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Dante, Purgatorio, Canto XX. Gli avari, Ugo Capeto.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XX del Purgatorio completa il discorso di Dante intorno al peccato di avarizia, presentando come exemplum morale il personaggio di Ugo Capeto che, in quanto re di Francia e capostipite della dinastia capetingia, è speculare rispetto a quello di papa Adriano V protagonista del Canto XIX (il peccato più grave e fonte della decadenza morale del tempo è condannato attraverso due esponenti delle massime cariche nell'Europa cristiana, un sovrano e un pontefice).
L'incontro con Ugo Capeto è preceduto dalla dura invettiva del poeta contro la lupa, simbolo del peccato di cupidigia come già nel Canto I dell'Inferno, cui seguono gli esempi di povertà e liberalità recitati dalle anime dei penitenti, che come apprenderemo in seguito dichiarano di notte quelli di avarizia punita, unico caso nella Cantica in cui essi non sono presentati direttamente a Dante. L'anima che secondo il poeta ha parlato è proprio quella di Ugo Capeto, a cui Dante si avvicina e attraverso il quale svolge un importante discorso di condanna dell'avarizia e, al tempo stesso, di dura critica ai discendenti della sua dinastia. L'esempio di Ugo Capeto è già di per sé significativo, in quanto il sovrano (che Dante confonde in parte col padre Ugo il Grande e indica erroneamente come figlio di un macellaio) giunse al regno nonostante le sue umili origini e divenne avido di potere, salvo poi pentirsi dei suoi peccati e guadagnare la salvezza eterna; non così si può dire per i suoi discendenti, verso i quali il re lancia un duro atto d'accusa che colpisce soprattutto Filippo il Bello e i due Carlo d'Angiò, ovvero i capetingi verso cui Dante aveva maggiori motivi di risentimento e di condanna politica.
Il penitente individua un momento storico a partire dal quale la casata iniziò il suo declino morale, ovvero l'acquisizione della gran dota provenzale avvenuta nel 1245 col matrimonio di Beatrice (figlia di Raimondo IV Berlinghieri) con Carlo I d'Angiò: da lì in poi iniziò la rapina della dinastia francese, sia perché il matrimonio fu concluso con la rottura fraudolenta del fidanzamento tra Beatrice e Raimondo di Tolosa, sia perché in seguito le truppe francesi invasero la Provenza con un vero atto di guerra. Ugo Capeto usa la tecnica dell'antifrasi per biasimare le ulteriori malefatte dei suoi discendenti, in quanto afferma che per fare ammenda di quel torto Carlo I d'Angiò invase il regno di Napoli e fece decapitare Corradino nel 1268, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e in seguito fece avvelenare san Tommaso d'Aquino per timore di ciò che avrebbe detto contro di lui al Concilio di Lione (Dante dà credito a questa versione della morte del santo, usando l'espressione ironica ripinse al ciel).
Ugo Capeto profetizza poi l'azione di Carlo di Valois quando sarà «paciaro» a Firenze e favorirà l'ascesa violenta al potere dei Guelfi Neri, causando indirettamente l'esilio di Dante, nonché la condotta di Carlo II d'Angiò il quale, dopo essersi coperto di vergogna nella battaglia del Golfo di Napoli del 1284 in cui fu fatto prigioniero dagli Aragonesi, arriverà nel 1305 a vendere la giovane figlia Beatrice ad Azzo VIII d'Este come fanno i pirati con le schiave (entrambe le immagini si rifanno all'ambito marinaresco e ai prigionieri fatti sul mare).
Naturalmente il principale bersaglio polemico del penitente è il re di Francia sul trono al momento della visione dantesca e della composizione del Canto, ovvero Filippo il Bello di cui Ugo Capeto già all'inizio biasima la guerra condotta contro i Fiamminghi nel 1297-1299: Filippo aveva consumato l'indegno tradimento del conte di Fiandra che indusse ad arrendersi e poi fece prigioniero, salvo poi scatenare la ribellione delle città fiamminghe che nel 1302 sconfissero i francesi (il fatto è qui profetizzato da Ugo Capeto come prossima punizione delle malefatte del sovrano).
Altri due gravi fatti vengono predetti dal penitente con un discorso retoricamente elevato e solenne, attraverso l'anafora Veggio... con cui egli prefigura l'oltraggio di Anagni e lo scioglimento dell'Ordine dei Templari: in entrambi i casi il penitente usa immagini tratte dal testo evangelico e relative alla vicenda di Cristo, a iniziare dall'offesa subìta da Bonifacio VIII ad opera di Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret, paragonati ai due ladroni con cui Gesù venne crocifisso e indicando il papa stesso come Cristo oltraggiato e umiliato sulla via crucis.
È chiaro che Dante condanna l'offesa perpetrata non alla persona di Bonifacio ma all'abito che egli indossa come vicario di Cristo in Terra, per cui l'azione compiuta dai due complici di Filippo è degna della massima esecrazione come quella profetizzata subito dopo, ovvero lo scioglimento dell'Ordine dei Templari allo scopo di impadronirsi delle loro ricchezze: qui Filippo è paragonato a Pilato per essersi proclamato estraneo ai fatti di Anagni e aver lasciato il papa nelle mani dei suoi nemici Colonna (quindi con un'immagine ancora relativa alla passione di Cristo), mentre poi è detto portare le cupide vele nel tempio come un pirata che va all'arrembaggio dei tesori dei Templari, con una metafora che nuovamente si collega all'ambito marinaro.
L'azione di Filippo è condannata anche per il movente dettato dall'avarizia, per cui in ultima analisi la condanna dei discendenti di Ugo Capeto è anche un ulteriore esempio di cupidigia come causa del malcostume politico del mondo, il che spiega il particolare malanimo sempre dimostrato da Dante verso il sovrano che fece iniziare la cattività avignonese (Filippo il Bello non è mai nominato direttamente nel poema e verrà sempre colpito con amara irrisione, come nella figura del gigante di Purg., XXXII e nel preannuncio della sua morte in Par., XIX).
Dopo la chiosa di Ugo Capeto circa gli esempi di avarizia punita, tratti come al solito dalla tradizione classica e biblica, e il fatto che tutte le anime li dichiarano con voce più o meno alta a seconda del sentimento provato, il Canto si chiude col terremoto che scuote il monte del Purgatorio e il canto del Gloria da parte delle anime, che accende la più viva curiosità da parte di Dante: è il preannuncio dell'incontro con Stazio che avverrà nel Canto successivo, con cui inizierà un lungo discorso intorno alla poesia e che consentirà a Dante di spiegare tra l'altro il fatto che nella V Cornice è punito anche il peccato di prodigalità. L'episodio si conclude in un'atmosfera di attesa e di dubbio da parte del poeta, che intende trasmettere anche al lettore e che sarà sciolta nello svolgersi del Canto seguente.
Note
- La rima per li al v. 4 è composta e si legge «pèrli», come altri esempi nel poema (cfr. Inf., VII, 28).
- Nel v. 15 Dante chiede al Cielo quando verrà colui destinato a cacciare la lupa dal mondo, alludendo implicitamente al veltro già evocato nella profezia di Inf., I, 101 ss. Ugo Capeto ai vv. 43-45 usa la metafora della pianta per indicare la dinastia capetingia, di cui lui è stato il capostipite e quindi la radice, mentre i discendenti sono i rami; essa aduggia, cioè fa ombra e danneggia tutta la Cristianità, così che raramente se ne colgono buoni frutti (il vb. schianta è da riferire alla pianta).
- Le città indicate in forma italianizzata al v. 46 sono Douai, Lille, Gand e Bruges, che alludono all'intera regione delle Fiandre.
- Ugo Capeto (v. 49) si presenta come Ciappetta, soprannome che deriva probabilmente dal franc. Chapet che indicava la piccola cappa indossata da Ugo I e Ugo II come abati laici (da cui «Capeto», dalla piccola cappa).
- Ai vv. 50-51 Ugo Capeto si riferisce ai molti re francesi di nome Filippo e Luigi che si sono succeduti dal X al XIII sec.
- Al v. 52 beccaio è bisillabo per effetto del trittongo -aio.
- I regi antichi citati al v. 53 sono i Carolingi, che Ugo Capeto dice erroneamente essere tutti morti tranne uno fattosi monaco (renduto in panni bigi): si tratta di una leggenda che conobbe una certa diffusione nel Medioevo, in base a cui l'ultimo carolingio sarebbe stato costretto da Ugo a chiudersi in convento, forse per contaminazione con l'episodio analogo dell'ultimo merovingio Childerico III.
- Il figlio di Ugo citato al v. 59 è Roberto I, se a parlare è davvero Ugo II Capeto, ma potrebbe essere lo stesso Ugo II se a parlare fosse il padre Ugo I il Grande (è quasi certo che Dante confonda i due Ughi).
- Al v. 66 Ugo allude alla conquista della contea di Ponthieu e della Guascogna, feudi del re d'Inghilterra, da parte di Filippo il Bello nel 1294 (Dante aggiunge anche la Normandia, occupata in realtà nel 1204 da Filippo II).
- La lancia / con la qual giostrò Giuda (vv. 73-74) è l'arma del tradimento, usata da Carlo di Valois nella sua azione a Firenze del 1301-1302 che portò alla vittoria dei Neri; l'immagine cruda di Firenze cui Carlo fa scoppiar la pancia (v. 75) è forse ispirata a un passo degli Act. Ap. (I, 18) in cui Pietro a proposito di Giuda dice che «si impiccò, si squarciò nel mezzo e le sue viscere si sparsero in terra» (suspensus crepuit medius et diffusa sunt omnia viscera eius). Più avanti Dante osserva con sarcasmo che per questa azione Carlo, detto «senzaterra», guadagnerà soltanto vergogna e disonore, alludendo forse allo sfortunato tentativo da parte sua di riconquistare la Sicilia agli Aragonesi.
- Il fiordaliso (v. 86) è il giglio, simbolo della casa di Francia (cfr. Purg., VII, 105; Par., VI, 100 ss.).
- Al v. 92 il decreto è quello papale che solo poteva sancire lo scioglimento dei Templari, mentre Filippo il Bello agì di sua iniziativa.
- Risposto (v. 100) vale «responsorio» e indica che le anime alternano la recitazione delle prece, delle preghiere, a quella degli esempi di liberalità durante il giorno e di avarizia punita durante la notte.
- I vv. 130-132 alludono al mito secondo cui l'isola di Delo era scossa da frequenti terremoti essendo vagante sul mare, mentre dopo che Latona vi partorì Diana e Apollo quest'ultimo la rese stabile.

TESTO

Contra miglior voler voler mal pugna; 
onde contra ‘l piacer mio, per piacerli, 
trassi de l’acqua non sazia la spugna.                           3

Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li 
luoghi spediti pur lungo la roccia, 
come si va per muro stretto a’ merli;                               6

ché la gente che fonde a goccia a goccia 
per li occhi il mal che tutto ‘l mondo occupa, 
da l’altra parte in fuor troppo s’approccia.                      9

Maladetta sie tu, antica lupa, 
che più che tutte l’altre bestie hai preda 
per la tua fame sanza fine cupa!                                     12

O ciel, nel cui girar par che si creda 
le condizion di qua giù trasmutarsi, 
quando verrà per cui questa disceda?                          15

Noi andavam con passi lenti e scarsi, 
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia 
pietosamente piangere e lagnarsi;                                18

e per ventura udi’ «Dolce Maria!» 
dinanzi a noi chiamar così nel pianto 
come fa donna che in parturir sia;                                  21

e seguitar: «Povera fosti tanto, 
quanto veder si può per quello ospizio 
dove sponesti il tuo portato santo».                               24

Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, 
con povertà volesti anzi virtute 
che gran ricchezza posseder con vizio».                       27

Queste parole m’eran sì piaciute, 
ch’io mi trassi oltre per aver contezza 
di quello spirto onde parean venute.                             30

Esso parlava ancor de la larghezza 
che fece Niccolò a le pulcelle, 
per condurre ad onor lor giovinezza.                              33

«O anima che tanto ben favelle, 
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola 
tu queste degne lode rinovelle.                                       36

Non fia sanza mercé la tua parola, 
s’io ritorno a compiér lo cammin corto 
di quella vita ch’al termine vola».                                    39

Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto 
ch’io attenda di là, ma perché tanta 
grazia in te luce prima che sie morto.                            42

Io fui radice de la mala pianta 
che la terra cristiana tutta aduggia, 
sì che buon frutto rado se ne schianta.                         45

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia 
potesser, tosto ne saria vendetta; 
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.                           48

Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; 
di me son nati i Filippi e i Luigi 
per cui novellamente è Francia retta.                             51

Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi: 
quando li regi antichi venner meno 
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,                             54

trova’mi stretto ne le mani il freno 
del governo del regno, e tanta possa 
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,                            57

ch’a la corona vedova promossa 
la testa di mio figlio fu, dal quale 
cominciar di costor le sacrate ossa.                              60

Mentre che la gran dota provenzale 
al sangue mio non tolse la vergogna, 
poco valea, ma pur non facea male.                              63

Lì cominciò con forza e con menzogna 
la sua rapina; e poscia, per ammenda, 
Pontì e Normandia prese e Guascogna.                      66

Carlo venne in Italia e, per ammenda, 
vittima fé di Curradino; e poi 
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.                      69

Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi, 
che tragge un altro Carlo fuor di Francia, 
per far conoscer meglio e sé e ‘ suoi.                           72

Sanz’arme n’esce e solo con la lancia 
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta 
sì ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.                          75

Quindi non terra, ma peccato e onta 
guadagnerà, per sé tanto più grave, 
quanto più lieve simil danno conta.                                78

L’altro, che già uscì preso di nave, 
veggio vender sua figlia e patteggiarne 
come fanno i corsar de l’altre schiave.                          81

O avarizia, che puoi tu più farne, 
poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto, 
che non si cura de la propria carne?                             84

Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto, 
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, 
e nel vicario suo Cristo esser catto.                               87

Veggiolo un’altra volta esser deriso; 
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele, 
e tra vivi ladroni esser anciso.                                         90

Veggio il novo Pilato sì crudele, 
che ciò nol sazia, ma sanza decreto 
portar nel Tempio le cupide vele.                                    93

O Segnor mio, quando sarò io lieto 
a veder la vendetta che, nascosa, 
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?                                    96

Ciò ch’io dicea di quell’unica sposa 
de lo Spirito Santo e che ti fece 
verso me volger per alcuna chiosa,                               99

tanto è risposto a tutte nostre prece 
quanto ‘l dì dura; ma com’el s’annotta, 
contrario suon prendemo in quella vece.                    102

Noi repetiam Pigmalion allotta, 
cui traditore e ladro e paricida 
fece la voglia sua de l’oro ghiotta;                                 105

e la miseria de l’avaro Mida, 
che seguì a la sua dimanda gorda, 
per la qual sempre convien che si rida.                       108

Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, 
come furò le spoglie, sì che l’ira 
di Iosuè qui par ch’ancor lo morda.                               111

Indi accusiam col marito Saffira; 
lodiam i calci ch’ebbe Eliodoro; 
e in infamia tutto ‘l monte gira                                        114

Polinestòr ch’ancise Polidoro; 
ultimamente ci si grida: "Crasso, 
dilci, che ‘l sai: di che sapore è l’oro?".                        117

Talor parla l’uno alto e l’altro basso, 
secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona 
ora a maggiore e ora a minor passo:                           120

però al ben che ‘l dì ci si ragiona, 
dianzi non era io sol; ma qui da presso 
non alzava la voce altra persona».                                123

Noi eravam partiti già da esso, 
e brigavam di soverchiar la strada 
tanto quanto al poder n’era permesso,                       126

quand’io senti’, come cosa che cada, 
tremar lo monte; onde mi prese un gelo 
qual prender suol colui ch’a morte vada.                    129

Certo non si scoteo sì forte Delo, 
pria che Latona in lei facesse ‘l nido 
a parturir li due occhi del cielo.                                      132

Poi cominciò da tutte parti un grido 
tal, che ‘l maestro inverso me si feo, 
dicendo: «Non dubbiar, mentr’io ti guido».                 135

Gloria in excelsis’ tutti ‘Deo’ 
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi, 
onde intender lo grido si poteo.                                     138

No’ istavamo immobili e sospesi 
come i pastor che prima udir quel canto, 
fin che ‘l tremar cessò ed el compiési.                        141

Poi ripigliammo nostro cammin santo, 
guardando l’ombre che giacean per terra, 
tornate già in su l’usato pianto.                                     144

Nulla ignoranza mai con tanta guerra 
mi fé desideroso di sapere, 
se la memoria mia in ciò non erra,                               147

quanta pareami allor, pensando, avere; 
né per la fretta dimandare er’oso, 
né per me lì potea cosa vedere: 

così m’andava timido e pensoso.                                 151

PARAFRASI

La volontà combatte a mal partito contro una volontà migliore; perciò per compiacere Adriano V, pur malvolentieri, tirai fuori dall'acqua la spugna non piena d'acqua.

Andai via di lì; e il mio maestro avanzò nello spazio libero lungo la parete rocciosa, come si procede sugli spalti di un castello rasente ai merli;

infatti le anime che espiano con le lacrime, goccia a goccia, il peccato che affligge il mondo intero, sono distese dalla parte opposta troppo vicine all'orlo della Cornice.

Che tu sia maledetta, antica lupa, che più di ogni altra belva trovi vittime per la tua fame eterna e profonda!

O Cielo, dal cui movimento gli uomini credono che le vicende umane siano influenzate, quando verrà colui per il quale la lupa sarà cacciata dal mondo?

Noi camminavamo con passi lenti e incerti, e io ero attento alle anime che sentivo piangere e lamentarsi in modo pietoso;

per caso sentii: «Dolce Maria!», che di fronte a noi qualcuno invocava piangendo, come fa una donna che sta per partorire;

e proseguì: «Tu fosti così povera come si può vedere dalla stalla dove hai partorito il tuo santo fardello».

In seguito sentii: «O buon Fabrizio Luscinio, tu preferisti essere povero e virtuoso piuttosto che ricco e vizioso».

Queste parole mi erano piaciute a tal punto che mi spinsi più avanti per vedere meglio quello spirito che mi sembrava le avesse pronunciate.

Questo parlava ancora della generosità di san Niccolò verso le fanciulle, perché potessero vivere onestamente la loro giovinezza.

Io dissi: «O anima che parli così bene, dimmi il tuo nome e perché sei la sola a rinnovare queste degne lodi.

Le tue parole non saranno senza ricompense, se io tornerò a completare il corto cammino di quella vita che corre alla sua fine».

E lui: «Ti risponderò, non perché io aspetti conforto dalle preghiere dei vivi, ma poiché in te riluce tanta grazia prima della tua morte.

Io fui la radice della pianta maligna (i Capetingi) che fa ombra a tutta la Cristianità, cosicché raramente se ne colgono buoni frutti.

Ma se Douai, Lille, Gand e Bruges potranno, la vendetta avverrà presto; e io la chiedo a Colui (Dio) che tutto giudica.

In vita fui chiamato Ugo Capeto; da me sono nati i Filippi e i Luigi da cui la Francia è stata governata di recente.

Io fui figlio di un macellaio di Parigi: quando i re antichi (i Carolingi) scomparvero tutti, tranne uno che indossò la tonaca di monaco, io mi trovai stretto in mano il governo del regno, ed ebbi un tale potere per il nuovo acquisto e fui così pieno di amici, che la corona rimasta vacante fu destinata alla testa di mio figlio, da cui ha avuto inizio la dinastia dei Capetingi.

Fino al giorno in cui la gran dote della Provenza non tolse ai miei discendenti ogni ritegno, la dinastia compì poche imprese ma nondimeno non commise malefatte.

Da quel momento iniziò la sua rapina con la violenza e l'inganno; e in seguito, per fare ammenda di ciò, si impadronì del Ponthieu, della Normandia e della Guascogna.

Carlo I d'Angiò venne in Italia e, per fare ammenda, uccise Corradino; poi fece morire san Tommaso, sempre per ammenda.

Vedo che tra non molto tempo un altro Carlo (di Valois) uscirà di Francia, per far conoscere meglio se stesso e la sua casata.

Ne uscirà senz'armi, tranne che la lancia del tradimento con cui si batté Giuda, e la userà in modo tale da fare scoppiare la pancia a Firenze.

Per questo non otterrà una terra ma peccato e vergogna, tanto più grave quanto meno grave egli considera tale danno.

Vedo poi l'altro (Carlo II d'Angiò), che già fu catturato sul mare, che vende sua figlia e ne fa mercato, come i pirati fanno con le schiave.

O avarizia, che cosa puoi farci più di questo, dopo che hai avvinto a te il mio sangue al punto che non si cura neppure dei propri congiunti?

E perché il male futuro e quello passato sembrino minori, vedo il giglio di Francia entrare ad Anagni, e vedo Cristo essere catturato nella persona del suo vicario.

Lo vedo deriso un'altra volta; vedo nuovamente l'aceto e il fiele, e vedo che viene ucciso tra due ladroni vivi (Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna).

Vedo il nuovo Pilato (Filippo il Bello) così crudele da non essere soddisfatto di ciò, ma portare le sue vele smaniose dentro il Tempio senza attendere il decreto papale.

O mio Signore, quando sarò lieto nel vedere la vendetta che, nascosta agli occhi dei mortali, rende la tua ira dolce perché segreta?

Quello che io dicevo di quell'unica sposa dello Spirito Santo (Maria) e che ti fece rivolgere a me per delle spiegazioni, è il responsorio a tutte le nostre preghiere di giorno; ma non appena fa note, al suo posto dichiariamo esempi contrari.

Allora noi ripetiamo il nome di Pigmalione, reso traditore, ladro e assassino dalla sua avidità di oro;

e la miseria dell'avaro re Mida, che fu la conseguenza della sua richiesta avida e per la quale bisogna sempre sorridere.

Ciascuno poi ricorda il folle Acan, che rubò il bottino di Gerico e che qui sembra ancora colpito dall'ira di Giosuè.

Poi accusiamo Saffira e suo marito (Anania); elogiamo i calci ricevuti da Eliodoro; e Polinestore, che uccise Polidoro, gira con infamia tutto il monte; alla fine gridiamo: "Crasso, dicci poiché lo sai: che sapore ha l'oro?"

A volte un'anima parla con voce alta e un'altra con voce bassa, a seconda del sentimento che ci sprona a dire gli esempi in modo più o meno intenso:

dunque poco fa non ero il solo a dichiarare gli esempi che diciamo di giorno; ma qui vicino nessun altro alzava la voce».

Noi ci eravamo ormai allontanati da lui e cercavamo di percorrere la strada, tanto quanto ci era consentito, quando io sentii il monte che tremava come se stesse per crollare; allora raggelai come colui che sta per morire.

Certamente l'isola di Delo non si scosse così forte, prima che Latona partorisse su di essa i due occhi del cielo (Apollo e Diana, identificati con Sole e Luna).

Poi da ogni parte si levò un grido tale, che il maestro si rivolse a me e disse: «Non aver paura, mentre io ti guido».

Tutti dicevano 'Gloria a Dio nell'alto dei Cieli', almeno a quanto potei capire dalle anime più vicine, per cui intesi il grido collettivo.

Noi stavamo immobili e incerti, come i pastori che per primi udirono quel canto, finché il terremoto cessò e il grido ebbe fine.

Allora riprendemmo il nostro cammino di redenzione, guardando le ombre che giacevano per terra e che già avevano ripreso il consueto pianto.

Se la memoria non mi inganna, nessuna ignoranza mi rese mai desideroso di sapere con tanto tormento, quanta mi sembrava di avere in quel momento; e per la fretta non osavo domandare a Virgilio, né potevo vedere qualcosa che spiegasse l'accaduto: così camminavo timido e pensieroso.

UGO CAPETO

capeto
Incoronazione di Ugo Capeto nella miniatura di un manoscritto medioevale del XIII o XIV secolo. Parigi, Biblioteca nazionale di Francia.

Ugo Capeto (in francese Hugues Capet; Dourdan, 940 circa – Prasville, 24 ottobre 996), duca dei Franchi, conte di Parigi e marchese di Neustria demarcus, poi re di Francia, incoronato a Noyon nel 987, fino alla sua morte. Con il suo regno ebbe inizio il casato dei Capetingi, il quale, comprendendo anche i rami cadetti dei Valois e dei Borbone, regnò sul trono francese fino al XIX secolo: infatti tutti i sovrani di Francia suoi successori, esclusi i Bonaparte, erano suoi discendenti diretti in linea maschile. Ancora oggi i re di Spagna e i granduchi di Lussemburgo sono suoi discendenti per linea maschile. Ugo Capeto era il figlio maschio maggiore del duca dei Franchi e conte di Parigi, Ugo il Grande e di Edvige di Sassonia. I suoi nonni paterni erano il marchese di Neustria e re di Francia, Roberto I e Beatrice di Vermandois, quelli materni il re di Germania, Enrico I l'Uccellatore e Matilde di Ringelheim. Suo zio era il re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero, Ottone I. Fu quindi l'erede dei potenti Robertingi, la linea dinastica in competizione per il potere con le grandi famiglie aristocratiche di Francia tra il IX e l'XI secolo. Alla morte del padre il 16 giugno 956, il giovane Ugo ereditò il titolo di conte d'Orléans e di abate nelle abbazie di Saint-Denis, di Marmoutier e di Saint-Germain-des-Prés e il titolo di duca d'Aquitania, mentre per i restanti titoli e domini venne in dissidio col fratello, Oddone. Nel 960, il re Lotario IV, suo cugino da parte di madre, gli concesse anche i titoli, già avuti da Ugo il Grande, di duca dei Franchi e marchese di Neustria e lo confermò anche nel titolo di duca d'Aquitania, divenendo così uno dei più potenti nobili di quel tempo; mentre il fratello secondogenito, Oddone, fu ufficialmente investito del titolo di duca di Borgogna e conte di Auxerre. Oddone morì nel 965, lasciando il titolo di duca di Borgogna al fratello, Enrico Ottone il Grande. In quel periodo il marchese di Neustria, pur essendo rispettato dai suoi vassalli, vedeva molto ridotta la sua autorità diretta sui vari feudi, con l'eccezione della contea d'Angiò; vari feudatari come i conti di Blois, i duchi di Normandia e altri si rivolgevano direttamente al re di Francia e non al loro signore, il marchese di Neustria. Ugo in un primo tempo fu fedele al re di Francia, Lotario; poi però fu conquistato alla causa imperiale, si alleò con l'imperatore Ottone I, suo zio, e dopo la morte di questi, nel 983, con il cugino Ottone II, che nel 984 riuscì a respingere l'attacco di Lotario in Lorena, anche grazie ai problemi che Ugo, unitamente all'arcivescovo di Reims Adalberone, creò al re di Francia. All'assemblea annuale, tenutasi nel febbraio 986 a Compiègne, Adalberone fu convocato con l'accusa di tradimento; Ugo, per contrastare il re di Francia Lotario suo cugino, riunì un esercito e disperse l'assemblea. Il 2 marzo 986, Lotario morì improvvisamente, molto probabilmente per un colpo di freddo; gli successe, senza incontrare opposizioni, il figlio Luigi come Luigi V, che seguendo la politica paterna aveva riconvocato Adalberone davanti a un'assemblea che si sarebbe dovuta tenere, sempre a Compiègne, nel 987. Ma, per una caduta da cavallo, Luigi morì senza discendenti tra il 21 e il 22 maggio 987. Carlo, duca della Bassa Lorena e fratello di Lotario, avanzò pretese per la successione al trono, ma il clero - inclusi l'arcivescovo di Reims Adalberone e Gerberto di Aurillac (più tardi divenuto papa col nome di Silvestro II) - favorì la successione al trono di Francia di Ugo Capeto. Carlo col suo comportamento si era reso non degno a salire al trono. L'assemblea convocata da Luigi V si tenne sotto la presidenza di Ugo Capeto e le accuse contro Adalberone caddero in quanto infondate; fu decisa una nuova riunione a Senlis per eleggere il nuovo re. Adalberone attaccò Carlo, perché al servizio di un re straniero e perché aveva sposato una donna di rango inferiore, che non poteva quindi diventare regina, mentre il duca dei franchi Ugo era senz'altro più adatto a ricoprire la carica di re. Ugo venne proclamato e incoronato re a Noyon il 3 luglio 987. Con l'incoronazione di Ugo Capeto a re di Francia, l'autorità del marchesato di Neustria era stata assorbita dal potere reale, per cui il titolo scomparve. In quello stesso anno, il 30 dicembre, Ugo Capeto fece incoronare come suo successore il figlio Roberto II. Questa mossa era stata compiuta per prevenire eventuali cambi di dinastia e contestazioni, come già era successo in precedenza, ad esempio tra Lotario e Luigi V. Nel maggio 988, Carlo aveva attaccato e conquistato Laon. Allora Ugo e Roberto assediarono la città, ma, con una sortita, Carlo incendiò il campo reale e le macchine d'assedio, allora il re dovette ritirarsi e Carlo avanzò sino a Reims, dove Adalberone il 23 gennaio 989, morì. Ugo, per ingraziarsi la parte carolingia, nominò come nuovo arcivescovo, Arnolfo, figlio illegittimo di Lotario, quindi nipote di Carlo, ma appena insediato, nel marzo-aprile del 989, Arnolfo passò dalla parte di Carlo e gli aprì le porte della città. Furono tentati degli approcci diplomatici, senza successo e con la forza nessuno dei due contendenti riusciva a prevalere. La situazione di stallo fu risolta dopo circa due anni, nel marzo 991: l'arcivescovo di Laon, Adalbertone detto Asselino, che favorevole ai capetingi dichiarò di passare nel campo carolingio e invitò Carlo e Arnolfo a Laon, dove, nella torre della città, dopo aver pranzato, giurò fedeltà a Carlo. Ma, nella notte fece arrestare e imprigionare i carolingi. Carlo di Lorena fu segregato a Orléans, dove morì l'anno dopo, mentre il nipote, Arnolfo dovette rinunciare a tutti i benefici e al titolo di arcivescovo di Reims. Ugo in accordo coi papi, Giovanni XV e poi Gregorio V si oppose al matrimonio del figlio, Roberto con Berta di Borgogna, dal marzo del 996, vedova del conte Oddone I di Blois, in quanto erano cugini di terzo grado. Ugo Capeto, ammalatosi di vaiolo, morì nel 996, il 24 ottobre, forse a Prasville (Eure-et-Loir). Gli successe il figlio, Roberto.

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Eugenio Caruso - 26/01/2021


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