La storia vera della nascita, della vita e della morte di una grande impresa


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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1. Storia all’interno di un’impresa pubblica.

 

Nel libro "Italia: vizi e virtù" emerge la mia ostilità nei confronti dello stato imprenditore. Questo atteggiamento è frutto di una mia predisposizione politica verso un liberismo economico controllato da regole sicure, ma è anche dovuto alla mia personale esperienza di lavoro in un'azienda di stato, nella quale ho percorso il cammino da impiegato a direttore. Ritengo che possa essere utile descrivere, sia pur brevemente, questa mia esperienza per non fare come certi "professionisti della carta stampata" che parlano di tutto senza aver mai sperimentato nulla. Ne risulta una specie di romanzo.
La società Dino SpA non era sempre stata figlia di un dinosauro di stato, la sua nascita, come società a responsabilità limitata, derivava dai nobili lombi di imprese industriali private e per lunghi anni aveva vissuto secondo le regole dell'impresa privata: dover fare i conti con i bilanci e con le richieste della committenza e vivere nell'incertezza del domani.
Fondata subito dopo la guerra, il patto tra i soci fondatori prevedeva che la Dino si sarebbe occupata di «ricerche ed esperienze scientifiche, acquisizione e sfruttamento di brevetti» in campi che sarebbero stati indicati dai soci stessi. I primi dieci anni di vita della società furono molto tormentati, per le difficoltà finanziarie, per disaccordi tra i soci, ma, fondamentalmente, per l'ostracismo dell'ambiente politico, che vedeva negativamente un centro per l'innovazione tecnologica, che nascesse da un raggruppamento di aziende private.  Purtroppo i soci di Dino si erano illusi che lo stato intervenisse con contributi propri alla creazione di una società che avrebbe potuto contribuire allo sviluppo industriale del Paese e pertanto ne avevano chiesto l'appoggio. Questo fu un errore perché quelli erano tempi nei quali ciò su cui lo stato poteva mettere le mani non poteva prima o poi non entrare nella grande famiglia delle partecipazioni statali.
L'azione corrosiva dell'ambiente politico si concretò nel 1955, quando i soci privati furono costretti a cedere il 50% delle quote di capitale ad una società delle partecipazioni statali.
Fortunatamente, i fondatori della società erano persone di spessore culturale ed umano cosicché, la società, pur attraverso molte difficoltà, aveva sviluppato una propria nicchia di competenze, che la facevano unica in Italia e tra le poche nel mondo. Importanti tecnologie e progetti videro la luce negli scantinati che un socio fondatore aveva offerto ai primi dipendenti della Dino e successivamente in una nuova sede alle porte di Milano. I senior scientist erano invitati a presiedere importanti congressi internazionali, i ricercatori esteri facevano "carte false" per uno stage presso la Dino, le spie industriali russe erano presenti anch'esse con vere carte false. Decenni dopo ricercatori e stagiaire della Dino potevano incontrarsi come presidenti di importanti industrie, rettori universitari, ministri, sottosegretari e quant'altro.
La Dino srl nasce subito dopo la guerra sotto gli auspici di alcuni gruppi industriali con lo scopo di sviluppare tecnologie avanzate nel Paese, la cui ricerca era stata frantumata dal progetto autarchico della dirigenza fascista. La seconda guerra mondiale era passata come un ciclone devastante e anche l'ambiente scientifico era stato travolto dalla disfatta materiale e morale.
Tre giovani studiosi, che non avevano problemi psicologici e morali da risolvere, ma una grande voglia di lanciarsi nell'avventura della ricerca, trovano a Milano sponsor di prestigio nel mondo accademico e industriale e avviano la costruzione di un nuovo ambiente scientifico.
Nel contesto di una nuova cultura e sotto lo stimolo di risorse giovani e motivate nasce Dino srl; la società cresce rapidamente e dai 13 dipendenti del '47, passa ai 40 del '51.
Ma i problemi del finanziamento diventano immediatamente il problema da risolvere quotidianamente e viene pertanto cercato l'appoggio dello stato.  Il consiglio d'amministrazione scrive, infatti, nel 1950, «È necessario che si possa, da parte dello Stato, avere quell'aiuto sul quale si era e si è sempre fatto affidamento fin dal giorno della fondazione». Fu chiaro che le imprese lanciatesi nell'iniziativa della Dino, iniziativa che avrebbe creato ricadute positive per lo sviluppo dell'industria italiana, non erano in grado di progredire in modo significativo senza l'appoggio pubblico. D'altra parte, le competenze tecnico-scientifiche necessarie per raggiungere gli obiettivi strategici della società non esistono sul mercato, cosicché la Dino, nei primi anni della sua vita, deve sobbarcarsi l'onere della formazione di tecnici e scienziati orientati allo sviluppo e all'innovazione delle obsolete industrie del Paese, onere, generalmente, di competenza dello stato.
Ma la Dino deve passare dalla fase informativa e formativa a quella realizzativa; questo passo richiede un congruo aumento di personale e di strutture e quindi i relativi finanziamenti. La relazione del consiglio di amministrazione del 1951 ribadisce «Oggi come oggi gli sforzi dei privati non possono più permettere alla società uno sviluppo adeguato. È quindi indispensabile che il problema venga considerato nella sua vastità e siano trovati mezzi idonei ad uno sviluppo consono alle proporzioni del problema …. la vita della società è oggi strettamente legata alle decisioni che il Governo vorrà prendere al riguardo».
Gli ambienti romani paventano che il governo finanzi attività di ricerca i cui risultati restino di proprietà dei privati; un'azienda pubblica, creata ad hoc, acquisisce il 50% del capitale della Dino che entra ufficialmente nel novero delle aziende pubbliche. In quell'epoca era consolidata, nei politici, l'idea che i soldi dello stato dati ai privati dovessero necessariamente finire male e dare origine a inganni d'ogni genere.
Nel 1964, dopo quasi un ventennio di difficoltà, colpi di mano da parte delle strutture di ricerca governative, gelosie da parte dei professori universitari e ricatti economici, la Dino deve arrendersi; passa definitivamente sotto il controllo di un dinosauro di stato: Brachiosauro, noto con il logo di Brachio, che ne acquista il pacchetto di maggioranza, pari al 70% del capitale. Con gli anni, la percentuale di possesso da parte di Brachio aumenta fino a circa il 98%. Durante la prima assemblea il nuovo socio di maggioranza stabilisce che Dino, pur proseguendo nelle attività finora svolte «curerà in modo particolare i problemi di interesse della controllante», in collaborazione con la direzione ReS di Brachio; il nuovo consiglio nomina presidente e amministratore delegato due alti dirigenti della controllante.
L'autore, giovane assistente ordinario e professore incaricato, nel 1966, viene cooptato dalla Dino per partecipare a un importante progetto di ricerca.
Nel 1968, Dino dipende oramai integralmente dagli stanziamenti pubblici nazionali, annullando completamente la sua origine privatistica e assumendo sempre più le forme e le modalità di un'impresa a partecipazione statale; nello stesso anno viene nominato un direttore generale di estrazione interna, di notevole spessore professionale, che per molti anni gestirà le sorti dell'azienda. In quel periodo la consuetudine spartitoria dei partiti non era ancora arrivata al livello di nomina del direttore generale.
Dal 1971, allo scopo di minimizzare le difficoltà finanziarie della Dino, si stabilisce che vengano definiti degli "ordini quadro" tra la Dino e la direzione ricerca di Brachio. Gli ordini quadro prevedono la definizione di attività da parte della Dino a favore di Brachio, da stabilirsi all'inizio di ogni anno, in modo da delineare l'attività per tutto l'esercizio.
D'altra parte, i costi aziendali sono in continua crescita; tra il 1964 e il 1974 gli incrementi oscillano attorno al 15% all'anno. Il valore della produzione, derivante dagli ordini quadro e da contratti con altri soggetti, non compensa i costi aziendali, tanto che, per l'esercizio '74, la relazione degli amministratori prospetta con chiarezza le notevoli difficoltà finanziarie nelle quali si dibatte la società; nel gioco delle parti, alla chiusura di ogni esercizio Brachio interviene, però, a coprire le perdite.
Nel 1975, considerando le dimensioni e il volume d'affari della società, viene deliberata la trasformazione da srl in spa; la trasformazione dovrebbe spingere la Dino a compiere uno sforzo per differenziare la committenza. L'impegno è severo e, nei fatti, tra il 1977 e il 1980, si registra un aumento della committenza esterna a quella convenzionale (Brachio, Cnen, Cnr), che passa dal 6% all'11% dei ricavi industriali. Nonostante questo sforzo, il confronto tra ricavi e costi, mostra sempre un divario negativo, con la necessità, da parte di Brachio, di coprire le perdite con versamenti in conto capitale.
Alla chiusura dell'esercizio 1979, Brachio decide che non interverrà più a sanare le perdite della Dino; la società dovrà passare dalla fase dell'ex-post (chiedere alla controllante di ripianare le perdite) a quella dell'ex-ante, definire un budget aziendale che, con i ricavi provenienti dagli ordini quadro e con la quota di mercato esterna al gruppo, consenta di chiudere i bilanci in pareggio. Il nuovo consiglio di amministrazione chiede alla nuova dirigenza di formulare «le linee di azione e un piano poliennale finalizzati al raggiungimento dell'autosufficienza economica». Viene, pertanto, istituita una direzione commerciale, predisposto un sistema di contabilità industriale e avviata la prassi della formulazione del budget. Le divisioni operative della precedente organizzazione vengono sciolte e la struttura produttiva viene articolata in unità di venti-trenta persone che fanno capo direttamente alla direzione ricerca. Si cerca di realizzare un'organizzazione flessibile che, nelle intenzioni dell'amministratore delegato, dovrebbe essere in grado di interloquire meglio con il mercato, ma questa valida soluzione viene presto abbandonata per ritornare a una struttura più gerarchizzata.
Nel corso del 1980 viene effettuato un sostanzioso aumento di capitale, sottoscritto solo da Brachio, che serve quasi esclusivamente per la remissione dei debiti derivanti dai finanziamenti in conto capitale iscritti a bilancio fino al 31 dicembre 1979.
Le previsioni dei primi budget si rivelano errate e gli esercizi '80 e '81 si chiudono con forti perdite, cosicché la Dino è costretta ad accedere a prestiti e mutui bancari. In positivo, i ricavi provenienti dal captive market scendono dal 65% del 1980, al 57% del 1982.
Dal 1980, la Dino vede, però, progressivamente crescere il rapporto tra oneri finanziari e ricavi di competenza che raggiunge il valore massimo dell'11% nel 1984. Nello stesso anno la controllante si rende conto che l'indebitamento della Dino comporta oneri finanziari che ne soffocano il conto economico e viene attuato un completo ripianamento delle perdite. Viene ribadita la necessità della differenziazione della committenza e posto l'obiettivo di accrescere l'entità dei ricavi da effettuarsi al di fuori del captive market.
Dal 1985, la drastica diminuzione degli oneri finanziari e una revisione delle tariffe orarie riconosciute da Brachio per le attività svolte dalla Dino, consentono un'inversione di tendenza e, per la prima volta, con l'esercizio 1986, la società chiude con un pur modesto utile. Nella realtà dei fatti il pareggio di bilancio non viene ottenuto grazie al successo delle varie politiche verso il mercato esterno, ma esattamente per l'effetto contrario: dal 1983 i ricavi provenienti dalla controllante hanno ripreso, infatti, a salire: dal 62% del 1983 al 71% del 1986. Eppure il consiglio di amministrazione afferma che il pareggio di bilancio è stato ottenuto nel 1986 «grazie a una tenace e corretta azione organizzativa e di controllo di gestione».
Gli anni successivi, caratterizzati a livello nazionale da un ciclo economico favorevole, confermano la felice congiuntura per la Dino; lo sforzo commerciale inizia a produrre anche ricavi da progetti di ReS finanziati dalla commissione della comunità europea e da progetti di trasferimento tecnologico verso paesi in via di sviluppo finanziati dal ministero affari esteri.
Durante la seconda metà degli anni ottanta, i vari consigli di amministrazione spingono la Dino ad accrescere il volume di servizi sia verso la controllante che verso l'esterno; al termine degli anni ottanta si stabilisce che la Dino debba operare con un giusto equilibrio tra ricerca e servizi secondo la formula del fifty-fifty. Tale suddivisione appare spesso indefinibile perché non si riesce a stabilire dove finisca la ricerca e dove inizi il servizio. Intanto la quota di ricavi da parte della controllante continua a crescere: 76% nell'ottantanove, 84% nel novantuno, 88% nel novantatré.
Nonostante la forte riorganizzazione del 1988, orientata ad offrire tecnologie e servizi al mercato extra Brachio, l'avvio degli anni '90 si presenta con grossi problemi: la cooperazione del ministero affari esteri non porta più i ricavi degli anni precedenti, perché la cooperazione finanzia solo le grandi lobby socialiste, gli sforzi verso una clientela industriale esterna al gruppo dànno risultati modesti, il costo del lavoro ha subìto un'impennata a seguito del rinnovo degli accordi integrativi del 1989, il sistema Paese sta andando incontro a una situazione di crisi, ed infine, l'opinione pubblica inizia a vedere con fastidio il carrozzone degli enti di stato.
Nel 1992 la Dino raggiunge il punto massimo del valore della produzione con circa 140 miliardi, ma questo punto di massimo coincide con il vertice della parabola che condurrà in pochi anni alla scomparsa della società.

 


1.1 Il sindacato alla Dino Tecnologie

E' necessario un discorso un po' approfondito sulla politica sindacale alla Dino, perché, come vedremo, non poca importanza avrà sul destino della società.
Nel 1967, viene costituita la commissione interna, eletta su lista Cisl, organizzazione che manterrà un'egemonia destinata a decadere a metà degli anni settanta a favore della Cgil. Io, in quell'epoca ero stato appena assunto e ricordo gli isterismi di alcuni degli scienziati fondatori che incontrando i dipendenti della Dino nei corridoi li ingiuriavano per lesa maestà per aver voluto "portare il sindacato nella ricerca".
L'amministratore delegato dell'epoca rifiuta la trattativa con la commissione interna, affermando che i problemi di ordine contrattuale sono di competenza del sindacato. Questo episodio spinge i dipendenti della Dino a valutare vantaggiosa la costituzione di un'organizzazione sindacale su base aziendale, che viene istituita nel 1968. Il sindacato nasce subito forte perché i sindacalisti della prima ora erano riusciti a coinvolgere un gran numero di ricercatori che ricevevano stipendi molto grami. D'altra parte le massicce assunzioni di quel periodo avevano portato nell'azienda laureati che avevano vissuto nelle università il clima della contestazione ed erano sensibili alle problematiche sociali.
La combinazione di questi fatti conduce, rapidamente, a un tasso di sindacalizzazione vicino all'80%; la nascita del sindacato, in concomitanza con la grande contestazione operaia del 1969, porta anche a un livello di conflittualità molto elevato. Ma, come accade in tutte le imprese pubbliche, la conflittualità non conduce a una contrapposizione radicale, ma a una regolamentazione dei rapporti, volta, in prima istanza, alla legittimazione piena del sindacato. Alla Dino, il management, superando, probabilmente, gli stessi obiettivi del sindacato, accetta una cogestione di fatto, attuata attraverso intense forme di consultazione formali, ma specialmente informali. Si crea un clima che l'azienda definisce di «democrazia aziendale», nel cui ambito vengono incanalati tutti i problemi della politica contrattuale e della micro conflittualità della gestione ordinaria.
Nel 1973 nasce il consiglio unitario dei delegati (venticinque membri su 476 dipendenti); a ciascun membro del cud vengono riconosciute 300 ore annue di permesso retribuito, oltre alle ore impegnate per le riunioni con la direzione aziendale. Nessuno è mai riuscito a capire a cosa servissero alla Dino, 7500 ore da dedicare alle attività sindacali. A metà degli anni settanta vengono concordate, tra direzione e sindacato, una serie di riunioni periodiche informative a tutti i livelli. Ricordo che, una volta all'anno, dovevo riunire i componenti del mio dipartimento per parlare delle attività di ciascuno e per motivare, in presenza di due membri del sindacato, le proposte di avanzamento o di aumento salariale dei componenti; in realtà era una messinscena per dimostrare la democratizzazione dell'azienda. Le assemblee di fabbrica annuali erano una pura formalità burocratica, ma tutto serviva per la celebrazione di riti tanto inutili quanto utili per la legittimazione.
Paradossalmente, la formalizzazione e l'istituzionalizzazione di pratiche partecipative ne avevano automaticamente impoverito il significato e la potenzialità. Risulta evidente che la possibilità di un controllo stretto della dinamica salariale e di carriera, da parte del sindacato, non poteva che portare a una situazione di rigidità e appiattimento, soprattutto per la tendenza a rendere omogenei i percorsi di carriera e ad appiattirli verso i livelli più elevati.
La legittimazione della politica sindacale, da parte dei lavoratori, si ha con l'assemblea dei lavoratori; il momento di partecipazione collettiva alla vita aziendale. Il rito dell'assemblea prevede la relazione del cud, in casi particolari la relazione di un delegato esterno, gli interventi dei lavoratori che si suddividono in tanti favorevoli alla relazione e alcuni dissidenti di sinistra, la votazione plebiscitaria per alzata di mano. Verso la fine degli anni settanta i quadri fondano un sindacato che sarà, per qualche anno, l'unica voce fuori dal coro, voce che sarà inascoltata dai dipendenti e tollerata dalla direzione.
All'inizio degli anni ottanta, Brachio impone alla Dino un amministratore delegato, esterno al gruppo e dotato di forte cultura manageriale, al quale viene dato il mandato di valorizzare la società al di fuori del gruppo. Il sindacato si allinea alle indicazioni della controllante; d'altra parte la situazione sindacale dentro e fuori all'azienda, comincia a configurarsi in termini meno favorevoli alle rappresentanze sindacali, come testimonia il calo del tesseramento. Con il nuovo amministratore delegato viene condotto, alla Dino, l'unico serio tentativo di riportare l'impresa a confrontarsi con il mercato, ma questo tentativo cozza contro una cultura professionale molto legata ai grandi obiettivi tecnologici, piuttosto che ai prodotti (Caruso, 1999), e restia a rendere conto del proprio operato in termini di capacità di produrre profitti.
L'obiettivo principale del sindacato, negli anni ottanta, è duplice, riaffermare la propria legittimazione e cercare di ottenere dalla controparte gli stessi privilegi dei dipendenti di Brachio. Se l'obiettivo non viene completamente raggiunto dalle rappresentanze sindacali degli impiegati, l'operazione riesce meglio al sindacato dei dirigenti che in pochi anni riesce ad ottenere "quasi" le stesse retribuzioni e gli stessi privilegi dei dirigenti del dinosauro di stato. Retribuzioni e privilegi che sono ben al di sopra di quelli delle aziende private, nelle quali i livelli di responsabilità e i rischi di licenziamento sono all'ordine del giorno; la situazione è particolarmente stridente dopo il 1985, quando una serie di ristrutturazioni aziendali espellono dal mondo del lavoro un gran numero di dirigenti di aziende private.
Alla fine degli anni ottanta, nell'ambito della politica retributiva e degli inquadramenti, si riscontrano modeste possibilità di manovra sia per i livelli raggiunti dai vari accordi integrativi aziendali, sia per l'elevato valore delle retribuzioni, sensibilmente più elevate rispetto al mercato. Questa situazione priva la direzione di un valido sistema premiante; il fondo del barile è oramai stato raschiato. In quegli anni, un'indagine condotta dal cud presso i dipendenti, su quali parametri essi ritenevano che la direzione valutasse gli sviluppi di carriera e di retribuzione la risposta fu, secondo una scala di ordine decrescente: anzianità, appartenenza a settori trainanti, disponibilità ad assecondare le direttive aziendali, applicazione nel lavoro, preparazione professionale, risultati ottenuti. Sarebbe stata una risposta incoraggiante per l'azienda se la scala fosse stata esattamente capovolta.
Nel novembre del 1989, il cud viene sostituito da delegazioni sindacali aziendali (rsu) più condizionate dai sindacati territoriali; viene ribadita la scelta di consultazioni forti e il contratto integrativo del 1992 contiene esplicite dichiarazioni di intenti in merito al rafforzamento delle procedure consultive, al limite della cogestione. La direzione incomincia a intuire che, forse, il sindacato, a livello politico, potrebbe essere un'ancora di salvezza per se stessa e per i 660 dipendenti della Dino.
Nel 1992, con i progetti di privatizzazione che coinvolgono Brachio, il top management della Dino e i sindacati iniziano a comprendere che un'epoca d'oro sta per concludersi. Il top management inizia un lento processo di riduzione dei costi che prende le mosse con la scontata politica di incentivazioni al prepensionamento; il sindacato si sposta decisamente dal fronte delle richieste a quello della difesa dei privilegi acquisiti invece di sollecitare un drastico cambiamento di obiettivi e modalità gestionali. Il 1992 rappresenta anche l'anno che segna il minimo storico in termini di iscritti al sindacato rispetto al totale dei dipendenti, segno di una chiara sfiducia dei dipendenti, non solo nei riguardi della direzione, come mostrato dalla citata indagine condotta dal sindacato, ma anche verso le stesse rappresentanze sindacali. I tentativi di legare i miglioramenti economici ai risultati, attraverso lo strumento della gratifica, in un ambiente cristallizzato dai principi di una democrazia virtuale, dell'appiattimento e della standardizzazione, portano alla concessione a pioggia degli incentivi (un anno sì, un anno no) non ai migliori ma ai più prepotenti. Ma oramai è in atto un processo irreversibile che condurrà alla scomparsa della società, una volta, vanto e fiore all'occhiello della controllante.

1.2 La carriera dei sindacalisti

In questo capitolo chiarirò perché la storia della Dino debba considerare la storia della sua sindacalizzazione.
Giova, innanzitutto, osservare che nel 1992, un numero elevato dei dirigenti della Dino erano stati sindacalisti o facevano riferimento a comunione e liberazione. Il circolo vizioso che porterà la Dino a essere gestita da ex-sindacalisti, prassi che si riscontra in quasi tutte le aziende pubbliche, è semplice; l'attività sindacale porta due vantaggi. Uno, la possibilità di incontrare e conoscere, da parte dei più attivi, personaggi di rilievo della politica. Due la prassi della cogestione, che vede la direzione consultarsi, in occasione di momenti topici della vita aziendale, con il sindacato, porta, inevitabilmente, alla promiscuità di interessi che dovrebbero essere contrapposti. Il sindacalista, pur in un sistema fortemente omogeneizzato, scala i livelli di carriera più velocemente degli altri e, nel silenzio colpevole di tutti, un giorno viene nominato dirigente.
Attorno al tavolo delle trattative aziendali, si trovano pertanto tutte persone portatrici di una cultura che privilegia gli aspetti relazionali, che pure sono importanti, ma che considera secondari gli interessi dell'impresa.
Monti, era un sindacalista dei più attivi, un giorno scompare cooptato dalla segreteria regionale di un sindacato; ricompare dopo una decina di anni di apprezzato servizio sindacale. È inquadrato nel livello 7 in pochi anni diventa livello 8, quadro B, quadro A, dirigente e assistente dell'amministratore delegato, recuperando il livello dei colleghi sindacalisti che dirigenti lo erano già diventati. Io, personalmente, allora direttore della promozione commerciale, faccio presente all'amministratore delegato che quella nomina aveva sollevato una serie di perplessità nell'azienda. La risposta dell'amministratore fu «Monti conosce molti uomini politici e può esserci di aiuto».
Verso la fine del 1988, l'impresa era in attesa delle nuove nomine del consiglio di amministrazione e del top management; io vengo chiamato da Crisafulli il quale mi dice «Eugenio fammi i complimenti sono stato nominato direttore generale. C'è, però, un elemento negativo siamo due direttori generali, io e Artosi e un vice direttore generale, Castagnetti, ma il consiglio di amministrazione ha tolto praticamente tutte le deleghe a Viciani (amministratore delegato, organico alla dc), affidandole ai direttori generali».
Un brivido attraversò la mia spina dorsale a quell'annuncio, conoscevo molto bene Crisafulli, era stato collega all’università e potevamo considerarci amici, era una bravissima persona, ma non lo conoscevo sotto l'aspetto delle capacità manageriali. Era stato sindacalista della Dino e grande attivista del Pci, inoltre aveva avuto l'opportunità di mettersi nell'ombra del consigliere comunista di Brachio.
Anche Artosi, lo conoscevo bene anche se non come Crisafulli; era il classico animale politico. La sua nomina era stata voluta da uno dei consiglieri socialisti di Brachio. Era stato uno dei promotori della commissione interna, eccelleva al microfono, era capace di parlare ore in politichese con frasi compiute e dotate di coerenza interna, senza dire assolutamente nulla. Era amico di tutti, a tutti dava del tu, era molto "democratico", e il suo modello di gestione si basava esclusivamente sulla cogestione dell'impresa con il sindacato. Quando si andava da lui era facile trovarlo in confidenziali confabulazioni con qualche membro del sindacato; particolarmente grazie alla sua azione, molti dei vecchi e nuovi sindacalisti gli erano grati per una carriera veloce e prestigiosa. Artosi e Crisafulli erano figli di quella partitocrazia e di quel consociativismo che ha inquinato la storia economica e politica italiana dagli anni sessanta in poi.
Con Crisafulli e Artosi, cioè con il pieno controllo della società da parte dei partiti, la Dino conosce il periodo del massimo splendore: contratti integrativi per impiegati e dirigenti, quasi a livello di quelli della controllante, ordini quadro, da parte della direzione ReS di Brachio, che apportavano un flusso monetario che non si sapeva come spendere.

 

 

1.3 La quotidianità alla Dino

Una visione ampia e completa di come la Dino fosse gestita la ebbi dal momento in cui fui nominato direttore e iniziai a frequentarne il comitato che si riuniva ogni lunedì per discutere su problemi ordinari o straordinari dell'azienda. Degli anni precedenti ho alcuni ricordi che illustrano in maniera impeccabile come non andrebbe gestita un'azienda.

Inadeguatezza della direzione amministrativa.
Negli anni '70, chiudo un lungo lavoro effettuato per conto del Cnr; il prodotto è un ponderoso rapporto contenente i risultati di due anni di attività di ricerca che ho cercato di completare entro il mese di gennaio per accelerare il processo di incasso. La segretaria provvede, con urgenza, a far fotocopiare e fascicolare il rapporto e trasmetterlo all'ufficio competente. Nel mese di settembre mi si presenta un'addetta alle fatturazioni della direzione amministrativa, con una copia del mio rapporto in mano, per chiedermi informazioni sull'indirizzo della persona del Cnr al quale il rapporto andava inviato. Alle mie rimostranze sul ritardo spaventoso con il quale sarebbe stato inviato il documento scoprii che la ragazza non aveva la minima idea che quel ritardo significava un ritardo nell'incasso e quindi una perdita per la Dino. Da allora l'ufficio fatturazioni, retto dalla Falsetti, si guardò bene dal darmi qualsiasi informazione sui tempi di giacenza dei rapporti da trasmettere ai clienti.

Inadeguatezza della pianificazione strategica.
Da quando ero stato assunto, una costante delle indicazioni della direzione era che la Dino costava troppo alla controllante e che occorreva differenziare la committenza. Verso la fine degli anni settanta con un rappresentante tecnico di Brachio si decide che, all'interno di un vasto programma di ricerca sui materiali avanzati di interesse di Brachio poteva essere inserito, come attività di spin-off dell'attività principale, uno studio sui materiali per protesi femorali. Questo lavoro porta ad ottimi risultati di laboratorio, tanto che si decide di realizzare un brevetto sul modello di protesi proposto. Quando Castagnetti, allora vice-direttore generale addetto alla pianificazione strategica, noto per la sua angoscia esistenziale di non turbare in nessun modo lo stato di sonnolenza di Brachio, viene a conoscenza della cosa fa una piazzata indecorosa con il direttore generale affermando che Caruso buttava via i soldi di Brachio in ricerche inutili. Bastava un'occhiata alle riviste specializzate per capire che il settore dei materiali per applicazioni bio-mediche sarebbe esploso entro qualche anno. Il successo della Sorin (divenuta successivamente Sorin Biomedica) è sotto gli occhi di tutti; una piccola società, una volta impegnata in attività nucleari, approccia il filone bio-medicale e di quel filone ne fa un business vincente. Una decina d'anni dopo, il prodotto che il sottoscritto e i suoi collaboratori volevano brevettare era diventato, sul mercato, un modello avanzato di protesi.

Inadeguatezza della politica commerciale.
All'inizio degli anni ottanta un laboratorio del mio dipartimento aveva acquisito una grossa commessa per la realizzazione di un misuratore dello spessore di tubi all'uscita di un laminatoio continuo. Il prototipo viene realizzato in un paio di anni e brevettato in tutto il mondo; il sistema consiste in una sofisticata struttura meccanica, la cui costruzione compete al committente, e nel sensore vero e proprio realizzato dalla Dino. D'altra parte, trattandosi del primo esemplare esistente al mondo le caratteristiche di funzionamento non soddisfano in pieno i dati di progetto; le défaillance sono in parte dovute al non rispetto dei dati di progetto della struttura meccanica (di difficile realizzazione, considerando che andava montata all'uscita di un laminatoio) e in parte alla necessità di sottoporre il sensore a un prolungato periodo di tarature. Io e il cliente stabiliamo di considerare come prototipo di ricerca l'esemplare realizzato (facendoselo finanziare dal fondo per l'innovazione tecnologica del ministero dell'industria) e di procedere alla realizzazione del sistema definitivo, dopo un periodo di prove con il prototipo. Purtroppo, proprio al termine di questa fase, nel 1986, Dino è oggetto dell'ennesima ristrutturazione che prevede che  tutta la sensoristica faccia capo a un altro dipartimento. Prima di procedere al trasferimento delle attività, la direzione commerciale vuole analizzare tutto l'iter procedurale, dall'offerta allo stato dell'arte finale. Quando viene informato dell'accordo tra gentiluomini stretto tra Caruso e la committenza, accordo che permetteva alla Dino di incassare quanto previsto dall'offerta per il prototipo e di acquisire un nuovo ordine per un secondo esemplare, il direttore commerciale, che da poco aveva lasciato la sua attività tecnica, si impunta affermando che la committenza non aveva rispettato le condizioni poste dalla Dino per la struttura meccanica e quindi era inadempiente. Il direttore commerciale per il piacere di pavoneggiarsi, in un ruolo per il quale era inadatto, mette in una posizione difficile la controparte tecnica del cliente, che deve, quindi, rendere conto alla propria direzione della non rispondenza della struttura meccanica ai dati di progetto. Da quel momento, l'ottimo rapporto stabilito da me e dai miei collaboratori con il cliente si rompe. Dino non arriverà più alla realizzazione del prodotto finale. Castagnetti, sempre pronto alla critica distruttiva andava dicendo, più o meno sfottendo Viciani «Ma chi ha fatto Caruso dirigente!!». Qualche anno dopo usciva un sistema analogo da parte di una multinazionale. Giustamente il grande economista Lewitt mette in guardia dal collocare in posizione di responsabilità gestionali i ricercatori (a eccezione di Eugenio caruso).

Incapacità di governare il capitale intellettuale.
Gradoni era stato mio laureando e assunto dalla Dino, su sollecitazione di Crisafulli e mia, poiché mostrava doti di creatività non comuni. Pochi anni dopo lo si incontrava nei corridoi trascinando la sua lunga ombra con pacchi di tabulati tra le braccia, l'occhio spento e lo sguardo disperato. Nel 1980, Crisafulli, che ricopre un incarico di staff, mi chiama e mi fa questo discorso «Devi darci una mano per risolvere un problema. Gradoni si è rivelato un elemento poco valido e non conclude nulla. Se lo prendi tu non lo carichiamo sui costi del tuo budget per tre anni. So che sei bravo a rivalutare le persone». Gradoni viene a lavorare con me; comprendo che il suo valore in termini di creatività è notevole, ma che non bisogna assolutamente fargli sentire il peso della responsabilità. Nel giro di sei mesi riesce a fatturare le sue attività a 120.000 lire/ora e in pochi anni realizza diversi brevetti di prodotti industriali, tra i quali il sensore del precedente episodio. Quando, nel 1986, viene trasferito in un altro dipartimento nel giro di dodici mesi ritorna a costituire un problema per l'azienda.
Nel 1983, il solito Crisafulli mi chiama e mi dice «Nella sezione di Torci c'è un fisico, Piacentini, che non va d'accordo con il suo capo, a me non sembra male, ma sono diversi anni che non conclude nulla; se lo prendi, te lo diamo con l’autofinanziamento di un argomento di ricerca del quale tu puoi scegliere il tema». Accetto ed elaboro con Piacentini un tema di ricerca assolutamente innovativo. Comprendo che Piacentini è esattamente l'opposto di Gradoni, ha bisogno di essere responsabilizzato per sfogare la sua creatività e assecondo questa sua esigenza. Nel giro di qualche anno, il laboratorio di Piacentini diventa uno dei più accreditati nel mondo. Quando vengo nominato direttore e devo lasciare la ricerca vedrò, nel giro di tre-quattro anni, le teste più creative del mio gruppo lasciare la Dino per altre destinazioni (università, estero, industria privata).

Impotenza nel governare la produzione.
Come s'è già accennato, la direzione ricerca di Brachio aveva l'incarico di redigere con la Dino, all'inizio di ogni esercizio, un "ordine quadro" la cui entità economica veniva stabilita dal consiglio di amministrazione di Brachio. Questo documento doveva prevedere le attività che la Dino avrebbe dovuto svolgere durante l'anno in favore della controllante. L'ordine quadro era articolato in attività di servizio, attività di ricerca e di osservatorio tecnologico. Nella realtà dei fatti, esso maturava attraverso accordi tra i responsabili di unità operative della Dino e i "rappresentanti tecnici" di Brachio, era in pratica il risultato di accordi tra ricercatori. Quelli della Dino cercavano di ottenere cospicui finanziamenti per mostrare alla direzione la propria autosufficienza economica, quelli della Brachio finanziavano quelle attività che avrebbero avuto su di essi ricadute positive di carriera. All'inizio dell'anno si scatenava quindi una sorda competizione, da una parte, tra le unità operative della Dino, in quanto ciascuna cercava di ottenere un robusto paniere di contratti a discapito di altre unità e, dall'altra parte, tra i rappresentanti tecnici di Brachio per accrescere il numero e la quantità di contratti da gestire. Giova osservare che tra i tecnici delle due parti si instauravano spesso rapporti di amicizia, come, a volte, nascevano odi implacabili che, per lo più, portavano alla chiusura di qualche attività. Spesso i tecnici della Dino ricorrevano ai vari strumenti della peggiore adulazione, altre volte si stabiliva, tra le controparti, un rapporto di stima. Molte unità riuscivano a raggiungere gli obiettivi di budget solo grazie alle commesse previste dall'ordine quadro, altre non avevano la stessa fortuna e diventavano un "problema" per la società perché dovevano cercare di acquisire ordini all'esterno del captive market. Giova sottolineare che i rappresentanti tecnici di Brachio avevano acquisito una certa abilità nel suddividere i progetti di ricerca in tante commesse che venivano suddivise tra Dino, altre società controllate, cnr, università e gli stessi laboratori di ricerca della Brachio. Il risultato era che la Dino non aveva, quasi mai, una visione completa del progetto per il quale lavorava. Nell'immane bagarre che si scatenava all'inizio di ogni esercizio, la direzione non aveva nessuna possibilità di intervento se non la verifica ex-post di come era stata suddivisa la "torta". Pur avendo nelle proprie mani gli strumenti tecnici e politici per porre un limite allo strapotere dei tecnici, alla casualità delle ricerche formulate con allegati tecnici preparati in uno o due giorni, alla mancanza di progetti di ampio respiro, nulla fu mai tentato. Crisafulli, che era un grande esperto di motti e proverbi soleva affermare "Queta non movere". Da un certo anno in poi nacque la consuetudine di ricevere un'integrazione economica degli ordini quadro, verso settembre ottobre, cosicché l'entità del finanziamento da parte della controllante aveva un andamento in forte ascesa. Era infatti successo che i tecnici della Brachio avevano scoperto che potevano servirsi della Dino per attrezzare i propri laboratori. Il gioco era semplice, per superare le farraginose procedure del sistema di approvvigionamenti della Brachio, i responsabili tecnici facevano inserire tra gli argomenti dell'ordine quadro attività che, nella realtà, si configuravano come veri e propri acquisti, da parte della Dino, di apparecchiature e impianti di interesse della direzione ricerche della Brachio.

Mancanza di rispetto per i lavoratori
Alla fine degli anni ottanta ho l'occasione di conoscere e frequentare, Anastasia, una bella ragazza della direzione amministrativa, allora diretta, da Todini. Mi rendo conto che Anastasia esce volentieri con me, ma nello stesso tempo percepisco un impalpabile senso di imbarazzo. Per cinque-sei mesi non la vedo più e quando, finalmente, mi capita di rivederla la trovo dimagrita, quasi anoressica, stanca e avvilita. Con il tempo, cerco di approfondire la valenza della prima sensazione e le ragioni della sua trasformazione. Scopro che la ragazza odia, in generale, i capi, rimpiange un suo precedente periodo lavorativo in una piccola impresa e "incolpa" il padre di aver insistito per farla entrare alla Dino, un'impresa sicura, un'impresa di stato. La storia è familiare a molte donne lavoratrici, ma va comunque raccontata. Todini aveva l'abitudine del palpeggiamento di seni e sederi delle sue impiegate (questi atteggiamenti erano visibili e ostentati, non si sa di altro), le quali venivano beneficiate con passaggi di categoria e aumenti. Un giorno Anastasia era intenta alla fotocopiatrice quando sente una mano scivolarle nella scollatura e stringerle con forza un seno; Anastasia si volta di scatto e schiaffeggia Todini, apostrofandolo «Ma come si permette» e lui «Cosa c'è di male» e lei «C'è di male che lei è un porco». Todini freddo le rimanda «Me la pagherai». Nel frattempo alcuni colleghi escono dagli uffici e chiedono ad Anastasia cosa le fosse accaduto, e lei, «Quel porco mi ha messo le mani addosso». A questo punto gli amici della ragazza le fanno questa previsione «Hai firmato la tua condanna. Dovevi fare come le altre e stare zitta». Anastasia era troppo giovane e impreparata e si tiene l'accaduto per sé. Dopo un mese Anastasia ottiene, grazie alla frequenza di un corso serale, un diploma in ragioneria, che si aggiunge ad un proficiency in inglese. Secondo il contratto integrativo aziendale, l'ufficio personale informa Todini, che grazie al diploma ottenuto e alle mansioni svolte, Anastasia ha diritto ad un passaggio di categoria. Todini chiama Anastasia nel suo ufficio, la informa della proposta dell'ufficio personale e della sua ferma intenzione a non dare mai la sua autorizzazione al passaggio. «In questa direzione comando io e l'ufficio personale farà ciò che dirò io». Falsetti, la capetta di Anastasia, riceve, probabilmente, istruzioni precise da Todini, poiché inizia un'opera di distruzione psicologica nei confronti della collega. Anastasia si lascia andare, perde la voglia di lavorare e di impegnarsi; ma a questo punto interviene Alberti, detto "il confessionale della Dino", che convince Anastasia a rivolgersi all'avvocato del sindacato. La Dino è condannata dal pretore del lavoro a concedere a Anastasia il livello che le spetta. Quando ritrovo Anastasia, trasformata nel fisico e nel morale, stava appunto uscendo dal periodo del diploma e della sua vertenza con l'azienda. Quando Anastasia mi racconta la sua storia, mi rendo conto che la sua vita lavorativa alla Dino sarà veramente difficile: Artosi è un individuo estremamente vendicativo che non accetta che la Dino sia condotta davanti al pretore. Parlando una volta con Artosi di Anastasia potei constatare la sua rabbia e poi «Cosa vale un diploma preso a una scuola serale. Non vale nulla e noi nulla lo consideriamo». Anastasia era oramai marchiata, poteva fare il salto triplo carpiato, ma la sua scheda personale tramandava, da un capo all'altro, il suo atteggiamento anti aziendale. Dal giorno dello schiaffo inizia nei confronti di Anastasia il meccanismo del mobbing . Quando Todini viene sostituito da Mollini, soprannominato dalla palude aziendale "Pierino", Anastasia va da lui per avere un riconoscimento della propria professionalità e Mollini, seriamente, «Signorina Anastasia, ma lo sa che siamo in una situazione di crisi? Lei lamenta di non aver mai avuto un aumento o una gratifica, ma pensi a quelli che erano abituati a avere una barca e oggi non possono più permetterselo».
Il caso di Anastasia lo conosco bene perché mi è stato traccontato dalla protagonista, ma il gorgoglio della palude sosteneva che il fenomeno delle molestie sessuali era frequente, ma che era “colpa delle donne che accettavano per fare carriera”.

Incapacità a gestire il personale.
Entrando alla Dino si aveva la sensazione di entrare in un grande centro commerciale. In prossimità degli ingressi c'era il bar, aperto per quasi tutte e otto le ore lavorative, e mèta di pellegrinaggi di intere unità. Anni prima avevo avuto un diverbio con un mio capo perché costui, quattro volte al giorno andava a prendere il caffè e pretendeva di essere circondato da una folta corte. Chiamava pertanto tutte le segretarie, anche quella del mio dipartimento, che lasciava il lavoro per andare a prendere il caffè con il capo divisione. Io, e come me tanti altri, ci sentivamo a disagio quando un visitatore veniva a trovarci e doveva solcare quelle fiumane di lavoratori caffeinomani. Durante le due ore di chiusura del bar si poteva ricorrere alle macchinette automatiche, attorno alle quali si formavano gruppi di lavoratori che, esausti per l'eccesso di lavoro, si ritrovavano a discutere della partita o dello spettacolo televisivo. Ancora più traumatica era l'esperienza di un giro estemporaneo nei corridoi delle varie strutture operative o dei servizi. Uffici trasformati in salottini dove si discuteva animatamente di politica, dipendenti che leggevano un quotidiano o una rivista, radioline accese a tutto volume, lavoratori intenti al computer in giochi impegnativi, laboratori nei quali regnava disordine e confusione. Meno appariscente, ma nota a tutti era la consuetudine di fare affari all'interno dell'azienda; c'erano i mediatori immobiliari e altri che si accontentavano del piccolo commercio. A me erano stati proposti i seguenti articoli: preservativi, scarpe, maglieria intima, orologi, gioielli, ma sapevo che alla Dino si poteva comprare di tutto. Un altro comportamento indecoroso, che si riscontrava in azienda era l'utilizzo dell'intervallo di mensa; i quarantacinque minuti previsti da contratto, duravano, per la maggior parte dei dipendenti dai sessanta ai centoventi minuti, secondo la legge della relatività temporale. È probabile che dopo il pranzo l'attività degli ormoni androgeni subisse forti impennate; infatti molte coppie si dedicavano ad attività sessuali clandestine, ecclissandosi nei luoghi più impensabili, si raccontava: nei sotterranei, tra le poltrone della sala congressi, nei gabinetti, in uffici e laboratori che consentivano la privacy. Con la possibilità di connessione ad internet, un altro diversivo era nato per rompere la monotonia della giornata.
Tutto avveniva sotto la sguardo benevolo o tollerante della dirigenza ex sindacalista, abituata a trattare i lavoratori come merce di scambio per la propria carriera. Chi cercava di porre un freno a queste interpretazioni tribali del luogo di lavoro, se era un capo veniva considerato antidemocratico, se era un dipendente era sottoposto a discriminazione e mobbing.
Il lavoro lo si faceva veramente, solo quando si andava in missione presso gli impianti di Brachio, perché grazie ai generosi contratti integrativi aziendali, con la trasferta si poteva anche raddoppiare lo stipendio.
È ovvio che nello sfascio generalizzato c'erano anche molti che lavoravano seriamente però, se erano giovani e abbastanza smaliziati, dopo un po' lasciavano la Dino, se erano più anziani, e con poche prospettive di un lavoro all'esterno, si chiudevano in sé stessi e andavano avanti pensando alla pensione.

 

1.4 La Dino spartita tra socialisti e comunisti

Dopo la nomina, nel 1988, di Crisafulli e Artosi alla condivisione del posto di direttore generale inizia il balletto delle ripicche e delle nuove nomine. Tre direttori del vecchio board, indignati, rassegnano immediatamente le loro dimissioni e senza chiacchiere partono per altri lidi. Castagnetti, pur mugugnando e irridendo ai due direttori generali, accetta la posizione di vice direttore generale; tra l'altro, essendo uno dei pochi che mastica qualcosa di budget e bilanci, gli viene affidata la supervisione della direzione amministrazione e finanza. Nel '90, anche Todini lascia la Dino, schiacciato dall'avanzata dell'information technology nel settore amministrativo (sostituito da un esterno, Mollini) e nel '91, lascia Girola, direttore del personale, insofferente delle escursioni di Crisafulli nella gestione della sua direzione (sostituito da un interno, Perotti). Dopo l'assunzione di Mollini si scopre che sotto la gestione di Todini, il cassiere dell'amministrazione aveva rubato nel corso di lunghi anni centinaia di milioni.
Crisafulli nel mazzo delle segretarie della Dino, ne sceglie una comunista, e Artosi una socialista.
Nel 1988, vengono nominati i vari direttori e a me viene affidata la direzione "Progetti di trasferimento all'estero", progetti finanziati dal ministero affari esteri, che, in quegli anni, era sensibile alle esportazioni di nostre tecnologie in paesi in via di sviluppo industriale. L'incarico, prevedendo lunghi periodi di assenza dall'azienda, era poco ambito dai colleghi.
Con il rinnovo del consiglio di amministrazione del '93, termina l'assurdo condominio dei direttori, Artosi è nominato amministratore delegato e Crisafulli, direttore generale unico; inoltre in considerazione dei primi segni di crisi viene creata una direzione per la promozione commerciale e affidata a me, che, nel frattempo, avevo acquisito competenze di marketing, anche grazie a corsi di formazione.

1.5 Il comitato dei direttori

Con il 1988 inizia quindi la mia esperienza di partecipazione collegiale alla gestione della società attraverso il cosiddetto comitato dei direttori.
Una costante di queste riunione era l'analisi dei dati di bilancio. Castagnetti, infatti, facendo valere la sua anzianità aveva la capacità di indirizzare la discussione sugli argomenti che amava trattare. Da quando, nel 1986, la Dino aveva chiuso il bilancio in nero era chiaro a tutti che non ci sarebbero più stati problemi finanziari, eppure molte riunioni del comitato si aprivano con Castagnetti, che con aria preoccupava anticipava «Ragazzi, non è un allarme, è solo un segnale di allerta, ma l'andamento degli stati di avanzamento lavori è sotto i dati di budget». I primi tempi, le parole del vice direttore generale avevano il potere di preoccupare tutti; era evidente che se la Dino fosse ritornata ai bilanci in rosso i direttori ne sarebbero usciti con le ossa rotte. Iniziavano allora interminabili discussioni nelle quali si diceva tutto e il contrario di tutto, si chiamava Alberti, per cercare di capire quali unità operative erano in difetto, si chiamava la Giorgetti per avere la situazione aggiornata dei costi in proprio, il bocconiano Mollini, direttore amministrativo, faceva una lezione su non si sa cosa, che non interessava nessuno; alla fine, stremati, si rimandava a un'analisi più accurata.
Verso la fine dell'anno, la preoccupazione di Castagnetti era di segno opposto «Ragazzi è un segnale di allerta, ma con l'attuale andamento delle fatturazione e degli stati di avanzamento corriamo il rischio di fare utili». Sembra una barzelletta ma, in realtà, una preoccupazione ancora maggiore di quella del bilancio in rosso era quella del bilancio con un utile troppo alto; la cosa avrebbe potuto dare fastidio alla controllante, e si sarebbe potuto correre il rischio di subire una caduta dell'andamento di crescita dell'ordine quadro. In questa seconda situazione tutti eravamo in grado di dare un suggerimento per evitare la calamità degli utili. Anche in questo caso, sfinimento e irritazione avevano la meglio e si concludeva con la solita decisione di mettere il freno agli stati di avanzamento.
L'anno successivo si sarebbe dovuto giostrare con i bonus (lavori con stati di avanzamento reali maggiori di quelli dichiarati) e con i malus (esattamente il contrario), cosicché altre variabili erano introdotte per rendere il gioco del bilancio più divertente.
Mi apparve chiaro, dopo i primi mesi di queste riunioni, che il risultato di questi incontri risultava sterile e non portava a decisioni di cui potessimo ritenerci soddisfatti. Infatti, si perdeva una grande quantità di tempo in minuetti dialettici, l'argomento non veniva mai analizzato esaurientemente, perché ognuno era interessato alla difesa delle proprie posizioni oppure era influenzato dal proprio modo di affrontare un problema. Artosi e Crisafulli erano l'uno l'eco dell'altro.
I due, nel periodo in cui furono gemellati nella direzione generale, si erano suddivisi i compiti e pertanto, ogni direttore faceva, normalmente, più riferimento ad uno che all'altro; io riferivo ad Artosi. Poiché il compito affidatomi era particolarmente difficile, Artosi, mi indicò una serie di personaggi, tutti di area socialista, che avrebbero potuto aiutarci nell'acquisire commesse dal ministero affari esteri o dagli enti internazionali finanziatori di progetti di cooperazione. Vennero stipulati numerosi accordi di collaborazione con società e professionisti che portarono all'esborso di centinaia di milioni, venne assunto il nipote di un ministro, affidati a professionisti lavori dei quali la Dino non aveva nessun bisogno, finanziate ricchissime trasferte in tutto il mondo per lobbysti e intermediari. Nessuna di queste iniziative portò il vantaggio di una sola lira nelle casse della Dino, ma solo esborsi ed enormi perdite di tempo, sia per seguire le azioni dei vari personaggi sia per sollecitare il rapido pagamento delle loro fatture. 

1.5.1 I direttori

Dei quattro direttori della produzione, Cialdi era un personaggio a elevata energia negativa; egli, dopo essere riuscito a convincere il comitato dei direttori sul non intraprendere una certa iniziativa, veniva pregato di suggerire qualcosa, Cialdi faceva la sua proposta che veniva discussa e qualche volta approvata. A questo punto cambiava idea affermando decisamente che anche la sua proposta era inadatta. Cialdi era dotato di una buona retorica, ma il suo pensiero rispecchiava in pieno l'arte del pensiero negativo che nasce da un profondo pessimismo; pessimismo che, nell'incapacità di trovare il bandolo della matassa, porta ad analisi scoordinate e a volte irrazionali. A esempio, all'avvicinarsi della tempesta si batté contro una serie di workshop dal titolo «Strumenti per diversificare la committenza», che Crisafulli voleva organizzare per i direttori. Cialdi, grazie anche alla tipologia della sua divisione, aveva una messe di contratti da parte della direzione ricerca di Brachio, tanto che poteva affermare «sono io che copro le perdite delle altre divisioni». Nonostante un atteggiamento costantemente rivolto al pessimismo, nella gestione ordinaria era sicuramente quello che riusciva ad ottenere i migliori risultati.
Anche le attività di Frigoli, derivavano, quasi esclusivamente, da commesse dell'ordine quadro. Durante le riunioni dei direttori si estraniava completamente dall'argomento in questione, a meno che non coinvolgesse la sua divisione. Non mostrava mai interesse a considerare la società come un corpo unico; la sua divisione era una sorta di campo trincerato. A difesa del suo isolamento aveva scelto una segretaria che aveva nel suo dna la maleducazione e da maleducata si comportava con chiunque avesse bisogno di parlare con Frigoli. Anni dopo si scoprirà che la difesa dell'autonomia della Divisione era dovuta, anche, a interessi privati che nulla avevano a che fare con gli interessi aziendali.
Morra arrivava in ufficio non prima delle 11 e organizzava le riunioni con i suoi collaboratori, spesso dopo le 21; era soprannominato dalla palude aziendale "lupo solitario". Alle riunioni del comitato dei direttori era sempre il più informato, durante la giornata, infatti, si preoccupava più della raccolta di informazioni, ufficiali e non ufficiali, che della gestione della divisione. I detrattori affermavano che faceva le prove da direttore generale. Il bilancio complessivo della sua divisione non era entusiasmante; d'altra parte quando fui nominato direttore della promozione commerciale della società ebbi occasione di verificare la sua arroganza nei confronti della committenza e un'assoluta indifferenza per la customer satisfaction.
La divisione di Rossi era la più disastrata, anche se la più ricca di potenzialità. Rossi era intelligente, ma assolutamente privo delle qualità del manager; perdeva una quantità immensa di tempo a discutere con i dipendenti di questioni della minima importanza, ma, ogniqualvolta programmava una riorganizzazione interna scoppiava un contenzioso o con i dipendenti o con il sindacato. Aveva ereditato i laboratori più prestigiosi e più promettenti della società, ma in pochi anni perse i collaboratori più validi, tra i migliori della società. La copertura economica delle sue attività rappresentava un continuo problema per la Dino. Spesso durante le noiose discussioni del comitato, lo si vedeva scivolare lentamente sulle comode poltrone della sala riunioni e sprofondare in uno stato di torpore.
Perotti, il nuovo direttore del personale, era l'uomo di Artosi, che considerava suo faro e timoniere; quando Artosi dovette assentarsi per alcuni mesi, nel periodo di tangentopoli, essendo agli arresti domiciliari, Perotti mostrava chiaramente di essere disperato. Era sempre preciso e attento, durante le riunioni scriveva continuamente tutto ciò che veniva detto e nessuno ha mai capito a cosa servisse tutto quello scrivere. Era un esecutore acritico della volontà di Artosi e Crisafulli; entrambi, data la loro origine, privilegiavano il contatto diretto con il sindacato, cosicché, dopo l'uscita di scena di Girolla, la direzione del personale aveva perduto la propria autonomia nella gestione delle relazioni industriali.
Mollini era un tecnico sicuramente preparato, ma non aveva le minime qualità del manager; prima Castagnetti e, dopo il pensionamento di questi, Artosi erano loro a fare i direttori amministrativi. Mollini lasciava fare e anche nella gestione del personale era carente; nella sua direzione c'erano molte donne, particolarmente nell'ufficio della Falsetti, che facevano tutto quello che volevano. Non iniziavano a lavorare prima delle 10, al mattino e prima delle 15 al pomeriggio, poi c'erano le interruzioni per il caffè, o il tè, o il gelato, le telefonate alle amiche o ai figli e mariti, oppure gli incontri clandestini. L'attivismo nella direzione di Mollini iniziava dopo le 17, 30, allora dai cassetti e dagli armadi usciva una quantità di lavoro da finire ed era necessario ricorrere agli straordinari e Mollini andava orgoglioso dell'attaccamento al lavoro dei suoi dipendenti.

1.5.2 Problemi

Io, durante alcune riunioni del comitato, avevo messo in guardia rispetto a due gravi problemi che avevo riscontrato durante la mia attività di responsabile di gruppi di ricerca. La prima era l'eccessiva frammentazione delle commesse dell'ordine quadro, che non consentiva di affrontare le ricerche, con sufficiente approfondimento. Occorreva un'azione politica verso la controllante in modo che la definizione degli ordini quadro avvenisse a un livello in grado di favorire una pianificazione strategica delle attività e non fosse lasciata nelle mani dei tecnici. Un'operazione del genere sarebbe stata vista positivamente anche dai vertici della direzione ricerca di Brachio. La proposta non fu presa in considerazione per paura che la tecnostruttura della direzione ricerca di Brachio ostacolasse questo cambiamento. Continuò pertanto la prassi degli ordini quadro redatti dai tecnici. Quando, nella posizione di direttore della promozione commerciale, ebbi modo di analizzare in dettaglio tutte le attività in corso presso la Dino, verificai l'esistenza di una situazione disastrosa.
La Dino aveva nel proprio virtuale catalogo d'offerta un centinaio di prodotti e di sistemi strumentali progettati e realizzati d'accordo con i rappresentanti tecnici di Brachio. Fatta una prima selezione ed eliminata una quantità di ciarpame tecnologico, frutto dell'inesauribile fantasia di ricercatori che operavano senza il minimo controllo dei costi e dei reali bisogni della committenza, rimanevano una trentina di sistemi che teoricamente avrebbero potuto affrontare l'esame del mercato. Molti di questi sistemi, ottimizzati nel corso degli anni, erano costati a Brachio (e, non dimentichiamolo, al contribuente) decine e decine di miliardi. Un'analisi più accurata fu condotta presso i clienti, infatti, alcuni sistemi strumentali erano montati presso impianti della controllante. Purtroppo la verifica con i direttori degli impianti aveva portato alla seguente scoperta. Quei sistemi erano stati accettati per mantenere buoni rapporti con il mondo della ricerca del gruppo, in realtà non avevano dato i risultati promessi dai ricercatori, molti erano stati staccati dagli impianti, di alcuni non volevano nemmeno sentirne parlare, tanto era forte l'irritazione per il tempo perso e per i fallimenti riscontrati.
Il sistema della ricerca di Brachio e della Dino si era rivelato un enorme moloc che aveva dissipato e dissipava risorse umane e materiali. È inutile affermare che i tentativi fatti, con sforzi enormi, per vendere i sistemi Dino al di fuori del captive market si rivelarono un fallimento.
Sul fronte dei servizi il grado di soddisfazione dei direttori di impianto non era negativo, i tecnici della Dino operavano secondo le indicazioni dei committenti e non c'erano molte rimostranze. Ma alla base di questa soddisfazione c'era un particolare importante: i servizi prestati dalla Dino figuravano sul bilancio della direzione ricerca della Brachio e non venivano caricati sui costi di manutenzione degli impianti. Peraltro, l'ipotesi che tali costi potessero essere sostenuti dalle strutture operative non poteva nemmeno essere presa in considerazione; i prezzi che Dino esponeva per i propri servizi erano mediamente due volte più cari dei prezzi per gli stessi servizi offerti da società private esterne al gruppo.
Il secondo grave problema che, secondo me, avrebbe richiesto tempestivi interventi, riguardava la perdita degli elementi più brillanti. Per evitare il dissanguamento delle migliori risorse, sarebbe stato necessario creare una sorta di carriera parallela a quella dirigenziale, che consentisse almeno ai senior scientist più validi di poter raggiungere livelli retributivi confrontabili con quelli dei dirigenti. Scontato che fosse vergognoso che alcuni dipendenti avessero acquisito la dirigenza, si sarebbe potuto attenuare la disillusione, o forse il disgusto, degli elementi più validi con una significativa incentivazione economica. Purtroppo anche questa ipotesi fu scartata, il costo del lavoro alla Dino era già troppo elevato: per pagare segretarie semianalfabete (assunte in massa quando occorrevano perforatrici di schede per i primi calcolatori) come un ingegnere sul mercato del lavoro privato o dirigenti di nulla, come un direttore marketing di una media impresa, non era possibile dare il giusto riconoscimento al vero capitale della Dino, il capitale intellettuale. D'altra parte la politica del personale poggiava su due criteri cercare di accontentare tutti e accontentare meglio chi poteva essere utile politicamente.
Io, nel corso della mia permanenza alla Dino, subisco diverse volte pressioni per assunzioni o avanzamenti pilotati dall'alto, spesso la resistenza sortisce l'effetto voluto altre volte è impossibile resistere.
A esempio poco dopo la nomina a direttore vengo chiamato al telefono da Volontà, presidente della Dino e top manager della Brachio «Caruso avrei piacere di parlare con lei, perché non fa un salto a Roma». Io resto stupito da tanta democrazia da parte di un pezzo da novanta di Brachio, ma penso che, operando sui mercati internazionali, Volontà mi voglia indicare qualche strada per accedere ai finanziamenti della cooperazione. Vado all'appuntamento nel galattico ufficio del presidente il quale, dopo i convenevoli di rito, mi dice «Caruso, so che nella sua direzione c'è Pizanna; dal consiglio di amministrazione di Brachio vengono forti pressioni perché sia nominato dirigente. Sembra che sia un elemento particolarmente brillante e poco valorizzato dai suoi capi precedenti». Ed io «Presidente, Pizanna è un elemento abbastanza valido, ma nei miei programmi c'è la richiesta di dirigenza per Capitano, un esperto dei mercati internazionali, che è stato assunto con la formale promessa di Artosi di essere nominato dirigente entro un anno dall'assunzione», e Volontà «Caruso non si preoccupi faremo dirigenti entrambi». Al mio ritorno a Milano racconto l'accaduto ad Artosi che mi chiede di preparare due dossier per la nomina a dirigente di Pizanna e Capitano. Pizanna diventa dirigente, Capitano, che era entrato alla Dino, lasciando una sua impresa di export, proprio per la promessa di diventare dirigente, non lo diventerà mai. Il precedente capo di Pizanna, nelle valutazioni che mi aveva lasciato sui suoi ex collaboratori, di Pizanna aveva scritto «È un cavallo di razza che non corre e non correrà mai», la sua valutazione si era rivelata corretta. Giova osservare che Pizanna viene nominato dirigente assieme a Monti e che, per la prima volta nella storia della società, viene esposta, nella bacheca sindacale della Dino, una dura protesta dei dipendenti per quelle nomine.
Non meno scandalosa sarà la nomina dell'ultimo dirigente della Dino, Gracco, sodale di Artosi, che, dimostrata la sua incapacità nella gestione del reparto informatico, finirà per gestire i servizi tecnici. Il suo atteggiamento timoroso, succubo della prepotenza di idraulici, elettricisti e fattorini, brianzoli e bergamaschi, e di una segretaria rozza e incolta gli renderà amari gli ultimi anni dell'attività lavorativa, anche se l'amarezza sarà sempre compensata da uno stipendio al di fuori di ogni logica di mercato e di giustizia.

1.6 La scomparsa della Dino

Intanto il vento delle privatizzazioni soffia poderoso, durante il famoso blitz dell'agosto del 1992, i consigli di amministrazione dei maggiori dinosauri di stato vengono sciolti e vengono nominati nuovi presidenti e amministratori delegati.
Nel 1998, l'amministratore delegato di Brachio stabilisce che la Dino venga fusa per incorporazione nel settore ricerca di Brachio. Risulta subito evidente che i dirigenti di Brachio prenderanno il sopravvento su quelli della Dino.
Io, avendo acquisito una buona competenza nel marketing della ricerca, preparo un documento nel quale vengono riportate le strutture di marketing dei maggiori centri di ricerca del pianeta, nonché alcune esperienze personali e una proposta di organizzazione e lo presento a Morzia, il direttore della Brachio Ricerca. In un successivo incontro Morzia, con l'aria di uno che veramente se ne intende, pontifica «Vede Caruso il marketing va bene per vendere detersivi; per la ricerca ci vuole altro». Mi chiedo, ironicamente perplesso, che cosa io insegni ai neolaureati di un master in Management of technology nel quale tengo una lezione proprio sul marketing della ricerca. Non mi faccio prendere da sensi di colpa e decido quindi di cogliere la prima occasione per andarmene da un ambiente che rivela un livello di cultura aziendale peggiore di quello della Dino. Nella riorganizzazione della ricerca le strutture della Dino vengono sciolte, quasi tutti i quadri e i dirigenti incentivati all'esodo; Dino viene cannibalizzata.
Dopo poco, Brachio Ricerca è affidata a un paio di studi di consulenza; Morzia è costretto ad andarsene e nella nuova struttura viene istituita un'unità di marketing.
Il mio parere, nel 1998, era che si sarebbe potuta evitare la fine e che i prodromi del futuro collasso erano già presenti nel 1988. Dopo la nomina di Artosi e Crisafulli, due ex ricercatori, e dei vari direttori (quasi tutti ex ricercatori e quindi consapevoli dello stato delle cose) sarebbe stato vitale fare un'analisi obiettiva dello stato della ricerca nella Dino e, approfittando della situazione di entusiasmo che regnava tra tutti, lavorare a una pianificazione strategica. Si sarebbero dovute individuare le ricerche ritenute strategiche per Brachio, quelle strategiche per Dino, i servizi specialistici che potevano sostenere il confronto con il mercato, le persone ritenute indispensabili per l'azienda, validi strumenti di incentivazione, creare subito una direzione marketing e avviare un piano di formazione tra i ricercatori volta alla customer satisfaction. Cercare, infine, il confronto con la direzione ricerca della Brachio, allo scopo di individuare condivisibili strade di sviluppo e di rinnovamento.
Si preferì invece la continuità con il passato, perché prevalse la paura di smuovere le incrostazioni dei riti e delle consuetudini. L'entusiasmo passò e tutti si fecero imbozzolare nella rete del quotidiano giocando, chi a fare il bilancio da oscar, chi le prove da direttore generale, chi la propria impresa nell'impresa, chi il ricercatore capitato per caso a fare il direttore, chi a chiedersi fin a quando sarebbe durata.
 


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Il brachiosauro è un dinosauro erbivoro enorme che dalla testa alla coda può superare i 20 metri, si muove lentamente nelle foreste del giurassico e il suo lungo collo gli permette di cibarsi delle fronde degli alberi più alti. Ha un cervello minuscolo ed uno stomaco immenso, una sorta di caldaia nella quale la fermentazione dei vegetali ingeriti, fornisce la temperatura adatta per il suo metabolismo (Angela, 1992).

Si intende per captive market quel mercato acquisito all'interno di un gruppo in modo quasi automatico, senza concorrenza e quindi senza un serio controllo dei prezzi.

Erano tecnici di alto livello con i quali venivano concordati i temi delle attività che dovevano confluire negli ordini quadro tra Branchio e Dino.

Il mobbing (da to mob, attaccare) è una situazione di pressione psicologica esercitata dai superiori e da alcuni colleghi dello stesso ufficio verso un lavoratore. È' una sorta di persecuzione strisciante, magari poco evidente, ma non meno pericolosa per la salute di chi viene preso di mira.

Si intende per "palude aziendale" l'insieme di quei dipendenti (dall'operaio al dirigente) che trascorre gran parte del proprio tempo ascoltando e trasmettendo pettegolezzi, malignità, sospetti, e che è una razza molto frequente nelle aziende pubbliche.

 

Eugenio Caruso - 1 aprile 2020


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