Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Dante, Purgatorio Canto XI. La famiglia aldobrandeschi, conti di Sovana

INTRODUZIONE
L'UNDICESIMO CANTO si apre con la preghiera del Pater noster recitata dai superbi, che rappresenta una sorta di parafrasi rispetto al testo originale (in pratica ogni verso della preghiera diventa una terzina, per una ampiezza complessiva di ventiquattro versi). Dante non intende in alcun modo correggere la preghiera di Gesù né mettersi a gareggiare col testo evangelico, quanto piuttosto invitare gli uomini a essere umili e a non cadere nel peccato di superbia: esso è il più grave, quello che maggiormente rischia di privare l'uomo della salvezza, il che spiega anche perché il poeta vi insista per ben tre Canti (qualcosa di simile, nel Purgatorio, avverrà solo con il peccato di avarizia).
Ogni parola della preghiera è un invito perentorio all'umiltà: gli uomini devono lodare la potenza di Dio, invocare la sua pace alla quale non potrebbero mai arrivare con le loro forze, sacrificare a Dio i loro desideri come fanno gli angeli, chiedere a Lui il cibo quotidiano, perdonare le offese subìte. L'ultima parte della preghiera (il verso Ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo) non è rivolto dai penitenti a se stessi, visto che essi sono ormai immuni alla tentazione diabolica, ma ai vivi rimasti sulla Terra, per cui essi si mostrano tanto umili da rivolgere ogni pensiero al destino altrui e non al proprio, come fecero invece quand'erano in vita.
Dante ci mostra poi i penitenti della I Cornice (dopo aver ammonito i vivi a pregare a loro volta per le anime del Purgatorio) e illustra la loro pena attraverso tre esempi, due dei quali parlano direttamente (Omberto Aldobrandeschi e Oderisi da Gubbio) e il terzo (Provenzan Salvani) è soltanto citato; quest'ultimo personaggio è assai affine a Omberto, dal momento che entrambi morirono violentemente e furono uomini nobili, peccando di superbia proprio a causa della loro attività politica.
Omberto riconosce apertamente la propria arroganza in vita, che derivava dall'appartenere a una nobile famiglia e di avere avuto come padre un gran Tosco, quel Guglielmo Aldobrandeschi che fu aspro nemico dei senesi come lo fu anche il figlio. Omberto parla della sua cervice... superba, si definisce arrogante e ammette di aver disprezzato tutti gli uomini non pensando alla comune origine, tanto che finì per morire violentemente per mano dei senesi (Dante non scioglie i dubbi sulla sua morte, che potrebbe essere avvenuta in battaglia o per mano di sicari assoldati dai senesi, il che però non cambia la sostanza del suo destino). Anche i suoi parenti sono superbi come lo fu lui sulla Terra, e poiché non ha scontato la pena della sua arroganza in vita deve farlo da morto, per tutto il tempo che piacerà a Dio.
Il suo caso è molto simile a quello di Provenzan Salvani, citato alla fine del Canto da Oderisi per mostrare quanto è effimera la fama terrena: egli è stato signore di Siena, proprio la città rivale di Omberto, e fu tanto presuntuoso da voler essere il padrone assoluto della città. A differenza di Omberto, tuttavia, egli seppe in un'occasione umiliarsi di fronte ai concittadini, chiedendo l'elemosina per riscattare un amico fatto prigioniero da Carlo d'Angiò (forse un Bartolomeo Saracini, catturato dopo la battaglia di Tagliacozzo e per cui fu chiesta l'enorme somma di 10.000 fiorini); quell'opera buona gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio, come avrebbe dovuto fare tra i morti per forza, ma di accedere subito alla I Cornice.
Tra i due esempi di superbia in campo politico è posto quello di superbia artistica, rappresentato dal miniatore Oderisi da Gubbio che Dante conobbe forse a Bologna, e che infatti riconosce e apostrofa per primo il poeta (lui, a differenza di Omberto, può guardare Dante, quindi è meno curvo del suo compagno di pena). Attraverso Oderisi Dante fa un importante discorso relativo all'arte e alla poesia, che si collega a quello iniziato nel Canto X e che avrà un corollario nel Canto XII, con gli esempi di superbia punita: il miniatore respinge infatti il titolo di onor di quell'arte / che alluminar chiamata è in Parisi, riconoscendo umilmente la superiorità di Franco Bolognese che in vita fu suo concorrente. Oderisi dichiara che la fama mondana in campo artistico è effimera, poiché ogni artista è destinato a essere superato da qualcuno che viene dopo, come è successo a lui (sopravanzato da Franco), a Cimabue (superato nella pittura da Giotto) e a Guinizelli (vinto da Cavalcanti, ed entrambi saranno superati da un terzo poeta che è concordemente interpretato come Dante stesso).
Oderisi intende dire che in campo artistico la fama non è infinita e chi oggi viene celebrato come maggiore esponente di una scuola o di una corrente verrà presto surclassato da qualcun altro che farà dimenticare il suo nome, e così via; la vita umana è poca cosa rispetto alla dimensione dell'eterno, quindi meglio farebbero gli uomini a preoccuparsi della loro salvezza spirituale anziché a come saranno ricordati sulla Terra, perché presto o tardi il loro nome verrà dimenticato (e l'esempio di Provenzan Salvani, che Oderisi indica allusivamente a Dante, dimostra proprio questo: un tempo era famosissimo, ora a malapena si ricordano di lui a Siena). È sembrato strano che nel Canto dedicato alla superbia Dante citi indirettamente se stesso come colui destinato a vincere poeticamente i due Guido, ma in realtà ciò è coerente con il discorso di Oderisi: Dante vuol dire probabilmente che anche lui, come esponente dello Stilnovo, sarà a sua volta superato da qualcun altro, senza contare che all'epoca della Commedia la fase poetica stilnovista era per lui definitivamente chiusa.
Dante è ora l'autore di un poema sacro al quale collaborano Cielo e Terra, dal momento che lui mette a disposizione la sua maestria poetica per dare forma alla visione cui è stato ammesso per un eccezionale privilegio, per un'altissima missione di cui la volontà divina lo ha investito. Dante è autore «ispirato» e componendo il poema può ben aspettarsi la fama eterna, ma ciò non deriva esclusivamente dai suoi meriti di scrittore: nel Paradiso ribadirà a più riprese di essere incapace di descrivere l'altezza delle cose vedute, ammettendo continuamente l'inadeguatezza della sua poesia e dei suoi strumenti retorici e invocando l'assistenza divina, senza la quale la composizione di quest'opera è impossibile. Viste le cose in quest'ottica è evidente che l'autocoscienza poetica di Dante si spiega perfettamente nel poema, così come l'orgoglio di chi percorre una strada mai compiuta prima di allora, senza che ciò contrasti con l'appello all'umiltà che caratterizza il Canto dei superbi; del resto alla fine dell'episodio Oderisi profetizza velatamente a Dante l'esilio, che lo costringerà a sperimentare la stessa umiliazione di Provenzano nel chiedere aiuto ai potenti, e Dante stesso nel Canto XIII dichiarerà a Sapìa di temere assai più la pena della I Cornice, ammettendo sinceramente la propria suberbia intellettuale e politica.
Note e passi controversi
- I primi effetti (v. 3) sono le prime cose create da Dio, quindi i Cieli e gli angeli.
- Nei vv. 4-6 i termini nome, valore, vapore sono stati interpretati come le attribuzioni della Trinità, ovvero Padre, Figlio, Spirito Santo.
- L'aspro diserto citato al v. 14 è sicuramente la Terra e non il Purgatorio (i superbi dicono «questo» perché il monte si trova fisicamente sulla Terra).
- L'antico avversaro è il demonio, così definito anche in Purg., VIII, 95.
- Il termine ramogna (v. 25), di origine incerta, è stato variamente interpretato e può voler dire «augurio», «(buona) sorte».
- Al v. 49 riva significa «parete» del monte.
- Alcuni editori pubblicano il v. 65 con questa punteggiatura: ch'io ne mori'; come, i Sanesi sanno (mettendo in rilievo che i Senesi sanno il modo in cui Omberto è morto; il senso generale non cambia con la punteggiatura a testo).
- Agobbio (v. 80) è la forma antica di Gubbio, dal lat. Iguvium.
- Alluminar (v. 81) deriva dal franc. enluminer, che significa appunto «miniare».
- Ai vv. 89-90 Oderisi intende dire che, possendo peccar (quindi essendo ancora lontano dalla morte) si pentì, il che gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio (era morto forse nel 1299).
- I due Guido citati al v. 97 sono certamente Guinizelli e Cavalcanti, anche se non sono mancate altre interpretazioni, come Guittone d'Arezzo e Guinizelli (tale interpretazione, pur suggestiva, è poco probabile). Il poeta citato allusivamente al v. 99 è probabilmente Dante, anche se l'espressione è indeterminata.
- Il pappo e il dindi (v. 105) sono parole infantili, che vogliono dire pressappoco «cibo» e «denaro».
- Il cerchio che più tardi in cielo è torto (v. 108) è il Cielo delle Stelle Fisse, che secondo le cognizioni astronomiche del tempo compiva una rotazione completa attorno all'eclittica in 360 secoli.
- Il v. 109 (colui che del cammin sì poco piglia) indica probabilmente che Provenzan Salvani cammina a passi lenti, quindi si avvantaggia poco rispetto a Oderisi.
- I vicini citati al v. 140 sono i concittadini di Dante.

TESTO

O Padre nostro, che ne’ cieli stai, 
non circunscritto, ma per più amore 
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,                                        3

laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore 
da ogni creatura, com’è degno 
di render grazie al tuo dolce vapore.                               6

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, 
ché noi ad essa non potem da noi, 
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.                       9

Come del suo voler li angeli tuoi 
fan sacrificio a te, cantando osanna
così facciano li uomini de’ suoi.                                     12

Dà oggi a noi la cotidiana manna, 
sanza la qual per questo aspro diserto 
a retro va chi più di gir s’affanna.                                    15

E come noi lo mal ch’avem sofferto 
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona 
benigno, e non guardar lo nostro merto.                      18

Nostra virtù che di legger s’adona, 
non spermentar con l’antico avversaro, 
ma libera da lui che sì la sprona.                                   21

Quest’ultima preghiera, segnor caro, 
già non si fa per noi, ché non bisogna, 
ma per color che dietro a noi restaro».                         24

Così a sé e noi buona ramogna 
quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo, 
simile a quel che tal volta si sogna,                               27

disparmente angosciate tutte a tondo 
e lasse su per la prima cornice, 
purgando la caligine del mondo.                                    30

Se di là sempre ben per noi si dice, 
di qua che dire e far per lor si puote 
da quei ch’hanno al voler buona radice?                      33

Ben si de’ loro atar lavar le note 
che portar quinci, sì che, mondi e lievi, 
possano uscire a le stellate ruote.                                 36

«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi 
tosto, sì che possiate muover l’ala, 
che secondo il disio vostro vi lievi,                                 39

mostrate da qual mano inver’ la scala 
si va più corto; e se c’è più d’un varco, 
quel ne ‘nsegnate che men erto cala;                           42

ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco 
de la carne d’Adamo onde si veste, 
al montar sù, contra sua voglia, è parco».                    45

Le lor parole, che rendero a queste 
che dette avea colui cu’ io seguiva, 
non fur da cui venisser manifeste;                                 48

ma fu detto: «A man destra per la riva 
con noi venite, e troverete il passo 
possibile a salir persona viva.                                         51

E s’io non fossi impedito dal sasso 
che la cervice mia superba doma, 
onde portar convienmi il viso basso,                             54

cotesti, ch’ancor vive e non si noma, 
guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco, 
e per farlo pietoso a questa soma.                                57

Io fui latino e nato d’un gran Tosco: 
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; 
non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.                      60

L’antico sangue e l’opere leggiadre 
d’i miei maggior mi fer sì arrogante, 
che, non pensando a la comune madre,                      63

ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, 
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno, 
e sallo in Campagnatico ogne fante.                             66

Io sono Omberto; e non pur a me danno 
superbia fa, ché tutti miei consorti 
ha ella tratti seco nel malanno.                                       69

E qui convien ch’io questo peso porti 
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, 
poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti».                         72

Ascoltando chinai in giù la faccia; 
e un di lor, non questi che parlava, 
si torse sotto il peso che li ‘mpaccia,                            75

e videmi e conobbemi e chiamava, 
tenendo li occhi con fatica fisi 
a me che tutto chin con loro andava.                             78

«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, 
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte 
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».                             81

«Frate», diss’elli, «più ridon le carte 
che pennelleggia Franco Bolognese; 
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.                             84

Ben non sare’ io stato sì cortese 
mentre ch’io vissi, per lo gran disio 
de l’eccellenza ove mio core intese.                              87

Di tal superbia qui si paga il fio; 
e ancor non sarei qui, se non fosse 
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.                          90

Oh vana gloria de l’umane posse! 
com’poco verde in su la cima dura, 
se non è giunta da l’etati grosse!                                   93

Credette Cimabue ne la pittura 
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, 
sì che la fama di colui è scura:                                       96

così ha tolto l’uno a l’altro Guido 
la gloria de la lingua; e forse è nato 
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.                                 99

Non è il mondan romore altro ch’un fiato 
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, 
e muta nome perché muta lato.                                    102

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi 
da te la carne, che se fossi morto 
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’,                   105

pria che passin mill’anni? ch’è più corto 
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia 
al cerchio che più tardi in cielo è torto.                         108

Colui che del cammin sì poco piglia 
dinanzi a me, Toscana sonò tutta; 
e ora a pena in Siena sen pispiglia,                             111

ond’era sire quando fu distrutta 
la rabbia fiorentina, che superba 
fu a quel tempo sì com’ora è putta.                               114

La vostra nominanza è color d’erba, 
che viene e va, e quei la discolora 
per cui ella esce de la terra acerba».                            117

E io a lui: «Tuo vero dir m’incora 
bona umiltà, e gran tumor m’appiani; 
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».                            120

«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; 
ed è qui perché fu presuntuoso 
a recar Siena tutta a le sue mani.                                  123

Ito è così e va, sanza riposo, 
poi che morì; cotal moneta rende 
a sodisfar chi è di là troppo oso».                                 126

E io: «Se quello spirito ch’attende, 
pria che si penta, l’orlo de la vita, 
qua giù dimora e qua sù non ascende,                       129

se buona orazion lui non aita, 
prima che passi tempo quanto visse, 
come fu la venuta lui largita?».                                      132

«Quando vivea più glorioso», disse, 
«liberamente nel Campo di Siena, 
ogne vergogna diposta, s’affisse;                                 135

e lì, per trar l’amico suo di pena 
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, 
si condusse a tremar per ogne vena.                           138

Più non dirò, e scuro so che parlo; 
ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini 
faranno sì che tu potrai chiosarlo.

Quest’opera li tolse quei confini».                                 142

PARAFRASI

«O Padre nostro, che sei nei Cieli, non limitato da essi, ma per il maggiore amore che provi per le tue prime creature,

sia lodato il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, come è giusto rendere grazie alla tua dolce sapienza.

Venga per noi la pace del tuo regno, poiché noi non possiamo salire ad essa con le nostre forze, se non ci viene data, anche se ci impegniamo in ogni modo.

Come i tuoi angeli fanno sacrificio a te della loro volontà, cantando 'osanna', così facciano gli uomini della loro.

Dacci oggi la nostra manna quotidiana, senza la quale in questo aspro deserto (la Terra) chi più cerca di avanzare, tanto più cammina a ritroso.

E come noi perdoniamo a ciascuno le offese subìte, anche tu perdona a noi, benevolo, e non guardare i nostri meriti.

Non mettere alla prova con il demonio la nostra virtù, che si abbatte facilmente, ma liberaci da lui che la stimola in tal modo.

Quest'ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, che non ne abbiamo bisogno, ma per coloro che abbiamo lasciato tra i vivi».

Così quelle ombre, pregando per noi un buon augurio, andavano sotto il peso (del masso), simile a quello che a volte si sogna, tormentate in misura diversa, tutte in tondo e prostrate lungo la I Cornice, purgando le tracce dei loro peccati terreni.

Se in Purgatorio quelle anime dicono sempre bene per noi, sulla Terra cosa si può dire e fare per loro da parte di quelli che sono disposti al bene?

Certo bisogna aiutarli a lavare i loro peccati che portano dalla Terra, cosicché, purificati e lavati, possano salire al Cielo.

«Orsù, possa la giustizia e la pietà sgravarvi presto, così che possiate muovere le ali e sollevarvi secondo il vostro desiderio;

mostrateci da quale parte si va più rapidamente alla scala (per la prossima Cornice); e se c'è più di un accesso, mostrateci quello che sale meno ripido;

infatti questi che mi segue, a causa del peso del corpo che ha con sé, è lento a salire pur contro il suo volere».

Non fu chiaro da chi venissero le parole che furono date in risposta a queste dette dal mio maestro;

ma ci fu detto: «Venite con noi verso destra lungo la parete, e troverete il varco percorribile a una persona viva.

E se io non fossi impedito dal sasso che piega il mio collo superbo, per cui sono costretto a tenere il viso basso, guarderei costui che è ancora vivo e non dice il proprio nome, per vedere se lo conosco e renderlo pietoso del mio tormento.

Io fui italiano e nacqui da un grande Toscano: mio padre fu Guglielmo Aldobrandeschi; non so se avete mai sentito il suo nome.

L'antico lignaggio e le grandi opere dei miei antenati mi resero così arrogante, che, non pensando alla comune origine, disprezzai ogni uomo a tal punto che io morii, come ben sanno i Senesi, e come sa ogni bambino a Campagnatico.

Io sono Omberto; e la superbia non reca danno solo a me, in quanto ha coinvolto nel suo male tutti i miei congiunti.

Ed è necessario che porti questo peso a causa sua, finché a Dio piacerà, qui tra i morti, poiché non lo feci tra vivi».

Mentre ascoltavo chinai in giù il viso; e uno di loro, non questo che mi parlava, si piegò sotto il macigno che li opprime, e mi guardò, mi riconobbe e mi chiamò, tenendo con fatica gli occhi fissi su di me, che andavo con loro tutto chinato.

Io gli dissi: «Oh! non sei forse Oderisi, l'onore di Gubbio e di quell'arte che a Parigi è chiamata 'enluminer'?»

Disse: «Fratello, sono più apprezzati i codici che decora Franco Bolognese; l'onore è tutto suo e mio solo in parte.

Certo io non sarei stato così cortese quand'ero vivo, per il grande desiderio di eccellenza cui era proteso il mio cuore.

Qui si sconta la pena di questa superbia; e non sarei qui, se quando potevo ancora peccare non mi fossi rivolto a Dio.

Oh gloria vana delle capacità umane! quanto poco rimane verde sul ramo, se non è seguita da età decadenti!

Cimabue credette di primeggiare nella pittura, mentre ora è Giotto il maestro e ha oscurato la sua fama:

allo stesso modo Guido (Cavalcanti) ha tolto all'altro Guido (Guinizelli) la gloria della lingua, e forse è già nato chi li vincerà entrambi.

La fama terrena non è altro che un alito di vento, che ora spira da una parte e ora dall'altra, e cambia nome a seconda della direzione.

Credi di avere una fama maggiore se muori da vecchio, invece di essere morto quando ancora parlavi in modo infantile, prima che siano trascorsi mille anni? Questo è un tempo brevissimo rispetto all'eternità, più breve di un batter di ciglia rispetto al movimento del cielo che si muove più lentamente.

Colui che cammina a passi lenti davanti a me, un tempo era noto in tutta la Toscana; ora a malapena si sussurra il suo nome a Siena, di cui era signore quando la rabbia fiorentina fu distrutta (a Montaperti), che a quel tempo era superba come ora è volta alla corruzione.

La vostra fama è come il verde dell'erba, che va e viene, ed è cancellato dal sole che fa spuntare l'erba stessa dalla terra».

E io a lui: «Le tue vere parole mi ispirano buona umiltà, e abbassano il mio grande orgoglio; ma chi è quello di cui parlavi poco fa?»

Rispose: «Quello è Provenzan Salvani; ed è qui perché ebbe la presunzione di ridurre Siena in suo potere.

Da quando è morto ha camminato così (sotto il masso) e continua senza riposo; sconta questa pena colui che sulla Terra ha troppo osato».

E io: «Se quello spirito che attende a pentirsi in punto di morte, deve sostare nell'Antipurgatorio e non sale in Purgatorio per tutto il tempo che durò la sua vita, a meno che una buona preghiera non lo aiuti, in che modo gli fu permesso di venire qui?»

Disse: «Quando era al culmine della potenza, liberamente si mise in piazza del Campo a Siena (a chiedere l'elemosina), messa da parte ogni vergogna;

e lì, per riscattare dalla prigionia il suo amico che era stato catturato da Carlo d'Angiò, si sottopose a una tremenda umiliazione.

Non dirò di più e so di parlare in modo oscuro; ma passerà poco tempo prima che i tuoi concittadini faranno in modo che tu possa sperimentarlo di persona. Quell'azione gli permise di accedere subito alla Cornice».

GUGLIELMO ALDOBRANDESCHI - Figlio di Ildebrandino VIII, fu padre di tre figli; esponente di grande rilievo della famiglia Aldobrandeschi, signori della Maremma; è stato il primo conte di Soana. Il fratello di Guglielmo, Bonifacio Aldobrandeschi, fu invece il primo conte di Santa Fiora, di cui nel canto VI si ricorda la decadenza dovuta alla loro condotta imbelle, a differenza invece delle brillanti opere di Guglielmo. Il suo impegno militare fu principalmente rivolto a contrastare i forti attacchi ai suoi vasti possedimenti terrieri portati avanti soprattutto dai Senesi. La famiglia Aldobrandeschi fu anti-imperiale e sostenuta dalla Chiesa, ma Dante nell'undicesimo canto del Purgatorio non vuole sottolineare questo aspetto, bensì la loro virtuosa condotta politica. Ebbe tre figli, Guglielmo II, Omberto e Ildebrandino il Rosso, la quale morte nel 1284 mise fine alla linea di successione degli Aldobrandeschi del ramo di Sovana. OMBERTO ALDOBRANDESCHI - Di famiglia guelfa (mentre l'altro ramo della famiglia, i conti di Santafiora, era di parte ghibellina) continuò la politica del padre di opposizione alla ghibellina Siena, anche con l'aiuto dei fiorentini. Omberto ebbe la signoria di Campagnatico, nella valle dell'Ombrone grossetano, dal quale sortiva per depredare i viandanti e per recar danno ai Senesi. Morì nel 1259 combattendo valorosamente contro gli eterni nemici, che avevano organizzato una spedizione per ucciderlo. Secondo la testimonianza del cronista trecentesco senese Angelo Dei, Omberto fu soffocato nel letto da sicari di Siena, travestiti da frati. LA FAMIGLIA ALDOBRANDESCHI - Di origine longobarda, nonostante la tradizione popolare faccia discendere la famiglia dai duchi di Spoleto Ildebrando e Mauringo, dai documenti storici sappiamo solamente che un Ilprando, figlio di Alperto, fino al gennaio 800 fu rettore della chiesa di San Pietro Somaldi a Lucca, ambiente in cui sembrano muoversi i primi esponenti di questa casata. Nell'852 è documentato un Geremia, figlio di Eriprando, come vescovo di Lucca. Eriprando, figlio di Ildebrando I, aveva accumulato grandi ricchezze ed era entrato in rapporti con la corte imperiale venendo nominato vassallo. Il primo membro della casata a fregiarsi del titolo di conte fu invece Ildebrando II, figlio di Eriprando, che portò a compimento il trasferimento verso quei territori che andarono presto a formare il vasto comitato aldobrandesco nella Toscana meridionale. A partire dal 1274, i loro possedimenti nella Toscana meridionale furono ripartiti nella Contea di Sovana (che inalberavano uno stemma d'oro al leone di rosso) e nella Contea di Santa Fiora (che avevano uno stemma d'oro all'aquila bicipite di nero), che da allora furono governate da due rami distinti della famiglia. La successiva estinzione del ramo di Sovana fece ereditare l'antico stato alla famiglia Orsini, determinando la nascita della Contea di Pitigliano; la successiva estinzione del ramo di Santa Fiora fece ereditare agli Sforza il territorio rimasto della contea. Lo stemma che viene, comunque, riportato negli armoriali ufficiali, rappresenta una partizione dei due rami principali di Sovana (il mezzo leone rosso) e di Santa Fiora (la mezza aquila, che, in alcune raffigurazioni, diventa rossa). Tradizionalmente furono ghibellini. Dopo la morte dell'imperatore Federico II di Svevia nel 1250, gli Aldobrandeschi del ramo di Sovana passarono, per opportunità politica, al campo guelfo. Questo non impedì, però, a entrambi i rami, che tutti i loro possedimenti venissero progressivamente erosi dalla Repubblica di Siena, alla quale si sottomisero definitivamente con un atto del 1331. Nel 1331 Arcidosso venne cinto d'assedio per sei mesi dall'esercito senese guidato da Guidoriccio da Fogliano; alcuni della famiglia Aldobrandeschi in quei giorni si trovavano nel castello di Arcidosso difeso da due ben distinte cerchie murarie e torri. Solo dopo aver scavato una galleria i senesi conquistarono il borgo. Conti del ramo di Sovana: - Guglielmo Aldobrandeschi (citato da Dante Alighieri) 1216-1254 conte di Pitigliano, padre di Omberto Aldobrandeschi, - Ildebrandino XI Aldobrandeschi il "Rosso" (figlio) 1254-1294, primo conte di Pitigliano e Sovana, - Margherita Aldobrandeschi (figlia) 1294-1313, - Guido Aldobrandeschi di Santa Fiora (quarto sposo di Margherita Aldobrandeschi) 1299-1302, - Romano Orsini (dal matrimonio con Anastasia di Montfort, figlia di Margherita e Guido di Montfort) ?-1326. Con la morte di Margherita scompare il casato degli Aldobrandeschi, uno degli ultimi di origine longobarda; il loro posto, in Maremma, viene assunto dalla famiglia Orsini.

stemma
Stemma degli Aldobrandeschi, d 'oro, alla figura partita di mezzo leone di rosso a destra e di mezza aquila dello stesso a sinistra.

ODERISI DA GUBBIO - Oderisi da Gubbio (Gubbio, 1240 circa – Roma, 1299) è stato un miniaturista. Nacque a Gubbio, ma è attestata la sua residenza anche a Bologna tra il 1268 e il 1271. Vastissima fu la sua fama e la sua produzione. La prima è attestata dalla citazione dantesca, che lo fa il massimo esponente della miniatura romanica, in contrapposizione alle novità gotiche introdotte da Franco Bolognese. Nel 1295 egli era a Roma, dove morì nel 1299. La sua attività di miniaturista è stata ricostruita solo per ipotesi dai critici, mancando qualsiasi codice firmato da Oderisi. Sono stati attribuiti a Oderisi:
- due messali miniati, Canonica della Basilica di San Pietro a Città del Vaticano;
- il Digestium infortiatum di Giustiniano, Biblioteca Nazionale di Torino;
- la Bibbia di Corradino, Walters Art Gallery di Baltimora;
- il Salterio 346, Biblioteca Universitaria di Bologna;
- una Bibbia, Biblioteca Apostolica Vaticana.

PROVENZANO SALVANI - Salvani (Siena, 1220 circa – Colle di Val d'Elsa, 17 giugno 1269) è stato un condottiero. Nobile comandante, nipote della nobildonna senese Sapìa Salvani, con la quale non condivideva le idee politiche durante la lotta tra Guelfi e Ghibellini, fu a capo della parte ghibellina della Repubblica di Siena che era maggioritaria in città. Nel 1260 ebbe un ruolo di primo piano nella Battaglia di Montaperti dove i senesi, con l'appoggio delle truppe guidate da Farinata degli Uberti, fuoriuscito fiorentino, riuscirono a sconfiggere le truppe guelfe di Firenze. In occasione del Convegno di Empoli, si scontrò duramente con Farinata degli Uberti, in quanto propugnava la distruzione di Firenze. Fu nominato Podestà di Montepulciano nel 1262 e, successivamente, Cavaliere per poi assumere il titolo di dominus di Siena. Dove sorgeva la sua residenza a Siena e dove secondo la tradizione si verificò un miracolo della Vergine, fu poi costruita una chiesa, che divenne la chiesa della Madonna di Provenzano. Trovò la morte nella battaglia di Colle di Val d'Elsa del 16-17 giugno 1269, ucciso dal suo nemico personale Regolino Tolomei. Fu decapitato e la sua testa issata su una lancia, fu portata, come un trofeo, a giro per il campo di battaglia.

AUDIO

Eugenio Caruso - 16-11-2020


Tratto da

1

www.impresaoggi.com