ira, della paura, del piacere, del dolore, dell'invidia, e dei desideri, sia fonte o meno di danni, che ha luogo nell'anima: per quanto riguarda l'opinione dell'ottimo, dovunque uno stato o dei privati cittadini ritengano che possa essere, se essa, esercitando il suo potere sull'anima, mette in regola ogni uomo, anche se in qualcosa cade in errore, bisogna affermare che è giusto tutto ciò che viene compiuto in conformità con essa, ed è cosa ottima che ciascuno si pieghi a tale potere, anche nel corso di tutta la vita umana.
Eppure, molti credono che un tale danno sia un'ingiustizia involontaria.
Ora non possiamo discutere sui nomi, ma poiché abbiamo dimostrato che vi sono tre specie di errori, si potrebbero innanzitutto richiamare alla memoria. Vi è una specie di sofferenza che abbiamo chiamato ira e paura.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Una seconda specie è costituita dal piacere e dai desideri, un'altra ancora, la terza, dalla brama di speranze e della vera opinione intorno all'ottimo.
Dividendo questa terza specie in tre parti per due sezioni, possiamo dire di aver ottenuto cinque specie: per queste cinque specie bisogna stabilire leggi fra loro differenti, divise in due generi.
CLINIA: Quali sono questi?
ATENIESE: L'uno è costituito da ciò che ogni volta viene compiuto violentemente e alla luce del sole, l'altro da ciò che avviene di nascosto con la complicità delle tenebre e dell'inganno.
Talvolta, poi, si agisce in tutti e due i modi: in questo caso le leggi saranno durissime, se saranno fatte come conviene.
CLINIA: Naturale.
ATENIESE: Dopo di che, torniamo di nuovo al punto da cui siamo partiti per questa digressione, portando a termine questo nostro compito di stabilire le leggi.
Abbiamo già stabilito leggi riguardanti i ladri sacrileghi, credo, e i traditori, ed inoltre quelli che corrompono le leggi per far cadere il governo in carica.
Si possono compiere alcuni di questi delitti per follia, ovvero oppressi da malattie o dalla vecchiaia che avanza, o vivendo in modo infantile, e a questo proposito non vi sarebbe alcuna differenza con gli altri casi citati.
E se uno di questi casi diventerà manifesto ai giudici che ogni volta sono scelti per questo incarico, grazie alla deposizione resa da chi ha commesso il fatto e di chi lo difende, e secondo il loro verdetto chi si sia comportato in tal modo è andato contro le leggi, l'imputato risarcisca assolutamente il semplice danno arrecato ad altri, e non sia soggetto ad altre pene, se non chi, avendo ucciso, abbia le mani impure per l'omicidio commesso: e così, partendo per un'altra regione, per un luogo straniero, abiti lontano dalla patria per un anno, e se vi fa ritorno prima del tempo prescritto dalla legge, o entra in qualsiasi luogo della terra patria, sia incarcerato nelle pubbliche carceri dai custodi delle leggi per due anni, e in seguito lo si liberi.
Poiché abbiamo preso le mosse dall'omicidio, cerchiamo di stabilire in modo completo le leggi riguardanti ogni specie di omicidio, e parliamo prima di tutto di quelli violenti ed involontari.
Se uno in una gara o nelle pubbliche competizioni uccide involontariamente un amico, sia che la morte giunga immediatamente, sia che giunga qualche tempo dopo in seguito alle ferite, o, allo stesso modo in guerra, o nelle esercitazioni finalizzate alla guerra, mentre compie esercitazioni a corpo libero, o con le armi simula l'attività bellica, sia ritenuto puro da ogni colpa, dopo essersi purificato secondo le leggi riguardanti questi delitti e provenienti da Delfi: per quanto riguarda i medici in generale, se chi viene curato da essi muore, senza però che vi sia una loro responsabilità, sia ritenuto puro secondo la legge.
Se un tale uccide un altro di sua mano, involontariamente, sia disarmato, sia con uno strumento o un'arma, o con la somministrazione di bevande e di cibi, o esponendolo al fuoco o al gelo, o soffocandolo, mediante il suo corpo o altri corpi, sia considerato in ogni caso come assassino di sua mano, e condannato alle seguenti pene: se uccide uno schiavo, credendo di aver ucciso il proprio, risarcisca il danno e la perdita al padrone dello schiavo morto, oppure sia soggetto al pagamento di una multa doppia rispetto al valore del morto, e i giudici dovranno stimare l'entità della pena; inoltre dovrà compiere sacrifici espiatori più importanti e più numerosi di coloro che uccidono nelle gare, e di questi sacrifici saranno autorevoli interpreti coloro che verranno scelti dal dio.
Se uno uccide il proprio schiavo, dopo essersi purificato, sia liberato dall'accusa di omicidio, come prevede la legge.
Se involontariamente uccide un libero cittadino, si purifichi seguendo gli stessi riti di purificazione di chi uccide uno schiavo, e non disprezzi quel che nei tempi più remoti si dice negli antichi miti.
Si dice infatti che chi viene ucciso di morte violenta, se abbia vissuto con animo libero ed elevato, appena morto si adira contro chi lo ha ucciso, e ancora pieno di paura e di terrore per la violenza avvenuta, vedendo il suo uccisore aggirarsi nei luoghi a lui familiari, è colto da paura, e, sconvolto, sconvolge l'autore del fatto, per quanto gli è possibile, lui e ogni sua azione, avendo la memoria come alleata.
Perciò è necessario che chi ha commesso il fatto si allontani dalla tomba della vittima per tutte le stagioni che vi sono in un anno, e abbandoni tutti i luoghi familiari che vi sono in patria: e se l'ucciso è uno straniero, stia lontano anche dalla terra dello straniero, per lo stesso periodo di tempo.
Se l'uccisore obbedisce di sua spontanea volontà a questa legge, il parente più prossimo al morto, sorvegliando che tutte queste cose avvengano come stabilito, usi indulgenza nei suoi confronti, e se farà addirittura la pace con lui si dimostrerà uomo assolutamente moderato: ma se non obbedisce, e in primo luogo, non essendo ancora purificato avrà il coraggio di recarsi nei templi per compiere sacrifici, e se inoltre non vuole trascorrere il tempo stabilito per l'esilio, il parente più prossimo del morto accusi l'uccisore di omicidio, e se viene riconosciuto colpevole, sia condannato al doppio di tutte le pene.
Se il parente più prossimo non lo accusa per il male subito, come se la macchia del delitto ricadesse su di lui, chi ha subito il fatto si appella alla sua disgrazia, e chiunque vuole potrà portarlo in tribunale, e, secondo la legge, costringerlo ad allontanarlo dalla sua patria per cinque anni.
Se uno straniero involontariamente uccide uno degli stranieri residenti nello stato, chiunque vuole lo denunci in base alle stesse leggi; se si tratta di straniero residente, sia condannato ad un anno di esilio, se invece è straniero a tutti gli effetti, nel caso in cui abbia ucciso un altro straniero, uno straniero residente, o un cittadino, oltre ai riti di purificazione, stia lontano per tutta la vita dalla regione dove queste leggi esercitano il loro potere: e se vi fa ritorno in modo illegale, i custodi delle leggi lo puniscano con la morte, e se possiede un patrimonio, sia esso assegnato al parente più prossimo della vittima.
Se invece vi fa ritorno involontariamente, nel caso in cui andando per mare sia sbattuto sulle spiagge della regione, dopo aver piantato una tenda, metta i piedi a bagno nel mare e controlli la navigazione, e se uno con la violenza lo trascina sulla terra, il primo magistrato dello stato che incontra, lasciandolo andare libero, lo spedisca senza avergli fatto violenza fuori dei confini dello stato.
Se uno di propria mano uccide un uomo libero, e il fatto avviene a causa dell'ira, bisogna innanzitutto distinguere il caso in due modi.
Agiscono sotto l'impulso repentino dell'ira quanti, all'improvviso e senza la premeditazione di uccidere, uccidono con percosse o in altro modo, e subito giunge il pentimento di ciò che hanno compiuto; e agiscono per ira quanti, oltraggiati da parole o da fatti disonorevoli, perseguendo la vendetta, alla fine uccidono qualcuno con la chiara volontà di uccidere, e non provano alcun pentimento per il fatto compiuto.
Bisogna allora stabilire che queste uccisioni sono di due specie, come appare, e direi che entrambe hanno la loro origine dall'ira, e assai giustamente si può dire che esse stanno a metà fra il delitto volontario e quello involontario.
Ed una è l'immagine dell'altra: chi sorveglia la propria ira e non uccide sul momento, all'improvviso, ma con premeditazione, molto tempo dopo, persegue la sua vendetta, sembra agire volontariamente, mentre chi non controlla la propria ira, e all'improvviso, immediatamente, senza premeditazione agisce, è simile a chi agisce in modo involontario, anche se costui non agisce involontariamente, ma solo in apparenza è involontario.
È perciò difficile distinguere gli omicidi che vengono compiuti sotto l'impulso dell'ira, e vedere se la legge li deve considerare volontari, o alcuni involontari.
Sarebbe meglio e più corrispondente alla verità che si considerassero entrambi come immagini, e si dividessero secondo il criterio della premeditazione e della mancanza di premeditazione, e la legge dovrebbe stabilire pene più gravi per quelli che uccidono con premeditazione e con collera, e pene più miti per quelli che agiscono senza premeditazione e all'improvviso: ciò che è immagine di un male più grande si deve punire con una pena maggiore, mentre ciò che è immagine di una pena minore, con una pena minore. Devono fare così anche le nostre leggi.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Ritornando un poco indietro, ripetiamo di nuovo: se un tale di propria mano uccide un libero cittadino, e il fatto viene commesso senza premeditazione e sotto l'impulso dell'ira, subisca, oltre al resto, quella pena che deve subire chi ha ucciso senza ira, ma trascorra necessariamente due anni in esilio, mettendo così un freno alla propria ira.
Chi ha ucciso con ira, e premeditatamente, oltre al resto, deve subire la stessa pena del precedente, ma starà in esilio tre anni, come l'altro se ne stava due anni, in quanto alla maggiore intensità dell'ira corrisponde un periodo di tempo più lungo.
Ed ecco come deve avvenire il loro ritorno in patria.
è difficile in proposito fissare leggi precise: infatti di questi due omicidi, quello che la legge considera come più grave potrebbe essere più mite, quello che considerato più mite potrebbe essere più grave, e uno può commettere l'omicidio in modo più feroce, un altro in modo più mite; e generalmente avviene come ora noi diciamo.
I custodi delle leggi devono essere arbitri di tutti questi casi, e dopo che per gli uni e per gli altri condannati è trascorso il tempo dell'esilio, devono inviare dodici loro giudici ai confini della regione, i quali, dopo aver indagato, in questo periodo di tempo, in modo ancora più chiaro la condotta degli esiliati, dovranno giudicare se sono degni di compassione e se si possono accettare nello stato, e questi ultimi devono rimettersi alle decisioni di tali magistrati.
E se uno di questi due assassini, tornato in patria, è vinto dall'ira e commette lo stesso fatto, vada in esilio e non faccia più ritorno, e se vi fa ritorno, subisca le stesse pene che subisce lo straniero che cerca di ritornare.
Chi uccide per ira il proprio schiavo compia riti di purificazione, chi, sempre per ira, uccide lo schiavo di un altro, paghi il doppio del danno al proprietario.
Se uno qualsiasi di tutti questi uccisori non obbedisce la legge, ma senza essersi purificato macchia con la sua colpa la piazza, le gare, e gli altri luoghi sacri, chiunque lo vuole faccia comparire in processo il parente del morto che lo permette e chi ha compiuto l'assassinio, e li costringa a pagare il doppio della multa in danaro, e anche a sostenere le altre spese, e l'ammenda sia ricevuta dall'accusatore stesso per sé, come prescrive la legge.
Se uno schiavo, spinto dall'ira, uccide il suo padrone, i parenti del morto possono fare all'assassino ciò che vogliono ma in ogni caso non devono usare alcuna misericordia, e siano ugualmente puri: se un altro schiavo uccide per l'ira un cittadino libero, i padroni consegnino lo schiavo ai parenti del morto, e quelli dovranno necessariamente infliggergli la morte, nel modo m cui vorranno.
Se un padre o una madre a causa dell'ira uccidono un figlio o una figlia con percosse, o con qualsiasi altra violenza - ed è una cosa possibile, anche se rara - si purifichino secondo gli stessi riti di purificazione previsti per gli altri omicidi, e siano esiliati per tre anni, e dopo il loro ritorno, la donna sia separata dall'uomo e l'uomo dalla donna, e non potranno più fare figli insieme, né vivere con coloro che essi hanno privato di un figlio o di un fratello, né prendere parte delle cose sacre: chi a tal proposito si comporta in modo empio e non obbedisce alle leggi, sia accusato di empietà da parte di chi lo vuole.
Se il marito uccide per ira la moglie, o la moglie fa la stessa cosa uccidendo suo marito, compiano purificazioni seguendo le stesse forme di purificazione e trascorrano tre mesi in esilio.
Dopo il loro ritorno, l'autore di questo fatto non partecipi più ai riti sacri con i propri figli, e non segga più con loro alla stessa tavola: e se il genitore o il figlio disobbedisce, sia accusato di empietà da parte di chi vuole.
E se un fratello o una sorella per ira uccidono un fratello o una sorella, si dica che anche costoro devono compiere purificazioni e andare in esilio per un anno, così come si diceva per i genitori e per i figli, e non possano vivere insieme, né prendere parte dei sacrifici con i fratelli che abbiano privato di fratelli o con genitori che abbiano privato dei figli: e se uno disobbedisce, può essere a buon diritto e secondo giustizia sottoposto alla legge di cui si è detto, relativa a questi casi di empietà.
Se uno si lascia a tal punto dominare dall'ira verso i genitori, da avere il coraggio di uccidere, folle per la collera, uno di essi, e se il genitore morente, prima di spirare, proscioglie volontariamente l'autore del tragico gesto dall'omicidio, dopo essersi purificato così come fa chi compie un omicidio involontario, e seguendo tutte le altre modalità di questo caso, sia alla fine puro, ma se non viene prosciolto, l'autore di un gesto simile sia sottoposto alle numerose leggi: e infatti dovrebbe essere sottoposto alle gravissime pene relative all'offesa personale e all'empietà allo stesso modo dell'accusa del furto sacrilego, poiché ha sottratto in modo sacrilego la vita al genitore, sicché se fosse possibile che la stessa persona morisse più volte, sarebbe assai giusto che il parricida o il matricida, che ha compiuto il gesto spinto dall'ira, morisse di molte morti.
A lui solo, infatti, neppure se dovesse difendersi dalla morte, proprio mentre sta per morire ucciso dai genitori, nessuna legge procurerà un valido pretesto che giustifichi l'uccisione del padre e della madre, vale a dire quelle persone che hanno dato alla luce la sua natura, ma anzi la legge gli ordinerà di sopportare e di subire qualsiasi cosa, prima di compiere un gesto simile: e allora come sarebbe opportuno che costui per legge subisse una pena diversa? Per chi uccide il padre e la madre sotto l'impulso dell'ira vi sia la pena di morte.
Se il fratello uccide il fratello nel corso di un combattimento sorto durante una sedizione o in un'altra circostanza del genere, dovendosi difendere da chi per primo ha cominciato a menar le mani, sia puro come se avesse ucciso un nemico, e allo stesso modo se un cittadino uccide un cittadino, o uno straniero uno straniero.
Se un cittadino uccide uno straniero, o uno straniero un cittadino per legittima difesa, allo stesso modo siano ritenuti puri.
E lo stesso discorso vale per uno schiavo che uccide uno schiavo: se uno schiavo uccide un libero per legittima difesa, sia soggetto alle stesse leggi di chi uccide il padre.
Quel che si è detto a proposito dell'assoluzione concessa dal padre all'assassino valga per tutte le altre assoluzioni che in simili casi possono essere concesse, e se un tale vuole di sua spontanea volontà prosciogliere dall'accusa un'altra persona, come se l'uccisione fosse avvenuta involontariamente, l'autore del fatto compia i riti di purificazione, e stia un anno in esilio, come prevede la legge.
E sia sufficiente quel che si è detto sugli omicidi violenti e involontari, e su quelli commessi a causa dell'ira: per quanto riguarda invece quei delitti volontari e che avvengono secondo ogni forma di ingiustizia e premeditatamente, grazie alla vittoria dei piaceri, delle passioni e delle invidie, sono proprio questi di cui ora dobbiamo parlare dopo quegli altri.
CLINIA: Quello che dici è giusto.
ATENIESE: In primo luogo parliamo di nuovo di essi e diciamo quanti sono. Il più importante è la passione che domina l'anima esasperata dai desideri: il che avviene soprattutto quando nella maggior parte delle persone è più frequente e più forte il desiderio capace di generare infiniti amori che spingono all'infinito ed insaziabile possesso di ricchezze, desiderio che sorge a causa di una malvagia natura e anche per mancanza dì educazione.
E la causa della mancanza di educazione consiste nel lodare in modo malvagio la ricchezza, ed essa è nota presso Greci e barbari: giudicando la ricchezza come primo bene, e non come terzo, oltraggiano i loro discendenti e se stessi.
La cosa più bella e migliore di tutte sarebbe dire la verità sulla ricchezza in tutti gli stati, e cioè che essa è in funzione del corpo, e il corpo è in funzione dell'anima: se dunque la ricchezza è per natura in funzione di questi beni, essa sarà terza dopo la virtù del corpo e dell'anima.
Questo discorso dovrebbe insegnarci che chi aspira ad essere felice non deve cercare di arricchirsi e basta, ma di arricchirsi secondo giustizia e moderazione: e così non dovrebbero verificarsi negli stati uccisioni da purificarsi per mezzo di uccisioni.
Ora, come abbiamo detto all'inizio di questo discorso, questa è la prima ed è la causa più importante che fa in modo che si celebrino i più gravi processi per omicidio volontario.
La seconda consiste in quella condizione dell'anima che desidera onori e genera invidie, molesti compagni soprattutto per lo stesso invidioso, e in secondo luogo per i cittadini migliori.
La terza è rappresentata dalle paure vili ed ingiuste, responsabili di molti delitti, quando si compiono o si sono compiuti molti fatti di cui nessuno vuole che alcuno sappia che stanno avvenendo o sono avvenuti: con la morte si fanno sparire gli eventuali delatori di questi fatti, quando non sia possibile seguire nessun'altra procedura.
Quanto si è detto abbia allora valore di proemio di tutta questa materia, ed inoltre si aggiunga il discorso che molti ascoltano nei riti di iniziazione da parte di chi si occupa di tali cose, e a cui prestano fede assoluta, e cioè che nell'Ade si sconta la punizione per questi delitti, e che una volta ritornati qui è necessario che si paghi la pena naturale, secondo la quale si subirà quel che si è fatto, e per un simile destino terminerà la vita per mano di un altro.
Se uno obbedisce e si mostra assolutamente timoroso nei confronti di una simile pena enunciata da questo proemio, bisogna che la legge non canti nulla a costui, ma se uno non obbedisce, una legge scritta dica così: chi premeditatamente ed ingiustamente uccide d i propria mano uno dei suoi concittadini, prima di tutto stia lontano dalle consuetudini del vivere civile, e non contamini con le proprie colpe i templi, la piazza, i porti, o un'altra pubblica adunanza, sia che qualcuno glielo vieti, sia che nessuno glielo vieti, e allora sarà la legge a vietarglielo, e sempre risulta e risulterà vietarglielo in nome di tutto lo stato.
E chi, pur dovendolo fare, non lo porta in tribunale o non gli vieta di rimanere lontano dai luoghi pubblici, ed è parente del morto per via paterna o materna, sino al grado di cugino, in primo luogo riceverà su di sé la macchia della colpa e l'odio degli dèi, così come la legge dichiara, in secondo luogo si presenti al processo se qualcuno vuole prendere vendetta in nome del morto.
E chi vuole vendicare il morto compia tutto ciò che è relativo alle libagioni da farsi in questo caso e a tutte le norme che il dio assegna a tal riguardo, e depositato l'invito a comparire, vada a costringere l'autore del fatto a sottoporsi all'azione della giustizia come prevede la legge.
È facile per il legislatore dichiarare che tutto ciò deve avvenire insieme a certe preghiere e a certi sacrifici agli dèi che si occupano di tali questioni, e cioè che negli stati non avvengano omicidi: quali siano gli dèi e quale la modalità più corretta, secondo la divinità, per avviare tali processi, saranno i custodi delle leggi insieme agli interpreti e agli indovini del dio che lo stabiliranno per legge, ed avvieranno i processi.
Giudici di questi processi siano gli stessi che si sono detti competenti a giudicare i ladri sacrileghi: e il colpevole sia punito con la morte, e non sia sepolto nella regione della sua vittima per la sua empietà oltre che per la sua iniquità.
Se fugge e non vuole sottostare al giudizio, sia condannato a fuggire di continuo; e se giunge per caso nella regione del del morto, il primo che lo incontra dei parenti del morto, o anche dei cittadini, lo uccida impunemente, oppure, dopo averlo legato, lo consegni ai magistrati che lo hanno giudicato nel processo perché lo uccidano.
L'accusatore pretenda mallevadori dall'accusato: e questo glieli procuri, e questi devono essere giudicati degni di fede dal collegio dei giudici che sono preposti a questo incarico, tre mallevadori degni di fede che garantiranno che l'accusato si presenta al processo.
E se non vuole o non può nominare i mallevadori, i magistrati lo arrestino e lo tengano in custodia e lo presentino nel giorno del processo.
Se uno non uccide di sua mano, ma, essendo stata decisa la morte di un altro, è colpevole di aver ucciso in base a quella volontà e per mezzo dell'insidia, e risiede nello stato con l'anima ancora impura per l'omicidio, anche costui sia giudicato secondo la stessa procedura adottata in questi casi, fatta eccezione per la malleveria, e se risulta colpevole, gli sia consentito di essere seppellito in patria, mentre per tutto il resto sia punito così come si è detto in precedenza.
Le stesse norme abbiano valore per gli stranieri verso gli stranieri, per i cittadini e gli stranieri nelle loro reciproche relazioni, per gli schiavi verso gli schiavi, sia nei delitti compiuti di propria mano, sia in quelli in cui si adopera l'insidia, e si faccia esclusione per la malleveria: e questa non soltanto è obbligata a darla, come si è detto, chi uccide di propria mano, ma chi accusa di omicidio è obbligato a richiederla anche a costoro.
Se uno schiavo volontariamente uccide un uomo libero, sia di propria mano, sia mediante insidia, e viene giudicato colpevole, il boia pubblico dello stato, conducendolo verso il monumento funebre del morto, donde possa vedere la tomba, lo frusti tante volte quante ha ordinato l'accusatore, e se l'assassino in tal modo non cessa di vivere, lo si uccida direttamente.
Se uno uccide uno schiavo senza che abbia commesso alcun male, e lo uccide per paura che diventi delatore dei fatti turpi e malvagi che egli ha commesso, o per un altro motivo di questo genere, sia perseguito per la morte di questo schiavo allo stesso modo e seguendo le stesse procedure che si sarebbero seguite se fosse stato accusato di aver ucciso un cittadino libero.
Se avvengono dei delitti per i quali è terribile e nient'affatto piacevole stabilire leggi, ma per i quali non si può non legiferare, siano essi omicidi di parenti commessi di propria mano o con l'insidia, volontari o assolutamente ingiusti, i quali avvengono generalmente negli stati che sono male governati e male allevati, ma che possono avvenire anche in quella regione in cui uno non se l'aspetterebbe, bisogna ripetere il discorso che si è fatto poco fa, in modo che qualcuno, ascoltandoci, sia in grado di astenersi più volentieri, grazie a queste nostre parole, da queste uccisioni che sono sotto ogni aspetto le più empie.
Il mito, o discorso, o come lo si debba chiamare, che viene chiaramente raccontato dagli antichi sacerdoti, sostiene che la giustizia vendicatrice del sangue dei consanguinei è vigile, e si serve della legge di cui si è appena detto e stabilisce che chi ha commesso un fatto simile dovrà necessariamente subire le stesse cose che ha compiuto: se uno ha ucciso il padre, deve subire la stessa sorte violenta da parte dei figli in un determinato periodo di tempo, e se uccide la madre, necessariamente rinasce partecipe della natura femminile, e diventato tale, abbandona la vita, in un tempo successivo, per mano dei suoi figli.
Non vi è altra purificazione per quel sangue comune che è stato macchiato, né tale macchia potrà essere lavata prima che l'anima di chi ha compiuto il fatto non abbia pagato, uguale omicidio con uguale omicidio, e non abbia placato l'ira di tutti i consanguinei.
Temendo così questi castighi che provengono dagli dèi, bisogna stare lontano da tali vendette.
Ma se una misera sventura coglie qualcuno in modo tale da avere il coraggio di privare del corpo l'anima del padre, o della madre, o dei fratelli o dei figli, e di farlo premeditatamente e volontariamente, questa sarà la legge che stabilirà il legislatore mortale a tal proposito: l'ordine di astenersi dalle consuetudini dello stato e le malleverie siano le stesse che si sono dette prima.
Se un tale viene riconosciuto colpevole di un simile omicidio, avendo ucciso una di queste persone, i servi dei giudici e i magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un determinato trivio, fuori della città; e allora tutti i magistrati, in nome dello stato, portino ciascuno un sasso, e gettandolo sul capo del cadavere, purifichino lo stato intero, e dopo di ciò lo conducano presso i confini della regione, e lo gettino al di fuori di quei confini, senza sepoltura, come prevede la legge.
E che cosa dovrà subire chi uccide ciò che ha di più intimo ed è, come si dice, più caro? Alludo a chi uccide se stesso, privandosi con la violenza della sorte stabilita dal destino, senza che una qualche pena gli sia stata imposta dallo stato, né perché sia stato costretto da una dolorosa ed inevitabile disgrazia che gli sia capitata, e neppure perché abbia ricevuto in sorte una qualche insormontabile ed insopportabile vergogna, ma solo perché per ignavia e per una viltà dovuta alla mancanza di coraggio impone a se stesso questa pena ingiusta.
A questo riguardo il dio conosce tutte le altre norme di legge che regolano le purificazioni e le sepolture che si devono seguire, e bisogna che i parenti più stretti interroghino gli interpreti di queste norme e le leggi relative a questi casi, e si comportino secondo quanto da esse viene ordinato: e per quanti muoiono in tal modo, le tombe siano in primo luogo isolate e non vi sia nessuno sepolto nella stessa tomba, in secondo luogo siano seppelliti senza gloria, ai confini delle dodici parti, in luoghi incolti ed anonimi, e le tombe non siano segnalate né da stele, né da nomi.
Se un animale da tiro o un altro animale uccide un uomo, escludendo il caso in cui il fatto avvenga mentre quegli animali stanno gareggiando nelle pubbliche gare, i parenti del morto intentino un processo contro l'uccisore, e siano giudici gli agronomi - e il parente della vittima stabilirà quali e quanti devono essere -: se viene riconosciuto colpevole, dopo averlo ucciso, lo gettino fuori dai confini della regione.
Se è un essere inanimato che priva gli uomini della vita - escludendo il caso del fulmine o di qualche altra saetta scagliata dal dio -, quando, cioè, un qualsiasi oggetto uccide, o perché uno ci cade sopra, o perché quello stesso oggetto cade addosso a qualcuno, il parente stabilisca come giudice il più prossimo dei vicini, e quindi purifichi se stesso e tutta la sua parentela, mentre l'oggetto riconosciuto colpevole sia gettato oltre i confini dello stato, come si è detto per il genere degli animali.
Se viene scoperto un morto, ma l'identità dell'omicida rimane oscura, e neppure dopo accurate ricerche si riesce a scovarlo, si facciano le stesse intimazioni che si erano seguite negli altri casi, e si accusi di omicidio l'autore del fatto, e dopo aver celebrato il processo, l'araldo proclami sulla piazza all'assassino risultato colpevole di omicidio di non entrare nei templi né in tutta la regione della vittima, poiché, se verrà scoperto e riconosciuto, sarà ucciso e gettato fuori dei confini della regione della vittima senza ottenere sepoltura.
Questa sia la legge da noi stabilita che ha competenza in materia di omicidi.
E così, in tale materia, stiano le cose sin qui stabilite.
Per quanto riguarda invece chi ha ucciso in circostanze tali per cui a buon diritto si sente puro, queste siano le norme specifiche: se un tale di notte scopre ed uccide un ladro che si è introdotto in casa sua per rubare dei soldi, sia puro; e se un tale uccide per legittima difesa un malvivente, sia puro.
Se un tale arreca una violenza a sfondo sessuale ad una donna libera o ad un bambino, sia ucciso impunemente da chi ha ricevuto violenza, o dal padre, o dai fratelli, o dai figli: se un uomo per caso scopre la propria moglie mentre viene violentata, dopo aver ucciso il violentatore, sia puro, come prevede la legge.
Se un tale viene in soccorso del padre condannato a morte pur senza aver commesso alcuna empietà, o della madre, o dei figli, o dei fratelli, o della madre dei suoi figli, ed uccide qualcuno, sia assolutamente puro.
Queste siano dunque le norme che devono disciplinare l'allevamento e l'educazione dell'anima finché vive, per cui, se essa prende parte di quelle norme, vale la pena vivere, mentre se non vi prende parte, avviene tutto il contrario; ed esse stabiliscano le pene che devono essere seguite nel caso di morti violente.
Per quanto riguarda l'allevamento e l'educazione del corpo si è già detto, mentre ora dobbiamo definire, nei limiti del possibile, una materia che ha una certa attinenza con queste cose, e cioè quali e quante sono le azioni violente, involontarie e volontarie, che uno compie nei confronti dell'altro, e quali pene spettino a ciascuna di esse: sarebbe giusto, a quanto pare, che si legiferasse su queste cose, dopo che si è legiferato su quelle altre.
Anche la persona di più scarso valore che si occupa di leggi collocherebbe al secondo posto, dopo le morti per omicidio, le ferite e le mutilazioni derivanti dalle ferite.
E pure per le ferite bisogna distinguere, come già si erano distinte le varie specie di omicidio, quelle involontarie, quelle causate dall'ira, dalla paura, e tutte quelle che avvengono volontariamente e con premeditazione: anche in tutti questi casi bisogna affermare, in via preliminare, che gli uomini devono necessariamente stabilire delle leggi e vivere conformandosi ad esse, oppure non differiranno in nulla dalle bestie che sono sotto ogni aspetto le più selvagge.
E la ragione della necessità di queste leggi risiede nel fatto che la natura degli uomini viene generata in modo tale da non essere in grado di riconoscere ciò che è vantaggioso agli uomini in vista della costituzione dello stato, e anche se fosse in grado, non potrebbe e non vorrebbe compiere sempre il meglio.
In primo luogo è difficile rendersi conto che un'arte che sia autenticamente arte politica si occupa necessariamente non dell'interesse privato ma di quello pubblico - l'interesse comune unisce gli stati, quello privato li lacera -, e capire che l'interesse comune, se è ben stabilito, è utile tanto all'interesse comune quanto a quello privato, ad ambedue in sostanza, molto più di quello privato: in secondo luogo, anche se qualcuno comprendesse ed accogliesse nella sua arte il fatto che queste cose stanno per natura in questi termini, e dopo di che governasse nello stato, senza rendere conto a nessuno ed esercitando un potere assoluto, non potrebbe mantenersi fedele a questo criterio e vivere tutta la sua vita coltivando al primo posto nello stato l'interesse comune, e dopo l'interesse comune, quello privato, ma la sua natura mortale lo spingerà sempre verso l'avidità e la cura dell'interesse privato, evitando irrazionalmente il dolore ed inseguendo il piacere, e preferirà queste due cose a ciò che è giusto e migliore, e generando questa natura le tenebre dentro se stessa alla fine riempirà di tutti i mali se stessa e tutto lo stato.
Perché se mai un uomo, nato grazie ad una sorte divina, sarà per natura capace di comprendere queste cose, non avrà bisogno di alcuna legge che lo guidi: nessuna legge e nessun ordinamento è superiore alla scienza, e non è possibile che l'intelletto sia soggetto e servo di alcuno, ma tutto deve guidare, se effettivamente sia per natura autentico e libero.
Ma ora non è affatto così, tranne rare eccezioni: perciò dobbiamo scegliere ciò che è al secondo posto dopo l'intelletto, l'ordinamento delle leggi e la legge vera e propria che osservano e tengono in considerazione la maggior parte di ciò che avviene, anche se non sono in grado di comprendere la totalità.
Per queste ragioni ho detto queste cose: ma ora dovremo stabilire quale pena deve subire o quale multa deve pagare chi ferisce o reca danni a qualcun altro.
Chiunque, però, potrebbe essere pronto ad obbiettare giustamente intorno a tutto questo problema: «Che cosa intendi dire per persona che ferisce? E chi è? E come? E quando? Sono infatti innumerevoli i singoli casi a questo riguardo, e assai differenti fra loro».
è dunque impossibile affidare tutti questi casi ai tribunali perché li giudichino, ma non si può neppure non affidarne neanche uno.
Una cosa almeno, in linea generale, è necessario sottoporre al giudizio del tribunale, e cioè stabilire se ciascuno di quei fatti è avvenuto o no: il non permettere affatto, invece, che essi stabiliscano quali multe deve pagare e quali punizioni deve subire chi commette questo genere di delitti, in modo che sia il legislatore stesso a fissare le leggi riguardo alla totalità dei casi, di scarsa o di grande importanza, è cosa pressoché impossibile.
CLINIA: Qual è il discorso che ora segue?
ATENIESE: Questo: per alcune questioni il legislatore si può affidare ai tribunali, per altre non è dato, ma deve lui stesso legiferare.
CLINIA: E quali sono le questioni che devono essere regolate con le leggi, e quali quelle che devono essere affidate ai tribunali per essere giudicate?
ATENIESE: Dopo queste cose, si potrebbe assai giustamente dire che in uno stato in cui i tribunali sono spregevoli e muti, e nei quali i giudici nascondono la loro opinione, e segretamente emettono i loro verdetti, e, cosa ancora più terribile, quando non sanno neppure stare in silenzio, ma facendo chiasso come fossero a teatro urlano i loro commenti di approvazione o di critica all'uno e all'altro dei due oratori che a turno prendono la parola, allora l'intero stato viene solitamente a trovarsi in una penosa condizione.
Non è una circostanza felice, per il legislatore incalzato da una qualche necessità, legiferare per simili tribunali, e tuttavia è costretto dalla necessità ad affidare loro la definizione delle multe riguardanti i casi di scarsa importanza, mentre lui stesso legifererà espressamente sulle questioni più importanti, se proprio si debba legiferare per una simile costituzione: ma in uno stato in cui i tribunali siano, nei limiti del possibile, rettamente costituiti, poiché coloro che aspirano ad essere giudici sono stati ben allevati ed esaminati con grande diligenza, in quel caso, allora, è giusto, e bene, e bello che molte questioni siano affidate al giudizio di questi giudici, riguardo ai colpevoli, perché definiscano quale pena essi debbano subire o quale multa devono pagare.
Ora noi non dobbiamo essere rimproverati se non legiferiamo sulle questioni più importanti e più numerose, le quali anche giudici educati in modo più spregevole potrebbero essere in grado di individuare, applicando ad ogni errore commesso la pena adeguata a quel che si è subito e a quel che si è fatto: e poiché pensiamo che coloro per cui noi stiamo legiferando diventeranno giudici assai competenti in tali questioni, bisogna che affidiamo loro la maggior parte delle decisioni.
E non solo, ma come spesso abbiamo detto e fatto quando abbiamo fissato le leggi precedenti, delineando cioè lo schema e i caratteri generali delle pene e fornendo ai giudici quei modelli perché non oltre passassero mai i limiti della giustizia, rendendoci conto che quel che allora facevamo era assai giusto, così anche adesso dobbiamo fare, ritornando di nuovo alle leggi.
E questa sia la legge scritta che noi stabiliamo sulle ferite: se un tale, dopo aver pensato di uccidere deliberatamente un amico, fatta eccezione per quelle persone per le quali la legge lo consente, lo ferisce, poiché non è riuscito ad ucciderlo, chi ha avuto un simile pensiero, e in questo modo ha ferito, non è degno di pietà, e non meritando compassione diversa da quella che spetta a chi ha ucciso, sia costretto a subire l'accusa di omicidio.
E onorando la sua sorte che non è stata del tutto malvagia e venerando il suo demone, che ha avuto pietà di lui e del ferito, e all'uno ha evitato una ferita insanabile, e all'altro una sorte e una disgrazia maledette, si renda grazie a questo demone e non ci si opponga alla sua volontà, e quindi venga rimossa la pena di morte che aveva colpito il feritore, e lo si condanni a rimanere per tutta la vita in esilio nello stato vicino, lasciando che goda di tutta la ricchezza frutto dei suoi guadagni.
Paghi il danno al danneggiato, se ha recato danno al ferito, e il danno sia stimato dal collegio di giudici che giudica la causa, e giudichino coloro che avrebbero giudicato l'omicidio se fosse morto per i colpi che hanno provocato queste ferite.
Se allo stesso modo un figlio ferisce premeditatamente i genitori, o uno schiavo il suo padrone, sia punito con la morte: e se parimenti un fratello o una sorella feriscono un fratello o una sorella, e siano riconosciuti colpevoli di aver ferito premeditatamente, siano puniti con la morte.
E se una donna ferisce il proprio uomo con l'intenzione di ucciderlo, o un uomo la propria donna, siano condannati all'esilio perpetuo: e se hanno figli o figlie ancora piccoli, i loro averi siano amministrati da tutori che si dovranno prendere cura dei bambini come fossero orfani; ma se i figli sono uomini, non vi sia l'obbligo da parte dei figli di mantenere l'esiliato, ed essi dispongano per sé di tutto il patrimonio.
Se la persona che si viene a trovare in una sventura simile non ha figli, si riuniscano i parenti sino ai figli dei cugini dell'esiliato, dall'una e dall'altra parte, maschile e femminile, e di comune accordo con i custodi delle leggi e con i sacerdoti si stabilisca un erede per questa casa, che rappresenta la cinquemila quarantesima casa all'interno dello stato, considerando in tal modo e in base a questo ragionamento che nessuna delle cinquemilaquaranta case appartiene a chi vi abita e neppure a tutta la sua stirpe, ma è proprietà pubblica e privata dello stato, e bisogna quindi che lo stato disponga di case che siano il più possibile sante e felici.
E nel caso in cui una di queste dimore sia colpita da sventura e venga profanata, sicché colui che la possiede non vi lascia figli, e, sposato o no, muore senza figli, essendo riconosciuto colpevole di un delitto volontario o di un'altra colpa contro gli dèi o contro i cittadini per cui la legge preveda esplicitamente la condanna a morte, o anche un uomo senza figli viene condannato all'esilio perpetuo, bisogna in primo luogo purificare questa casa e scongiurare da essa la sventura, secondo quel che prevede la legge, e in secondo luogo, i parenti si riuniscano, come si è detto ora, e prendano in esame insieme ai custodi delle leggi quale stirpe, fra quelle che vi sono nello stato, sia la più degna di reputazione per virtù e anche la più fortunata, e nella quale vi siano più figli: facciano adottare uno di questi figli al padre del morto ed ai suoi antenati come se fosse figlio loro e lo chiamino con un nome che sia di buon augurio, e dopo aver pregato perché abbia miglior fortuna del padre come genitore, custode della casa, ministro delle cose profane e di quelle sacre, lo nominino erede secondo la legge, e lascino il colpevole senza nome, senza figli, senza quella parte di beni avuta in sorte, quando gli accadono simili disgrazie.
Non sempre è possibile, a quanto pare, congiungere fra loro i limiti delle cose, ma se le cose possiedono un elemento di confine che stia in mezzo fra i due confini e si trovi in contatto con l'uno e con l'altro, tale elemento sarà così in mezzo fra l'una e l'altra cosa: e noi dicevamo che i fatti che avvengono sotto l'impulso dell'ira sono intermedi fra quelli involontari e volontari.
Questa sia dunque la legislazione circa le ferite procurate a causa della collera: se uno è colpevole, paghi innanzitutto il doppio del danno, se la ferita è guaribile, il quadruplo se non è più guaribile; e se la ferita è guaribile, ma lascia il ferito deformato in maniera turpe e vergognosa, paghi ancora il quadruplo.
E se il ferito danneggia non solo la vittima, ma anche lo stato, rendendolo inabile a prestar soccorso alla patria contro i nemici, oltre alle altre multe, costui risarcisca il danno anche allo stato: oltre al suo servizio militare, presti servizio anche per quell'altro che risulta inabile, e sia collocato nelle schiere dell'esercito al suo posto, e se non fa queste cose, sia accusato da parte di chi vuole di diserzione, come prevede la legge.
I giudici che hanno emesso la sentenza di condanna stabiliscano l'ammontare del danno, se il doppio, il triplo, o anche il quadruplo.
Se uno allo stesso modo ferisce un consanguineo, i capifamiglia e i parenti, sino ai figli dei cugini, da parte materna e paterna, donne e uomini, sì riuniscano, giudichino ed affidino ai genitori naturali la stima del danno: e se la stima risulta controversa bisogna che abbiano l'autorità di giudicare i parenti di parte maschile, e se questi non sono in grado, alla fine si affidi il caso ai custodi delle leggi.
Se i figli feriscono i propri genitori, vi sia l'obbligo di istituire giudici che abbiano oltre sessant'anni, i quali non abbiano figli adottivi, ma figli veri e propri, e se uno viene riconosciuto colpevole, decidano se dev'essere condannato a morte, o deve subire un'altra pena maggiore di questa, o anche non molto minore: e nessuno dei parenti di chi ha compiuto il fatto giudichi, neppure se ha raggiunto l'età prevista dalla legge.
Se uno schiavo uccide un uomo libero spinto dall'ira, il proprietario dello schiavo lo affidi al ferito perché ne faccia quello che vuole; e se non lo consegna, risani il danno lui stesso.
Se qualcuno accusa lo schiavo e il ferito di aver macchinato insieme il fatto, la controversia finisca in tribunale: se non vince la causa, risarcisca il triplo del danno, se vince, colui che ha ordito l'inganno con lo schiavo sia condannato ad essere catturato come uno schiavo.
Chi involontariamente ferisce un altro, paghi il danno puro e semplice - nessun legislatore, infatti, è in grado di sovrintendere alla sorte -, e giudici di queste cause siano gli stessi che si occupano dei ferimenti dei genitori da parte dei figli, e valutino l'entità del danno.
Tutto ciò che noi subiamo e di cui abbiamo appena parlato sono atti violenti, e violento è anche ogni genere di maltrattamento.
Così a tal proposito bisogna che ogni uomo, o bambino, o donna tenga sempre presente che la vecchiaia è molto più venerata della giovinezza presso gli dèi e presso gli uomini che vogliono salvarsi ed essere felici.
Assistere dunque al maltrattamento di un vecchio da parte di un giovane nello stato, è cosa turpe ed invisa agli dèi: è opportuno invece che qualsiasi giovane, percosso da un vecchio, sopporti serenamente l'ira, riservandosi quest'onore per la vecchiaia.
Ed ecco la legge: chiunque di noi abbia rispetto per chi è più anziano di lui, nei fatti e a parole, e veneri chi ha vent'anni più di lui, maschio o femmina, considerandolo come un padre o una madre, e per rispetto degli dèi della nascita si astenga dal toccare chi ha un'età tale da poter essere suo padre o sua madre.
Allo stesso modo, ci si astenga dal toccare anche lo straniero, sia nel caso in cui risieda già da lungo tempo, sia che sia appena giunto: nessuno abbia affatto il coraggio di castigarlo con delle percosse, né attaccandolo, né difendendosi.
Chi ritiene che uno straniero debba essere punito poiché con insolenza e prepotenza è stato battuto, lo prenda e lo porti al cospetto della magistratura degli astinomi, ma si astenga dal batterlo, perché lo straniero sia ben lungi dall'aver il coraggio di battere uno del luogo.
Gli astinomi lo prendano e lo interroghino, nel pieno rispetto del dio degli stranieri, e se lo straniero risulta aver battuto ingiustamente uno del luogo, si dovrà percuoterlo con la frusta tante volte quanti sono i colpi che lui stesso ha dato, e facciano così cessare la sua tracotanza: se non ha commesso ingiustizia, dopo aver minacciato e rimproverato chi lo ha trascinato in tribunale, li lascino andare entrambi.
Se uno percuote un coetaneo, o una persona più anziana di lui ma senza figli, se un vecchio un vecchio, e se un giovane un giovane, chi viene percosso si difenda naturalmente, senza armi, con le sole mani: e chi, avendo oltrepassato i quarant'anni, ha il coraggio di battersi con qualcuno, sia attaccando, sia difendendosi, sia dichiarato uomo rozzo, servile, ed abbietto, e sostenendo quest'accusa infamante, abbia quel che gli spetti.
E se un tale obbedirà benevolmente a queste esortazioni sarà facilmente guidato da un freno, ma chi non obbedisce e non si cura affatto di questo proemio, accolga prontamente questa legge: se un tale batte uno che è più vecchio di lui di vent'anni o anche di più, innanzitutto il primo che li incontra li separi, se non ha la stessa età e non è più giovane dei contendenti, oppure sia dichiarato cattivo cittadino; se è coetaneo di chi viene battuto, o anche più giovane, lo difenda come se prestasse aiuto ad un fratello, o a un padre, o ad un avo che sono vittima di ingiustizia.
Inoltre, chi avrà il coraggio di percuotere, come si è detto, una persona più anziana sia accusato di maltrattamento, e se riconosciuto colpevole, sia condannato a non meno di un anno di carcere: e se i giudici decidono di aumentare la pena, abbia valore quel periodo di tempo che gli è stato assegnato.
Se uno straniero o uno degli stranieri residenti batte uno più vecchio di vent'anni o anche di più, riguardo all'aiuto delle persone presenti valga la stessa legge con lo stesso potere, e se lo straniero che non risiede nello stato perde tale causa, paghi questa stessa causa con due anni di carcere, mentre lo straniero residente che non obbedisce alle leggi sia condannato a tre anni di carcere, sempre che il tribunale non decida di aumentargli il tempo della condanna.
Sia anche multato chi si trova presente ad uno di questi fatti e non porta aiuto secondo la legge, e la multa sia di una mina per chi appartiene alla prima classe, di cinquanta dracme se appartiene alla seconda, di trenta se alla terza, di venti se alla quarta: il tribunale che si occupa di tali questioni sia composto di strateghi, tassiarchi, filarchi, ed ipparchi.
A quanto pare, le leggi sono nate da un lato per gli uomini onesti, e cioè per insegnar loro il modo di vivere in concordia quando fra loro stringono delle relazioni, e dall'altro per coloro che si sottraggono all'educazione, i quali hanno una certa durezza di natura che per nulla si riesce ad ammorbidire, perché non scivolino del tutto verso la malvagità.
Ed è per queste persone che si fanno i discorsi che si devono fare, e proprio per costoro il legislatore è costretto a fissare delle leggi, anche se vorrebbe che non ci fosse alcuna necessità di esse.
Chiunque avrà il coraggio di levar la mano sul padre, sulla madre, o sui genitori di questi, e li maltratterà ricorrendo alla violenza, senza temere la collera degli dèi celesti, né le pene che si dice vi siano negli inferi, ma come conoscesse perfettamente ciò che non conosce affatto, disprezza quelle antiche tradizioni che sono sulla bocca di tutti e va contro la legge, per costui dunque è necessaria un'estrema azione preventiva.
La morte non rappresenta una misura estrema, mentre le pene che nell'Ade vengono riservate a questa gente sono ancora più estreme di quella, e pur essendo assai vere le cose che in proposito si raccontano, non riescono a distogliere tali anime dai delitti, perché altrimenti non vi sarebbero matricidi, e forse non si avrebbe l'empio coraggio di percuotere gli altri genitori.
Bisogna quindi che le punizioni che vengono inflitte qui, a costoro e per tali delitti, mentre essi sono in vita, non siano inferiori, nei limiti del possibile, a nessuna di quelle che subiranno nell'Ade.
Dopo di che la legge sia espressa in questi termini: se uno ha il coraggio di battere il padre, la madre, o i genitori di questi, senza essere affetto da follia, prima di tutto chi si trova presente porti aiuto come si è detto in precedenza, e lo straniero, residente o no, se viene in aiuto, sia chiamato a occupare il posto d'onore nelle gare, se non viene in aiuto, sia condannato all'esilio perpetuo fuori della regione; se lo straniero non residente porta aiuto sia degno di lode, se non porta aiuto, sia biasimato; se schiavo porta aiuto, diventi libero, se non porta aiuto sia colpito con cento frustate dagli agoranomi se il fatto avviene sulla piazza, se invece avviene all'esterno della piazza, ma sempre in città, venga punito da uno degli astinomi che era presente al fatto, se infine avviene nella campagna all'interno della regione, lo puniscano i capi degli agoranomi.
Se chi è presente al fatto è uno del luogo, si tratti di un bambino, di un uomo, o di una donna, lo difenda gridando all'empietà: e se non lo difende, ricada su di lui la maledizione di Zeus protettore della stirpe e dei padri, secondo la legge.
Se uno viene riconosciuto colpevole di maltrattamento nei confronti dei genitori, sia innanzitutto condannato all'esilio perpetuo dalla città nel resto della regione, ed escluso da tutti i luoghi sacri: se però non sta lontano da essi, gli agronomi lo puniscano con delle vergate, e facciano assolutamente come vorranno, e se ritorna in città sia punito con la morte.
Se tutti i cittadini liberi mangeranno, berranno, o avranno un qualsiasi altro simile rapporto con una persona del genere, o anche solo incontrandolo lo toccheranno volontariamente, non entrino in nessun tempio, né sulla piazza, né nello stato in genere se prima non si sono purificati, ritenendo di prendere parte di una sorte funesta: se un tale non obbedisce alla legge ed andando contro la legge contamina i templi e lo stato, per quel magistrato che, pur accortosi del fatto, non trascina in giudizio questa persona, quando dovrà rendere conto del suo operato, sia questa una delle accuse più gravi a suo carico.
Se uno schiavo batte un uomo libero, straniero o cittadino, chi è presente al fatto venga in aiuto, oppure paghi la multa di cui si è detto a seconda della classe censuaria, e i presenti leghino lo schiavo insieme a chi è stato percosso, e lo consegnino a chi è rimasto vittima dell'offesa: e quello ricevendolo, dopo averlo incatenato ai piedi, lo frusti per tutte le volte che vuole, senza però danneggiare il padrone, cui deve affidarlo, essendone per legge il proprietario.
E questa sia la legge: se uno schiavo batte un uomo libero senza aver ricevuto l'ordine dei magistrati, il suo proprietario lo riceva in catene da chi è stato colpito, e non lo liberi prima che lo schiavo abbia convinto colui che è stato ferito di essere degno di vivere libero.
Le stesse norme valgano per le donne, in tutti i casi simili, quando si battono fra di loro, e quando le donne battono gli uomini, e gli uomini battono le donne.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO DECIMO
ATENIESE: Dopo i maltrattamenti, diciamo la seguente norma che riguarda in generale gli atti di violenza: nessuno porti via, né sottragga ciò che è di altri, né adoperi alcuna cosa del vicino, se non ha l'autorizzazione del proprietario; da questa norma dipendono tutti i mali di cui si è detto, i mali che sono stati, che sono, che saranno. Per quanto riguarda le altre colpe, le più gravi sono le intemperanze e le insolenze dei giovani, e sono tanto più gravi quando coinvolgono la sfera sacra, e sono gravi, in particolare, quando riguardano le istituzioni religiose dello stato, o quelle istituzioni che soltanto in parte sono pubbliche, di cui fanno parte i membri delle tribù, o alcune altre comunità del genere: vengono al secondo posto, e sono di secondaria importanza, quelle che sono contro la religiosità dell'individuo e le tombe, al terzo posto si collocano le colpe verso i genitori, quando, fatta eccezione per i casi visti prima, si sia tracotanti nei loro confronti. Il quarto genere dell'insolenza si verifica quando uno, senza curarsi dei magistrati, sottrae, porta via, usa cose di proprietà di quelli senza aver ottenuto l'autorizzazione; al quinto posto vi sono gli attentati ai diritti politici di ciascun cittadino, per cui si richiede l'intervento della giustizia.
Per ogni singolo caso si deve assegnare una legge comune.
Si è già parlato in sintesi del furto sacrilego, quando viene commesso con la violenza o con la frode, e abbiamo detto quale pena si deve subire: per quanto riguarda gli oltraggi che a parole o nei fatti, vengono compiuti a danno degli dèi, quando uno parla o agisce appunto, bisogna dire ciò che si deve subire, ma premettendo l'esortazione che segue.
Eccola: nessuno che crede nell'esistenza degli dèi, secondo la legge, commetterà volontariamente un'azione empia, né emetterà discorso contrario alla legge, ma se si comporterà così, significa che egli si trova in una di queste tre condizioni, e cioè, o non ritiene vero ciò che ho detto, o, ed è il secondo caso, pur credendo che esistano gli dèi pensa che non si prendano cura degli uomini, o, terzo caso, crede che gli dèi possano essere placati con sacrifici e preghiere.
CLINIA: Che cosa dobbiamo fare o che cosa dobbiamo dire a costoro?
ATENIESE: Caro, ascoltiamo prima di tutto quello che essi ci dicono - mi aspetto - disprezzandoci o prendendoci in giro.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Probabilmente scherzando direbbero queste cose: «Straniero Ateniese, e tu, Spartano, e tu di Cnosso, voi dite la verità.
Alcuni di noi non credono affatto che esistano gli dèi, altri pensano che siano così come voi dite.
Noi crediamo allora che, come voi avete ritenuto opportuno fare per le leggi, prima di minacciarci duramente, proviate in un primo tempo a persuaderci e ad insegnarci che gli dèi esistono, portando prove adeguate, e dimostrando pure che sono troppo superiori per lasciarsi allettare da certi doni così da volgersi contro la giustizia.
Ora, ascoltando queste ed altre argomentazioni del genere da coloro che sono detti ottimi poeti, retori, indovini, sacerdoti e innumerevoli altre persone, la maggior parte di noi non si orienta a non commettere azioni ingiuste, ma cerca poi di porre rimedio all'operato.
Da parte allora di legislatori che dichiarano di essere non spietati, ma miti, riteniamo che innanzitutto sappiano usare la persuasione nei nostri confronti, parlando degli dèi esistenti, se non in maniera di gran lunga migliore, in modo migliore, almeno, rispetto alla verità; e così riuscirete forse a persuaderci.
E se quello che diciamo ha un senso, provate a rispondere sulle cose sulle quali vi abbiamo invitato a parlare».
CLINIA: Dunque, straniero, non credi che sia facile dire la verità sostenendo che gli dèi esistono?
ATENIESE: Come?
CLINIA: Prima di tutto la terra, il sole, gli astri, e tutti gli altri corpi celesti, e così l'ordine perfetto delle stagioni, diviso in anni e in mesi, e il fatto che tutti i Greci e i barbari ritengono che gli dèi esistono.
ATENIESE: Temo, mio caro, che i malvagi - e non potrei mai dire che nutro rispetto per loro - ci disprezzeranno. Voi infatti non conoscete la ragione del loro differente punto di vista, ma pensate che soltanto per l'incapacità di dominare i piaceri e le passioni le loro anime siano spinte verso un'esistenza empia.
CLINIA: Quale altra ragione, straniero, ci può essere oltre a queste?
ATENIESE: Una ragione che voi, vivendo fuori dal mondo, non conoscete, ed anzi, proprio vi sfugge.
CLINIA: Qual è questa ragione che ora stai cercando di spiegare?
ATENIESE: Essa consiste in quell'ignoranza così grave da sembrare la più importante forma di intelligenza.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Vi sono presso di noi certi discorsi scritti che presso di voi non esistono, grazie al valore della vostra costituzione, come ho appreso, ed alcuni in versi, altri in prosa, parlano degli dèi. I discorsi più antichi spiegano come è sorta la prima natura del cielo e degli altri corpi, e procedendo non molto oltre il problema dell'origine, espongono la nascita degli dèi, e quali erano i loro reciproci rapporti dopo la loro nascita. Non è facile biasimare questi antichi discorsi, valutando se per coloro che li ascoltano sotto un altro punto di vista fanno bene o no, ma certamente, per quanto riguarda il rispetto e gli onori che si devono ai genitori, non potrei usare parole di elogio nei loro confronti dicendo che essi sono di utilità, e neppure che dicono cose assolutamente vere. Questi discorsi sulle origini, allora, lasciamoli andare e salutiamoli, e riguardo ad essi si parli nel modo che è gradito agli dèi: noi dobbiamo accusare i nuovi sapienti di oggi che sono causa di mali. Ed ecco ciò che vogliono ottenere i discorsi di questa gente: quando tu ed io portiamo delle prove sull'esistenza degli dèi, e aggiungiamo queste stesse cose, e cioè il sole, la luna, gli astri, e la terra, come fossero dèi e cose divine, allora quelli che si sono lasciati ingannare da questi sapienti affermano che queste cose non sono altro che terra e pietre, incapaci di curarsi delle questioni umane, e queste loro opinioni sono rivestite ben bene di belle parole così da essere persuasive.
CLINIA: Grave discorso, straniero, quello che hai dovuto pronunciare, e sarebbe già grave se fosse uno soltanto: ma ora sono moltissimi, e la questione si fa ancora più grave.
ATENIESE: Ebbene? Che cosa diciamo? Come dobbiamo comportarci?
Forse dovremo difenderci come se qualcuno ci accusasse dinanzi a questi uomini empi, ed essendo accusati di fare delle leggi, dicessero che stiamo facendo qualcosa di terribile, poiché stabiliamo per legge che gli dèi esistono? Oppure, lasciandoli perdere, ci rivolgeremo di nuovo alle leggi, perché il nostro proemio sulle leggi non sia troppo lungo?
Infatti non sarebbe un breve discorso, una volta sviluppato, se a costoro che desiderano commettere empietà dimostrassimo innanzitutto, con argomentazioni adeguate, ciò di cui dicevano che doveva essere spiegato, quindi facessimo loro paura, ed infine, dopo aver fatto in modo ch'essi provino avversione verso quelle cose che non devono essere stimate, passassimo in seguito a legiferare su quella materia su cui è conveniente legiferare.
CLINIA: Ma, straniero, abbiamo di frequente affermato in così poco tempo, che nella circostanza presente non si deve affatto preferire la brevità del discorso alla lunghezza - nessuno infatti ci insegue, incalzandoci, come si dice -, mentre sarebbe ridicolo e sciocco mostrare di preferire ciò che è più breve a ciò che è migliore. Non ha certo scarsa importanza il fatto che i nostri discorsi abbiano la capacità di persuadere che gli dèi esistono, e sono buoni, e onorano la giustizia in misura maggiore degli uomini: e questo, direi, è il proemio più bello e più nobile che possiamo premettere a tutto il complesso delle leggi. Senza essere maldisposti e senza perdere la pazienza, non lasciamo affatto da parte quella forza che noi possediamo per dare persuasione a questi discorsi, ma esponiamoli, se possibile, in modo adeguato.
ATENIESE: Il discorso che hai appena fatto mi pare che voglia evocare una preghiera, dal momento che è animato da una vivace tensione; in ogni caso non possiamo più aspettare a parlare.
Coraggio, come si potrebbe parlare dell'esistenza degli dèi senza non essere presi dall'ira? è infatti inevitabile sopportare a malincuore ed anzi, odiare, quelli che sono stati, e anche ora lo sono, causa di questi nostri discorsi, non prestando essi fede a quei miti che fin da bambini, quando ancora erano allevati con il latte, ascoltavano da nutrici e da madri, miti che, come un incantesimo venivano raccontati un po' per scherzo e un po' sul serio, e che quelli ascoltavano nelle preghiere insieme ai sacrifici, e vedevano le visioni che ad essi si accompagnavano - e queste visioni, messe in atto durante i sacrifici, il giovane vede ed ascolta con grandissimo piacere - e allora osservano i propri genitori, impegnati con estrema serietà per se stessi e per loro, dialogare con preghiere e con suppliche agli dèi come assolutamente esistenti, e infine ascoltano e osservano che al sorgere del sole e della luna e al loro tramontare tutti i Greci e i barbari si prosternano e si inginocchiano, tanto nei diversi momenti di difficoltà quanto nella buona sorte, non come se gli dèi non esistessero, ma come se esistessero nel modo più assoluto, non insinuandosi affatto in essi il sospetto che gli dèi non esistano. Quelli che in sostanza disprezzano tutte queste cose senza basarsi neppure su un solo argomento che sia adeguato, come direbbe chi ha anche soltanto un po' di intelligenza, ora ci costringono a dire quello che stiamo dicendo: come allora, si potrebbe esortarli con miti discorsi ed insieme insegnare che innanzitutto gli dèi esistono?
Bisogna avere il coraggio di farlo: non bisogna infatti che come alcuni di noi diventano folli per il piacere provocato dalla ghiottoneria, altri lo diventino per l'ira che li muove contro questa gente. Con l'animo sgombro dall'ira rivolgiamo tale avvertimento a questi individui che hanno la mente così corrotta, e diciamo serenamente, smorzando ogni forma di risentimento, come se conversassimo con uno di loro: «Figliolo, sei giovane, ed il tempo, con il suo procedere, farà in modo che molte delle opinioni che hai ora mutino e diventino opposte: attendi allora quel tempo per diventare giudice delle questioni più importanti, e la cosa più importante, alla quale tu ora non dai alcun valore, consiste nel vivere più o meno nobilmente, avendo un'idea corretta degli dèi.
Prima di tutto non mentirei se a tal proposito ti indicassi una cosa che riveste grande importanza. Ed è questa. Non sei l'unico, e neppure lo sono i tuoi amici, che nutri per la prima volta tale opinione sugli dèi, ma sempre vi sono delle persone, e ora sono di più, e ora di meno, che sono affetti da questa malattia: ti potrei allora spiegare, per il fatto di averne incontrati molti, che non vi è nessuno il quale, dopo aver accolto questa opinione sugli dèi secondo la quale essi non esistono, giunga sino alla vecchiaia mantenendosi fedele a questo pensiero; non molti invece, e solo alcuni, si sono mantenuti fedeli agli altri due atteggiamenti nei confronti degli dèi, quello cioè, secondo il quale gli dèi esistono, ma non si curano affatto delle faccende umane, e quello che segue a questo, per cui gli dèi si prendono certamente cura, ma bisogna placarli con sacrifici e preghiere. Dovrai allora attendere che questa credenza intorno a tali argomenti si faccia più chiara dentro di te, per quanto è possibile, se mi vuoi obbedire, osservando se le cose stanno in questi termini o diversamente, e informandoti da altri e soprattutto dal legislatore: e in questo tempo non devi avere il coraggio di compiere alcuna empietà contro degli dèi. E chi stabilisce per te le leggi deve cercare di insegnarti ora e in avvenire come stanno queste cose».
CLINIA: Quello che hai detto sin qui va benissimo, straniero.
ATENIESE: Certamente, Megillo e Clinia: ma non dobbiamo nascondere a noi stessi che siamo capitati in un discorso singolare.
CLINIA: Di quale discorso parli?
ATENIESE: Alludo a quel discorso che molti ritengono come il più saggio di tutti i discorsi.
CLINIA: Spiega ancor più chiaramente.
ATENIESE: Alcuni affermano che tutte le cose che sono, che sono state, e che saranno, sono opera alcune della natura, altre dell'arte, altre ancora del caso.
CLINIA: E non va bene?
ATENIESE: Può essere che gli uomini saggi che si esprimono così parlino rettamente: seguendo costoro, vediamo come la pensano quelli che si trovano su quelle posizioni.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Mi pare che dicano che fra quelle cose le opere più grandi e più belle sono realizzate dalla natura e dalla sorte, quelle più piccole dall'arte, la quale, prendendo dalla natura il principio delle grandi e delle prime opere, modella e fabbrica tutto ciò che ha dimensioni più piccole, e che noi tutti chiamiamo «artistico».
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: In questo modo parlerò più chiaramente. Essi dicono che il fuoco, l'acqua, la terra, e l'aria sono tutti dovuti alla natura e al caso, mentre nessuno di questi elementi è prodotto dall'arte, e che i corpi che vengono dopo di questi, quelli della terra, del sole, della luna, e degli astri, sì sono assolutamente generati da questi elementi inanimati: e ciascuno di questi elementi, mosso a caso a seconda della proprietà di ciascuno, incontrandosi ed accordandosi intimamente insieme - caldo con freddo, secco con umido, molle con duro, e così tutti quanti i contrari che sono costretti dalla sorte a mescolarsi insieme - hanno dato origine in questo modo all'intero cielo e a tutto quanto è compreso nel cielo, a tutti gli animali e a tutte le piante, e da queste cause presero origine tutte le stagioni, e tutto ciò dicono non sia opera di una mente ordinatrice, né di un qualche dio o di una qualche arte, ma, come diciamo, della natura e del caso. L'arte è nata in seguito e si è sviluppata da queste cose, ed essendo essa stessa mortale nata da cause mortali, ha dato origine a certi giochi che non prendono affatto parte della verità, ma consistono in certe immagini affini alle arti stesse, come quelle che genera la pittura, la musica, e tutte quante le altre compagne di queste: ma fra le arti vi sono quelle che danno luogo a qualcosa di valido, ed esse sono quelle che uniscono la propria forza con la natura, come la medicina, l'agricoltura, e la ginnastica. E dicono che anche la politica partecipa in piccola parte della natura, mentre è connessa in larga misura con l'arte; e così tutto il complesso della legislazione non ha attinenza con la natura, ma con l'arte, e quindi le sue fondamenta non si basano sulla verità.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Innanzitutto essi dicono, amico mio, che gli dèi sono opera dell'arte, e non esistono per natura, ma grazie a certe leggi, e questi dèi sono diversi a seconda della diversità del luogo, e a seconda degli accordi che ciascun popolo prese con se stesso quando cominciò a legiferare: e così per ciò che è bello, vi è una bellezza per natura e una bellezza per legge, mentre la giustizia non è affatto opera della natura, ma poiché gli uomini passano tutta la vita a litigare fra di loro, mutando sempre le regole di quella, hanno valore di volta in volta quelle singole regole che vengono mutate e nel momento in cui vengono mutate, e quindi sono frutto dell'arte e delle leggi, ma non della natura.
Queste, amici, sono tutte quelle parole che vengono pronunciate da quegli uomini ritenuti saggi dagli uomini di oggi, privati cittadini e anche poeti, i quali affermano che la giustizia riesce ad avere la meglio con la violenza: per questa ragione le varie forme di empietà colpiscono gli uomini contemporanei, che non credono che gli dèi esistono così come la legge ordina che dovrebbero pensare, e per questa ragione vi sono le rivolte di coloro che trascinano verso la giusta vita secondo natura, che in realtà consiste nel dominare gli altri e nel non asservirsi agli altri secondo la legge.
CLINIA: Quale discorso hai esposto, straniero, e quanto è grande la vergogna degli uomini di oggi, sia pubblicamente per gli stati, sia privatamente all'interno delle famiglie!
ATENIESE: Quel che dici è vero, Clinia. Come credi allora che dovrà comportarsi il legislatore, dinanzi ad una situazione che si presenta in questo modo sin dai tempi antichi? Dovrà solo minacciarli, imponendosi nello stato, dinanzi a tutti i cittadini, che se essi non ammetteranno l'esistenza degli dèi e non li penseranno ritenendoli così come la legge dice che sono - e lo stesso vale per la bellezza, la giustizia, e tutte le altre questioni di grande rilievo che tendono tanto alla virtù quanto al vizio, e cioè che bisogna agire e pensare così come il legislatore consiglia quando scrive le leggi - e dovrà dire che se qualcuno non si offrirà docile alle leggi, l'uno dovrà morire, un altro sarà frustato e incarcerato, un altro ancora privato dei diritti civili, ed altri, infine, saranno puniti con la povertà o l'esilio? Non unirà ai suoi discorsi alcuna forma di persuasione per gli uomini, nel momento in cui stabilisce per loro le leggi, in modo da renderli il più possibile docili?
CLINIA: Nient'affatto, straniero, ma se è possibile usare anche in piccola parte la persuasione riguardo a tali cose, bisogna che il legislatore, anche quello di scarso valore, non sì stanchi affatto di usarla, ma emettendo tutta la sua voce, come si dice, deve venire in soccorso con il discorso a quell'antica legge che afferma l'esistenza degli dèi e tutto quanto tu ora hai esposto, e deve venire in aiuto alla legge stessa e all'arte, sostenendo che sono tutte due opera della natura e non sono inferiori rispetto ad essa, se è vero che sono generate dall'intelletto, secondo un corretto ragionamento, come mi pare che tu voglia dire e come io ora voglio credere, prestandoti fede.
ATENIESE: Clinia, uomo assai premuroso, non è difficile seguire questi discorsi, se vengono pronunciati in questo modo per la massa, discorsi che hanno anche un immensa lunghezza?
CLINIA: Ebbene, straniero? Siamo stati a sentire pazientemente i discorsi così lunghi che abbiamo tenuto sull'ubriachezza e sulla musica, e adesso non abbiamo la pazienza di trattare quegli argomenti che riguardano gli dèi e le altre questioni di questo genere?
E si avrebbe un grandissimo vantaggio anche per la legislazione che si accompagna all'intelligenza e alla prudenza, perché i precetti delle leggi messe per iscritto, dando ragione di sé in ogni tempo, sono assolutamente stabili, sicché non bisogna aver paura se in principio sono difficili da ascoltare, ma sarà possibile anche a chi li apprende con difficoltà riprenderli di frequente ed esaminarli; e neppure bisogna aver paura della loro lunghezza, perché sono utili, e per questo motivo non ha alcun senso e non mi sembra cosa santa che ogni uomo, nei limiti delle sue possibilità, non venga in soccorso di questi discorsi.
MEGILLO: Mi sembra ottimo quello che ha detto Clinia, straniero.
ATENIESE: E bisogna fare davvero come dice, Megillo. E infatti se i discorsi che abbiamo visto non fossero disseminati, per così dire, in tutti gli uomini, non ci sarebbe bisogno di intervenire con questi nostri discorsi per difendere la tesi dell'esistenza degli dèi; ma ora è necessario. Chi più del legislatore deve venire in soccorso delle leggi più importanti che vengono corrotte dalla malvagità degli uomini?
MEGILLO: Nessun altro.
ATENIESE: Ma dimmi di nuovo, Clinia, anche tu - bisogna che anche tu prenda parte di questi discorsi -: può darsi che chi sostiene queste teorie ritiene che fuoco, acqua, terra e aria siano gli elementi primi di tutte le cose, e li chiama con il termine di natura, sostenendo che l'anima è venuta dopo questi elementi. Anzi, mi pare che non può essere che la pensi così, ma che proprio questo ci indichi effettivamente con il discorso.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E dunque, per Zeus, non abbiamo trovato la fonte, per così dire, di quella stolta opinione di tutti gli uomini che si occupano di ricerche riguardanti la natura? Considera ed esamina il discorso da tutti i suoi punti di vista: non sarebbe infatti un particolare di scarsa importanza se risultasse che coloro che si occupano di questi empi discorsi e che guidano altri lungo questa strada, fanno un uso erroneo, e non buono, della ragione. Mi sembra che le cose stiano così.
CLINIA: Dici bene, ma cerca di spiegarci dove sbagliano.
ATENIESE: Pare che dobbiamo affrontare discorsi alquanto insoliti.
CLINIA: Non dobbiamo esitare, straniero. Mi rendo conto che tu pensi che se affrontiamo questi discorsi, si finisce per sconfinare dalla legislazione: eppure, se non vi è altro modo se non questo per mantenerci coerenti con quel che si è detto, e cioè che gli dèi devono essere definiti così come dice la legge e che questo è il modo corretto di intenderli, bisogna allora parlare in questo modo, straordinario amico.
ATENIESE: Dirò allora, a quanto pare, un certo insolito discorso.
I discorsi che formano l'anima degli empi dichiarano che la causa prima della generazione e della corruzione di tutte le cose non è nata prima, ma dopo, mentre quel che è nato dopo, quelli pensano che sia nato prima. Perciò essi si ingannano sulla reale essenza degli dèi.
CLINIA: Non ho ancora capito.
ATENIESE: Quasi tutti corrono il rischio, amico, di non riconoscere la vera essenza dell'anima e la sua proprietà, non solo in relazione a tutto il resto, ma anche relativamente alla sua genesi, poiché essa esiste sin dai primi tempi, essendo nata prima di tutti i corpi, e più di ogni altra cosa presiede ad ogni loro mutamento e ad ogni loro trasformazione: se allora le cose stanno così, non è inevitabile pensare che tutto ciò che per genere è affine all'anima è nato prima di ciò che ha parentela con i corpi, dato che quella è più vecchia del corpo?
CLINIA: Inevitabile.
ATENIESE: L'opinione, le occupazioni, l'intelletto, l'arte, la legge sono venuti prima del duro e del molle, del pesante e del leggero: e allora anche le prime e grandi imprese ed azioni sono frutto dell'arte, essendo nate prima, mentre quelle cose che sono opera della natura, nonché la natura vera e propria, la quale non è corretto chiamarla con questo nome, sono venute dopo, e scaturiscono dall'arte e dall'intelletto.
CLINIA: Perché non è corretto chiamarla così?
ATENIESE: Essi intendono chiamare con il termine di «natura» la genesi relativa alle prime realtà: ma se apparirà chiaro che l'anima è venuta prima, e non il fuoco né l'aria, che l'anima è nata fra le prime realtà, si potrà dire assai giustamente che essa è in modo particolare opera della natura. Ma le cose stanno in questi termini se si dimostra che l'anima è anteriore al corpo, in caso contrario, non è possibile.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Dopo di che non dobbiamo allora prepararci proprio a questa cosa.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Prestiamo allora attenzione ad un discorso assolutamente ingannevole, perché, essendo adatto a giovani, non tragga in inganno noi che siamo vecchi, e sfuggendoci di mano, non ci renda ridicoli, così da sembrare di non cogliere neppure questioni di poco conto, proprio nel momento in cui aspiriamo a quelle di maggiore importanza. Vedete un po'.
Se ad esempio noi tre dovessimo attraversare un fiume dalla corrente impetuosa, ed io, che sono il più giovane di noi e quello che ha maggiore esperienza di correnti, dicessi che spetta a me per primo controllare, lasciandovi in un luogo sicuro, se anche a voi che siete più vecchi sia possibile attraversarlo, o come si possa fare, e se, risultando possibile il guado, allora vi chiamassi e vi aiutassi ad attraversarlo grazie alla mia esperienza, ma se invece non fosse possibile per voi attraversarlo, mi assumessi tutto il pericolo, sembrerei fare un discorso ragionevole. Dunque anche adesso il discorso che stiamo per fare è piuttosto impetuoso, e si potrebbe dire che probabilmente non è percorribile con le sole vostre forze: perché allora il discorso non vi faccia venire capogiro e vertigini, confondendovi con domande cui non siete abituati a rispondere, e non faccia nascere in voi un misero e spiacevole senso di vergogna, bisogna che anch'io faccia così, in primo luogo rivolgendo domande a me stesso, mentre voi mi ascoltate standovene al sicuro, e dandomi in seguito le risposte, esponendo così il discorso, finché non si sia completato l'argomento relativo all'anima, e non si sia dimostrato che è nata prima l'anima del corpo.
CLINIA: Mi sembra ottimo quello che hai detto, straniero, e allora fa' come dici.
ATENIESE: Avanti, dunque, e se talvolta noi dobbiamo invocare la divinità, ora si faccia così - si invochino gli dèi, in fondo, con estrema serietà, per dimostrare che essi stessi esistono - e aggrappandoci a loro come ad una fune sicura, inoltriamoci in questo discorso che ora cominciamo. E se intorno a tali questioni qualcuno volesse confutarmi con le seguenti domande, mi sembra che questo sia il modo più sicuro di rispondere. Se uno mi dicesse:
«Straniero, tutto sta e nulla si muove? Oppure è tutto il contrario? O, ancora, alcune di quelle cose si muovono, e altre stanno ferme?»
«Alcune si muovono», dirò, «altre stanno ferme».
«E forse ciò che sta sta in qualche spazio, e ciò che si muove si muove in qualche spazio?»
«E come no?»
«E alcune cose agiscono in un solo luogo, mentre altre in più luoghi».
«Alludi», diremo, «a quelle cose che hanno la proprietà di essere immobili al centro e che si muovono in un unico luogo, come i cerchi di cui si dice che stanno fermi, mentre la loro circonferenza gira?»
«Sì. E sappiamo che in questo moto circolare tale movimento, facendo muovere insieme il cerchio più grande e quello più piccolo, secondo la stessa proporzione si distribuisce nei cerchi piccoli e in quelli più grandi, essendo così, in proporzione, minore e maggiore: e questa è la ragione da cui scaturisce quella fonte di tutti quei fenomeni meravigliosi, per cui lo stesso movimento fornisce lentezza e velocità, in proporzione ai cerchi grandi e piccoli, e sembrerebbe appunto impossibile, per quel che uno si aspetterebbe, che. si potesse verificare questa condizione».
«Verissimo».
«Per quanto riguarda le cose che si muovono in più luoghi, mi sembra che tu alluda a quelle cose che, muovendosi con un movimento di traslazione, passano continuamente da un luogo all'altro, e ora hanno un solo centro come base d'appoggio, ora molti per il loro rotolare. E ogni volta che si incontrano con altri corpi che stanno fermi si dividono, mentre quando si incontrano con altri corpi che giungono dalla parte opposta, riunendosi in un unico corpo, si congiungono e si combinano in un unico composto».
«Dico che le cose stanno proprio così come dici». «E quando si combinano insieme diventano più grandi, e quando si dividono diventano più piccoli, nel caso in cui permanga la costituzione di ciascun elemento, quando invece questa viene meno, essi spariscono in virtù di queste due cause.
Quando e in quale condizione avviene la genesi di ogni cosa? è chiaro che avviene quando un principio, ricevendo un incremento, passa alla seconda trasformazione, e da questa a quella più vicina, finché, giunto alle tre dimensioni, diventa sensibile per coloro che hanno la sensibilità di coglierlo. Tutto così nasce in virtù del mutamento e del movimento da uno stadio ad un altro: ed esiste effettivamente quando permane, mentre si annienta del tutto quando si trasforma in un altro stadio». Non abbiamo così parlato di tutti i movimenti, enumerandoli secondo le specie, fatta eccezione per due, amici miei?
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Ottimo uomo, si tratta di quei due movimenti per i quali noi stiamo conducendo tutta l'indagine attuale.
CLINIA: Parla più chiaramente.
ATENIESE: La nostra indagine non si svolge in funzione dell'anima?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Il primo movimento, dunque, sia quello che fa muovere altro ma non può far muovere se stesso, ed è sempre una specie di moto, il secondo movimento sia quello che fa muovere se stesso ed altro, secondo combinazioni, divisioni, incrementi, diminuzioni, generazioni e corruzioni, ed esso forma un'altra specie separata da tutti gli altri movimenti.
CLINIA: Sia così.
ATENIESE: Considereremo come nona specie di movimento quel movimento che muove sempre altro e da altro viene messo in movimento, mentre diremo che la decima specie è rappresentata da quel movimento che, muovendo se stesso ed altro e accordandosi a tutto ciò che vien fatto e subito, viene effettivamente definito come mutamento e movimento di tutte le cose che sono.
CLINIA: Senza dubbio.
ATENIESE: Di questi dieci movimenti quale potremo assai correttamente scegliere come il più forte dì tutti e il più importante quanto ad efficacia.
CLINIA: Credo che sia necessario affermare che il movimento che è in grado di muovere se stesso sia infinitamente superiore, e tutti gli altri vengano dopo questo.
ATENIESE: Dici bene. Ma delle cose che ora abbiamo detto in modo errato, dobbiamo correggerne una o due?
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Quando abbiamo parlato del decimo movimento, non abbiamo detto correttamente.
CLINIA: Perché?
ATENIESE: Esso è primo per genesi e per forza, secondo un corretto ragionamento: e dopo questo abbiamo quel secondo movimento che poco fa, in modo assurdo, abbiamo definito nono.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Così. Quando un oggetto ne modifica un altro, e questo ancora un altro, e via così, vi sarà un primo oggetto responsabile di tutti questi movimenti? E se un oggetto è mosso da un altro, come potrà esso essere il primo fra gli oggetti che causano il movimento? è impossibile, infatti. Ma se un oggetto muovendo se stesso muove un altro oggetto, e quello un altro ancora, e così gli oggetti che vengono mossi sono migliaia e migliaia, non è forse vero che il principio di tutto il loro movimento consisterà in nient'altro se non in quel mutamento determinato dal movimento che muove se stesso?
CLINIA: Benissimo, e non si può non concordare con queste parole.
ATENIESE: Parliamo ancora in questo modo, e di nuovo rispondiamo a noi stessi.
«Se tutte le cose, essendo nate insieme, si trovassero in quiete, come hanno il coraggio di dire la maggioranza di quei sapienti che abbiamo visto, quale sarebbe in esse il primo dei movimenti che viene necessariamente ad essere fra quelli che abbiamo detto? Naturalmente quello che muove se stesso: esso non avrebbe mai potuto essere modificato da altro in precedenza, non essendoci in quelle cose nessun precedente mutamento. Il principio dunque di tutti i movimenti e il primo che viene ad essere tanto nelle cose che sono in quiete quanto in quelle che sono in movimento, vale a dire il movimento che muove se stesso, diremo che questo è necessariamente il mutamento più vecchio e più potente, mentre quello che è mosso da altro e che muove altro, è il secondo movimento.»
CLINIA: Quello che dici è verissimo.
ATENIESE: Ora che siamo giunti a questo punto del discorso, rispondiamo a questa domanda.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Se vedessimo che questo principio è presente in ciò che è formato dalla terra, o dall'acqua, o dal fuoco, separato o mescolato, quale proprietà diremo che è presente in tale sostanza?
CLINIA: Forse mi domandi se possiamo dire che tale sostanza vive quando muove se stessa?
ATENIESE: Sì.
CLINIA: Vive. E come no?
ATENIESE: Ebbene? Quando vediamo che l'anima è presente in alcune cose, diciamo forse un'altra cosa o la stessa cosa? Non dobbiamo cioè convenire ch'essa vive?
CLINIA: Non diciamo una cosa diversa.
ATENIESE: Un momento, per Zeus! Non vorrai pensare tre cose per ciascuna realtà?
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Una è il suo essere, un'altra è la definizione dell'essere, un'altra il nome: e inoltre si possono porre due domande riguardo ad ogni realtà dotata di essere.
CLINIA: Come due domande?
ATENIESE: Ora, proponendo il nome della cosa, domandiamo la definizione, ora, invece, proponendo la definizione, domandiamo il nome. E la questione che ora vogliamo dire non è la seguente?
CLINIA: Quale?
ATENIESE: Oltre a molte altre cose, anche il numero si può dividere per due: e parlando del numero, il suo nome è “pari”, e la sua definizione “numero diviso in due parti uguali”.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Ed ecco il punto che voglio chiarire. Non chiamiamo noi in ambedue i modi la stessa cosa, sia che diamo il nome quando ci viene chiesta la definizione, sia che diamo la definizione quando ci viene richiesto il nome, chiamando la stessa cosa sia con il nome, e cioè “pari”, sia con la definizione, e cioè “numero diviso in due parti uguali”?
CLINIA: Ma certamente.
ATENIESE: E qual è la definizione di ciò che ha nome anima? Ne abbiamo forse un'altra, oltre a quella che è stata detta ora, e cioè “movimento in grado di muovere se stesso”?
CLINIA: Affermi allora che si può definire come “ciò che muove se stesso” quell'essere che tutti chiamiamo con il nome di “anima”?
ATENIESE: Sì, lo affermo: e se la cosa sta in questi termini, avremo forse ancora il rimpianto di non aver sufficientemente dimostrato che l'anima si identifica con la genesi prima e il movimento delle cose che sono, che sono state, e che saranno, e di tutti i loro contrari, dato che è apparsa essere la causa del mutamento e del movimento dì tutte le cose?
CLINIA: No, ma anzi, si è sufficientemente dimostrato che l'anima è anteriore a tutte le cose, ed è il principio del movimento.
ATENIESE: E il movimento che si trova in un altro oggetto, causato da un altro fattore, che non fa mai in modo che nulla muova se stesso in se stesso, non viene per secondo, o in una posizione arretrata di tanti numeri quanti uno ne vuole contare, trattandosi del movimento proprio del corpo effettivamente inanimato?
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Abbiamo dunque fornito una corretta e valida spiegazione, oltre che pienamente corrispondente al vero, del fatto che per noi l'anima si è generata prima del corpo, mentre il corpo per secondo e in un momento successivo, e che l'anima guida il corpo e quello, secondo natura, obbedisce.
CLINIA: Verissimo.
ATENIESE: Ricordiamo che prima ci eravamo trovati d'accordo nel dire che se l'anima fosse risultata essere anteriore al corpo, anche tutto ciò che ha attinenza con l'anima sarebbe stato anteriore a ciò che ha attinenza con il corpo.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: I modi di vita, i costumi, le intenzioni, i ragionamenti, le vere opinioni, le occupazioni, i ricordi, sono venuti prima della lunghezza dei corpi, e della larghezza, e della profondità, e della forza, se è vero che l'anima è anteriore al corpo.
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: Dopo di che non è allora necessario accordarsi sul fatto che la causa del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dell'ingiusto, e di tutti i loro contrari è l'anima, se è vero che stabiliremo che essa è la causa di tutte le cose?
CLINIA: E come no?
ATENIESE: E non è necessario affermare che l'anima, che amministra ed abita in tutte le cose che in ogni modo si muovono, amministra anche il cielo?
CLINIA: Certamente.
ATENIE5E Un'anima o più di una? Più di una, risponderò io per voi. Non possiamo stabilirne meno di due, vale a dire quella che produce il bene e quella che ha la possibilità di realizzare il contrario.
CLINIA: Quello che dici è assolutamente giusto.
ATENIESE: Bene. L'anima allora guida tutte le cose che vi sono in cielo, in terra, e in mare, e le guida con i movimenti che le appartengono e che si chiamano “volontà”, “indagine”, “occupazione”, “decisione” “opinione vera e malvagia”, “godimento e sofferenza”, “coraggio e paura”, “odio e amore”, e con tutti i movimenti affini a questi o primari, che dirigono i moti secondari dei corpi e guidano tutte le cose verso il loro incremento o la loro diminuzione, verso la loro dissoluzione e composizione, e verso ciò che è connesso a queste proprietà: caldo e freddo, pesante e leggero, duro e molle, bianco e nero, aspro e dolce. Quando l'anima ricorre a tutto ciò, prendendo sempre come aiutante l'intelletto, che è un dio e viene giustamente stimato dagli dèi, dirige tutto verso la giustizia e la felicità, ma se si unisce alla stoltezza, produce tutto il contrario di queste cose. Possiamo considerare che la questione stia in questi termini o ancora dubitiamo che possa essere posta diversamente?
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: E quale genere di anima diciamo che sia diventato padrone del cielo, della terra, e di tutta la rivoluzione dell'universo?
Quel genere assennato e pieno di virtù, oppure quello che non possiede né l'una né l'altra qualità? Volete che rispondiamo così a queste domande?
CLINIA: Come?
ATENIESE: Se, straordinario uomo, diciamo che tutto il corso e il movimento del cielo e di tutto ciò che è in esso ha natura simile al movimento, alla rivoluzione, e ai calcoli dell'intelletto, e se si muove secondo movimenti congeneri, allora è chiaro che si deve dire che l'anima migliore si prende cura di tutto l'universo e lo conduce lungo tale corso.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Se procede in modo folle e privo di ordine, l'universo è guidato dall'anima malvagia.
CLINIA: Anche questo è giusto.
ATENIESE: Ma quale natura possiede il movimento dell'intelletto?
Non è facile, amici, rispondere a questa domanda e dire parole assennate: perciò anch'io adesso vi devo aiutare nella formulazione della risposta.
CLINIA: Dici bene.
ATENIESE: Non facciamo come quelli che rivolgono lo sguardo fisso al sole, facendo venire notte a mezzogiorno, e non rispondiamo come se potessimo vedere e conoscere adeguatamente con occhi mortali l'intelletto: è più sicuro osservare con lo sguardo rivolto verso l'immagine di ciò che viene domandato.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Prendiamo come immagine quella di quei dieci movimenti cui assomiglia l'intelletto: ve la richiamerò alla memoria, e insieme a voi cercherò di rispondere a quella domanda.
CLINIA: Dici benissimo.
ATENIE5E Delle cose che abbiamo detto prima non ricordiamo almeno questo, e cioè che abbiamo stabilito che di tutte le cose alcune si muovono e altre stanno ferme?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: E, fra quelle che si muovono, alcune si muovono in unico luogo, altre in più luoghi.
CLINIA: è così.
ATENIESE: Di questi due movimenti, è inevitabile che quello che si muove in un unico luogo si muove sempre intorno ad un centro, imitando i cerchi lavorati al tornio e questo movimento è assolutamente, nei limiti del possibile, quello che è più affine e somigliante al movimento circolare dell'intelletto.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Affermando che l'intelletto e il movimento che si muove in un unico punto si muovono ambedue in modo uguale ed identico, nel medesimo luogo, intorno al medesimo centro, nella medesima direzione, e secondo un'unica ragione ed un unico ordine, formando un immagine somigliante ai movimenti della sfera al tornio, non daremmo mai l'impressione di essere scadenti artefici di belle immagini realizzate con la parola.
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: E il movimento che non è mai uguale ed identico, che non è mai nel medesimo luogo, né intorno al medesimo centro, e non si muove mai nella medesima direzione, che non avviene secondo un'unica disposizione, un unico ordine, un'unica ragione, non potrebbe essere il movimento affine alla stoltezza in genere?
CLINIA: è assolutamente vero.
ATENIESE: Ora non è affatto difficile dire in modo esplicito che, dal momento che l'anima guida tutte le cose, occorre affermare che il movimento circolare del cielo è necessariamente guidato e ordinato dall'anima migliore o da quella contraria.
CLINIA: Straniero, dopo quello che ora abbiamo detto, sarebbe empio affermare una cosa diversa dal fatto che una sola anima che contiene in sé tutte le virtù, o, allo stesso modo, anche più anime, guidano l'universo.
ATENIESE: Benissimo, Clinia, hai ascoltato questi discorsi: ascolta ancora questo.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Se è vero che l'anima muove circolarmente il sole, la luna, e tutti gli altri astri, non muove anche ciascuno di essi singolarmente?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Ragioniamo intorno ad uno di quelli, e così quel che risulterà si potrà adattare a tutti gli altri astri.
CLINIA: Quale prendiamo?
ATENIESE: Ogni uomo vede il corpo del sole, ma nessuno vede l'anima, e neppure vede l'anima di nessun altro corpo degli esseri viventi, vivo o morto che sia: ma abbiamo molte ragioni per attenderci che questo genere dell'anima, pur essendo completamente insensibile a tutte le sensazioni del corpo, sia intellegibile. Con il solo intelletto e con il solo pensiero noi possiamo afferrare questa cosa intorno a tale genere.
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Se l'anima guida il sole, non ci sbagliamo di molto nel dire che essa compie una di queste tre cose.
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Essa, trovandosi all'interno di quel corpo che appare rotondo, lo trasporta in ogni luogo, come l'anima che è in noi ci porta in giro in ogni luogo; oppure, procurandosi all'esterno, chissà da dove, un corpo composto di fuoco o di aria, come alcuni dicono, spinge violentemente corpo contro corpo; oppure ancora, ed è il terzo caso, spogliata del corpo, possiede altre sue straordinarie e miracolose potenze grazie alle quali lo muove.
CLINIA: Sì, questo è inevitabile, e cioè che l'anima guidi il tutto compiendo una di queste operazioni.
ATENIESE: Ogni persona deve ritenere che quest'anima è superiore al sole, sia che lo conduca sopra un carro perché porti a tutti la luce, sia che lo muova dal di fuori, o comunque avvengano le cose, e deve pensare che si tratta quasi di una divinità. O no?
CLINIA: Sì, almeno colui che non ha raggiunto l'estremo grado di stoltezza.
ATENIESE: Riguardo a tutti gli astri e alla luna, riguardo agli anni e ai mesi e a tutte le stagioni, quale altro discorso diremo se non questo stesso discorso, e cioè che, dal momento che un'anima o molte anime risultarono essere causa di queste cose, anime valorose provviste di ogni virtù, diremo che esse stesse sono divinità, sia che trovandosi all'interno dei corpi, come fossero esseri viventi, mettono ordine in tutto il cielo, sia che agiscano in qualsiasi altro modo? Chi è che, trovandosi d'accordo su queste cose, sosterrà ancora che tutte le realtà non sono colme di dèi?
CLINIA: Nessuno può essere così fuori di senno, straniero.
ATENIESE: Lasciamo allora stare tale questione, Megillo e Clinia, dopo che abbiamo fissato i termini per colui che prima non credeva all'esistenza degli dèi.
CLINIA: Quali?
ATENIESE: O devono mostrarci che non abbiamo detto bene quando abbiamo stabilito che l'anima era la genesi prima di tutte le cose, e quando abbiamo fatto tutte le altre affermazioni che si accompagnano a quel principio, oppure, non potendo dire meglio di noi, dovranno prestar fede a noi e vivere credendo negli dèi per tutto il resto della loro vita. Vediamo se abbiamo dimostrato a sufficienza che gli dèi esistono a coloro che non credono nell'esistenza degli dèi, o se alla nostra dimostrazione manca ancora qualcosa.
CLINIA: Non manca assolutamente nulla, straniero.
ATENIESE: Abbia dunque per noi termine questo discorso. Dobbiamo ora esortare chi crede negli dèi, ma non ritiene che si occupino delle faccende umane. «Ottimo uomo», diciamogli, «tu credi all'esistenza degli dèi perché forse una divina parentela ti spinge a stimare e ad onorare chi è della tua stessa natura: ma le sorti di uomini malvagi ed ingiusti, sia privatamente che pubblicamente, che, pur non essendo veramente fonte di felicità, sono ritenute tali dalle opinioni degli uomini, anche se in modo sconveniente, ti spingono verso l'empietà, e così nell'arte e in ogni sorta di discorsi non vengono correttamente celebrate. Oppure, vedendo che molti uomini sono giunti ormai vecchi al termine della vita, lasciando i figli dei figli fra grandissimi onori, ora appunto ti turbi nell'assistere a tutti questi fatti, sia che tu abbia sentito parlare di queste cose, sia che tu abbia visto con i tuoi occhi, imbattendoti in molte e terribili empietà, attraverso le quali sono riusciti a giungere ai vertici delle tirannidi e delle più grandi fortune partendo da oscure condizioni: e poiché allora è chiaro che tu non vuoi accusare gli dèi di essere i responsabili di questi fatti, a causa di quella certa parentela, essendo in balia di uno stolto ragionamento e non potendo disapprovare gli dèi, sei giunto ora a provare questa attuale stato d'animo, sicché ritieni che essi esistano, ma pensi che disprezzino e non si curino degli affari umani. Perché allora questa tua credenza di adesso non degeneri in una condizione più grave di empietà, se siamo in grado di respingerla con i discorsi prima che ti assalga, proviamo, unendo il discorso che segue a quello che abbiamo svolto dal principio alla fine rivolgendoci contro chi non credeva affatto all'esistenza degli dèi, a ricorrere ora a quest'ultimo». Tu Clinia, e tu Megillo, assumete il ruolo di questo giovane nel rispondere, come avete fatto nei precedenti discorsi: se poi nei discorsi capita che vi sia qualche ostacolo, io, come ora mi sono assunto il vostro ruolo, vi aiuterò ad attraversare il fiume.
CLINIA: Quello che dici è giusto: allora tu fai così, e noi, nei limiti del possibile, faremo come dici.
ATENIESE: Ma non sarebbe affatto difficile dimostrare questa cosa, e cioè che gli dèi non solo non si curano di meno delle piccole cose, ma anzi, di più che di quelle estremamente importanti. Quel giovane ha sentito dire, poiché era presente ai nostri discorsi di adesso, che gli dèi, essendo buoni, sono assolutamente forniti di quella virtù che consiste nella cura di tutte le cose, virtù che è la più affine alla loro natura.
CLINIA: Ha ascoltato bene.
ATENIESE: Dopo di che si esamini insieme di quale loro virtù parliamo quando concordiamo nel dire che essi sono buoni. Avanti, diciamo che l'essere temperanti e il possedere intelletto appartengono alla virtù, e tutte le opposte qualità appartengono invece al vizio?
CLINIA: Lo diciamo.
ATENIESE: Ebbene? E non diciamo che il coraggio appartiene alla virtù, mentre la viltà al vizio?
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: E diremo che di queste qualità le une sono turpi, mentre le altre sono nobili?
CLINIA: Necessariamente.
ATENIESE: E non diremo che di queste qualità quelle di scarso valore si addicono a noi, se proprio si addicono a qualcuno, ma né molto né poco agli dèi?
CLINIA: Ognuno la penserebbe così intorno a tali questioni.
ATENIESE: Ebbene? La negligenza, l'ignavia, la mollezza, le considereremo nell'ambito della virtù dell'anima, o come dici?
CLINIA: E come potrei dire?
ATENIESE: Ma non è il contrario?
CLINIA: Sì.
ATENIESE: E le qualità contrarie a queste sono allora sul versante opposto?
CLINIA: Sì, all'opposto.
ATENIESE: Ebbene? La persona molle, negligente, pigra, che il poeta dice che è assai simile ai fuchi senza pungiglione, non sarà tale anche per noi?
CLINIA: Parole giustissime.
ATENIESE: Non si deve dire che il dio abbia un simile costume, che, anzi, lui stesso detesta, e se qualcuno cerca di pronunciare una cosa simile, non si deve permettergli di pronunciarla.
CLINIA: No, naturalmente: come sarebbe altrimenti possibile?
ATENIESE: E se a un tale spetta il compito dì fare e di prendersi particolare cura di qualcosa, e così si occupa e rivolge la propria mente soltanto agli aspetti più importanti della questione, e trascura invece quelli di scarsa importanza, con quale discorso elogiandolo saremmo assolutamente sicuri di non sbagliare? Vediamo la cosa in questo modo. Non è vero che chi compie quest'opera, può compierla tenendo presente questi due aspetti, sia che sia un dio, sia che sia un uomo?
CLINIA: Quali aspetti?
ATENIESE: O ritiene che non sia affatto importante, in relazione all'opera nel suo complesso, che si trascurino le questioni di minor rilevanza, oppure, per indolenza e per mollezza, anche se sono importanti, li trascura. O come può avvenire in altro modo la negligenza? Infatti, se non è possibile occuparsi di tutti gli aspetti, allora non sarà più negligenza, né delle cose piccole né di quelle grandi, per chi non si occupa di tali cose, poiché a questo punto, divinità o uomo di scarso valore che sia, manca della capacità e non è in grado di occuparsene.
CLINIA: Come, infatti?
ATENIESE: Ora che sono due rispondano a noi che siamo tre, quei due che convengono sull'esistenza degli dèi, anche se il primo pensa che debbano essere placati con sacrifici e preghiere, e il secondo ritiene che non si prendano cura delle questioni di poco conto. In primo luogo affermate che gli dèi conoscono, vedono, e ascoltano tutte le cose, e nessuna cosa che sia oggetto di sensazione e di conoscenza è possibile che rimanga loro celata: dite che le cose stanno in questi termini, o come?
CLINIA: Così.
ATENIESE: Ebbene? Ed esercitano la loro influenza su tutto quanto è in potere dei mortali e degli immortali?
CLINIA: Come non essere d'accordo anche su questo punto?
ATENIESE: E tutti e cinque abbiamo concordato che essi sono buoni e ottimi.
CLINIA: Assolutamente sì.
ATENIESE: Dunque non è impossibile pensare che essi compiano qualsiasi cosa con indolenza e con mollezza, se abbiamo concordato che essi sono come abbiamo detto? L'ozio, per noi, è figlio della viltà, l'indolenza, invece, figlia dell'ozio e della mollezza.
CLINIA: è verissimo quello che dici.
ATENIESE: E nessuno degli dèi è negligente per ozio e per indolenza, dato che non partecipano della viltà.
CLINIA: Giustissimo.
ATENIESE: Allora non resta altra considerazione che questa: se è vero che gli dèi trascurano le piccole cose, quelle che sono insignificanti rispetto al tutto, o si comportano così perché riconoscono che non vale affatto la pena di occuparsi di tali cose, oppure che cos'altro resta se non il contrario della conoscenza?
CLINIA: Nulla.
ATENIESE: Forse, ottimo e carissimo amico, dobbiamo ammettere che tu dici che gli dèi sono ignoranti, e che per ignoranza trascurano ciò di cui dovrebbero occuparsi, oppure che, pur conoscendo ciò che debbono fare, si comportano come si dice che facciamo i più vili fra gli uomini, i quali sanno che se si comportassero diversamente da come si comportano si comporterebbero meglio, ma comunque non si comportano in quel modo perché sono vinti dai piaceri e dai dolori?
CLINIA: Come possibile?
ATENIESE: Ma ogni cosa umana non prende parte della natura dell'anima, e l'uomo non è fra tutti gli esseri viventi l'essere più pio?
CLINIA Mi pare.
ATENIESE: Diciamo che tutti gli esseri mortali sono proprietà degli dèi, come anche il cielo intero.
CLINIA: Come no?
ATENIESE: Si può dire ormai che queste cose hanno scarsa o grande importanza per gli dèi: non si addice ai nostri signori, che sono i più diligenti e i migliori, trascurarci nell'uno o nell'altro caso. Ma esaminiamo ancora un punto, oltre a quelli già detti.
CLINIA: Quale?
ATENIESE: La sensazione e la facoltà intellettiva non sono per natura opposte fra loro in rapporto alla facilità ed alla difficoltà?
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: è più difficile vedere ed ascoltare le cose piccole che quelle grandi, ed è per chiunque più facile sopportare, dominare, ed occuparsi di poche e piccole cose che di quelle contrarie.
CLINIA: E anche di molto.
ATENIESE: Poniamo il caso che ad un medico sia ordinato di curare tutto un corpo, e che egli voglia e possa occuparsi degli aspetti più importanti della malattia, mentre trascuri quelle parti più insignificanti: tutto il suo corpo starà bene in questo modo?
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: E non accade nulla di diverso ai nocchieri, agli strateghi, agli amministratori della casa, a certi uomini politici, e ad altra gente simile se si occupano di un gran numero di cose importanti, ma lasciano da parte quei pochi aspetti di scarsa importanza: e d'altra parte i muratori dicono che le pietre grosse non sono ben sistemate senza quelle piccole.
CLINIA: E come potrebbero?
ATENIESE: Non consideriamo la divinità di valore inferiore rispetto agli artigiani mortali, i quali, nell'ambito di loro competenza, si dimostrano migliori nella misura in cui le loro opere, grandi o piccole che siano, risultano perfettamente e compiutamente lavorate con un'unica arte: non possiamo allora pensare che il dio, che è assai sapiente, e che vuole e può prendersi cura delle cose, non si occupi affatto delle cose di cui è più facile prendersi cura, in quanto sono piccole, e si prenda cura di quelle grandi, come quel tale pigro o vile che per le fatiche diviene indolente.
CLINIA: In nessun modo accogliamo, straniero, un'opinione del genere sugli dèì: se la pensassimo così, il nostro pensiero non sarebbe affatto santo, né corrispondente al vero.
ATENIESE: Ormai mi sembra che abbiamo discusso in modo del tutto conveniente di chi si diverte ad accusare gli dèi di negligenza.
CLINIA: Sì.
ATENIESE: Con i nostri discorsi lo abbiamo costretto ad ammettere che non parlava correttamente: e tuttavia mi sembra che abbia ancora bisogno di certi racconti incantatori.
CLINIA: Quali?
ATENIESE: Cerchiamo di persuadere questo giovane con i nostri discorsi che chi si occupa del tutto in vista della salvezza e della virtù dell'insieme ha ordinato tutte le cose in modo che ogni più piccola parte di esse, nei limiti del possibile, subisca e operi ciò che le spetta. A ciascuna di queste parti sono state preposte delle guide che presiedono anche la più piccola cosa ch'essa subisce e compie, e fanno in modo che tutto si realizzi perfettamente sino all'ultima divisione. Anche tu, o misero, sei una piccola frazione di queste parti che mira continuamente e tende al tutto, anche se infinitamente piccola, e proprio a tal proposito, ti sfugge il fatto che ogni genesi avviene in funzione di quello, e cioè perché nella vita del tutto vi sia un'essenza di felicità, e quel tutto non si è generato in funzione di te, ma tu in funzione di quello.
Ogni medico, infatti, ed ogni esperto artigiano realizza ogni sua opera in funzione del tutto, e tendendo al miglior bene comune, realizza la parte in funzione del tutto, e non il tutto in funzione della parte: tu sei turbato perché ignori che ciò che ti accade ed è ottimo per il tutto lo è anche per te, in virtù di quella proprietà che deriva dalla comune origine. E poiché l'anima è sempre unita ora a quel corpo, ora a quell'altro, e quindi subisce ogni sorta di mutamento a causa sua o di un'altra anima, non resta altra opera all'ordinatore se non quella di collocare il costume migliore nel luogo migliore, e quello peggiore nel luogo peggiore, secondo ciò che è conveniente a ciascuno, perché ciascuno abbia il destino che gli spetta.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Credo di poter dire che sia facile per gli dèi prendersi cura del tutto. Se infatti qualcuno, guardando sempre all'insieme, plasmasse e trasformasse il tutto, e trasformasse il fuoco in acqua viva, e non facesse derivare i molti dall'uno o l'uno dai molti, allora, avendo preso parte le cose della prima, della seconda, e della terza generazione, sarebbero infiniti di numero gli ordinamenti mutati: e ora vi è una facilità straordinaria per chi si prende cura del tutto.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: In questo modo. Poiché il nostro re vide che tutte le azioni sono causate dall'anima, e in esse vi è grande abbondanza di virtù e di vizio, e che quando si genera, l'essere dell'anima e del corpo è indistruttibile, anche se non eterno, come sono gli dèi secondo la legge - e se venisse a mancare uno di questi due elementi non vi sarebbe più generazione di esseri viventi - e poiché considerò che tutto quanto vi è di buono per natura nell'anima risulta vantaggioso, mentre ciò che è malvagio reca danno, considerando allora tutto questo, escogitò il modo per cui, essendo ogni parte collocata in un certo modo, potesse assolutamente rendere nel tutto, nel modo più semplice e migliore, la virtù vittoriosa e il vizio sconfitto. E in vista di questo tutto egli ha escogitato, a seconda delle qualità che ogni essere deve sempre avere, quale sede e quali luoghi mutando egli deve andare ad abitare: quanto al generarsi delle qualità individuali, ha lasciato alla volontà di ciascuno di noi la libertà di determinarne le cause. Infatti quasi sempre, o almeno nella maggior parte dei casi, ciascuno di noi diviene così come desidera e come è disposto relativamente alla propria anima.
CLINIA: Naturale.
ATENIESE: Tutto ciò che prende parte dell'anima si trasforma, e ha in sé la causa di tale mutamento, e mutando si trasforma secondo l'ordine e la legge del destino: e se i costumi di vita di chi possiede l'anima mutano di rado e in particolari insignificanti, si muta di luogo sulla superficie della terra, mentre se mutano più di frequente e tali mutamenti risultano più ingiusti, si scivola nelle profondità della terra e nei luoghi che sono detti “sotterranei”, e vengono chiamati “Ade” o con altri nomi simili, luoghi che sono assai temuti, e che vengono sognati sia in vita, sia quando si è ormai separati dal corpo. E se l'anima partecipa in misura maggiore del vizio o della virtù, per sua volontà o per un rapporto consolidato nel tempo, quando si unisce ad una virtù divina divenendo essa stessa tale, si trasferisce in un luogo diverso e del tutto santo, e viene portata in un altro luogo migliore; ma se avviene il contrario, anche la sua vita si muta al contrario.
«Questa è la giustizia degli dèi che occupano l'Olimpo», o figliolo, o giovane, che ritieni di essere trascurato dagli dèi! Chi diviene peggiore si muove verso le anime dei peggiori, chi diventa migliore si dirige verso le anime dei migliori, in vita e in tutte le morti successive subendo e facendo ciò che i simili devono fare ai loro simili. A questa giustizia divina né tu, né nessun altro sventurato può vantarsi di sfuggirvi: coloro che la stabilirono la collocarono in un luogo superiore rispetto a tutte le altre forme di giustizia, ed è assolutamente necessario stare lontani da essa. Non sarai mai trascurato da essa: e non sarai così piccolo da poter penetrare nelle profondità della terra, né così alto da poter volare nel cielo, ma pagherai la pena che essi ritengono conveniente, sia che tu rimanga qui, o anche scenda nell'Ade, o, ancora, sia trasportato nel luogo più selvaggio di tutti questi. Lo stesso vale per te e anche per quelli che tu, vedendo che sono partiti da origini modeste e sono diventati grandi, compiendo empietà o altre opere del genere, hai creduto che da sventurati fossero diventati felici, e come in uno specchio hai pensato di vedere riflessa nelle loro azioni la negligenza degli dèi verso tutte le cose, non sapendo in che modo il loro contributo venga in soccorso al tutto. E come puoi credere, o fra tutti assai temerario, che non bisogna conoscere questo contributo? Se uno non ne fosse a conoscenza non potrebbe formarsi l'idea del vivere e non sarebbe in grado approfondire il discorso della vita a proposito della felicità e della cattiva sorte. Se su tali questioni il nostro Clinia e tutti i vecchi qui presenti riescono a convincerti che sugli dèi non sai quello che dici, la divinità stessa farà bene a venire in tuo aiuto: ma se hai bisogno di qualche altro discorso, ascoltaci mentre parliamo alla terza categoria di avversari, sempre che tu abbia un po' di cervello. Che gli dèi esistono e si prendono cura degli uomini, mi sembra, direi, di averlo dimostrato, e non in modo del tutto scadente: quanto al fatto che gli dèi possano essere placati dagli individui ingiusti, ricevendo i loro doni, non dobbiamo concederlo ad alcuno, e in qualsiasi modo, nei limiti del possibile, dobbiamo confutare questa tesi.
CLINIA: Dici benissimo, e allora dobbiamo fare come dici.
ATENIESE: Avanti, in nome degli dèi stessi, in che modo potremmo corromperli, sempre che si potessero corrompere? E chi? E quali di essi? Bisogna che siano come dei condottieri essi che governano perfettamente tutto il cielo.
CLINIA: è così.
ATENIESE: Ma a quali condottieri assomigliano? O quali condottieri assomigliano a loro, se vogliamo confrontare i più piccoli con i più grandi? Saranno simili ad essi quelli che guidano i carri nelle gare o i piloti delle navi? Forse si potrebbero confrontare con i comandanti degli eserciti; ma si potrebbero paragonare anche ai medici che vigilano sull'assalto nemico delle malattie che minacciano i corpi, o ai contadini che accolgono con timore le consuete stagioni che sono difficili per lo sviluppo delle piante, o anche ai pastori di greggi. Poiché ci siamo trovati d'accordo sul fatto che il cielo è pieno di molti beni, ma anche di ciò che ad essi è contrario, anche se i beni sono in maggior numero, diciamo che una battaglia simile è immortale e richiede una straordinaria vigilanza, e che gli dèi e i demoni sono nostri alleati, e noi siamo in loro possesso: ci corrompono l'ingiustizia e la tracotanza insieme alla stoltezza, mentre la giustizia e la temperanza insieme all'intelligenza ci salvano, le quali abitano nelle anime degli dèi, ma che in minima parte sono presenti in noi, come si può chiaramente vedere. è chiaro che alcune anime che abitano sulla terra e posseggono un ingiusto profitto sono simili a fiere, e, prostrandosi dinanzi alle anime dei custodi, siano essi cani, pastori, o anche anime di padroni più eccellenti, cercano di convincere, con parole di adulazione e con certe preghiere di ringraziamento, come dicono i malvagi, che è loro possibile avvantaggiarsi sugli altri uomini senza subire alcuna difficoltà: e noi diciamo che l'errore di cui abbiamo parlato, vale a dire il prevalere sugli altri uomini, quando avviene nei corpi di carne si chiama “malattia”, se avviene invece nelle stagioni dell'anno e negli anni “peste”, se infine colpisce gli stati e le costituzioni, questa stessa parola bisogna mutarla nel termine “ingiustizia”.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: è necessario che pronunci questo discorso chi dice che gli dèi sono sempre indulgenti con gli uomini ingiusti e con i delitti che essi compiono, purché assegnino ad essi una parte degli ingiusti guadagni: sarebbe come se i lupi dessero una piccola parte della preda ai cani, e i cani, placati dai doni, lasciassero venire i lupi a depredare le greggi. Non è forse questo il discorso che fa chi sostiene che gli dèi si possono corrompere?
CLINIA: è proprio questo.
ATENIESE: Ma non sarebbe ridicolo chiunque volesse paragonare gli dèi ad uno qualsiasi dei custodi di cui sopra si è detto? Forse li dobbiamo paragonare ai piloti delle navi, che alterati da una libagione dì vino e dall'odore di carni arrostite, mandano in rovina nave e marinai?
CLINIA: Nient'affatto.
ATENIESE: Ma neppure a coloro che in gara guidano i carri i quali, schierati alla partenza, si lasciano corrompere da doni e consegnano ad altri concorrenti la vittoria.
CLINIA: è terribile l'immagine che viene fuori da questo discorso.
ATENIESE: E neppure a strateghi, a medici, a contadini, o a pastori, o a certi cani che vengono ingannevolmente attirati dai lupi.
CLINIA: Taci! Come puoi dire queste cose?
ATENIESE: Ma, fra tutti i custodi, non sono per noi gli dèi i più autorevoli custodi delle più gravi questioni?
CLINIA: E di gran lunga i più autorevoli.
ATENIESE: Possiamo dire allora che coloro che custodiscono le cose più nobili, ed eccellono per virtù nel loro compito di custodia, sono peggiori dei cani e degli uomini mediocri, essi che non tradirebbero mai la giustizia, allettati da doni accettati empiamente da uomini ingiusti?
CLINIA: Nient'affatto: ma questo discorso è inaccettabile, e fra tutti gli empi che si trovano nella totale empietà ogni uomo che aderisce a questa opinione corre il rischio di essere giudicato assai giustamente come il più malvagio e il più empio.
ATENIESE: Possiamo dire di aver dimostrato a sufficienza le tre cose che ci eravamo proposti, e cioè che gli dèi esistono, che si prendono cura di noi, e che sono assolutamente inflessibili nei confronti dell'ingiustizia?
CLINIA: E come no? E anche noi concordiamo con questi discorsi.
ATENIESE: Essi sono stati certamente pronunciati con veemenza, a causa del nostro desiderio di avere la meglio sugli uomini malvagi: ma il tono polemico delle mie parole, caro Clinia, era giustificato dalla preoccupazione che quei malvagi, forti dei loro discorsi, ritenessero di avere la possibilità di fare ciò che volevano, in relazione a tutto ciò che pensano riguardo agli dèi. Per queste ragioni è sorto in noi un ardore forse troppo giovanile di parlare: e se almeno in parte siamo riusciti a fare in modo di convincere questi uomini ad odiare se stessi e ad amare i costumi opposti a questi, questo proemio alle leggi riguardanti l'empietà risulterà ben detto.
CLINIA: Questa, almeno, è la speranza: in ogni caso, un discorso del genere non pretende di mettere sotto accusa il legislatore.
ATENIESE: Dopo il proemio, dobbiamo tenere un discorso che si faccia giustamente interprete delle leggi, e ordini a tutti gli empi di abbandonare i propri costumi di vita, e di rivolgersi verso quelli delle persone pie. Ma per quelli che non obbediscono, questa sia la legge riguardante l'empietà: se un tale commette empietà nelle parole o nei fatti, chi per caso si trova presente difenda la legge segnalando ai magistrati il colpevole, e i magistrati che verranno informati per primi, lo presentino al tribunale che è stato designato a giudicare in merito a tali questioni, come prevedono le leggi; se un magistrato, dopo aver ascoltato questi fatti, non compie ciò che dovrebbe fare, sia egli stesso accusato di empietà, da parte di chi vuole vendicare le leggi. Se uno viene riconosciuto colpevole, il tribunale fissi per ogni singolo caso, la pena per chi commette empietà. Il carcere sia la pena comune per tutti: e le carceri nel nostro stato devono essere tre; uno, situato presso la piazza, sarà comune alla maggior parte dei criminali e servirà a salvaguardare la maggior parte delle persone fisiche, un altro, situato presso il luogo dove avvengono le adunanze notturne, chiamato “carcere correzionale”, un altro ancora, infine, al centro della regione, dove vi sia un luogo deserto e assolutamente selvaggio, avrà un qualche nome che evoca la pena.
Dato che tre sono le cause che danno luogo all'empietà, delle quali anche prima abbiamo parlato, e poiché da ciascuna di esse ne scaturiscono due, diventano sei i generi di coloro che commettono mancanze nei confronti del divino, e meritano una distinzione, dal momento che non richiedono pene uguali, né simili. Vi è chi non crede assolutamente all'esistenza degli dèi, ma aderisce per natura ad un costume di vista giusto; costui insieme ad altri detesta i malvagi, e poiché disapprova l'ingiustizia, non vuole compiere azioni ingiuste, ed evita gli uomini che non sono giusti, mentre predilige quelli giusti. Vi sono poi quelli che, oltre all'opinione che tutto sia desolatamente privo di dèi, cadono nell'intemperanza di piaceri e di dolori, e possiedono buona memoria e acute capacità di apprendere.
In ambedue i generi di persone è presente la comune disgrazia di non credere all'esistenza degli dèi, ma i primi recano un danno limitato agli altri uomini, mentre i secondi causano mali maggiori. Il primo infatti parlerà assai liberamente degli dèi, dei sacrifici, e dei giuramenti, e suscitando il riso degli altri, forse li renderebbe come lui, se non intervenisse la pena; il secondo, che ha la stessa opinione del primo, è considerato uomo abile e pieno di astuzie e di insidie: da questo genere di persone viene fuori tutta una serie di indovini e di gente che si muove intorno alla magia, e talvolta nascono anche tiranni, e demagoghi, e strateghi, cospiratori che tramano insidie con riti celebrati in privato, e altri ingannevoli espedienti dei cosiddetti sofisti. Di questi empi vi possono essere molte specie, ma due sono quelle per le quali merita fissare le leggi: la prima è quella dei dissimulatori, i quali per le colpe che commettono, meriterebbero non una, e neppure due condanne a morte, l'altra esige soltanto ammonizione e nello stesso tempo carcere. Allo stesso modo anche il pensare che gli dèi siano negligenti genera due altre specie di empietà, e altre due il pensare che si possono corrompere. Compiute tali distinzioni, il giudice condannerà al carcere correzionale, secondo la legge, per un periodo di tempo non inferiore ai cinque anni, chi per stoltezza, e non per malvagia disposizione o per cattivi costumi è divenuto tale; in questo periodo nessun altro cittadino abbia rapporti con quelli, eccetto i magistrati che partecipano al consiglio notturno, che avranno rapporti con loro per ammonirli e salvare le loro anime: trascorso per quelli il periodo della detenzione, chi di loro sembrerà aver riacquistato senno torni a vivere tra le persone assennate, altrimenti, se verrà giudicato un'altra volta colpevole di un reato simile, sia punito con la morte. Quelli che invece, simili a bestie, oltre a non credere all'esistenza degli dèi, o a ritenerli negligenti o corruttibili, disprezzano gli uomini, e incantano l'anima di molti viventi, vantandosi di saper evocare i morti e promettendo di persuadere gli dèi, come se li potessero raggirare con sacrifici, preghiere, ed incantesimi, e mettono mano, per sete di ricchezze, alla completa rovina di privati cittadini, delle famiglie intere e degli stati, per colui che fra costoro risulti dunque colpevole, il tribunale per quello stabilisca che sia condannato al carcere che sta in mezzo alla regione, secondo la legge, e mai alcun uomo libero si avvicini a questa gente, ed essi ricevano il vitto stabilito dai custodi delle leggi da parte dei servi. Quando muore, sia gettato fuori dai confini senza sepoltura; e se un uomo libero presterà il suo aiuto per seppellirlo, sia perseguito da chi vuole con l'accusa di empietà. Se egli lascia figli adatti alle esigenze dello stato, i magistrati che si occupano degli orfani si prendano cura anche di questi come se fossero orfani, e non in modo peggiore degli altri, dal giorno in cui il padre loro sia stato riconosciuto colpevole.
Bisogna stabilire per tutti costoro una legge comune che faccia in modo che la maggior parte di essi commetta meno errori, sia nei fatti che a parole, verso gli dèi, e che siano meno stolti; e questo può avvenire mediante il divieto di compiere ritì sacri a l di fuori di quelli concessi dalla legge. Per tutti questi sia allora stabilita una legge formulata semplicemente così: nessuno possegga luoghi sacri all'interno delle case private. Se uno intende compiere sacrifici, vada a sacrificare nei luoghi pubblici, e consegni le vittime nelle mani dei sacerdoti e delle sacerdotesse cui è affidata la purificazione di questi sacrifici; preghi con loro, e chi vuole preghi con lui. Queste disposizioni siano emanate per le seguenti ragioni. Costruire templi e altari per gli dèi non è cosa facile, e solo una mente assai dotata può compiere correttamente l'impresa. è costume delle donne, in particolare, e di coloro che in ogni caso si trovano in una condizione di debolezza, e, ancora, di quelli che corrono qualche pericolo e sono in difficoltà, quale che sia il disagio in cui si trovano, e anche, al contrario, di chi si trova in una fortunata condizione, di consacrare tutto ciò che si trova in loro presenza, di pregare facendo sacrifici, e di promettere costruzioni in onore di dèi, demoni, e figli degli dèi; e svegliati per la paura anche nei sogni, e ricordandosi allo stesso modo di molte visioni, cercano un rimedio per ciascuna di esse costruendo altari e templi, e così riempiono tutte le case, tutti i villaggi, e li costruiscono non solo nei luoghi puri, ma anche in qualsiasi luogo in cui tali persone si vengano a trovare. Per tutti questi motivi conviene fare come la legge ora prescrive: ed inoltre essa deve avere validità per gli empi, perché non compiano queste azioni furtivamente, costruendo templi ed altari nelle case private e pensando di rendersi segretamente benevoli gli dèi con sacrifici e preghiere, e perché, accrescendo all'infinito l'ingiustizia, non attirino le colpe degli dèi su di sé e su quelli che li lasciano fare e sono migliori di loro, e così tutto lo stato non tragga guadagno dagli empi, in qualche modo giustamente. Il dio non muoverà critiche nei confronti del legislatore. E questa sia la legge: non si devono possedere cose sacre in onore degli dèi nelle case private, e quindi se uno risulta possederne e celebrare riti diversi da quelli dello stato, e chi ha compiuto il fatto, uomo o donna che sia, non ha commesso nessuna delle empietà gravi ed empie, chi se ne accorge lo denunci ai custodi delle leggi, e quelli gli dovranno intimare di trasportare gli oggetti privati nei pubblici templi, e se non obbedisce, lo puniscano finché non si decida a portarli; se invece uno risulta commettere atti empi non propri di bambini, ma di uomini empi, sia costruendo templi nei luoghi privati, sia facendo sacrifici a qualsiasi divinità in pubblico, come se impuro facesse sacrifici, sia condannato a morte. I custodi delle leggi, giudicando se si tratta o meno di una colpa da ragazzi, presentino così queste persone in tribunale, ed impongano loro la pena per l'empietà commessa.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO UNDICESIMO
ATENIESE: Dopo queste cose, bisognerebbe ordinare convenientemente ciò che ha attinenza con i nostri contratti reciproci.
Una semplice formula è la seguente: nessuno tocchi, nei limiti del possibile, le mie sostanze, e non modifichi neppure la più piccola cosa, se non ha ricevuto la mia autorizzazione; allo stesso modo anch'io dovrò comportarmi con le sostanze degli altri, se sono assennato.
Parliamo innanzitutto, nell'ambito di questa materia, di un tesoro che un tale che non sia un discendente dei miei padri abbia conservato con cura per sé e per i suoi: non dovrò far voto agli dèi di trovarlo, e se lo trovo non dovrò rimuoverlo, e neppure dovrò comunicarne il ritrovamento ai cosiddetti indovini che in qualche modo mi consiglierebbero di portar via ciò che è stato consegnato alla terra.
Non mi arricchirei di tanto prendendo quel tesoro, di quanto invece potrei incrementare la virtù dell'anima e della giustizia, se non lo prendessi, acquistando così un bene migliore in luogo di un altro bene in una parte migliore, e preferendo appunto essere ricco di giustizia nell'anima piuttosto che arricchirsi nel proprio patrimonio: quel che si dice nella maggior parte dei casi, e cioè che non bisogna muovere ciò che è immobile, vale anche per questo caso, che è uno di quelli.
Conviene inoltre prestare fede a quei miti che vengono raccontati a tal proposito, secondo i quali tali errori non sono vantaggiosi per la procreazione dei figli.
Chi non si dà pensiero dei figli, e, trascurando anche chi ha fissato la legge, sottrae senza alcuna autorizzazione ciò che né egli stesso, né il padre dei suoi padri ha riposto, distruggendo così la più bella e la più semplice delle leggi, legge stabilita da un uomo non privo di nobiltà - ed essa dice: non devi portar via ciò che non hai riposto - colui che dunque non rispetta le prescrizioni di questi due legislatori e porta via ciò che non ha riposto, e non porta via piccola cosa, ma una quantità enorme di tesoro, quale pena dovrà subire? La divinità conosce quali sono le pene che deve subire da parte degli dèi: e chi per primo lo vede, lo denunci agli astinomi se il fatto avviene in città, agli agoranomi, se avviene nella piazza della città, agli agronomi e ai loro capi se avviene ne resto della regione.
Dopo le denunce, lo stato mandi a consultare l'oracolo di Delfi: e quel che il dio risponderà intorno alle ricchezze e a chi le ha spostate, a questo responso, dunque, lo stato obbedisca, e faccia così come il dio ha prescritto.
Se colui che sporge denuncia è un uomo libero, acquisti una fama virtuosa, se non sporge denuncia, una fama malvagia: se il delatore è uno schiavo, sia giustamente liberato dallo stato, e si offra un risarcimento al suo padrone, ma se non denuncia il fatto, sia punito con la morte.
A questa legge segue e si accompagna una norma che vale sia per i reati di scarsa importanza, sia per quelli più importanti.
Se un tale abbandona da qualche parte un suo oggetto volontariamente o involontariamente, chi vi s'imbatte lo lasci stare dov'è, pensando che un demone delle strade custodisce questi oggetti che per legge sono consacrati a questa dea.
Se un tale, muovendosi contro queste norme, disobbedisce prendendo l'oggetto trovato e portandoselo a casa, nel caso in cui l'oggetto sia di scarso valore e quel tale sia uno schiavo, sia percosso con molte sferzate da chi lo incontri, purché non abbia meno di trent'anni: se invece si tratta di un uomo libero, oltre ad essere ritenuto illiberale ed incapace di prendere parte delle leggi, paghi a chi ha abbandonato l'oggetto il decuplo del valore dell'oggetto rimosso.
Se un tale accusa un altro di detenere le proprie ricchezze in quantità più o meno grande, e quello ammette di possederle, anche se non ritiene che siano dell'accusatore, nel caso in cui il bene sia stato registrato presso i magistrati come prevede la legge, l'uno inviti chi detiene questi beni a comparire dinanzi al magistrato, e l'altro si presenti.
Chiarita la questione, se nei registri risulta scritto quale dei due contendenti è il possessore, costui se ne vada: se invece risulta essere di qualche altra persona che non è presente, nel caso in cui uno dei due sia in grado di presentare un mallevadore sicuro, lo porti via in nome dell'assente per poi consegnarglielo, sulla base del diritto che l'assente avrebbe avuto di portarselo via.
Se l'oggetto che è al centro della controversia non è stato registrato presso i magistrati, rimanga nelle mani dei tre magistrati più vecchi sino al processo, e se il bene sequestrato è un animale, chi perde la causa deve pagare ai magistrati il nutrimento: entro tre giorni i magistrati devono concludere la causa.
Chiunque lo vuole e sia assennato si regoli con il proprio schiavo facendo ciò che vuole, purché si mantenga entro i limiti del lecito: si regoli anche con lo schiavo che fugge, in nome di un altro dei familiari o degli amici, al fine di conservarlo al padrone.
Se qualcuno rivendica la libertà di chi viene condotto come schiavo, il padrone dovrà accordarla, ma chi rivendica la libertà presenti tre mallevadori sicuri, e in questo modo potrà rivendicare la libertà, e in nessun altro: se qualcuno rivendica la libertà contravvenendo a queste norme, sia accusato di violenza e paghi a chi ha sottratto lo schiavo una somma pari al doppio del danno che è stato registrato.
Il padrone può anche condurre in condizione servile lo schiavo che ha liberato, se non si è preso cura di chi lo ha liberato, o se non lo ha fatto in modo adeguato: la cura nei confronti del padrone consiste nel fatto che il liberto deve frequentare tre volte al mese la dimora di chi lo ha liberato, annunciandogli che si comporterà come si deve comportare, purché nei limiti del giusto e del possibile, e che per quanto riguarda le nozze agirà come sembrerà opportuno al suo padrone.
Non può arricchirsi di più di chi lo ha liberato: ciò che è in eccedenza sia considerato del padrone.
Il liberto non rimanga più di vent'anni nello stato, ma come avviene anche per gli stranieri, se ne vada prendendo le proprie cose, se non ottiene l'autorizzazione a rimanere da parte dei magistrati e di chi lo ha liberato.
Se il patrimonio del liberto o anche degli altri stranieri è superiore al censo della terza classe, entro trenta giorni dal giorno in cui è avvenuta tale eccedenza prenda la sua roba e se ne vada, e non gli sia consentito di presentare ulteriore richiesta presso i magistrati per rimanere: e se qualcuno, disubbidendo a queste regole, viene condotto dinanzi al tribunale e riconosciuto colpevole, sia punito con la morte e le sue ricchezze siano confiscate.
I processi riguardanti questi reati siano celebrati nei tribunali delle tribù, se le accuse reciproche non vengono risolte prima nei tribunali dei vicini e in quelli scelti dalle due parti in causa.
Se un tale si appropria di un animale come se fosse suo, o di un qualsiasi altro bene che non sia suo, chi lo detiene lo restituisca al venditore o a chi gliel'ha dato, e la consegna avvenga tramite delle garanzie e in modo legittimo, e in ogni caso secondo qualsiasi altra procedura che abbia validità, ed entro trenta giorni se è un cittadino o uno straniero residente nello stato, se invece la cessione riguarda uno straniero, entro cinque mesi, di cui il mese centrale è quello in cui il sole estivo si volge verso la stagione invernale.
Tutti gli scambi che riguardano la compravendita che uno fa con un altro avvengano in un luogo prestabilito per ciascuna merce, all'interno della piazza, e il danaro si dia e si riceva immediatamente.
In tal modo avvenga lo scambio, e in nessun altro luogo, e non si venda né si comperi a credito: se uno scambia una qualsiasi merce con un altro secondo una diversa modalità, o in altri luoghi, fidandosi della persona con cui fa lo scambio, faccia pure tale scambio, considerando che la legge non prevede azioni giudiziarie per ciò che non viene venduto secondo le modalità esposte ora.
Per quanto riguarda le contribuzioni gratuite, l'amico che vuole raccogliere danaro lo raccolga presso gli amici: ma se sorgono delle divergenze riguardanti la contribuzione, agisca nella consapevolezza che non vi sarà a tal proposito nessun genere di azioni giudiziarie.
Chi cede un oggetto e ricava un prezzo non inferiore a cinquanta dracme, è obbligato a rimanere in città per dieci giorni, e il compratore deve conoscere la casa del venditore, e questo per i soliti reclami che in tali casi possono avvenire e per le rescissioni previste dalle leggi.
La rescissione, secondo la legge, può avvenire o meno in questo modo.
Se un tale ha venduto uno schiavo malato di tisi, o di calcoli, o di stranguria, o del cosiddetto morbo sacro, o anche di qualche altra malattia ignota ai molti, malattia grave e incurabile che colpisce il corpo o la mente, e se l'acquirente è un medico o un maestro di ginnastica, non vi sia in tal caso rescissione, e non vi sia neppure se è stato venduto ad un altro acquirente, avvertendolo prima della verità.
Se un artigiano vende uno schiavo del genere ad un privato cittadino, l'acquirente lo restituisca entro sei mesi, a meno che si tratti di morbo sacro; per questa malattia è consentito fare la rescissione entro un anno.
Queste cause siano giudicate da alcuni medici scelti in comune dalle parti che li propongono: e chi viene riconosciuto colpevole paghi il doppio del prezzo per cui ha ceduto lo schiavo.
Se lo scambio è avvenuto fra due privati cittadini, vi sia la rescissione come si è detto adesso, e si discuta la causa, e il colpevole paghi semplicemente la somma corrispondente al prezzo.
Se un tale vende uno schiavo omicida, e le due parti sono consapevoli di questa cosa, non vi sia rescissione da tale vendita, ma se l'acquirente non conosce la cosa, vi sia allora rescissione non appena lo viene a sapere, e il giudizio in tal caso spetti ai cinque custodi delle leggi più giovani: se viene rilevato durante il processo che il venditore conosceva il fatto, purifichi la casa dell'acquirente secondo la legge degli interpreti, e paghi all'acquirente il triplo del prezzo dello schiavo.
Chi scambia danaro con danaro, o anche qualsiasi altro animale o ancora altra cosa che non sia animale, dia o riceva danaro, in ogni scambio, che non sia falsificato, conformandosi alla legge: accogliamo dunque, come per le altre leggi, il proemio riguardante questo genere di malvagità.
Conviene che ogni uomo consideri la falsità, la menzogna, e l'inganno come un unico genere, e a questo proposito conviene riferire quella diceria che solitamente si trova in bocca a molte persone, le quali, facendo un'affermazione sbagliata, sostengono che ogni volta che questo inganno avviene in un momento opportuno può ritenersi giusto, ma poi lasciano indefiniti ed indeterminati la circostanza opportuna, e il dove e il quando, e così con questo modo di dire sono assai danneggiati e danneggiano gli altri.
Al legislatore non è consentito di lasciare indeterminata questa materia, ma deve sempre mostrarne chiaramente i limiti più e meno ampi; e così ora questi limiti siano fissati.
Nessuno sia la causa, né con la parola né co n i fatti, della menzogna, dell'inganno, o della falsità, chiamando per giunta a testimone il genere degli dèi, se non vuole essere l'uomo più odiato dagli dèi: costui è quella persona che presta falsi giuramenti, e non si dà pensiero degli dèì, ed è in secondo luogo colui che mente dinanzi ai suoi superiori.
I migliori sono superiori ai peggiori, come ad esempio, per parlare in generale, i vecchi sono superiori ai giovani, i genitori ai figli, gli uomini alle donne e ai bambini, i governanti ai governati: sarebbe allora opportuno che chiunque rispettasse tutte queste persone nell'esercizio della loro carica, e soprattutto in quelle politiche, donde è partito il nostro presente discorso.
Ogni persona che sulla piazza falsifica la merce, e mente ed inganna, e chiamando a testimone gli dèi giura secondo le leggi e gli ammonimenti degli agoranomi, manca di rispetto verso gli uomini e si macchia di empietà nei confronti degli dèi.
è assolutamente buona quella consuetudine di non profanare facilmente il nome degli dèi, e di mantenere, come per lo più fa la maggior parte di noi, purezza e santità nei loro confronti.
E se uno non obbedisce, questa sia la legge: chi vende qualsiasi merce sulla piazza non dica mai due prezzi di ciò che vende, ma sempre uno solo, e se non ottiene quel prezzo, farà bene a riportare quella roba a casa per ripresentarla un'altra volta, e per quel giorno non alzi e non abbassi il prezzo, e si astenga pure dalla lode o dal giurare sulla buona qualità di ogni merce che vende; e se uno disobbedisce a queste norme, quel cittadino che abbia assistito al fatto e non abbia meno di trent'anni punisca impunemente colui che giura e lo batta, ma se trascura di farlo e disubbidisce sia accusato e biasimato di tradire le leggi.
Se uno vende merce falsificata e non è in grado di prestare fede ai nostri attuali discorsi, colui che si trova presente, ed è uno di quelli che se ne intendono, sempre che sia in grado di dimostrare che si tratta di un falso, lo dimostri dinanzi ai magistrati: lo schiavo e lo straniero residente portino via la merce falsificata, mentre se è un cittadino e non riesce a provare che si tratta di un falso, sia accusato di essere malvagio in quanto priva gli dèi di qualcosa, se invece riesce a dare dimostrazione, consacri quella merce agli dèi della piazza.
Colui che è risultato vendere una tale merce, oltre ad essere privato della merce falsificata, a seconda del prezzo della merce venduta, per ogni dracma sia battuto con un colpo di frusta dall'araldo che sulla piazza annuncerà i motivi per cui sta per essere battuto.
Gli agoranomi e i custodi delle leggi, informandosi presso gli esperti di ciascun settore sulle falsificazioni e sulle frodi dei commercianti, redigano delle norme scritte su ciò che il venditore può fare e su ciò che non può fare, e le scrivano su di una stele collocata dinanzi alla sede degli agoranomi: esse avranno valore di leggi e indicheranno chiaramente che cosa devono fare coloro che si servono del mercato.
Circa le mansioni degli astinomi si è già detto abbondantemente in precedenza.
Se però sembrerà loro opportuno aggiungere qualche cosa, ne diano comunicazione ai custodi delle leggi e scrivano ciò che sembra loro mancare: collocheranno quindi su di una stele posta dinanzi alla sede degli astinomi i primi regolamenti riguardanti la loro magistratura e i secondi stabiliti direttamente da loro.
Alle consuetudini della falsificazioni seguono subito dopo le pratiche riguardanti il commercio al minuto: riguardo a tutta questa parte prima daremo i nostri consigli ragionando al riguardo, e in secondo luogo stabiliremo la legge.
Tutto il commercio al minuto che si pratica nello stato non è per sua natura nato per danneggiare, ma proprio al contrario: come infatti non potrebbe essere un benefattore chiunque conferisce omogeneità e proporzione a qualsiasi genere di beni, il quale è appunto privo di ordine e di omogeneità? Dobbiamo dire che questo è realizzato anche dal potere della moneta, ed inoltre conviene affermare che il mercante è proprio designato per questo incarico.
E il salariato, l'albergatore, e altri mestieri ancora che possono essere più o meno dignitosi possiedono tutti questa facoltà, vale a dire quella di venire incontro alle esigenze di tutti e di conferire omogeneità alla merce.
Vediamo allora perché mai questo genere di mestieri non è ritenuto onorevole e dignitoso, e che cosa sia biasimato, in modo che si possa attuare con la legge un'opera di risanamento la quale, anche se non è totale, sia almeno parziale.
Non è un'impresa di poco conto, a quanto pare, e non richiede certamente scarso valore.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Amico Clinia, soltanto un piccolo gruppo di uomini, ristretto per natura e allevato secondo la migliore educazione, quando si presenta la necessità o il desiderio di qualche cosa, è in grado di trattenersi entro i limiti della moderazione, e quando avrebbe la possibilità di acquistare molti beni, sa contenersi e al molto preferisce ciò che ha in sé moderazione.
Ma la maggior parte degli uomini si comporta esattamente al contrario di costoro, ed esige senza moderazione ciò di cui ha bisogno, e se ha la possibilità di fare guadagni onesti, preferisce guadagnare in modo insaziabile: per questa ragione, allora, tutta la categoria dei commercianti al minuto, di quelli all'ingrosso, e degli albergatori è screditata ed è al centro dì critiche vergognose.
Perché se uno costringesse, anche se è una cosa che non è mai accaduta e non accadrà mai, costringesse dunque - e anche se è ridicolo a dirsi, tuttavia bisognerà dirlo ugualmente - gli uomini migliori che vi sono in ogni luogo a fare per un certo tempo gli albergatori, o i commercianti al minuto, o a svolgere qualche altra simile attività, e anche le donne fossero obbligate da una necessità fatale a prendere parte di tale costume di vita, potremmo allora riconoscere che ognuna di queste attività può essere cara e desiderabile, e se esse diventassero incorrotte secondo ragione, sarebbero tutte quante degne di onori come fossero una madre o una nutrice: ora invece l'albergatore, costruendo edifici per fini commerciali in luoghi solitari che occupano in ogni direzione tutta la lunghezza delle strade, e accogliendo in confortevoli alloggi quelli che si trovano in difficoltà o sono stati sospinti dalla violenza di terribili tempeste, offrendo inoltre una tranquilla serenità o un fresco sollievo alla calura insopportabile, dopo tutti questi servizi non offre però, come se accogliesse dei compagni, quelle amichevoli attenzioni che si riservano agli ospiti e che sono connesse con l'ospitalità, ma, come se avesse fatto prigionieri dei nemici, li libera dietro un altissimo, ingiusto, ed impuro riscatto.
Grazie dunque a tutti i casi di questo genere, tutti questi errori ed altri simili attirano giustamente le accuse calunniose verso questa attività che viene in aiuto a chi si trova in difficoltà.
Bisogna che il legislatore prepari sempre un rimedio per questi mali.
Un antico e saggio proverbio dice che è difficile combattere contro due cose e per giunta contrarie, come avviene nelle malattie e in molte altre cose: e anche adesso la battaglia che riguarda costoro e questi mali si combatte su due fronti opposti, povertà e ricchezza, poiché l'una corrompe l'animo degli uomini con la lussuria, e l'altra, con i suoi dolori, la trascina verso l'impudenza.
Quale rimedio a questa malattia si potrebbe trovare in uno stato assennato? In primo luogo bisognerà avere a che fare il meno possibile con la categoria dei commercianti, in secondo luogo bisogna affidare queste attività a quelle persone le quali, anche se si corrompono, non causerebbero un grande danno per lo stato, in terzo luogo bisogna trovare un modo per impedire proprio a quelli che prendono parte di queste occupazioni che le loro indoli prendano facilmente parte dell'impudenza e che diventino servili nell'animo.
Dopo quanto ora detto, ecco la nostra legge in materia, sperando che sia accompagnata dalla buona sorte: nessuno di tutti quei Magneti che il dio, risollevandone la sorte, stabilisce nel nuovo stato, quelli che fra le cinquemilaquaranta famiglie sono i proprietari di un lotto, nessuno dunque sia volontariamente o meno commerciante al minuto o all'ingrosso, e non presti alcun tipo di servizio a privati che non siano della sua stessa condizione, a meno che non si tratti del padre, della madre, di chi viene ancora prima nella discendenza, e di tutti quelli più vecchi che, in quanto liberi, liberamente serve.
Non è facile stabilire con esattezza per legge ciò che è proprio o non è proprio di un uomo libero, ma giudichino tale questione quelli che prendono parte della suprema virtù, in base all'odio o alla predilezione nei confronti di queste cose.
Se qualcuno all'interno di una qualche arte partecipa di un commercio al minuto che è servile, chiunque vuole, lo accusi dinanzi a quelli che sono giudicati primi per virtù di disonorare la sua stirpe, e se risulta contaminare con una pratica indegna il focolare dei suoi padri, sia incarcerato per un anno e tenuto lontano da tale pratica, e se recidivo, sia condannato ad altri due anni di carcere, e ogni volta che viene preso non verrà scarcerato se non ha raddoppiato la pena precedente.
Ed ecco la seconda legge: chi vuole fare il commerciante al minuto dev'essere straniero residente o straniero di passaggio.
In terzo luogo, terza legge: perché tali persone che vivono con noi nello stato siano le migliori possibili e in ogni caso le meno malvagie, i custodi delle leggi devono pensare dì essere non solo custodi di quelli che è facile sorvegliare perché non agiscano contro la legge e non diventino malvagi, e alludo a quanti per stirpe ed educazione sono stati ben allevati, ma devono soprattutto sorvegliare chi non è tale e si dedica ad occupazioni che hanno un peso rilevante nello spingerli a diventare malvagi.
Poiché il commercio al minuto si presenta sotto varie forme e contiene in sé molti generi di occupazioni, bisognerà mantenere le occupazioni che sembrano essere assai necessarie allo stato, e a tal proposito i custodi delle leggi dovranno riunirsi insieme agli esperti di ogni settore commerciale, come abbiamo precedentemente stabilito per il problema della falsificazione, questione affine a questa, e una volta riuniti dovranno vedere, in relazione alle entrate e alle spese, qual è mai il guadagno conveniente che deriva al commerciante, e stabiliranno per iscritto le spese e le entrate che risultano, e ne affideranno la sorveglianza agli agoranomi, agli astinomi, e agli agronomi.
In questo modo si può dire che il commercio al minuto potrà giovare ai singoli, e i danni saranno assai ridotti per chi nello stato se ne serve.
Se un tale, dopo aver preso certi accordi, non realizza ciò che secondo gli accordi doveva fare, a meno che non sia stato impedito da leggi o decreti, o sia stato costretto da un'ingiusta violenza a stipulare il contratto, o, ancora, sia stato ostacolato da una sorte imprevista contro la sua volontà, per tutti gli altri casi vi siano azioni giudiziarie per inadempienza di contratto, presso i tribunali delle tribù, se prima non si sia riusciti a risolvere la vertenza per arbitrato o nei tribunali dei vicini.
La categoria di quegli artigiani che con le loro arti ci procurano i mezzi per vivere è sacra ad Efesto e ad Atena, mentre quelli che con altre arti che sono adatte a difendere salvaguardano le opere degli artigiani sono sacri ad Ares e ad Atena: giustamente la loro classe è consacrata a questi dèi.
Tutte queste persone vivono al servizio della regione e del popolo, gli uni avendo una funzione di primaria importanza nelle gare della guerra, gli altri realizzando strumenti e opere in genere per la guerra: ad essi, dunque, non conviene mentire a tal proposito, se nutrono rispetto nei confronti degli dèi da cui discendono.
Se un artigiano a causa della sua malvagità non realizza l'opera entro i termini di tempo stabiliti, senza alcun rispetto per il dio che gli ha dato i mezzi per guadagnarsi la vita, pensando, grazie alla sua cecità mentale, che il dio userà indulgenza verso di lui per la sua affinità, in primo luogo subisca la punizione divina, in secondo luogo si stabilisca la seguente legge che si conforma a lui: sia condannato a pagare il prezzo delle opere per le quali ha ingannato il committente, e un'altra volta dal principio, nel tempo precedentemente stabilito, realizzi gratuitamente l'opera.
A chi si assume l'onere di un lavoro la legge fornisce gli stessi consigli che aveva già fornito al commerciante, e cioè di non cercare di fissare un prezzo più alto del valore effettivo, ma di seguire assai semplicemente il suo valore: la stessa cosa ora ordina anche a chi si assume l'onere di un lavoro, e l'artigiano conosce il valore del suo lavoro.
Negli stati in cui vi siano uomini liberi lo stesso artigiano non può ingannare i privati cittadini con la sua arte, che per sua natura è limpida e non conosce menzogna, e dunque per tali questioni vi siano azioni giudiziarie da parte di chi subisce ingiustizie verso chi le commette.
Se a sua volta chi ha commissionato il lavoro all'artigiano non lo paga come dovrebbe, secondo gli accordi stabiliti per legge, e manca di rispetto nei confronti di Zeus protettore dello stato e di Atena che prende parte della costituzione, per desiderio di un piccolo guadagno, e così diventa responsabile della dissoluzione di grandi comunità, la legge venga in aiuto alla compagine dello stato insieme agli dèi: chi ha ricevuto il lavoro in anticipo, ma non corrisponde il compenso pattuito nei tempi fissati dal contratto, sia condannato a pagare il doppio; e se trascorre un anno, pur essendo proibito trarre interessi dalle ricchezze date a prestito, costui sia condannato a sborsare ogni mese un obolo di interesse per ogni dracma.
Le azioni giudiziarie per tali questioni si risolvano nei tribunali delle tribù.
Se a questo punto si vuole fare un'appendice, poiché abbiamo citato gli artigiani, è giusto parlare di quegli artigiani che in guerra realizzano la salvezza, vale a dire gli strateghi, e quanti sono esperti nell'arte di tali cose: quel tale che a costoro, come a quelli di prima, quasi fossero altri artigiani, corrisponde un giusto compenso, ovvero gli onori che costituiscono il compenso per gli uomini impegnati in guerra, nel caso in cui uno di loro, assumendosi il compito di realizzare un'impresa per lo stato, sia di sua spontanea volontà, sia in base ad un ordine ricevuto, la realizza onorevolmente, la legge non si stanchi di elogiarlo; ma se, pur ricevendo anticipatamente una gloriosa impresa di guerra, non lo paga, sia biasimato.
Sia così stabilita questa nostra legge che si combina con l'elogio per costoro, la quale fornisce consigli, senza essere costrittiva, alla maggior parte dei cittadini, ed esorta a rendere onori a quegli uomini valorosi che si sono impegnati nella salvezza dello stato intero, tanto con il coraggio quanto con espedienti guerreschi, ma al secondo posto: il premio più importante sia invece assegnato a quelli che per primi hanno saputo rendere particolare onore alle leggi scritte da parte di valenti legislatori.
Abbiamo regolamentato quasi tutti i contratti più importanti che gli uomini stringono fra di loro, tranne quelli riguardanti gli orfani, e la cura degli orfani da parte dei tutori.
Ed è proprio questa la materia che è necessario regolamentare dopo quel che ora si è detto.
I princìpi di tutta questa materia sono da un lato costituiti dai desideri di coloro che sono sul punto di morte di redigere il testamento, e dall'altro dai destini che spesso impediscono di redigere il testamento: ho detto “necessario”, Clinia, considerando quel che vi è di molesto e di difficile in questa materia.
Non è possibile lasciare priva di ordine questa materia: ciascuno infatti stabilirebbe molte disposizioni testamentarie, ed esse non sarebbero soltanto discordanti fra di loro e contrarie alle leggi e ai costumi dei viventi, ma anche opposte ai propri costumi precedenti alla stesura del testamento, se venisse semplicemente concessa facoltà di rendere valido il testamento che uno redige prima di morte, quali che siano le condizioni in cui si trova.
La maggior parte di noi si trova in un certo senso in una condizione di stoltezza e di sfinimento morale, quando ormai crede vicina la morte.
CLINIA: Come puoi dire questo, straniero?
ATENIESE: è un essere difficile, Clinia, l'uomo che si accinge a morire, e la sua parola diventa temibile e molesta per i legislatori.
CLINIA: In che senso?
ATENIESE: Sforzandosi di essere padrone incontrastato di tutti i suoi beni, egli, adirandosi, è solito dire …
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Dice: «è terribile, o dèi, se non mi è possibile dare a chi voglio e a chi no le mie cose, dando ad uno di più e ad un altro di meno, in proporzione alla loro malvagità o alla loro bontà manifestata nei miei confronti, dandone sufficiente prova nelle malattie, nella vecchiaia, e in tutte le altre circostanze del genere».
CLINIA: E dunque, straniero, non ti sembra che dicano bene?
ATENIESE: Mi sembra, Clinia, che gli antichi legislatori siano stati troppo morbidi, e che per legiferare abbiano rivolto le loro attenzioni e abbiano considerato solo una piccola parte delle faccende umane.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Per paura di quel discorso pronunciato dal moribondo, carissimo, essi stabilirono la legge che dava facoltà di disporre delle proprie cose nel modo più semplice, così come uno vuole.
Ma tu ed io daremo una risposta più conveniente a chi nel tuo stato sta per morire.
Amici, diremo, uomini che vivete senz'altro per un giorno soltanto, è difficile per voi in questo momento conoscere i beni che vi appartengono, ed inoltre conoscere voi stessi, come recita anche l'iscrizione della Pizia.
Io che sono un legislatore stabilisco che né voi appartenete a voi stessi, né questo patrimonio vi appartiene, ma appartiene a tutta la vostra famiglia che vi ha preceduti e che verrà dopo di voi, e così tutta la vostra stirpe e il patrimonio appartiene a maggior ragione allo stato: stando le cose in questi termini, se qualcuno cerca con adulazioni di conquistarvi mentre vi trovate in una situazione di debolezza a causa di malattie o della vecchiaia, convincendovi a redigere testamenti e ad andare contro quello che è il supremo bene, non posso darvi spontaneamente il mio assenso, ma dovrò legiferare in vista di tutto ciò che è meglio per lo stato e la stirpe, assegnando giustamente una parte minore agli interessi del singolo.
Quanto a voi, con animo lieto e ben disposto nei nostri confronti procedete verso quella mèta in direzione della quale state procedendo, così come prevede la natura umana: noi ci prenderemo cura di tutte le altre vostre cose, dandoci assolutamente pensiero di tutte quante, nei limiti del possibile, e non di alcune sì, e di altre no.
Queste parole dunque valgano come avvertimento e come proemio per i viventi, Clinia, e per i morti, e questa invece sia la legge: chi scrive un testamento disponendo dei suoi beni, se è padre con dei figli, per prima cosa scriva quale dei suoi figli ritiene che sia degno di essere erede, e, riguardo agli altri figli, scriva quale vuole dare in adozione ad un altro che sia disposto ad accoglierlo.
Se gli rimane uno dei figli che non è stato adottato non avendo l'eredità, e per il quale, secondo la legge, vi sono buone probabilità che venga inviato nella colonia, sia concesso al padre di lasciargli tutti gli altri beni che vuole, fatta eccezione per il lotto paterno e tutti gli utensili che servono ad esso; e se i figli sono di più di uno, il padre divida i beni eccedenti il lotto ereditario dividendolo in parti come più gli piace.
Al figlio che possiede una casa non assegni alcun bene, e allo stesso modo non assegni nulla alla figlia alla quale è già stato promesso il futuro marito, ma in caso contrario assegni pure dei beni: se uno dei figli o delle figlie risulti possedere un lotto ereditario, dopo che è stato redatto il testamento, lasci la sua parte all'erede designato dal testatore.
Se il testatore non lascia figli maschi, ma femmine, scriva nel testamento il nome del marito di una delle figlie, come meglio preferisce, e lo lasci come figlio: se a qualcuno muore il figlio ancora bambino, prima che abbia potuto diventare uomo, sia esso figlio suo o adottato, chi redige il testamento scriva anche in tale circostanza quale ragazzo deve diventare per lui come un secondo figlio con miglior fortuna.
Se qualcuno non ha assolutamente figli e redige un testamento, prenda la decima parte dei suoi beni in eccedenza e la doni, se ha intenzione di donarla a qualcuno: ma il resto dovrà completamente assegnarlo al figlio adottivo, e senza attirarsi rimproveri e con l'aiuto della legge renderà il figlio benevolo.
Se uno lascia figli che necessitano di tutori, e muore dopo aver redatto il testamento e aver scritto quali e quanti tutori vuole per i suoi figli, tutori che accettino volentieri e siano d'accordo di prendersi dei piccoli, la scelta dei tutori sia valida in base a queste disposizioni scritte: se uno muore senza lasciare affatto testamento o tralasciando di nominare i tutori, abbiano l'autorità di tutori i parenti più stretti per parte paterna e materna, e cioè due per parte paterna e due per parte materna, ed uno scelto fra gli amici del morto, e i custodi delle leggi li nomineranno tutori per quegli orfani che ne hanno bisogno.
I quindici più anziani custodi delle leggi si prendano cura di tutto ciò che riguarda la tutela e gli orfani, i quali si divideranno sempre secondo l'anzianità per gruppi di tre, vale a dire tre un anno, e altri tre un altro anno, finché non si completi il ciclo dei cinque turni: e quest'ordine non venga trascurato, nel limite del possibile.
Se uno muore senza aver fatto assolutamente testamento, lasciando dei figli che hanno bisogno di tutela, la necessità dei suoi figli richieda l'intervento di queste stesse leggi: se uno muore improvvisamente lasciando delle figlie, usi comprensione nei confronti del legislatore se quello sposa le figlie tenendo conto soltanto di due dei tre doveri del padre, e cioè dell'affinità della parentela e della salvaguardia del lotto; quanto alla terza cosa che un padre esaminerebbe, considerando fra tutti i cittadini quello che per costumi di vita ed indole sia più adatto a diventare suo figlio nonché lo sposo di sua figlia, bene, questa cosa la lasci perdere, per l'impossibilità di condurre questo esame.
Ed ecco la legge che per quanto è possibile si può stabilire riguardo a questa materia: se un cittadino muore senza fare testamento e lascia delle figlie, morto costui, il fratello del morto, nato dallo stesso padre o dalla stessa madre e privo dei lotti, sposi la figlia e abbia il lotto del morto; se non c'è un fratello, la stessa regola valga per il figlio del fratello, sempre che fra di loro vi sia la stessa proporzione d'età.
Se non vi è neppure una di queste persone, ma c'è il figlio di una sorella, valga ancora lo stesso discorso, e poi quarto sarà lo zio paterno del morto, quinto il figlio di questi, sesto il figlio della zia paterna.
In questo modo allora si proceda sempre attraverso l'affinità della parentela all'interno della stirpe, se qualcuno lascia delle figlie femmine, partendo dai fratelli e arrivando ai nipoti, e dando la precedenza ai maschi rispetto alle femmine all'interno della stirpe.
Il giudice giudichi se vi è o no proporzione d'età fra gli sposi, esaminando i maschi nudi, e le femmine nude sino all'ombelico: se nella famiglia vi è mancanza di parenti sino ai nipoti del fratello del morto, e così sino ai nipoti dei figli del nonno, erede del morto e marito della figlia divenga quel cittadino che appartiene ad altra stirpe e che la figlia sceglie insieme ai tutori, con il consenso di entrambi.
Ma in uno stato vi può essere in molti casi una mancanza ancora più accentuata di tali persone: se dunque una giovane, avendo difficoltà a trovare marito fra quelli del luogo, vede un tale che viene inviato in colonia, e ha intenzione di farlo diventare erede dei beni paterni, se appartiene alla sua stirpe, venga ad impossessarsi del lotto come prevede l'ordinamento della legge; e se non è della stessa stirpe e se nessuno di quelli che si trova nello stato è della sua stirpe, sia autorizzato a sposarla, accettando la scelta dei tutori e della figlia del morto, e, una volta rientrato in patria, a ricevere il lotto del padre della sposa, morto senza aver fatto testamento.
Per colui che muore senza fare testamento, e non ha né figli maschi né figlie femmine, valga per il resto la legge di prima, e una femmina e un maschio della stessa stirpe, in qualità di conviventi, vadano ad abitare la casa rimasta deserta, e il lotto diventi di loro proprietà, in primo luogo della sorella del morto, e poi per seconda la figlia del fratello, terza la figlia della sorella, quarta la sorella del padre, quinta la figlia del fratello del padre, sesta la figlia della sorella del padre: queste andranno ad abitare insieme a quelli sulla base dell'affinità della parentela e del diritto, come abbiamo legiferato in precedenza.
Non dobbiamo ignorare la gravità di leggi come queste, quando con una certa asprezza impongono al parente del morto di sposare una sua parente, e sembra che non tengano conto di tutta una serie di ostacoli che sorgono fra gli uomini dinanzi ad ordini come questi, per cui non vogliono affatto obbedire, ma, anzi, sopporterebbero piuttosto qualsiasi cosa, quando, ad esempio, fra quelli che secondo gli ordini prestabiliti bisogna prendere per marito o per moglie vi sono alcuni che presentano malattie o mutilazioni del corpo e della mente.
Forse alcuni penseranno che il legislatore non si dia pensiero di tutto questo, ma non è giusto pensare così.
Dunque un preludio accomuni tanto il legislatore quanto chi è oggetto delle leggi, e si chieda a coloro che sono oggetto di queste prescrizioni di avere indulgenza nei confronti del legislatore, perché, dovendo badare ai pubblici affari, non può contemporaneamente amministrare anche le disgrazie che interessano i singoli, e così si chieda anche di avere indulgenza nei confronti di quelli che ricevono tali ordini, dato che talvolta non possono naturalmente eseguire gli ordini del legislatore il quale, quando impartisce ordini.
non può essere a conoscenza di ogni singolo caso.
CLINIA: Qual è allora il comportamento più adatto da tenere in questi casi, straniero?
ATENIESE: Bisogna scegliere degli arbitri, Clinia, per tali leggi e per chi è oggetto di queste leggi.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Può talvolta avvenire che il nipote del morto, figlio di un padre ricco, non voglia sposare volentieri la figlia dello zio, e, vivendo nei lussi, aspiri a nozze migliori: e può anche capitare che, avendo il legislatore prescritto la più grande disgrazia, costringendo ad esempio a sposare dei parenti pazzi o infliggendo altre terribili disgrazie nei corpi o nelle anime che rendono invivibile la vita di chi le possiede, uno sia costretto a disubbidire alla legge.
E ora il discorso intorno a tali questioni sia costituito dalla seguente legge: se vi è qualcuno che protesta contro le leggi che sono state stabilite e che riguardano il testamento, e qualsiasi altra norma, e le nozze in particolare, sostenendo che se lo stesso legislatore, se fosse vivo e presente non potrebbe costringere a comportarsi così, ovvero a sposare una donna o a farsi sposare, coloro che ora sono costretti a fare l'una e l'altra cosa, e se uno dei familiari o dei tutori dirà invece di fare così, conviene affermare che il legislatore ha lasciato come arbitri e padri per gli orfani e le orfane i quindici custodi delle leggi; a questi dunque si rivolgano quelli che sono in lite fra di loro per tali questioni, ed essi giudichino e la loro sentenza avrà valore definitivo.
Se a qualcuno sembrerà che si affidi troppo potere ai custodi delle leggi, si conducano le due parti in causa dinanzi al tribunale dei giudici scelti per merito e così la vertenza sia giudicata in via definitiva: chi perde la causa sia biasimato e criticato dal legislatore, e per un uomo che possiede intelligenza tale danno è ben più grave di un'ingente somma pecuniaria.
Ora per tutti gli orfani vi sarà quasi una seconda nascita.
Dell'allevamento e dell'educazione dopo la loro prima nascita si è già detto.
Dopo la seconda, che si verifica quando si rimane senza padri, bisogna escogitare un modo perché la sorte di quelli che stanno diventando orfani rappresenti una disgrazia che sia il meno pietosa possibile.
Innanzitutto, diciamo, legiferiamo in modo che i custodi delle leggi siano padri in luogo dei veri genitori, e naturalmente non peggiori di quelli, e inoltre ordiniamo che essi ogni anno si prendano cura di quelli come se si trattasse di familiari, premettendo però un proemio per costoro, come per i tutori, riguardante l'allevamento degli orfani.
Mi sembra che con una certa opportunità abbiamo sostenuto nei discorsi precedenti che le anime dei morti hanno potere, quando sono morte, di occuparsi delle cose umane: questo è vero, ma i discorsi che comprendono questa materia sono lunghi, ed è necessario prestare fede ad altre tradizioni che si raccontano a tal proposito, che sono numerose ed assai antiche, ed inoltre si deve prestare fede a quelli che per legge stabiliscono che le cose stanno in questi termini, sempre che non appaiano del tutto insensati.
Se dunque tali cose stanno secondo natura in quei termini, in primo luogo si abbia timore degli dèi celesti, che sono attenti e sensibili alla solitudine degli orfani; in secondo luogo si abbia timore delle anime dei morti, alle quali per natura spetta interessarsi in modo particolare dei propri figli, e sono benevoli con quelli che li onorano ed ostili verso quelli che li disonorano; ed inoltre si abbia timore delle anime dei viventi, quando raggiungono la vecchiaia e sono assai onorate, dovunque vi sia uno stato che vive felice nel rispetto delle leggi e in cui i figli dei figli possano teneramente amarle e vivere così serenamente: intorno a tali questioni questi vecchi hanno udito e vista acuta, e sono benevoli verso quelli che in queste cose si dimostrano giusti, e disapprovano nel modo più assoluto quelli che invece maltrattano gli orfani abbandonati, ritenendo che gli orfani sono il tesoro più grande e più sacro.
Bisogna che tutori e magistrati, anche quelli che hanno scarse capacità, rivolgano verso tutti quelli la loro attenzione, e si comportino con cautela nei confronti dell'allevamento e dell'educazione degli orfani, beneficandoli, per quanto è possibile, in ogni modo, come se apportassero un beneficio a se stessi e ai loro familiari.
Chi obbedirà a questo discorso che viene prima della legge e non maltratterà affatto gli orfani non conoscerà evidentemente l'ira del legislatore che si scatena a tal proposito, ma chi disubbidirà e commetterà ingiustizia verso chi è rimasto senza padre o senza madre paghi l'intero danno arrecato in misura doppia che se avesse maltrattato chi ha ancora entrambi i genitori.
Quanto al resto della legislazione che riguarda i doveri dei tutori verso gli orfani, e quelli dei magistrati nella sorveglianza dei tutori, se non disponessero di un modello di educazione per i figli dei liberi, allevando essi stessi i propri figli ed amministrando i loro patrimoni, e se anche avessero leggi esposte convenientemente intorno a tali questioni, bisognerebbe stabilire leggi particolari ed assai diverse, che varierebbero a seconda delle diverse pratiche che riguardano la vita degli orfani e quella di chi invece non è orfano.
Ora, presso di noi, considerando tutti questi aspetti, la condizione dell'orfano non è poi così diversa da chi si trova sotto l'influenza dell'autorità paterna, anche se onori, disonori, e attenzioni solitamente non si equivalgono affatto.
Perciò, proprio su questo punto della legislazione riguardante gli orfani, la legge si è presa particolare cura nell'ammonire e nel minacciare.
Ed ecco una minaccia assai opportuna: chi abbia sotto la propria tutela una bambina o un bambino, e chi, fra i custodi delle leggi, abbia il compito di vigilare sul tutore, non dia meno amore di quel che dà ai suoi figli a chi prende parte della sfortunata condizione di orfano, e non si prenda meno cura dei beni dell'orfano che alleva di quanto farebbe con le proprie ricchezze, ma anzi il suo impegno sia maggiore che se si trattasse del proprio patrimonio.
Grazie a questa sola legge sugli orfani, ognuno svolga il proprio compito di tutore: se uno in tali circostanze si comporta diversamente, andando contro questa legge, il magistrato punisca il tutore, e se invece si tratta del magistrato, il tutore trascini il magistrato dinanzi al tribunale dei giudici scelti per merito, e lo si condanni a pagare il doppio della multa stabilita dal tribunale.
Se ai parenti o a qualche altro cittadino sembra che il tutore trascuri o faccia del male al bambino che gli è stato affidato, lo si trascini dinanzi allo stesso tribunale: paghi allora il quadruplo del danno di cui è stato riconosciuto colpevole, di cui metà andrà al bambino e metà a chi ha intentato la causa.
Quando un orfano giunge alla pubertà, se ritiene di essere stato tutelato male, sino a cinque anni dallo scadere della tutela abbia facoltà di intentare un processo per tutela: se uno dei tutori viene riconosciuto colpevole, decida il tribunale la pena che deve subire e la multa che deve pagare; e se si tratta dì un magistrato che si ritiene che abbia fatto del male all'orfano per negligenza, il tribunale decida quale multa deve pagare al ragazzo, e se è colpevole di ingiustizia, oltre alla multa, sia allontanato dalla magistratura dei custodi delle leggi, e la comunità dello stato elegga un altro custode delle leggi al suo posto per la regione e per lo stato.
Vi sono talvolta dei contrasti fra i padri e i propri figli, e fra i figli e i propri genitori che sono più gravi di quel che dovrebbero essere: nel corso di questi contrasti i padri riterrebbero che il legislatore dovrebbe stabilire delle leggi secondo cui si concede loro la possibilità, qualora lo desiderino, di ripudiare il figlio davanti a tutti per bocca dell'araldo, potendo così affermare ch'egli non è più figlio suo per legge, mentre i figli riterrebbero di dover avere facoltà di sporgere denuncia scritta per demenza per i loro padri che a causa di malattie o della vecchiaia siano in cattive condizioni.
Queste cose, in realtà, sono solite scaturire da uomini che hanno un'indole assai malvagia: se la cattiveria è dimezzata, se ad esempio il padre non è cattivo, ma soltanto il figlio, o viceversa, non avvengono eventi così sciagurati che scaturiscono da un'ostilità tanto grave.
Mentre in un'altra costituzione il figlio che viene pubblicamente ripudiato non perde necessariamente il diritto di cittadinanza, in questa, alla quale apparteranno queste leggi, vi è la necessità che chi è senza padre emigri in un'altra regione - non si può aggiungere neppure una unità alle cinquemilaquaranta dimore -; ed è per questo che chi subirà secondo giustizia questa condanna deve essere ripudiato non da un solo padre, ma da tutta la stirpe.
In tal caso ci si deve comportare secondo la seguente legge: chi è invaso da uno stato d'animo, nient'affatto felice, che lo spinga ad avere il desiderio di allontanare, giustamente o meno, dalla sua famiglia quel figlio che ha generato e ha allevato, non potrà fare questo così, alla buona, direttamente, ma prima dovrà riunire i suoi parenti sino ai cugini, e così i parenti del figlio per parte materna, e davanti a costoro lo accusi, mostrando le ragioni per le quali dovrebbe meritare di essere scacciato, con decisione unanime di tutti, dalla sua stirpe, e dia anche al figlio la possibilità di fare discorsi equivalenti e di dichiarare le ragioni per cui non è degno di subire alcuna di queste cose.
E se il padre risulta convincente e ottiene più della metà dei voti di tutti i suoi parenti, escludendo però dal voto il padre stesso, la madre, e il figlio imputato, e partecipando invece alla votazione tutti gli altri, uomini e donne, che abbiano raggiunto l'età adatta, così e a queste condizioni sia concesso al padre di bandire il figlio, ma per nulla al mondo se la cosa avviene in altro modo.
Se un cittadino vuole adottare come figlio colui che è stato ripudiato, nessuna legge glielo impedisca - i caratteri dei giovani subiscono infatti per natura molti mutamenti nel corso della loro vita -, ma se nessuno vuole adottare il figlio ripudiato, e questo bambino abbia ormai dieci anni, allora coloro che si occupano dei figli non primogeniti per inviarli in colonia si prendano cura anche di costoro, perché anch'essi possano prendere convenientemente parte della colonia.
Se una malattia, o la vecchiaia, o la durezza di carattere, o anche tutte queste cose insieme, rendono un tale più dissennato di quanto lo sia la maggior parte delle persone, e ciò rimane ignoto agli altri, ma non a quelli che vivono con lui, e se, essendo padrone assoluto del suo patrimonio, lo manda in rovina, e il figlio d'altra parte non sa come fare ed esita a sporgere denuncia per demenza, vi sia una legge che gli consigli, per prima cosa, di recarsi dai più anziani custodi delle leggi e di esporre la disgrazia che ha colpito il padre; e quindi, esaminata dettagliatamente la questione, essi decidano se si deve o meno sporgere denuncia, e se gli consigliano di sporgerla, siano testimoni ed avvocati insieme a colui che sporge denuncia.
Se il padre viene riconosciuto demente, sia spogliato per il tempo che gli rimane della facoltà di disporre anche della parte più piccola dei suoi beni, e viva nella sua casa il resto della sua vita come un bambino.
Se marito e moglie non vanno assolutamente d'accordo per una sfortunata combinazione di caratteri, dieci uomini scelti fra i custodi delle leggi, di età media, devono di continuo occuparsi di tali questioni, e allo stesso modo dieci donne fra quelle che si occupano del matrimonio: se riescono a riconciliarli, abbia valore questa riconciliazione, ma se i loro animi sono più irrequieti del necessario, cerchino, nei limiti del possibile, di trovare quelle persone che si adattino all'uno e all'altra.
è naturale che individui simili non hanno caratteri dolci, ed è per questo che si deve cercare di accordare a queste persone caratteri e costumi di vita, che, in base ad una certa affinità, siano più seri e più tranquilli.
Se marito e moglie sono in contrasto fra di loro perché non hanno figli o ne hanno pochi, si faccia la nuova unione pensando anche ai figli: quelli che invece hanno un numero sufficiente di figli devono separarsi e costituire una nuova unione con lo scopo di invecchiare insieme e prendersi vicendevole cura.
Se la moglie muore e lascia figli maschi e femmine, la legge che stabiliamo consiglierà, senza peraltro obbligare, di allevare i figli senza assumere una matrigna: se invece non ci sono figli, il marito dovrà necessariamente risposarsi, finché generi figli in numero sufficiente per la casa e lo stato.
Se l'uomo muore lasciando figli in numero sufficiente, la madre dei suoi figli che rimane li allevi: se pare troppo giovane per vivere in salute senza un uomo, i parenti, di comune accordo con le donne che si occupano dei matrimoni, si consultino e agiscano secondo quel che in tal caso sembra più opportuno fare a loro e a quelle donne.
Se non vi sono figli, anche per i figli la moglie si risposi, e un maschio e una femmina devono costituire un numero sufficiente ed esatto previsto dalla legge.
Quando si è d'accordo che il figlio, una volta generato, sia di coloro che lo hanno concepito, e bisogna decidere chi deve seguire, e se dunque una schiava si è unita con uno schiavo, un uomo libero, o un liberto, il figlio generato sia assolutamente del padrone della schiava; e se una donna libera si unisce con uno schiavo, il figlio generato appartenga al padrone dello schiavo; se poi il padrone ha un figlio dalla propria schiava o la padrona dal proprio schiavo, e la cosa è risaputa, le donne invieranno il figlio della donna con il padre in un'altra regione, e i custodi delle leggi il figlio dell'uomo con la madre.
Né un dio, né un uomo che abbia un po' di intelligenza potrà mai consigliare qualcuno di trascurare i genitori: conviene considerare che un proemio come quello che segue sul rispetto degli dèi si potrebbe adattare perfettamente agli onori e ai disonori che si devono tributare ai genitori.
Le antiche leggi sugli dèi che sono state stabilite presso tutti i popoli si dividono in due parti.
Fra gli dèi, infatti, alcuni li onoriamo vedendoli con chiarezza, di altri, invece, veneriamo le immagini, fabbricandone le statue, e li veneriamo anche se sono senza vita, ritenendo che gli dèi viventi, proprio per questa ragione nutrono molta benevolenza e gratitudine nei nostri confronti.
Chi ha nella sua casa, come un tesoro, un padre e una madre, e padri e madri di costoro, consumati ormai dalla vecchiaia, non pensi di avere alcun'altra immagine che abbia più valore di quella statua domestica che ha in casa, se egli che la possiede è capace di venerarla convenientemente, nel modo più giusto.
CLINIA: E ci puoi spiegare qual è il modo giusto?
ATENIESE: Lo dirò: infatti, amici, tali cose meritano di essere ascoltate.
CLINIA: Parla!
ATENIESE: Edipo, come noi raccontiamo, disprezzato dai figli, lanciò contro di loro delle imprecazioni, che, come ognuno dice, vennero mandate a compimento ed ascoltate dagli dèi; e lo stesso si dice di Amintore che pieno di ira maledì suo figlio Fenicio, e di Teseo con Ippolito, e di infiniti altri contro infiniti altri, e da questi fatti risulta chiaro che gli dèi ascoltano i voti che i genitori fanno contro i figli: funesto è infatti il genitore che si scaglia contro il figlio come nessun altro contro altri, ed è cosa giustissima. Non si pensi allora che un dio per natura ascolta le preghiere di un padre e di una madre, quando sono offesi e disonorati, in modo differente da quel genitore che, essendo invece onorato e ricevendo molte gioie, per queste ragioni invoca insistentemente gli dèi per chiedere loro ogni sorta di beni per i figli: non dovremo allora ritenere che il dio ascolterà ugualmente anche simili preghiere, assegnandoci ciò che abbiamo richiesto? In caso contrario non si comporterebbero giustamente nella distribuzione dei beni, ma questo, noi diciamo, non si adatta affatto agli dèi.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dunque noi dobbiamo pensare, come abbiamo detto poco fa, che non possediamo alcuna statua più onorata per gli dèi di un padre e di un avo estenuati dalla vecchiaia, e di madri che sono nella stessa condizione, e se qualcuno li onora, il dio si rallegra, mentre, in caso contrario, non li ascolterebbe. Sono per noi straordinarie le statue dei progenitori, assolutamente diverse da quelle inanimate: quando infatti quelle statue viventi sono da noi venerate, esse ogni volta si uniscono nella preghiera, quando invece sono disonorate, accade il contrario; mentre le altre non fanno né l'una, né l'altra cosa, sicché, se uno riserva un trattamento corretto nei confronti del padre, dell'avo, e di tutti i parenti, di conseguenza ha a disposizione le statue più potenti di tutte per domandare un destino caro al dio.
CLINIA: Benissimo.
ATENIESE: Chiunque abbia un po' di intelligenza teme e onora le preghiere dei genitori, sapendo che per molti e spesso sono state esaudite: poiché allora le cose sono ordinate in questo modo, per i buoni sono un vero e proprio tesoro i genitori anziani che vivono sino al termine della vita, e se muoiono giovani, suscitano un grande rimpianto, e nei malvagi tremende paure.
Ognuno veneri i propri genitori con tutti gli onori previsti dalla legge, prestando fede alle parole che ora abbiamo detto.
Se però lo invade una voce sorda a tali proemi, ecco la legge che è stata giustamente stabilita per questi casi: se un tale in questo stato trascura i genitori più di quel che dovrebbe, e non presta attenzione e non soddisfa tutte le loro richieste più di quanto esaudisce i desideri dei figli, di tutti i discendenti, e di se stesso, chi subisce un tale torto, lo denunci - sia che lo faccia l'interessato in persona, sia che invii qualcun altro - ai tre più anziani custodi delle leggi, e alle tre donne che si occupano dei matrimoni.
Costoro si occupino della faccenda, punendo quelli che commettono ingiustizia con le frustate e il carcere, se sono ancora giovani, vale a dire sino ai trent'anni, se sono uomini, mentre le donne siano punite con le stesse punizioni, anche se hanno dieci anni di più.
Se queste persone, oltrepassati questi limiti di età, non rinunciano tuttavia a trascurare i genitori, e alcuni faranno loro del male, siano condotti in un tribunale composto di cento cittadini più uno, che siano i più anziani di tutti: se uno viene riconosciuto colpevole, il tribunale decida quale multa deve pagare e quale pena deve subire, senza porre limitazioni alle pene o alle multe che un uomo deve pagare.
Se uno dei genitori che subisce maltrattamenti non può sporgere denuncia, quel libero cittadino che viene informato del fatto lo denunci ai magistrati, in caso contrario sia ritenuto malvagio, e chi vuole lo accusi di danneggiamento.
Se il delatore è uno schiavo, ottenga la libertà, e se è lo schiavo di coloro che hanno arrecato o subito il maltrattamento, sia liberato dai magistrati stessi, mentre se è lo schiavo di un altro cittadino, la comunità versi la somma corrispondente al suo prezzo al padrone.
I magistrati devono poi sorvegliare che nessuno faccia del male a quel tale per vendicarsi della denuncia.
Per quanto riguarda i danni causati dal veleno, si è già detto a proposito di quelli che portano alla morte, mentre gli altri, che sono fonte di danni, e sono procurati mediante bevande, cibi, unguenti, volontariamente o con premeditazione, non sono ancora stati trattati.
Bisogna dunque distinguere due specie di veleni che sono in uso presso il genere umano.
L'una, ed è quella di cui abbiamo parlato ora in modo esplicito, danneggia i corpi con l'azione naturale dei corpi: ma l'altra, che agisce mediante magie, incantesimi, e i cosiddetti nodi magici, convince quelli che hanno lo sfrontato coraggio di arrecare danni di poterlo fare grazie alla magia, mentre coloro che subiscono i danni sono convinti di subire terribili danni da parte di queste persone che sono in grado di operare degli incantesimi.
Non è facile sapere come avvengono in natura tutte queste cose ed altre simili, né, se uno ne fosse a conoscenza, sarebbe agevole persuadere altri: e non servirebbe a nulla il tentativo di persuadere le anime degli uomini, che in queste cose si guardano l'un l'altro sospettosamente, invitandoli, se vedono delle statuette riprodotte in cera poste sulle porte delle case, o presso i trivi, o vicino alle tombe dei genitori, a non darsi pensiero di simili cose, poiché non hanno al riguardo alcuna chiara opinione.
Distinguendo in due parti la legge sul veneficio, a seconda di quale dei due modi si cerca di attuarlo, prima di tutto si preghi, sì consigli, e si esorti perché non si debba mai cercare di compiere tali azioni, né di seminare terrore fra la moltitudine degli uomini che hanno paura come i bambini, né di costringere il legislatore o il giudice a trovare un rimedio per simili paure degli uomini, pensando che in primo luogo chi compie questi venefici non sa quello che fa, sia per quanto riguarda il loro effetto sui corpi, a meno che non sia esperto di medicina, sia per quanto riguarda gli effetti della magia, a meno che non sia un indovino o un interprete dei segni divini.
Sia detto questo discorso il quale valga come legge sui venefici: chi opera venefici contro qualcuno per arrecare un danno non mortale né alla sua persona, né ai suoi, anche se procura un altro danno mortale per il suo bestiame e per le sue api, se è un medico e viene riconosciuto colpevole di veneficio, sia punito con la morte, se è un privato cittadino, il tribunale decida quale pena egli deve subire o quale multa deve pagare.
Chi risulta compiere danni con nodi magici, evocazioni, incantesimi, ed ogni altro simile veneficio, se è un indovino o un interprete di segni divini, sia condannato a morte, se invece è riconosciuto colpevole di veneficio anche senza l'arte divinatoria, si proceda anche per lui secondo la stessa procedura: anche per questi il tribunale decida quale pena deve subire o quale multa deve pagare.
Per quanto riguarda quei danni che uno arreca all'altro mediante il furto o la violenza, nella misura in cui esso è più grave, sia maggiore il risarcimento che deve pagare al danneggiato, minore se il danno è più piccolo, e in ogni caso risulti proporzionato al danno che ogni volta uno arreca, finché tale danno non sia risanato: ciascuno, in relazione ad ogni azione malvagia, subisca inoltre un'altra pena che serva di ammonimento per il colpevole, e questa pena sia più lieve per chi ha commesso l'azione malvagia a causa dell'altrui stoltezza, o per l'imprudenza dovuta alla giovane età, o per qualsiasi altro fattore; sia invece più pesante se la malvagità è dovuta alla propria stoltezza, o all'intemperanza di fronte ai piaceri e ai dolori, o se si trovi immerso in vili paure, passioni, invidie, e rancori incurabili; e sia punito non per il male compiuto - il male compiuto, ormai, è compiuto -, ma perché in futuro lui stesso e quelli che osservano la sua punizione detestino l'ingiustizia, o almeno si liberino da buona parte di quella sventura.
Per tutte queste ragioni bisogna che le leggi, tenendo conto di tutti i casi di questo genere, come un abile arciere, mirino alla gravità della pena da infliggere in ciascun caso, assegnando assolutamente quella più adatta: e bisogna che il giudice collabori con il legislatore, facendo la stessa cosa, quando la legge gli affida la facoltà di decidere quale pena deve subire o quale multa deve pagare colui che è stato giudicato, mentre il legislatore, come un pittore, deve fare uno schizzo della sua opera, conformandosi a ciò che è stato tratteggiato.
E questo è ciò che noi ora dobbiamo fare, Megillo e Clinia, nel modo più bello e migliore possibile: dobbiamo dire quali devono essere le pene relative ai furti e agli atti violenti, nei termini in cui gli dèi e i figli degli dèi ci concedono di legiferare.
Chi è affetto da pazzia non si mostri in giro per la città: i parenti custodiscano ciascuna di queste persone in casa, a seconda di come sono capaci di farlo, o paghino una multa di cento dracme per chi appartiene alla prima classe, sia che venga lasciato in giro uno schiavo o un uomo libero, di quattro quinti di una mina, se appartiene alla seconda classe, di tre per chi è della terza, di due se è della quarta.
Molti impazziscono in molti modi: quelli di cui abbiamo parlato adesso impazziscono per malattia, poi vi sono quelli che hanno l'anima irascibile a causa di una malvagia natura unita ad una cattiva educazione.
Questi ultimi per la più piccola inimicizia, gridano a gran voce e si insultano pesantemente l'un l'altro, e questo fatto non si adatta in alcun modo ad uno stato dì cittadini che siano ben governati.
Questa sia l'unica legge stabilita a proposito delle accuse calunniose che tutti si lanciano: nessuno accusi nessuno.
Colui che in un qualche discorso si trovi ad avere una controversia con un altro mostri le proprie posizioni e apprenda quelle di chi è in controversia con lui e degli altri presenti alla discussione, e si astenga nel modo più assoluto dal lanciare accuse calunniose.
Dalle imprecazioni e dalle maledizioni che ci si lancia reciprocamente, e dai turpi nomi che ci si scambia e che provengono da dicerie tipiche di donne, dalle parole, in un primo tempo, che sono poca cosa, si passa, in pratica, all'odio e a pesanti inimicizie: e chi parla compiacendosi di una cosa così spiacevole come l'ira, saziando la propria collera con alimenti malvagi, nella misura in cui un tempo era stato addolcito dall'educazione, rende nuovamente selvaggia la propria anima e vive come una fiera in una condizione di scontentezza, ricevendo l'amara gratitudine della sua ira.
Tutti sono soliti, in casi del genere, passare a pronunciare delle parole per deridere l'avversario, e non c'è nessuno che, abituato a comportarsi così, non abbia finito per pregiudicare la serietà dei propri costumi e non abbia annientato in gran parte la propria nobiltà d'animo.
Per queste ragioni nessuno gridi mai simili parole in un luogo sacro, né in certi sacrifici pubblici, né durante le gare, né sulla piazza, né in tribunale, né in alcuna pubblica adunanza: ogni magistrato che si occupa di queste cose punisca impunemente questi individui, in caso contrario non prenda parte alle gare per il primo premio della virtù, come se non si prendesse a cuore delle leggi e non eseguisse gli ordini impartiti dal legislatore.
Se in altri luoghi, attaccando o difendendosi, un tale copre un altro di oltraggi e non si astiene da tali discorsi, chi è presente al fatto, ed è più vecchio, difenda la legge, respingendo chi si abbandona alla collera, altro male, o sia condannato ad una pena determinata.
Noi ora diciamo che chi attacca brighe in modo oltraggioso non può parlare senza usare espressioni ridicole, e questo fatto lo condanniamo, quando esso avvenga per l'ira.
Ebbene? Possiamo approvare l'impegno dei comici nel dire cose ridicole agli uomini, se senza ira cominciano a dire tali cose, ridicolizzando i nostri concittadini? Oppure dobbiamo distinguere il caso in cui si scherza e quello in cui non si scherza, e a chi scherza dev'essere permesso di dire cose ridicole su qualcuno, ma senza ira, mentre non dev'essere permesso a nessuno che, come dicevamo, lo faccia intenzionalmente e con ira? Questo punto non dev'essere affatto modificato, e così dobbiamo stabilire per legge a chi è lecito e a chi non è lecito far questo.
Al poeta comico, a chi compone giambi o canti lirici non sia permesso né con parole, né con immagini, né con ira, né senza ira, mettere in ridicolo alcuno dei cittadini: se qualcuno disobbedisce, coloro che stabiliscono le gare lo caccino dalla regione il giorno stesso, o sia multato con una multa di tre mine da consacrarsi al dio della gara.
Per quanto riguarda quelli di cui prima si è detto che hanno facoltà di ridicolizzare qualcuno, a costoro sia lecito farlo fra di loro, senza ira e per gioco, mentre non sia lecito farlo seriamente e con l'animo rigonfio d'ira.
La valutazione di questo fatto sia affidata al magistrato che sovrintende l'intera educazione dei giovani: sia lecito dunque all'autore di tali opere renderle pubbliche, se il magistrato darà il suo giudizio di approvazione; se invece le respingerà, l'autore non potrà mostrarle a nessuno, e non risulterà insegnarlo a nessuno, né schiavo, né libero, oppure sia ritenuto malvagio e trasgressore delle leggi.
Non è degno di pietà chi ha fame o è afflitto da qualche altro male simile, ma lo è la persona temperante o quella che possiede una qualche virtù o parte di essa, la quale acquista una tremenda sventura: perciò sarebbe cosa singolare se uno, essendo tale, fosse del tutto abbandonato, sicché giungesse in una condizione di povertà, schiavo o anche libero, in una costituzione e in uno stato amministrati mediocremente.
Perciò il legislatore potrebbe sicuramente stabilire per queste persone una legge simile: nel nostro stato non ci sia alcun mendicante, e se uno tenta di compiere un simile gesto guadagnandosi la vita con incessanti preghiere, gli agoranomi lo caccino dalla piazza, la magistratura degli astinomi lo cacci dalla città, gli agronomi lo spediscano fuori dalla regione, oltre i confini, perché la regione sia del tutto purificata dalla presenza di un simile essere.
Se uno schiavo o una schiava danneggia un qualsiasi bene altrui, senza alcuna complicità da parte del danneggiato, per inesperienza o anche per un suo impiego non corretto, il padrone di colui che ha arrecato il danno risarcisca completamente il danno, o consegni lo schiavo stesso a chi ha subito il danno: se il padrone li accusa affermando che chi ha arrecato il danno e chi lo ha subito hanno commesso il fatto tendendo di comune accordo un'insidia per sottrargli lo schiavo, intenti un'azione giudiziaria per truffa contro chi sostiene di essere stato danneggiato, e se vince, riceva una somma corrispondente al doppio del valore dello schiavo stimato dal tribunale, mentre se perde, risarcisca il danno e consegni lo schiavo.
Se un animale da tiro, un cavallo, un cane, o qualche altro animale da allevamento danneggiano un bene dei vicini, allo stesso modo paghi il danno.
Se un tale non vuole testimoniare di sua spontanea volontà, sia citato da chi ha bisogno della sua deposizione, e quello, invitato a presentarsi, si presenti al processo; e se conosce i fatti e vuole testimoniare, renda la sua testimonianza, se invece dice di non sapere, dopo aver giurato per i tre dèi, Zeus, Apollo, e Temi, di non sapere, lasci il processo: chi viene invitato a rendere la sua testimonianza ma non si presenta dinanzi a colui che lo ha invitato, sia perseguito per danni contro la legge.
Se uno chiama un giudice in qualità di testimone, quel giudice che ha testimoniato non potrà più esprimere il suo giudizio per quella causa.
Sia concesso ad una donna libera di testimoniare e di parlare in difesa dell'imputato, se ha oltrepassato i quarant'anni, e di intentare un'azione giudiziaria, se è vedova; ma se suo marito è vivo, le sia concesso soltanto di testimoniare.
Alla schiava, allo schiavo, e ad un bambino sia soltanto concesso di testimoniare e di parlare in difesa nei processi per omicidio, purché uno presenti un mallevadore sicuro che garantisca la loro presenza sino al termine del processo, se sono accusati di falsa testimonianza.
Sia concesso ad una delle due parti in causa di accusare di falsa testimonianza, se sostiene appunto che è stata resa, per intero o solo in parte, falsa testimonianza, prima che sia espressa la sentenza definitiva: i magistrati custodiscano le accuse sigillate da entrambi e le presentino al processo per falsa testimonianza.
Se uno è condannato due volte per falsa testimonianza, nessuna legge lo obblighi a testimoniare ancora; se tre volte, non gli sia data facoltà di testimoniare: se uno poi ha il coraggio di testimoniare dopo che è stato condannato per la terza volta, chiunque voglia lo accusi dinanzi al magistrato, e il magistrato lo consegni al tribunale, e se viene ritenuto colpevole, lo si condanni a morte.
Quanto alle testimonianze che sono state condannate nel processo, poiché sono risultate essere false testimonianze e hanno procurato la vittoria a colui che ha vinto la causa, nel caso in cui siano state condannate più della metà di tali testimonianze, la causa, perduta sulla base di queste testimonianze, sia nuovamente giudicata, e si discuta e si valuti se quella causa è stata giudicata sulla base di quelle testimonianze o no, e comunque si decida, la nuova decisione ponga fine ai precedenti processi.
Vi sono molti aspetti belli nella vita degli uomini, ma nella maggior parte di essi nascono e si sviluppano come delle sciagure che li contaminano e li insozzano: e anche a proposito della giustizia fra gli uomini, come non dire che essa non è un bene, dal momento che ha civilizzato ogni questione umana? Essendo dunque bella questa giustizia, come non dovrebbe essere bella per noi anche l'avvocatura? Stando queste cose in questi termini, un vizio le rende odiose, anche se gli è stato posto il bel nome di arte.
In primo luogo si dice che vi sia un espediente da usare nei processi - ed è il medesimo sia che si intenti una causa, sia che uno difenda un altro - per vincere la causa, sia che le procedure di ciascun processo siano giuste, sia che non lo siano: e si dice inoltre che il dono della stessa arte e dei discorsi che nascono dall'arte venga fornito, se qualcuno in cambio offre delle ricchezze.
La cosa migliore sarebbe che questo espediente, si tratti di un'arte o di un esercizio affinato dall'esperienza e privo di arte, non si generasse affatto nel nostro stato; e il legislatore deve cercare di convincere l'avvocato a non pronunciare parole contrarie alla giustizia, o di andarsene in un'altra regione.
E se la legge tace per chi obbedisce, questa sia la sua voce per chi non obbedisce: se risulta che qualcuno cerca di volgere la potenza della giustizia che alberga nelle anime dei giudici in direzione contraria, o cerca di intentare molte azioni giudiziarie, o anche di intervenire in esse in qualità di avvocato in modo inopportuno, sia denunciato da parte di chi vuole di intentare malvagie azioni giudiziarie o di difendere in modo malvagio, e sia giudicato nel tribunale composto da giudici scelti.
Se viene ritenuto colpevole, il tribunale valuti se egli compie tali gesti per avidità di ricchezza o per ambizione: e se è per ambizione, il tribunale decida per quanto tempo una persona del genere non potrà più intentare cause né difendere; se è per ricchezza, lo straniero se ne vada dalla regione e non ritorni mai più, se non vuole essere condannato a morte, mentre il cittadino sia condannato a morte a causa di questa brama di danaro considerata da quello al di sopra di ogni cosa.
Se qualcuno per ambizione si è comportato così per due volte, sia condannato a morte.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020
Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO DODICESIMO
ATENIESE: Se uno, fingendosi ambasciatore o araldo dello stato, compie una falsa ambasceria presso uno stato, o se, inviato come ambasciatore, non riferisce la vera ambasciata per cui è stato inviato, o se risulta con evidenza che non riporta correttamente le ambascerie e i messaggi provenienti da nemici o anche da amici, sia accusato, insieme a tutti quelli come lui, di profanare empiamente contro la legge i messaggi e gli ordini di Ermes e di Zeus, e si valuti quale pena deve subire o quale multa deve pagare, se risulta colpevole.
Il furto di beni è un atto illiberale, e compiere rapine è cosa vergognosa: nessuno dei figli di Zeus, si è mai compiaciuto né degli inganni né della violenza, né sì è mai occupato dì nessuna di queste due attività.
Nessuno dunque, ingannato da poeti o altrimenti da cattivi narratori di miti, presti loro fede, né creda, rubando o facendo violenze, di non fare nulla di turpe, ma semplicemente ciò che fanno gli stessi dèi: questo infatti non è né vero, né verosimile, ma chi compie un simile gesto andando contro la legge, non è né un dio, né un figlio degli dèi.
Spetta al legislatore, più che a tutti gli altri poeti, conoscere queste cose.
Chi dunque obbedisce al nostro discorso, è felice, e lo sarà per tutto il tempo futuro, ma chi disobbedisce, dopo queste cose, combatta con la seguente legge: se uno ruba un qualche grande o piccolo bene, sia sottoposto alla medesima pena.
Chi ruba una piccola quantità ha infatti rubato spinto dalla stessa brama, ma con una minore capacità, e chi rimuove una quantità maggiore che non ha deposto, compie interamente ingiustizia: la legge, allora, non ritiene giusto punire nessuno dei due ladri con una pena minore o maggiore in base all'entità del furto compiuto, ma in base al fatto che ci sia o meno la possibilità di guarire.
Se dunque uno accusa in tribunale uno straniero o uno schiavo di aver rubato un qualche bene appartenente allo stato, come se si trattasse di una persona verosimilmente curabile, si valuti la pena che deve subire e la multa che deve pagare: ma il cittadino educato come sarà educato, se è condannato per aver commesso rapine ai danni della patria con la violenza, colto o no in flagrante, essendo considerato alla stregua di una persona incurabile, sia condannato a morte.
Per quanto riguarda la disciplina degli eserciti, si danno molti consigli, molte leggi, in modo conveniente, ma il monito più importante è che nessuno sia senza una guida, né maschio, né femmina, né l'anima di alcuno prenda l'abitudine, sul serio o per scherzo, di agire da sola o di propria iniziativa, ma in guerra e durante tutto il periodo di pace si viva con lo sguardo sempre rivolto al comandante e ci si conformi ad esso, e ci si lasci guidare da lui anche nelle cose meno importanti, come ad esempio quando ordina di fermarsi, di marciare, di esercitarsi, di lavarsi, di mangiare, di svegliarsi di notte per montar di guardia e per portare messaggi; e nei momenti stessi di pericolo non si insegua nessuno, né si indietreggi davanti ad un altro, senza l'indicazione dei comandanti; in una sola parola si insegni all'anima con le varie abitudini a non conoscere e a non sapere affatto che cosa significhi l'agire separatamente dagli altri, ma la vita di tutti sia sempre insieme e il più possibile in comune con tutti: di questa cosa, infatti, non c'è e non ci sarà mai nulla di superiore, né di migliore, né di più ingegnoso in vista della salvezza e della vittoria in guerra.
Bisogna immediatamente, sin da ragazzi, esercitarsi a fare questo in tempo di pace, e cioè a comandare gli altri e ad essere comandati dagli altri: bisogna inoltre sradicare completamente dalla vita di tutti gli uomini e dalle fiere sottoposte agli uomini l'anarchia.
E si danzino tutte le danze corali che abbiano come scopo la nobiltà della guerra, e per gli stessi fini si pratichino quegli esercizi che sono caratterizzati da agilità e destrezza, e gli esercizi che insegnano a sopportare la fame e la sete, il freddo e il caldo, e il duro giaciglio, e, cosa più importante, non si deve annientare il potere della testa e dei piedi avvolgendoli con ripari estranei e bloccando la generazione e la formazione di quei calzari che sono i nostri peli: poiché queste sono le nostre estremità, se sono ben conservate, conservano la massima potenza di tutto il corpo, e in caso contrario, agiscono al contrario; e mentre i piedi sono i servitori più importanti di tutto il corpo, la testa svolge un ruolo di grandissima rilevanza nel comandarlo, controllando per natura tutti i suoi sensi dirigenti.
è opportuno che il giovane ascolti questo elogio della vita guerresca, mentre le leggi siano le seguenti: presti servizio militare chiunque sia stato arruolato o abbia ricevuto l'ordine di svolgere una particolare missione.
Chi per una qualche viltà si allontana senza il permesso degli strateghi, sia accusato di diserzione dinanzi ai magistrati militari non appena ritorna dalla campagna militare, e lo giudichi singolarmente ogni soldato che ha preso parte alla campagna, opliti, cavalieri, e ogni altro corpo militare, allo stesso modo, e quindi gli opliti saranno condotti dinanzi agli opliti, i cavalieri dinanzi ai cavalieri, e allo stesso modo gli altri dinanzi ai loro compagni: se uno viene riconosciuto colpevole, sia escluso dalla gara per conseguire la virtù militare nel suo complesso, e non possa più accusare un altro di diserzione, né possa essere l'accusatore in tali cause, ed inoltre il tribunale valuti la pena che deve subire o la multa che deve pagare.
Dopo queste cose, terminati i processi per diserzione, i comandanti di ogni corpo dovranno stabilire una nuova riunione, e chi vuole potrà giudicare quali sono le azioni che meritano un premio senza presentare nulla che abbia a che fare con la guerra precedente, e senza fornire alcuna prova né garanzia attraverso i discorsi dei testimoni, ma solo ciò che riguarda quella campagna militare che allora essi hanno svolto.
Il premio della vittoria sia costituito da una corona di ulivo per ciascuno: e il vincitore la appenda nei templi degli dèi della guerra, di quel dio che egli preferisce, e vi aggiunga un'iscrizione che testimonierà per tutta la vita che gli è stato aggiudicato il primo premio, e così per il secondo e per il terzo.
Se un tale parteciperà ad una campagna militare, ma torna a casa prima del tempo, senza che glielo abbiano ordinato i comandanti, sia accusato di abbandono del proprio posto da quegli stessi giudici che giudicano la diserzione, e ai colpevoli siano inflitte le stesse pene stabilite in precedenza per i disertori.
Bisogna che ogni uomo, quando intenta una causa contro un altro uomo, abbia timore di infliggere, nei limiti del possibile, un'ingiusta punizione, volontariamente o meno - si dice, ed è realmente vero che la Giustizia è figlia del Pudore, e la menzogna per natura è odiosa al pudore e alla giustizia -; e dunque, se in tutti gli altri casi bisogna fare attenzione a non sbagliarsi contro la giustizia, bisogna prestare particolare attenzione anche per quanto riguarda la perdita delle armi, perché qualcuno, sbagliandosi a proposito di quei casi in cui inevitabilmente si perdono le armi, e considerandoli vergognosi come se fossero realmente turpi, non intenti una causa indegna contro chi non la merita.
Non è affatto facile distinguere l'uno e l'altro caso, ma tuttavia bisogna che la legge cerchi di distinguerli suddividendoli in parti.
Servendoci del mito, possiamo dire che se Patroclo, portato alla sua tenda, fosse tornato a respirare, come accadde a molti altri, senza quelle armi che, come dice il poeta, furono consegnate a Peleo come dono nuziale degli dèi a Teti, armi di cui Ettore si era impadronito, i malvagi di allora avrebbero potuto rimproverare il figlio di Menezio per la perdita delle armi.
E, inoltre, vi sono quelli che persero le armi precipitando da rive scoscese, o per mare, o nei travagli delle tempeste, o sorpresi e travolti all'improvviso da una violenta corrente d'acqua, o in altre innumerevoli circostanze che si potrebbero cantare per consolazione, se si vuole abbellire un male che è facilmente esposto alla calunnia: bisognerebbe distinguere, nei limiti del possibile, ciò che costituisce un male più grave e più penoso dal suo contrario.
Credo che proprio l'imposizione dei nomi che si danno a queste cose, nelle espressioni oltraggiose, comporti una certa distinzione: con l'espressione “gettare via lo scudo”, infatti, non si possono definire tutti quei casi in cui avviene la perdita delle armi.
Non è certamente simile il caso di chi getta le armi in quanto ne è stato privato con verosimile violenza e quello di chi le ha deposte volontariamente, ma anzi vi è una totale differenza.
E questa sia la legge: se un soldato, sorpreso dai nemici, ed essendo armato, non si rivolta contro e non si difende, ma volontariamente le depone o le getta, preferendo vivere vergognosamente in compagnia del vizio piuttosto che affrontare una nobile e felice morte insieme al coraggio, sia intentata a suo carico un'azione giudiziaria per aver gettato le armi, avendole perse in tal modo, ma il giudice non trascuri di valutare i casi che abbiamo prima esposto.
Bisogna sempre punire il malvagio, perché diventi migliore, non lo sventurato: non si può ottenere nulla di più contro la sventura.
Ma qual è la punizione che si adatta a chi getta via una potenza simile delle armi da difesa trasformandola nell'opposto? Non è infatti possibile all'uomo fare l'opposto di quanto dicono che un giorno abbia fatto il dio, il quale trasformò Ceneo il Tessalo dalla natura di donna a quella di uomo: per un uomo che ha gettato via le armi, la generazione contraria a quella ricordata, vale a dire la trasformazione della natura di uomo in quella di donna, sarebbe la punizione più conveniente di tutte.
Ora, accostandoci maggiormente a ciò, in virtù dell'attaccamento alla vita, perché uno viva senza correre rischi per la vita che gli rimane da vivere, e viva la maggior parte del suo tempo nella malvagità e oppresso dalla vergogna, per individui come questi vi sia questa legge: l'uomo che nel processo viene riconosciuto colpevole di aver gettato le armi da guerra in modo vergognoso, di costui nessuno stratega, né nessun altro di quelli che comandano in guerra si serva come di un soldato, e non lo collochino in nessuna schiera.
In caso contrario l'investigatore gliene chieda conto, e se chi ha collocato il malvagio nelle schiere appartiene alla prima classe lo punisca con una multa di mille dracme, se è della seconda di cinque mine, se è della terza di tre mine, se è della quarta di una mina.
Chi viene riconosciuto colpevole, oltre ad essere escluso, per la sua natura, dai rischi che corrono gli individui coraggiosi, sia condannato a pagare una multa di mille dracme se appartiene alla prima classe, di cinque se è della seconda, di tre se è della terza, di una mina, come nei casi precedenti, se è della quarta.
Quale sarà dunque il criterio adatto che noi potremmo adottare per la nomina degli inquisitori, se vi sono magistrati che vengono estratti a sorte e durano in carica un anno, mentre altri durano in carica per un numero maggiore di anni e sono eletti da una rosa di magistrati prescelti? E chi sarà in grado di fare l'inquisitore di tali magistrati, valutando chi di essi ha parlato e che cosa ha detto di contorto, piegato dal peso della sua carica, o per una mancanza di capacità personale che sia adeguata alla sua stessa carica? Non è affatto facile trovare quel magistrato che superi tutti gli altri in virtù, e tuttavia bisogna cercare di trovare alcuni censori che siano divini.
Le cose stanno appunto così. Vi sono molte occasioni per cui una costituzione si può dissolvere, come gli elementi che vi sono in una nave o in un qualche animale che, pur avendo una sola natura, sono disseminati dappertutto e chiamiamo con molti termini, come “corde”, “fasciature”, “nervi” e “tendini”: e la mansione degli inquisitori costituisce una fra le più importanti occasioni di salvezza o di dissolvimento della costituzione.
Se coloro che chiedono conto del loro operato ai magistrati sono migliori di quelli e svolgono questo compito secondo una giustizia irreprensibile e in modo irreprensibile, tutta quanta la regione e lo stato prosperano e sono felici: se invece l'inquisizione dei magistrati segue procedure diverse, allora vien meno il legame della giustizia che unisce insieme tutte le strutture dello stato, e in questo modo ogni magistratura viene separata e strappata dall'altra, e non essendo più rivolte allo stesso fine, dividono lo stato in molte unità, da uno che era, e riempiendolo di discordie, in breve tempo lo distruggono.
Perciò bisogna assolutamente che gli inquisitori siano davvero straordinari, per quanto riguarda il complesso della virtù.
Escogitiamo allora in qualche modo una loro genesi.
Ogni anno, dopo che il sole volge dalla stagione estiva a quella invernale, tutto lo stato deve riunirsi nel recinto sacro e comune al Sole e ad Apollo, e indicare al dio tre suoi uomini i quali mostreranno quello che ciascuno di essi ritiene in assoluto il migliore, escluso se stesso, e che non abbia meno di cinquant'anni.
Fra i prescelti si dia la preferenza a quelli che hanno ottenuto la maggioranza dei voti sino alla metà, se sono pari, e se sono dispari, si escluda quello che ha ottenuto meno voti; si lasci da parte la metà di quelli che ha riportato meno voti, e se alcuni hanno numero pari di voti, e fanno in modo che il numero superi la metà, si elimini il di più escludendo il più giovane, e approvando gli altri, si facciano nuove votazioni finché ne restino tre con numero disuguale di voti.
Se tutti e tre o due di essi avranno un pari numero di voti, ci si affidi alla buona fortuna e alla sorte, e con la sorte sia sorteggiato il vincitore, e il secondo e il terzo saranno incoronati con una corona d'ulivo: dopo aver assegnato ad essi i premi della vittoria, a tutti si proclamerà che lo stato dei Magneti, salvato nuovamente dagli dèi, ha presentato al Sole i suoi tre uomini migliori, e li consacra, come prevede l'antica legge, come primizie in comune ad Apollo e al Sole per tutto quel tempo in cui essi si conformeranno a questa scelta.
Il primo anno si devono nominare dodici inquisitori che resteranno in carica sino a settantacinque anni, per il futuro, se ne aggiungano sempre tre ogni anno: questi, dopo aver diviso tutte le magistrature in dodici parti, mettano alla prova i magistrati, ricorrendo a tutte quelle forme di investigazione che si addicono agli uomini liberi.
Essi abitino, per tutto il periodo di tempo in cui esercitano la loro carica di inquisitori, nel recinto sacro ad Apollo e al Sole in cui è avvenuta la loro elezione: giudicando i magistrati usciti di carica, sia ciascuno singolarmente, sia in comune insieme agli altri, rendano pubblico il giudizio, esponendo il decreto scritto sulla piazza in cui si dirà, per ogni magistratura, quale pena deve subire o quale multa deve pagare, secondo appunto la sentenza degli inquisitori.
E se uno dei magistrati non riconosce di essere stato giudicato secondo giustizia, conduca gli inquisitori dinanzi ai magistrati scelti per merito, e se uno viene assolto relativamente alle inquisizioni, accusi gli inquisitori stessi, se lo vuole: se invece è condannato, se sia già stato condannato a morte dagli stessi inquisitori, come è necessario, deve semplicemente morire, ma per tutte le altre pene che si possono scontare raddoppiate, le sconti raddoppiate.
Bisogna ora stare ad ascoltare quali saranno e in che modo avverranno i rendiconti degli inquisitori.
A costoro, i quali sono stati giudicati da tutto lo stato degni dei primi premi, quando sono in vita sono riservati i primi posti in tutte le solenni adunanze, e inoltre nei sacrifici comuni a tutti i Greci, nelle sacre ambascerie, e in tutti gli altri riti sacri cui prendono parte; fra loro vengano scelti quelli che saranno inviati come capi in ogni sacra ambasceria, ed essi soli fra tutti coloro che abitano nello stato siano adornati con una corona d'alloro.
Tutti saranno sacerdoti di Apollo e del Sole, e ogni anno sarà primo sacerdote quello che sia giudicato primo fra i sacerdoti che vi sono in quell'anno, e ogni anno il suo nome venga registrato, perché diventi misura del tempo, finché lo stato continuerà a vivere.
Quando moriranno, l'esposizione della salma, il funerale, e le tombe saranno superiori agli altri cittadini.
Avranno tutti una bianca veste, e non vi saranno pianti e lamentazioni; un coro di quindici ragazze e un altro di quindici ragazzi, intorno al letto, gli uni da un lato, gli altri dall'altro, canteranno a turno un elogio composto come un inno in onore dei sacerdoti, proclamando la sua felicità per tutto il giorno con il loro canto.
All'alba, il giorno seguente, cento giovani dei ginnasi scelti dai parenti del morto porteranno il feretro alla tomba: per primi procederanno i celibi, rivestiti ciascuno con l'armatura di guerra, i cavalieri con i cavalli, gli opliti con le armi, e allo stesso modo tutti gli altri; e i bambini davanti al feretro innalzeranno il canto della patria, mentre dietro al feretro seguiranno le fanciulle e le donne che hanno superato l'età dell'avere figli, quindi i sacerdoti e le sacerdotesse, che seguiranno questo funerale in quanto purificatore, anche se sono esclusi da tutte le altre sepolture, purché la Pizia sia d'accordo in questo senso.
La loro tomba sia costruita sotto terra, a volta oblunga, di pietre porose e resistenti il più possibile al tempo, e con nicchie di pietra collocate l'una vicino all'altra, in cui verrà posto il beato defunto.
Quindi si costruisca un terrapieno di forma circolare, e tutt'intorno si pianti un bosco sacro, fatta eccezione per un lato, perché la tomba abbia modo di ingrandirsi verso quella parte per tutto il tempo futuro, e, mancando il terrapieno, possa accogliere coloro che saranno sepolti: saranno stabiliti ogni anno agoni musicali, ginnici, ed equestri.
E questi siano i privilegi che verranno tributati a chi ha superato indenne l'inquisizione: ma se uno di loro, fidandosi dell'avvenuta elezione, mostra la sua natura umana e diviene malvagio dopo l'elezione, la legge comanderà a chi vuole di accusarlo, e quello, condotto in tribunale, sia giudicato in questo modo.
Appartengano prima di tutto a questo tribunale i custodi delle leggi, poi gli stessi inquisitori in vita, ed inoltre il tribunale dei giudici scelti per merito; l'accusatore sostenga nel suo atto di accusa che il tale o il tal altro è indegno del premio della virtù e della carica: se l'imputato viene condannato, sia privato della magistratura, della tomba, e di tutti gli altri onori che gli vengono tributati, ma se l'accusatore non ottiene la quinta parte dei voti, paghi dodici mine se appartiene alla prima classe, otto se è della seconda, sei se è della terza, due se è della quarta.
Degno di ammirazione è il modo con cui si dice che Radamanto giudicasse le cause, perché egli aveva osservato che gli uomini di allora credevano chiaramente all'esistenza degli dèi, ed è cosa verosimile, dato che in quel tempo molti erano figli degli dèi, ed uno di questi era Radamanto stesso, come narra la tradizione.
A quanto pare, egli pensava di non doversi rivolgere a nessun giudice umano, ma direttamente agli dèi, ed è per questo che le decisioni delle cause erano semplici e rapide: dando infatti la possibilità alle parti in causa di giurare su ogni punto della controversia, le lasciava andare rapidamente e in modo sicuro.
Ma ora che, come abbiamo detto, una parte degli uomini non crede affatto all'esistenza degli dèi, mentre altri pensano che essi non si occupino di noi, e, secondo l'opinione della maggior parte delle persone e senz'altro di quelle più malvagie, gli dèi, accettando piccoli sacrifici e qualche adulazione, li aiutano a rubare un gran numero di ricchezze, e li liberano in molti casi da gravi punizioni, l'arte di Radamanto non si adatterebbe più nei processi agli uomini contemporanei.
Mutate negli uomini le opinioni riguardanti gli dèi, bisogna mutare anche le leggi: bisogna che le leggi stabilite con intelligenza, eliminino, negli atti d'accusa, i giuramenti che le due parti in causa prestavano, e chi intenta causa contro qualcuno dovrà deporre la sua accusa scritta, senza prestare giuramento, e allo stesso modo l'accusato, presenti per iscritto il suo diniego, senza prestare giuramento.
Sarebbe terribile sapere con certezza che, essendo molti i processi che vengono celebrati nello stato, quasi la metà dei cittadini ha spergiurato, riunendosi insieme l'un con l'altro senza problemi nei pasti in comune, e nelle altre adunanze e nelle riunioni private di ciascuna categoria.
Sia stabilita la legge per cui il giudice che è in procinto di giudicare presti giuramento, e così sempre presti giuramento chi istituisce le pubbliche magistrature, sia attraverso giuramenti, sia mediante votazione con sassolini preso dai templi, e giuri il giudice dei cori e di tutta la musica, gli organizzatori e gli arbitri delle gare ginniche ed ippiche, e di tutte quelle attività che, secondo l'opinione umana, non comportano guadagno alcuno a chi spergiura: ma quando sembra assai evidente che negando con il giuramento si trae un grosso guadagno, si giudichino tutte le persone che si accusano l'una con l'altra, attraverso processi ordinari e senza giuramenti.
E nel processo i presidenti del tribunale non permettano a chi parla di giurare, per rendere più plausibili le proprie argomentazioni, né di imprecare contro se stessi e la propria stirpe, né di ricorrere a suppliche indecenti e a lamenti tipici di donne, ma facciano in modo che sempre e sino alla fine si apprendano e si espongano le giuste ragioni con parole di buon augurio, e, in caso contrario, come se andasse fuori del discorso, i magistrati lo invitino a riportare sempre il discorso sulla questione proposta.
Allo straniero nei suoi rapporti con gli altri stranieri sia consentito di accettare i giuramenti, come si usa fare oggi, se lo vuole, e di darli con piena validità - essi non invecchieranno nello stato e non facendovi il nido non procureranno generalmente altri padroni della regione allevati come loro -; per quanto riguarda gli atti d'accusa dei processi reciproci valga per tutti la stessa procedura per giungere alla sentenza.
Se un libero cittadino disobbedisce allo stato, ma non è degno di percosse, né del carcere, né della morte - e queste disobbedienze riguardano la frequenza ad alcune danze corali, o a processioni, o ad altre cerimonie pubbliche dello stesso genere, o a incarichi pubblici che hanno attinenza con i sacrifici che vengono organizzati in tempo di pace o con le contribuzioni in tempo di guerra - in tutti questi casi bisogna in primo luogo risanare il danno; per chi non obbedisce sia fatto un pignoramento che sarà riscosso da quelle persone indicate dallo stato e dalla legge, e se si rifiutano ancora di obbedire, si proceda alla vendita dei beni pignorati, e il danaro vada allo stato: se occorre una punizione maggiore, le singole magistrature che applicano le punizioni adatte ai disubbidienti, conducano i trasgressori dinanzi al tribunale, finché si decidano ad eseguire gli ordini.
Al nostro stato, che non ha altra fonte dì ricchezza se non quella che proviene dai prodotti de l proprio suolo, né ha rapporti commerciali con l'estero, è necessario fornire consigli su come si deve regolare riguardo ai viaggi dei suoi cittadini fuori dai confini della regione e all'accoglienza degli stranieri che giungono da fuori: il legislatore deve innanzitutto fornire dei consigli mediante la persuasione, se è possibile.
Per natura, la mescolanza di stati con altri stati comporta una combinazione assai varia di costumi di vita dovuta alle novità che gli stranieri introducono gli uni con gli altri: questo fatto determina il danno più grave di tutti per quegli stati ben governati mediante leggi giuste, mentre per la maggioranza degli stati, poiché non sono affatto ben governati, non ha alcuna importanza se i cittadini si mescolano accogliendo gli stranieri, o se essi stessi partono alla volta di altri stati, desiderando fare un viaggio, dove e quando vogliono, giovani o vecchi che siano.
D'altronde non è possibile vietare l'accoglienza agli stranieri o la partenza dei nostri concittadini alla volta di altri luoghi, senza contare che daremmo l'impressione di essere rozzi e scortesi presso gli altri uomini, ricorrendo a termini duri come ai cosiddetti bandi agli stranieri, e a costumi di vita prepotenti e inesorabili: non dobbiamo pensare che sia un fatto di scarsa importanza la buona o la cattiva fama presso gli altri.
Non di quanto la maggior parte delle persone fallisce nel conseguimento dell'essenza della virtù, di tanto anche fallisce nel giudicare se gli altri siano malvagi o buoni.
Questo acume, che in un certo senso è divino, è presente anche nei cattivi, sicché moltissime persone, e anche quelle assolutamente malvagie, con le parole e con le opinioni riescono a distinguere gli uomini migliori da quelli peggiori.
Perciò è bella quella massima che presso molti stati consiglia di tenere in conto la buona fama che si gode presso la maggioranza.
La cosa più giusta e più importante, se si è realmente buoni, è quella di mirare ad una vita accompagnata dalla buona reputazione, ma questa non deve affatto essere separata dalla virtù, se un uomo vuole essere perfetto; per cui, anche a proposito dello stato che viene fondato a Creta, sarebbe opportuno che si procurasse la fama più bella e migliore, in relazione alla virtù, presso gli altri uomini.
Nutriamo allora l'assoluta e verosimile speranza che, se esso corrisponderà a quanto abbiamo delineato nel nostro discorso, insieme a pochi altri, il sole e gli altri dèi lo vedranno fra gli stati e le regioni ben governate.
In questo modo, dunque, ci si deve regolare a proposito dei viaggi in altre regioni e in altri luoghi e riguardo all'accoglienza degli stranieri.
Prima di tutto non sarà assolutamente possibile compiere un viaggio in alc