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La storia vera della nascita, della vita e della morte di una grande impresa



1.1 Il sindacato alla Dino Tecnologie

E' necessario un discorso un po' approfondito sulla politica sindacale alla Dino, perché, come vedremo, non poca importanza avrà sul destino della società.
Nel 1967, viene costituita la commissione interna, eletta su lista Cisl, organizzazione che manterrà un'egemonia destinata a decadere a metà degli anni settanta a favore della Cgil. Io, in quell'epoca ero stato appena assunto e ricordo gli isterismi di alcuni degli scienziati fondatori che incontrando i dipendenti della Dino nei corridoi li ingiuriavano per lesa maestà per aver voluto "portare il sindacato nella ricerca".
L'amministratore delegato dell'epoca rifiuta la trattativa con la commissione interna, affermando che i problemi di ordine contrattuale sono di competenza del sindacato. Questo episodio spinge i dipendenti della Dino a valutare vantaggiosa la costituzione di un'organizzazione sindacale su base aziendale, che viene istituita nel 1968. Il sindacato nasce subito forte perché i sindacalisti della prima ora erano riusciti a coinvolgere un gran numero di ricercatori che ricevevano stipendi molto grami. D'altra parte le massicce assunzioni di quel periodo avevano portato nell'azienda laureati che avevano vissuto nelle università il clima della contestazione ed erano sensibili alle problematiche sociali.
La combinazione di questi fatti conduce, rapidamente, a un tasso di sindacalizzazione vicino all'80%; la nascita del sindacato, in concomitanza con la grande contestazione operaia del 1969, porta anche a un livello di conflittualità molto elevato. Ma, come accade in tutte le imprese pubbliche, la conflittualità non conduce a una contrapposizione radicale, ma a una regolamentazione dei rapporti, volta, in prima istanza, alla legittimazione piena del sindacato. Alla Dino, il management, superando, probabilmente, gli stessi obiettivi del sindacato, accetta una cogestione di fatto, attuata attraverso intense forme di consultazione formali, ma specialmente informali. Si crea un clima che l'azienda definisce di «democrazia aziendale», nel cui ambito vengono incanalati tutti i problemi della politica contrattuale e della micro conflittualità della gestione ordinaria.
Nel 1973 nasce il consiglio unitario dei delegati (venticinque membri su 476 dipendenti); a ciascun membro del cud vengono riconosciute 300 ore annue di permesso retribuito, oltre alle ore impegnate per le riunioni con la direzione aziendale. Nessuno è mai riuscito a capire a cosa servissero alla Dino, 7500 ore da dedicare alle attività sindacali. A metà degli anni settanta vengono concordate, tra direzione e sindacato, una serie di riunioni periodiche informative a tutti i livelli. Ricordo che, una volta all'anno, dovevo riunire i componenti del mio dipartimento per parlare delle attività di ciascuno e per motivare, in presenza di due membri del sindacato, le proposte di avanzamento o di aumento salariale dei componenti; in realtà era una messinscena per dimostrare la democratizzazione dell'azienda. Le assemblee di fabbrica annuali erano una pura formalità burocratica, ma tutto serviva per la celebrazione di riti tanto inutili quanto utili per la legittimazione.
Paradossalmente, la formalizzazione e l'istituzionalizzazione di pratiche partecipative ne avevano automaticamente impoverito il significato e la potenzialità. Risulta evidente che la possibilità di un controllo stretto della dinamica salariale e di carriera, da parte del sindacato, non poteva che portare a una situazione di rigidità e appiattimento, soprattutto per la tendenza a rendere omogenei i percorsi di carriera e ad appiattirli verso i livelli più elevati.
La legittimazione della politica sindacale, da parte dei lavoratori, si ha con l'assemblea dei lavoratori; il momento di partecipazione collettiva alla vita aziendale. Il rito dell'assemblea prevede la relazione del cud, in casi particolari la relazione di un delegato esterno, gli interventi dei lavoratori che si suddividono in tanti favorevoli alla relazione e alcuni dissidenti di sinistra, la votazione plebiscitaria per alzata di mano. Verso la fine degli anni settanta i quadri fondano un sindacato che sarà, per qualche anno, l'unica voce fuori dal coro, voce che sarà inascoltata dai dipendenti e tollerata dalla direzione.
All'inizio degli anni ottanta, Brachio impone alla Dino un amministratore delegato, esterno al gruppo e dotato di forte cultura manageriale, al quale viene dato il mandato di valorizzare la società al di fuori del gruppo. Il sindacato si allinea alle indicazioni della controllante; d'altra parte la situazione sindacale dentro e fuori all'azienda, comincia a configurarsi in termini meno favorevoli alle rappresentanze sindacali, come testimonia il calo del tesseramento. Con il nuovo amministratore delegato viene condotto, alla Dino, l'unico serio tentativo di riportare l'impresa a confrontarsi con il mercato, ma questo tentativo cozza contro una cultura professionale molto legata ai grandi obiettivi tecnologici, piuttosto che ai prodotti (Caruso, 1999), e restia a rendere conto del proprio operato in termini di capacità di produrre profitti.
L'obiettivo principale del sindacato, negli anni ottanta, è duplice, riaffermare la propria legittimazione e cercare di ottenere dalla controparte gli stessi privilegi dei dipendenti di Brachio. Se l'obiettivo non viene completamente raggiunto dalle rappresentanze sindacali degli impiegati, l'operazione riesce meglio al sindacato dei dirigenti che in pochi anni riesce ad ottenere "quasi" le stesse retribuzioni e gli stessi privilegi dei dirigenti del dinosauro di stato. Retribuzioni e privilegi che sono ben al di sopra di quelli delle aziende private, nelle quali i livelli di responsabilità e i rischi di licenziamento sono all'ordine del giorno; la situazione è particolarmente stridente dopo il 1985, quando una serie di ristrutturazioni aziendali espellono dal mondo del lavoro un gran numero di dirigenti di aziende private.
Alla fine degli anni ottanta, nell'ambito della politica retributiva e degli inquadramenti, si riscontrano modeste possibilità di manovra sia per i livelli raggiunti dai vari accordi integrativi aziendali, sia per l'elevato valore delle retribuzioni, sensibilmente più elevate rispetto al mercato. Questa situazione priva la direzione di un valido sistema premiante; il fondo del barile è oramai stato raschiato. In quegli anni, un'indagine condotta dal cud presso i dipendenti, su quali parametri essi ritenevano che la direzione valutasse gli sviluppi di carriera e di retribuzione la risposta fu, secondo una scala di ordine decrescente: anzianità, appartenenza a settori trainanti, disponibilità ad assecondare le direttive aziendali, applicazione nel lavoro, preparazione professionale, risultati ottenuti. Sarebbe stata una risposta incoraggiante per l'azienda se la scala fosse stata esattamente capovolta.
Nel novembre del 1989, il cud viene sostituito da delegazioni sindacali aziendali (rsu) più condizionate dai sindacati territoriali; viene ribadita la scelta di consultazioni forti e il contratto integrativo del 1992 contiene esplicite dichiarazioni di intenti in merito al rafforzamento delle procedure consultive, al limite della cogestione. La direzione incomincia a intuire che, forse, il sindacato, a livello politico, potrebbe essere un'ancora di salvezza per se stessa e per i 660 dipendenti della Dino.
Nel 1992, con i progetti di privatizzazione che coinvolgono Brachio, il top management della Dino e i sindacati iniziano a comprendere che un'epoca d'oro sta per concludersi. Il top management inizia un lento processo di riduzione dei costi che prende le mosse con la scontata politica di incentivazioni al prepensionamento; il sindacato si sposta decisamente dal fronte delle richieste a quello della difesa dei privilegi acquisiti invece di sollecitare un drastico cambiamento di obiettivi e modalità gestionali. Il 1992 rappresenta anche l'anno che segna il minimo storico in termini di iscritti al sindacato rispetto al totale dei dipendenti, segno di una chiara sfiducia dei dipendenti, non solo nei riguardi della direzione, come mostrato dalla citata indagine condotta dal sindacato, ma anche verso le stesse rappresentanze sindacali. I tentativi di legare i miglioramenti economici ai risultati, attraverso lo strumento della gratifica, in un ambiente cristallizzato dai principi di una democrazia virtuale, dell'appiattimento e della standardizzazione, portano alla concessione a pioggia degli incentivi (un anno sì, un anno no) non ai migliori ma ai più prepotenti. Ma oramai è in atto un processo irreversibile che condurrà alla scomparsa della società, una volta, vanto e fiore all'occhiello della controllante.

1.2 La carriera dei sindacalisti

In questo capitolo chiarirò perché la storia della Dino debba considerare la storia della sua sindacalizzazione.
Giova, innanzitutto, osservare che nel 1992, un numero elevato dei dirigenti della Dino erano stati sindacalisti o facevano riferimento a comunione e liberazione. Il circolo vizioso che porterà la Dino a essere gestita da ex-sindacalisti, prassi che si riscontra in quasi tutte le aziende pubbliche, è semplice; l'attività sindacale porta due vantaggi. Uno, la possibilità di incontrare e conoscere, da parte dei più attivi, personaggi di rilievo della politica. Due la prassi della cogestione, che vede la direzione consultarsi, in occasione di momenti topici della vita aziendale, con il sindacato, porta, inevitabilmente, alla promiscuità di interessi che dovrebbero essere contrapposti. Il sindacalista, pur in un sistema fortemente omogeneizzato, scala i livelli di carriera più velocemente degli altri e, nel silenzio colpevole di tutti, un giorno viene nominato dirigente.
Attorno al tavolo delle trattative aziendali, si trovano pertanto tutte persone portatrici di una cultura che privilegia gli aspetti relazionali, che pure sono importanti, ma che considera secondari gli interessi dell'impresa.
Monti, era un sindacalista dei più attivi, un giorno scompare cooptato dalla segreteria regionale di un sindacato; ricompare dopo una decina di anni di apprezzato servizio sindacale. È inquadrato nel livello 7 in pochi anni diventa livello 8, quadro B, quadro A, dirigente e assistente dell'amministratore delegato, recuperando il livello dei colleghi sindacalisti che dirigenti lo erano già diventati. Io, personalmente, allora direttore della promozione commerciale, faccio presente all'amministratore delegato che quella nomina aveva sollevato una serie di perplessità nell'azienda. La risposta dell'amministratore fu «Monti conosce molti uomini politici e può esserci di aiuto».
Verso la fine del 1988, l'impresa era in attesa delle nuove nomine del consiglio di amministrazione e del top management; io vengo chiamato da Crisafulli il quale mi dice «Eugenio fammi i complimenti sono stato nominato direttore generale. C'è, però, un elemento negativo siamo due direttori generali, io e Artosi e un vice direttore generale, Castagnetti, ma il consiglio di amministrazione ha tolto praticamente tutte le deleghe a Viciani (amministratore delegato, organico alla dc), affidandole ai direttori generali».
Un brivido attraversò la mia spina dorsale a quell'annuncio, conoscevo molto bene Crisafulli, era stato collega all’università e potevamo considerarci amici, era una bravissima persona, ma non lo conoscevo sotto l'aspetto delle capacità manageriali. Era stato sindacalista della Dino e grande attivista del Pci, inoltre aveva avuto l'opportunità di mettersi nell'ombra del consigliere comunista di Brachio.
Anche Artosi, lo conoscevo bene anche se non come Crisafulli; era il classico animale politico. La sua nomina era stata voluta da uno dei consiglieri socialisti di Brachio. Era stato uno dei promotori della commissione interna, eccelleva al microfono, era capace di parlare ore in politichese con frasi compiute e dotate di coerenza interna, senza dire assolutamente nulla. Era amico di tutti, a tutti dava del tu, era molto "democratico", e il suo modello di gestione si basava esclusivamente sulla cogestione dell'impresa con il sindacato. Quando si andava da lui era facile trovarlo in confidenziali confabulazioni con qualche membro del sindacato; particolarmente grazie alla sua azione, molti dei vecchi e nuovi sindacalisti gli erano grati per una carriera veloce e prestigiosa. Artosi e Crisafulli erano figli di quella partitocrazia e di quel consociativismo che ha inquinato la storia economica e politica italiana dagli anni sessanta in poi.
Con Crisafulli e Artosi, cioè con il pieno controllo della società da parte dei partiti, la Dino conosce il periodo del massimo splendore: contratti integrativi per impiegati e dirigenti, quasi a livello di quelli della controllante, ordini quadro, da parte della direzione ReS di Brachio, che apportavano un flusso monetario che non si sapeva come spendere.

 


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