Dante, Purgatorio. Canto 18, gli accidiosi

INTRODUZIONE
Il Canto XVIII del Purgatorio è organizzato in modo speculare rispetto al precedente poiché, a una prima parte didascalica, segue una parte narrativa, in maniera rovesciata rispetto al XVII (anche qui le due parti sono intervallate dall'indicazione dell'ora, con la discussa descrizione della posizione della luna in cielo).
Virgilio completa e integra la spiegazione dottrinale iniziata alla fine del Canto precedente, che riguardava la struttura morale del Purgatorio basata sulla concezione dell'amore: Dante vorrebbe conoscere nel dettaglio la natura di questa inclinazione dell'animo e Virgilio risponde con una complessa spiegazione, che si rifà ad Aristotele e alla Scolastica, per cui l'amore trae spunto dagli oggetti reali del mondo circostante e trasforma in atto la naturale potenza di amare che è innata nell'anima umana.
Ciò suscita gli ulteriori dubbi di Dante, poiché se l'amore è un'inclinazione naturale verso la cosa che fa gioire, l'uomo non fa che obbedire a un impulso irresistibile e ciò non può essere ascritto a sua colpa, secondo quanto Virgilio aveva detto nel Canto precedente. La chiosa del maestro, che rimanda a Beatrice per ulteriori dettagli in materia dottrinale, è tale da eliminare ogni dubbio: l'uomo è, sì, naturalmente portato ad amare, ma a essere sempre lodevole è solo la disposizione innata nell'anima, quindi l'amore in potenza, mentre la sua trasformazione in atto può essere buona o cattiva a seconda della libera scelta della cosa amata e da ciò nasce la virtù o il peccato.
In altri termini, l'uomo non deve abbandonarsi in modo indiscriminato alle sue inclinazioni ad amare ma deve sottoporre la sua scelta al vaglio della ragione, o, del libero arbitrio; Virgilio completa il discorso di Marco Lombardo nel Canto XVI che aveva ridimensionato la necessità dell'influenza astrale sulla condotta umana, mentre il poeta latino esclude quella dell'amore come impulso naturale e irresistibile contro il quale l'uomo non si può opporre (può e deve farlo, invece, in forza della ragione e del libero arbitrio). Il discorso di Dante è di importanza centrale nel Purgatorio e nella struttura del poema, anche perché il poeta prende le distanze da un concetto base della poesia amorosa di cui lui stesso era stato esponente, ovvero la forza irresistibile dell'amore cui è vano opporsi: ciò era stato ampiamente affermato dalla trattatistica amorosa del XIII sec., ad esempio da A. Cappellano nel De amore, e ripreso dalla tradizione poetica provenzale, dai Siciliani e in ultimo dagli Stilnovisti, specie da Guinizelli e Cavalcanti (quest'ultimo aveva affermato non solo la forza irresistibile del sentimento amoroso, ma anche i suoi terribili effetti sull'anima umana, la sua azione distruttiva).
Dante si discosta da questa impostazione e afferma che l'amore è lodevole solo quando è ben diretto e deve quindi essere sempre sottoposto al vaglio rigoroso della ragione: è lo stesso principio per cui Francesca e Paolo erano dannati tra i lussuriosi, in quanto i due avevano seguito il cattivo esempio della letteratura erotica (la donna citava Cappellano, ma anche Guinizelli e Dante) e si erano abbandonati al piacere amoroso subordinando ad esso la ragione, motivo per cui hanno perso la speranza della salvezza. Ciò non significa che Dante rinneghi o rifiuti in blocco tutta la poesia dello Stilnovo, tuttavia la sottopone a una revisione e ne corregge almeno in parte alcuni principi, affermati da quei cattivi maestri (i ciechi che si fanno duci, secondo le parole di Virgilio) che dovranno essere intesi come gli autori della trattatistica amorosa che molti danni possono causare a chi li segue senza criterio, come appunto era successo ai protagonisti del Canto V dell'Inferno. Non è un caso che questa digressione preceda e in certo modo prepari l'incontro con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante spiegherà in maniera precisa cosa si deve intendere per Dolce Stil Novo, e quello con Guinizelli del Canto XXVI che si troverà proprio fra i lussuriosi del Purgatorio, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida consumatrice.
La seconda parte del Canto è dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si è molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di sollecitudine e di accidia punita) e che può essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative, nonché al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo, a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi, attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi «letteraria» degli episodi seguenti).
La descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla concezione di amore che sarà ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessità di integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del monte di lì a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del lettore) in materia di fede.
Natura dell'amore - versi 1-39
Dopo aver concluso la sua spiegazione, Virgilio guarda Dante negli occhi per vedere se è soddisfatto; questi non parla per non essere inopportuno, ma Virgilio comprende il suo desiderio di fare altre domande e lo incoraggia. Dante quindi, ringraziando Virgilio per tutti i suoi insegnamenti, lo prega di chiarirgli cosa sia l'amore, che nel canto precedente è stato identificato come origine di ogni atto buono o cattivo. Virgilio spiega che l'animo è creato con la predisposizione ad amare; la mente è colpita dalla realtà esterna, volge l'animo verso di essa, e se quella realtà è bella e piacevole, l'animo prova amore. Poi, come il fuoco per sua natura tende verso l'alto, così l'animo è naturalmente spinto a desiderare l'oggetto amato e non trova pace finché non lo possiede. Spesso gli uomini cadono in errore in quanto ritengono che qualsiasi amore sia di per sé lodevole: è buona la facoltà di amare, ma non lo sono sempre le sue concrete realizzazioni (così come non tutti i sigilli sono buoni, anche se la cera è buona).
Amore e libero arbitrio - vv. 40-75
Dante esprime ancora un dubbio: se l'amore nasce per effetto di realtà esterne, l'animo non è responsabile della strada buona o cattiva che percorre. Virgilio chiarisce di poter rispondere secondo quanto detta la ragione; al di là di essa, su argomento di fede, potrà intervenire Beatrice. Ogni anima, prosegue, è distinta dal corpo ma unita ad esso, e si manifesta solo quando opera, attraverso gli effetti che produce (come la vita vegetativa si manifesta nelle piante con l'apparire delle fronde verdi). Perciò l'uomo non sa da che cosa derivino le capacità di conoscere e di amare (facoltà innate come nelle api l'istinto di produrre il miele); in questa prima inclinazione quindi non vi è né merito né biasimo. Per le inclinazioni successive, opera la ragione che deve acconsentire solo a quelle buone. Da ciò il principio della responsabilità di fronte ad oggetti d'amore buoni o cattivi. Gli antichi filosofi compresero l'esistenza di questa libertà innata nell'uomo e fondarono su di essa la filosofia morale. È dunque possibile per l'uomo accogliere o respingere un amore che nasca senza sua volontà. Beatrice identifica questa nobile facoltà con il libero arbitrio: se ne ricordi Dante, se ella gliene parlerà.
Gli accidiosi - vv. 76-138
Con una elaborata perifrasi, Dante spiega che la seconda giornata nel purgatorio è ormai alla fine (è quasi mezzanotte). Virgilio ormai ha risposto ai suoi dubbi, ed egli è in uno stato di torpore, che viene però improvvisamente interrotto da una gran folla di anime che alle sue spalle sopraggiunge correndo con furia, come le moltitudini dei Tebani che invocavano Bacco. Le prime due anime piangendo gridano esempi di sollecitudine: Maria che va a visitare Elisabetta, e Giulio Cesare che durante la guerra civile si muove velocemente da Marsiglia alla Spagna per colpire i pompeiani. Gli altri aggiungono, sempre gridando, esortazioni alla velocità nell'espiare, così da sollecitare la grazia divina.Virgilio comprende che si tratta di anime di accidiosi e chiede loro di indicare dov'è il passaggio al girone superiore. Uno degli accidiosi invita i due poeti a seguire il gruppo, e spiega che non possono fermarsi a parlare, non per scortesia ma perché spinti a correre dal fervore di purificarsi. Dice di essere stato abate di San Zeno a Verona al tempo di Federico Barbarossa di cui ancora si ricordano con dolore i milanesi, la cui città fu distrutta. Sta per morire, continua l'abate, un potente (Alberto I della Scala) che ben presto sconterà la pena per aver offeso quel monastero, imponendo come abate suo figlio, non integro di corpo e ancor meno di spirito. Intanto si allontana, e Dante non sa se abbia finito o no di parlare; Virgilio lo invita a fare attenzione a due anime che gridano esempi di accidia punita: gli Ebrei troppo fiacchi nel seguire Mosè, che non giunsero a vedere il Giordano, e i Troiani che invece di seguire Enea si fermarono in Sicilia.
Sonno di Dante - vv. 139-145
Scomparsa ormai la schiera di anime, Dante è immerso in pensieri che si succedono, e di pensiero in pensiero scivola nel sogno.
Analisi
Continuando la tematica svolta nel canto precedente, questo canto approfondisce la dottrina sull'amore, posta come base dell'elaborazione concettuale relativa alle radici del male. Che cosa spinge l'uomo a peccare, e in che cosa consiste il peccato; come può l'uomo, creato da Dio quindi recante l'impronta del bene, volgersi a compiere il male: ecco le domande intorno alle quali, con sapienza teologica unita a limpidezza di argomentazione, si articola anche il canto diciottesimo. Il dubbio principale di Dante verte sulla (apparente) contraddizione tra un impulso innato, perciò in sé non colpevole né lodevole, e la responsabilità dell'uomo che determina, nel mondo ultraterreno, pena o premio. Tutto questo è anche la premessa necessaria, per quanto dottrinalmente impegnativa, per la comprensione del sogno cui si accenna alla fine del canto e che occuperà l'inizio del canto successivo (il sogno della "femmina balba"). Si può osservare l'importanza che il sogno riveste nel Purgatorio: tre momenti determinanti sono descritti in modo simbolico e allusivo attraverso i sogni. Il primo momento (canto IX) coincide con l'uscita dall'Antipurgatorio. Il terzo (canto XXVII) si identifica col passaggio al Paradiso terrestre. Il sogno che si profila in questo canto XVIII è centrato sul rapporto con i beni terreni, ovvero su quel tema dell'amore che ha appassionato Dante sin dalla formazione giovanile e stilnovistica, per evolversi poi attraverso la riflessione filosofico-teologica. Del resto, il rapporto non di opposizione ma di continuità tra filosofia e teologia, ovvero tra ragione e fede, è indicato con chiarezza nelle parole di Virgilio, che rimanda a un futuro intervento di Beatrice l'ulteriore sviluppo dell'argomento. Il linguaggio del canto è intessuto di perifrasi, similitudini, metafore; dominante, nei numerosi riferimenti al mondo naturale, lo sguardo al cielo, che segna il passaggio dalla prima alla seconda metà del canto e che introduce una metafora di sorprendente realismo (il secchione ardente accostato alla luna che rosseggia nella notte). Rispetto alla densità della parte dottrinale, appare forse meno incisiva la parte del canto relativa agli accidiosi, nella quale tuttavia non manca un riferimento aspro e polemico ad un grave episodio di sopruso nobiliare avvenuto nel tempo di Dante. Note
- I verbi parta e descriva del v. 12 sono termini propri della filosofia scolastica, e indicano rispettivamente il «separare con ragionamenti» e l'«esporre analiticamente una tesi» (alcuni mss. leggono porti o descriva, ma è lezione poco probabile).
- Il v. 21 (tosto che dal piacere in atto è desto) vuol dire «non appena è posto in atto dalla cosa piacevole».
- L'apprensiva (v. 22) è la facoltà conoscitiva dell'uomo, mentre l'intenzione (v. 23) è la rappresentazione dell'oggetto visto.
- Al v. 27 di novo può voler dire «prevalentemente» oppure «per la seconda volta».
- L'espressione fin che (v. 33) vuol dire probabilmente «per tutto il tempo che» e non «fino al momento in cui».
- I vv. 38-39 indicano che la cera può essere buona, ma non necessariamente lo sarà l'impronta suggellata da essa: fuor di metafora, Virgilio dice che l'amore è buono come disposizione in potenza, ma può non esserlo quando si tramuta in atto.
- Al v. 44 non va con altro piede indica che l'anima non può fare a meno di comportarsi in questo modo, cioè di seguire l'inclinazione ad amare.
- Forma sustanzial (v. 49) è l'anima, separata (setta) dalla materia e al tempo stesso unita ad essa.
- La specifica virtute (v. 51) è la disposizione innata dell'anima, che si manifesta solo attraverso gli atti.
- Le prime notizie (v. 56) sono i primi principi, gli assiomi indimostrabili con cui opera la ragione, mentre de' primi appetibili l'affetto (v. 57) è l'amore verso i primi beni desiderabili, innato nell'anima umana.
- Il verbo vigliare (v. 66) è proprio del volgare toscano e vuol dire «separare il grano dalle impurità».
- I vv. 76-78 sono stati interpretati nel senso che la luna sta sorgendo in ritardo rispetto al giorno precedente, verso la mezzanotte, il che suscita dubbi di precisione astronomica, ma Dante in realtà vuol dire soltanto che è mezzanotte passata (tarda è da riferire a mezza notte, non a luna) e l'astro lunare offusca col suo chiarore le stelle. La luna è paragaonata a un paiolo di rame (un secchion che tuttor arda), perché vicina all'ultimo quarto e, quindi, tonda in basso e con la parte oscura in alto.
- Pietola (v. 83) è l'odierna Andes, piccolo centro del mantovano dove era nato Virgilio.
- Ismeno e Asopo (v. 91) sono i due fiumi della Beozia che vedevano correre i Tebani duranti i riti orgiastici in onore di Bacco.
- Il vb. falca (v. 94) vuol dire probabilmente «curva» e regge il compl. ogg. suo passo: Dante indica che gli accidiosi corrono in modo simile a dei cavalli, curvando la loro andatura.
- Il v. 120 allude alla distruzione di Milano, ordinata dal Barbarossa nel 1162.
- Il tale citato dall'abate di San Zeno al v. 121 è Alberto della Scala, che sarebbe morto nel 1301 (la visione avviene nel 1300).
- I versi 139-145 indicano, con una certa precisione, il passaggio della mente dalla veglia al sonno, quando i pensieri si succedono senza un ordine logico e le immagini si succedono in modo disordinato.

TESTO

Posto avea fine al suo ragionamento 
l’alto dottore, e attento guardava 
ne la mia vista s’io parea contento;                                 3

e io, cui nova sete ancor frugava, 
di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse 
lo troppo dimandar ch’io fo li grava’.                                6

Ma quel padre verace, che s’accorse 
del timido voler che non s’apriva, 
parlando, di parlare ardir mi porse.                                 9

Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva 
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro 
quanto la tua ragion parta o descriva.                            12

Però ti prego, dolce padre caro, 
che mi dimostri amore, a cui reduci 
ogne buono operare e ‘l suo contraro».                        15

«Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci 
de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto 
l’error de’ ciechi che si fanno duci.                                 18

L’animo, ch’è creato ad amar presto, 
ad ogne cosa è mobile che piace, 
tosto che dal piacere in atto è desto.                             21

Vostra apprensiva da esser verace 
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, 
sì che l’animo ad essa volger face;                               24

e se, rivolto, inver’ di lei si piega, 
quel piegare è amor, quell’è natura 
che per piacer di novo in voi si lega.                              27

Poi, come ‘l foco movesi in altura 
per la sua forma ch’è nata a salire 
là dove più in sua matera dura,                                      30

così l’animo preso entra in disire, 
ch’è moto spiritale, e mai non posa 
fin che la cosa amata il fa gioire.                                    33

Or ti puote apparer quant’è nascosa 
la veritate a la gente ch’avvera 
ciascun amore in sé laudabil cosa;                               36

però che forse appar la sua matera 
sempre esser buona, ma non ciascun segno 
è buono, ancor che buona sia la cera».                        39

«Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno», 
rispuos’io lui, «m’hanno amor discoverto, 
ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;                       42

ché, s’amore è di fuori a noi offerto, 
e l’anima non va con altro piede, 
se dritta o torta va, non è suo merto».                            45

Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, 
dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta 
pur a Beatrice, ch’è opra di fede.                                    48

Ogne forma sustanzial, che setta 
è da matera ed è con lei unita, 
specifica vertute ha in sé colletta,                                   51

la qual sanza operar non è sentita, 
né si dimostra mai che per effetto, 
come per verdi fronde in pianta vita.                               54

Però, là onde vegna lo ‘ntelletto 
de le prime notizie, omo non sape, 
e de’ primi appetibili l’affetto,                                           57

che sono in voi sì come studio in ape 
di far lo mele; e questa prima voglia 
merto di lode o di biasmo non cape.                             60

Or perché a questa ogn’altra si raccoglia, 
innata v’è la virtù che consiglia, 
e de l’assenso de’ tener la soglia.                                 63

Quest’è ‘l principio là onde si piglia 
ragion di meritare in voi, secondo 
che buoni e rei amori accoglie e viglia.                         66

Color che ragionando andaro al fondo, 
s’accorser d’esta innata libertate; 
però moralità lasciaro al mondo.                                   69

Onde, poniam che di necessitate 
surga ogne amor che dentro a voi s’accende, 
di ritenerlo è in voi la podestate.                                     72

La nobile virtù Beatrice intende 
per lo libero arbitrio, e però guarda 
che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende».                  75

La luna, quasi a mezza notte tarda, 
facea le stelle a noi parer più rade, 
fatta com’un secchion che tuttor arda;                           78

e correa contro ‘l ciel per quelle strade 
che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma 
tra Sardi e ‘ Corsi il vede quando cade.                         81

E quell’ombra gentil per cui si noma 
Pietola più che villa mantoana, 
del mio carcar diposta avea la soma;                            84

per ch’io, che la ragione aperta e piana 
sovra le mie quistioni avea ricolta, 
stava com’om che sonnolento vana.                             87

Ma questa sonnolenza mi fu tolta 
subitamente da gente che dopo 
le nostre spalle a noi era già volta.                                90

E quale Ismeno già vide e Asopo 
lungo di sè di notte furia e calca, 
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,                       93

cotal per quel giron suo passo falca, 
per quel ch’io vidi di color, venendo, 
cui buon volere e giusto amor cavalca.                         96

Tosto fur sovr’a noi, perché correndo 
si movea tutta quella turba magna; 
e due dinanzi gridavan piangendo:                                99

«Maria corse con fretta a la montagna; 
e Cesare, per soggiogare Ilerda, 
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».                      102

«Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda 
per poco amor», gridavan li altri appresso, 
«che studio di ben far grazia rinverda».                       105

«O gente in cui fervore aguto adesso 
ricompie forse negligenza e indugio 
da voi per tepidezza in ben far messo,                         108

questi che vive, e certo i’ non vi bugio, 
vuole andar sù, pur che ‘l sol ne riluca; 
però ne dite ond’è presso il pertugio».                         111

Parole furon queste del mio duca; 
e un di quelli spirti disse: «Vieni 
di retro a noi, e troverai la buca.                                     114

Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, 
che restar non potem; però perdona, 
se villania nostra giustizia tieni.                                     117

Io fui abate in San Zeno a Verona 
sotto lo ‘mperio del buon Barbarossa, 
di cui dolente ancor Milan ragiona.                               120

E tale ha già l’un piè dentro la fossa, 
che tosto piangerà quel monastero, 
e tristo fia d’avere avuta possa;                                     123

perché suo figlio, mal del corpo intero, 
e de la mente peggio, e che mal nacque, 
ha posto in loco di suo pastor vero».                           126

Io non so se più disse o s’ei si tacque, 
tant’era già di là da noi trascorso; 
ma questo intesi, e ritener mi piacque.                        129

E quei che m’era ad ogne uopo soccorso 
disse: «Volgiti qua: vedine due 
venir dando a l’accidia di morso».                                132

Di retro a tutti dicean: «Prima fue 
morta la gente a cui il mar s’aperse, 
che vedesse Iordan le rede sue.                                   135

E quella che l’affanno non sofferse 
fino a la fine col figlio d’Anchise, 
sé stessa a vita sanza gloria offerse».                         138

Poi quando fuor da noi tanto divise 
quell’ombre, che veder più non potiersi, 
novo pensiero dentro a me si mise,                             141

del qual più altri nacquero e diversi; 
e tanto d’uno in altro vaneggiai, 
che li occhi per vaghezza ricopersi, 

e ‘l pensamento in sogno trasmutai.                            145

PARAFRASI

L'insigne maestro aveva concluso il suo ragionamento e mi guardava attentamente, per vedere se ero soddisfatto;

e io, che ero ancora tormentato dalla sete di sapere, esternamente tacevo e dentro di me dicevo: 'Forse Virgilio sarà irritato dalle mie troppe domande'.

Ma quel padre di verità, che si accorse del mio desiderio che non si manifestava per timore, con le sue parole mi invitò a parlare.

Allora dissi: «Maestro, la mia vista è talmente rischiarata dalla tua luce che io vedo nettamente tutto ciò che il tuo ragionamento separa ed espone analiticamente.

Perciò ti prego, dolce padre mio caro, di spiegarmi cos'è l'amore al quale riconduci ogni azione virtuosa e il suo opposto (peccato)».

Disse: «Volgi verso di me gli occhi acuti dell'intelletto, e ti sarà chiaro l'errore dei ciechi che pretendono di fare da guida.

L'anima, che è creata con la disposizione ad amare, si muove verso ogni cosa che le piace, non appena tale disposizione è posta in atto dalla cosa piacevole.

La vostra facoltà conoscitiva trae l'immagine da una cosa reale e la elabora dentro di voi, così che spinge l'anima a indirizzarsi verso di essa;

e se l'anima, così indirizzata, si volge verso quella cosa, questo atto è amore, è un atteggiamento naturale che primariamente si lega in voi per la cosa piacevole.

Poi, come il fuoco si leva verso l'alto per la sua natura, che lo spinge a salire là dove la sua materia dura più a lungo (nella sfera del fuoco), così l'animo preso da amore nutre il desiderio, che è un movimento dello spirito, e non cessa per tutto il tempo in cui la cosa amata gli dà gioia.

Ora puoi capire quanto è nascosta la verità a coloro che affermano che ogni amore è lodevole di per se stesso;

poiché forse la sua materia è sempre buona, ma non lo è ogni sigillo, anche se la cera è buona (l'amore in potenza è buono, non sempre lo è in atto)».

Io gli risposi: «Le tue parole e il mio ingegno smanioso di seguirti mi hanno spiegato la natura dell'amore, ma ciò mi spinge ancor più a dubitare;

infatti, se l'amore ci è offerto dalla realtà esterna e l'anima non può fare a meno di esservi indotta, non è suo merito o sua colpa se agisce in modo giusto o sbagliato».

E lui a me: «Io ti posso dire ciò che la ragione umana comprende; per tutto ciò che va oltre ti rimando a Beatrice, poiché ciò è argomento di fede.

Ogni anima, che è separata dalla materia e al tempo stesso unita ad essa, ha raccolta in sé una specifica disposizione, la quale non è avvertita se non agisce, né è visibile se non produce i suoi effetti, come la vita nella pianta si vede attraverso le foglie verdi.

Perciò l'uomo ignora da dove venga la conoscenza delle prime nozioni (assiomi) e l'amore verso i primi beni, che sono connaturati in voi come nell'ape l'attitudine a produrre il miele; e questa prima inclinazione non è degna di lode o di biasimo.

Ora, perché a questa disposizione si conformino tutte le altre, è innata in voi una virtù che dà consigli (libero arbitrio), che deve dare o negare il consenso ad agire.

Questo è il principio da dove nasce in voi il merito o il biasimo, a seconda che esamini e separi gli amori buoni e quelli cattivi.

Coloro che ragionando andarono al fondo della questione (i filosofi) si accorsero di questa libertà innata; per questo elaborarono per il mondo la morale (etica).

Dunque, anche ammettendo che ogni amore nasca in voi in modo necessario, voi avete il potere di tenerlo a freno.

Beatrice chiama questa nobile virtù 'libero arbitrio', e dunque bada di ricordartene, se lei te ne dovesse parlare».

La luna, quando ormai era mezzanotte passata, offuscava col suo chiarore le stelle, simile a un paiolo di rame scintillante;

e percorreva il cielo in senso contrario a quello percorso dal sole quando tramonta fra Sardegna e Corsica, per chi guarda da Roma.

E quell'anima nobile, per cui Pietole è più famosa di ogni città del mantovano, si era liberato del peso della spiegazione che io gli avevo imposto;

dunque io, che avevo raccolto nella mia mente le idee chiare sopra quelle questioni, stavo come un uomo che vaneggia nel sonno.

Ma questa mia sonnolenza fu interrotta improvvisamente da delle anime che correvano dietro le nostre spalle.

E come i fiumi Ismeno e Asopo videro di notte una folla che correva furiosamente lungo il loro corso, quando i Tebani avevano bisogno di Bacco, nello stesso modo in quella Cornice chi è cavalcato da buona volontà e giusto amore curva il proprio passo (corre a grandi falcate), come io vidi fare a quelle anime.

Ben presto furono presso di noi, perché tutta quella gran folla si muoveva correndo; e due di fronte agli altri gridavano piangendo: «Maria corse in fretta alla montagna; e Cesare, per sottomettere Ilerda, colpì Marsiglia e poi corse in Spagna».

Gli altri dietro di loro gridavano: «In fretta, in fretta, non perdiamo tempo per scarso amore, facciamo rinverdire la grazia con l'impegno a far bene».

«O gente, in cui ora un acuto fervore, forse, compensa la negligenza e l'indugio che voi per tiepido amore metteste nel fare il bene, costui (Dante) che è vivo, e certo non vi mento, vuole salire, non appena il sole tornerà a splendere; dunque diteci dov'è il passaggio più vicino».

Queste furono le parole della mia guida; e uno di quelli spiriti disse: «Vieni dietro a noi e troverai il varco.

Noi siamo così pieni di voglia di muoverci che non possiamo fermarci; dunque perdonaci, se ritieni che la nostra rettitudine sia scortesia.

Io fui l'abate della basilica di San Zeno a Verona, sotto l'impero del buon Federico Barbarossa, del quale Milano ancora oggi si rammarica dolente.

E un tale (Alberto della Scala) è già quasi morente, e ben presto rimpiangerà quel monastero, e sarà triste di aver avuto potere su di esso;

perché ha posto lì come suo abate, al posto di quello che doveva svolgere l'incarico, suo figlio, menomato nel corpo e nella mente e nato male (illegittimo)».

Io non so se aggiunse altro oppure tacque, tanto era già corso lontano da noi; ma sentii questo e ho voluto trascriverlo.

E colui che era il mio soccorso in ogni circostanza disse: «Girati da questa parte: ecco due anime che biasimano la colpa dell'accidia».

Dietro a tutti dicevano: «Il popolo per cui si aprì il Mar Rosso morì prima che il Giordano (la Palestina) vedesse i suoi eredi.

E quel popolo che non sopportò gli affanni del viaggio con Anchise fino in Italia, si condannò a una vita senza gloria».

Poi, quando quelle anime furono tanto lontane da noi che non si potevano più sentire, nella mia mente nacque un nuovo pensiero, dal quale ne nacquero altri e diversi; e io vaneggiai dall'uno all'altro, tanto che per stanchezza chiusi gli occhi e tramutai i miei pensieri in sogni.

ABATE DI SAN ZENO

Dal testo si desume che si tratta del monastero di S. Zeno di Verona, e che il personaggio visse sotto lo 'mperio del buon Barbarossa. Dalle ricerche storiche relative alle chiese di Verona pubblicate dal Biancolini, risulta che abate del monastero benedettino di San Zeno ai tempi di Federico I (1152-1190) era un non meglio identificato Gherardo II, del quale in molte carte (citate dal Biancolini) si fa menzione e specialmente in una del 1187, anno in cui pare sia morto. Succedendo a un Nobilio, deceduto forse nel 1160, resse dunque il monastero per più di un quarto di secolo e pare sia stato investito dall'imperatore della giurisdizione di vari villaggi del Veronese, e forse anche di altri privilegi, in compenso della buona accoglienza da lui e dai suoi monaci fattagli in occasione di un suo passaggio per Verona. Da quanto attestava un'iscrizione sepolcrale, a noi purtroppo non pervenuta, pare che questo abate abbia fatto costruire anche un nuovo campanile per la chiesa del suo monastero. Altro di lui non si sa; e meno, d'altronde, seppero i commentatori antichi della Commedia, i quali furono parchi di chiose al riguardo e si contentarono di parafrasare quel che dice il poeta. Secondo Benvenuto, Landino, Vellutello, Daniello, questo abate di San Zeno si chiamava Alberto (Giovanni, invece, secondo l'Anonimo), e fu, stando alle Chiose Vernon, " uomo di santa vita [" vir bonus moribus et vita " lo dice pure Benvenuto]; ma regnava in lui... vizio di pigrizia come fa il più dei frati per la troppa grassezza "; non dissimilmente Pietro Alighieri annotava: "vitium accidiae multum inter claustrales frequentatur ". La carenza di notizie e di rilievi atti a qualificare storicamente il personaggio rende quanto mai ipotetica però l'identificazione; sicché giustamente il Porena (e con lui altri commentatori) suppone si tratti di un mero pretesto escogitato da Dante per poter così stigmatizzare il contegno immorale e iniquo di un ben noto abate di quel monastero, Giuseppe della Scala (v.). Se la figura dell'accidioso abate risulta nell'episodio storicamente scolorita, non altrettanto può dirsi dell'episodio in sé. L'incontro con gli accidiosi si svolge in un clima lunare, rotto dalle voci delle anime che gridano correndo esempi di sollecitudine e di accidia punita. E Dante, che già inclinava al sonno, pago delle spiegazioni elargitegli da Virgilio sul libero arbitrio, viene così indotto a prender atto della nuova schiera. Di contro alla sonnolenza di Dante l'ardore che sprona gli espianti a correr senza tregua è più che significativo, espresso com'è dalla voce dello spirito che si qualifica per l'abate. di San Zeno, vissuto in un'età in cui ancora le due autorità alle quali, per D., è commessa la salvezza del genere umano, erano entrambe efficienti, e la 'cupidigia e l'abuso di potere non avevano ancora rovinato i monasteri. Di tutta la scena e del colloquio avviato da Virgilio, D. è spettatore muto ma attento; e l'invettiva che ascolta contro Alberto e Giuseppe della Scala può essere intesa come monito aperto e solenne a che egli faccia tesoro della lezione tenutagli poco prima dal maestro. L'A. non è che la voce viva della verità e della coscienza; la sua personalità poetica e artistica si risolve nella sua ferma denunzia. Nel giro di due terzine si assommano gli elementi dell'accusa e del dispregio, la profezia e l'anatema, e ancora un'angoscia profonda, di chi constata l'avvenuta profanazione di un luogo santo (San Zeno) nella sua memoria e nel suo cuore. Dinanzi agli occhi suoi allora il futuro sta aperto come un libro, ed egli già può leggervi la pena cui andrà fra poco incontro il profanatore: la vita, la morte, la dannazione di Alberto si proiettano l'una dopo l'altra nella parola del veggente, e l'invettiva contro Giuseppe, come ben dice il Tarozzi, ha qualcosa di biblico e insieme di pagano. Sarà da notare infine, in questo episodio, la presenza di un tema fondamentale del poema, sia pure espresso come "in sordina " (annota giustamente il Padoan): la volontà di consacrare di nuovo, nella prevaricazione commessa da Alberto, la netta distinzione tra il potere politico e quello religioso, e la loro reciproca autonomia, a così breve distanza dalle parole di Marco Lombardo.

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Eugenio Caruso - 03/01/2021



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