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Dante, Purgatorio. Canto XXIII. I golosi

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXIII del Purgatorio forma con quello seguente un «dittico» che ha Forese Donati (lontano parente di Dante per parte di sua moglie, Gemma Donati)come protagonista, in maniera analoga ai Canti XXI-XXII che erano invece centrati su Stazio, proseguendo quel discorso intorno alla poesia che è iniziato con l'autore della Tebaide e continuerà negli episodi seguenti sino a culminare nell'incontro nell'Eden con Beatrice.
Qui viene anzitutto presentata la pena particolarissima dei golosi, che si presentano a Dante dapprima con la voce cantando il Salmo Labia mea, Domine (si tratta del Salmo L che chiede a Dio di aprire la bocca del fedele per annunciarne le lodi, in contrasto con chi l'ha usata in vita per darsi smodatamente al cibo) e poi col loro aspetto stravolto, consumato da un'incredibile magrezza: Dante si sofferma sulla descrizione dei loro volti ossuti, in cui si potrebbe leggere la parola «OMO» formata dalla linea dei sopraccigli e del naso (la M maiuscola gotica) e dagli occhi (le due O che spesso venivano scritte negli spazi interni della M).
I golosi vengono descritti con altre due similitudini tratte dall'ambito classico e giudaico, ovvero Erisìttone che avendo oltraggiato la dea Cerere fu da lei condannato a una fame perpetua che lo consumava, e gli Ebrei di Gerusalemme assediati da Tito nel 66-70 d.C. che, spinti dalla fame, si diedero ad atti di cannibalismo (Dante cita l'episodio raccontato da Flavio Giuseppe, di Maria di Eleazaro che divorò il proprio figlio). L'insistenza sulla fisicità di questa pena e dello stupore che genera in Dante è notevole, tanto da indurlo a chiederne spiegazione a Forese prima di rispondere alla sua domanda e da sollecitare la digressione di Stazio nel Canto XXV sulla generazione delle anime, per spiegare la formazione dei corpi umbratili dei penitenti.
L'incontro con Forese è naturalmente centrale nell'episodio ed ha caratteristiche simili agli episodi di Casella, Belacqua e Nino Visconti, anche se qui Dante si mostra particolarmente colpito dall'aspetto dell'amico che è reso irriconoscibile dalla sua magrezza. Forese è il primo di una serie di poeti che Dante incontrerà nei Canti XXIV e XXVI, avendo scambiato con lui i sonetti della famosa «Tenzone» che qui è indirettamente ricordata dal penitente attraverso la rievocazione della moglie Nella: dopo aver spiegato a Dante quale colpa si espia in questa Cornice e cosa provoca la loro pena, Forese dichiara che solo le devote preghiere della moglie gli hanno permesso di accedere direttamente alla Cornice senza attendere nell'Antipurgatorio (Forese era stato peccatore fino all'ultima ora e quindi Dante è stupito di vederlo lì, essendo morto meno di cinque anni prima).
Le parole che Dante mette in bocca a Forese sulla sua vedovella, che dice di aver amato molto e che elogia come unico esempio di modestia tra le donne di Firenze, è evidentemente una sorta di ritrattazione delle ingiurie che aveva rivolto nella «Tenzone» all'amico-rivale, specie nel sonetto Chi udisse tossir la malfatata dove si diceva che la moglie di Forese giaceva sola nel letto, trascurata dal marito che si dedicava ad altre relazioni o all'arte del rubare, tanto che la donna era sempre raffreddata. Non è solo una riparazione che Dante fa alla memoria dell'amico defunto o a Nella, ma soprattutto un ripensamento di quella stagione di poesia comica che Dante aveva vissuto negli anni seguenti la morte di Beatrice e di cui Forese era stato in parte protagonista: la «Tenzone» era un aspetto di un più generale traviamento morale di Dante che egli qui rievoca anche nelle successive parole all'amico, quando gli ricorda il loro stile di vita disordinato e gaudente che poteva costargli la dannazione e dal quale lo ha tratto, pochi giorni prima, quel Virgilio che presenta poi a Forese e alle altre anime curiose di vederlo lì.
Dante allude certamente ad amori sensuali e disordinati, di cui forse anche le «Rime petrose» sono una testimonianza e che gli saranno rimproverati da Beatrice nel loro incontro nell'Eden (specie quando parlerà della pargoletta, XXXI, 59), ma forse si riferisce anche a quel peccato di natura intellettuale che commise nell'affidarsi allo studio della filosofia a scapito della teologia rivelata, per cui il superamento della poesia comica è anche il riconoscimento della pericolosità sul piano morale di quella fase, come dimostra il fatto che qui si dice chiaramente che Virgilio (ragione naturale) lo conduce a Beatrice (teologia), la sola in grado di fargli completare il viaggio ultraterreno.
Il ricordo di Nella spinge poi Forese a lanciare una dura invettiva contro il malcostume delle donne di Firenze, ormai dedite a pratiche disoneste e diventate peggiori delle donne dell'arretrata Barbagia, al punto che la Chiesa dovrà proibire loro addirittura di andare in giro a seno scoperto. Non sappiamo a quali provvedimenti Dante faccia qui riferimento, né quale sia il tremendo castigo profetizzato da Forese e destinato a fare urlare di orrore le donne fiorentine (tra le varie ipotesi, forse la più probabile è la discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo e la riconquista, peraltro mai avvenuta, di Firenze); certo questa invettiva contro la decadenza morale della città si collega ad altre pagine del poema, soprattutto la rievocazione della Firenze antica da parte di Cacciaguida in Par., XV, 97 ss., dove parole di condanna sono rivolte ai costumi sfrenati delle donne del tempo di Dante.
Cacciaguida dirà che la Firenze del XII sec. era sobria e pudica, che le donne non indossavano monili sgargianti o gonne ricamate, né la figlia faceva paura al padre per la dote che avrebbe dovuto assegnarle e per l'età precoce delle spose; le donne vegliavano amorevolmente i figli, lavoravano al telaio e vivevano in modo parco e modesto, simili alle antiche Romane da cui peraltro discendevano. La polemica di Dante contro il declino dei costumi è parte della condanna politica di Firenze che già ha pronunciato nell'invettiva all'Italia del Canto VI e sarà lo stesso Forese a tornare sull'argomento nel Canto seguente, quando parlerà della sorella Piccarda e del fratello Corso, esempi di virtù e pudicizia l'una e di malcostume politico l'altro, del quale profetizzerà la terribile morte e la dannazione.
In questo contesto acquista grande rilievo la conclusione del Canto, con la presentazione di Virgilio e Stazio e, soprattutto, il racconto del viaggio di redenzione che Dante sta compiendo da vivo attraverso i regni dell'Oltretomba, che ha avuto come punto di partenza la vita scapestrata ben conosciuta da Forese (e che avvenne in quella stessa Firenze da lui criticata poco prima) e che avrà un primo punto di arrivo nell'incontro con Beatrice, ulteriore esempio di donna moralmente retta in contrasto con il malcostume che i versi precedenti hanno biasimato.

Per ch'io a lui: "Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.

L'interpretazione controversa di questa terzina, rivolta da Dante a Forese, è fondamentale per l'interpretazione di questo canto. C'è chi parafrasa "Se tu richiami alla memoria quale fu la nostra vita al tempo della nostra più stretta familiarità, una vita illuminata dall'amicizia, dall'amore e dalla poesia, questo nostro presente discorrere della degradazione di Firenze [...] risulterà ancora una volta doloroso [...]" , e quindi delinea nel canto un intento moraleggiante di Dante, atto a castigare le mancanze di un vecchio e buon amico perché sia chiaro che gli eccessi che pervadono Firenze avrebbero presto ricevuto adeguata risposta dal Cielo sia nell'aldilà che, più clamorosamente, anche nell'aldiqua. C'è chi invece legge un più pentito "quant'è doloroso per noi ora (tu purgante, ed io nel pieno del mio viaggio salvifico) ricordare gli eccessi della nostra vita passata!", e quindi vede nell'incontro fra i due vecchi amici il segno della svolta di entrambi, non più legati alla loro sregolata vita cittadina (ed anzi entrambi in espiazione della stessa). Un dubbio niente affatto solo accademico: proseguendo nella sua spiegazione, Dante chiarisce che il suo viaggio accompagnato da Virgilio è causato direttamente dall'elemento denigrato nella terzina in questione: "di quella vita mi volse costui/ che mi va innanzi". Allora, l'intero viaggio della Commedia è causato dal riscuotere Dante dalla mondanità vanitosa dei suoi tempi, o dal suo stesso personalissimo errare lontano dalla grazia divina? Fortuna ha voluto che anche Forese si dilettasse di poesia, e che delle loro amenità passate ci sia rimasta la testimonianza nella tenzone goliardica (tre sonetti a testa) che li oppone l'uno all'altro (e che oggi leggiamo nelle Rime dantesche). Il Dante che vediamo in questi componimenti è molto diverso: arriva persino a far rimare Cristo con parole molto concrete (mentre nella Commedia Egli rimerà solo con sé stesso), e a non lesinare insinuazioni sulla moralità della povera Nella Donati, sposa del suo avversario. Ora sia per Cristo sia per Nella entrambi mostrano di nutrire massimo rispetto ed amore: e se queste figure vengono entrambe "riabilitate" durante questo loro incontro oltremondano, probabilmente non si tratta di una casualità. Anche per questi motivi, la maggior parte della critica vede in questo canto ventitreesimo la totale ritrattazione, perlomeno da parte di Dante (ma che egli metterà in bocca anche all'amico, dato che dopo tutto anche lui in punto di morte volle pentirsi dei suoi peccati), della goliardia materialista e frivola fiorentina, della quale Dante toccò il punto più basso dopo la morte di Beatrice e che, con ogni probabilità, resta la causa ultima delle fatiche espiatorie del poeta sulla lunga strada verso Dio delineata nel costruirsi delle tre cantiche.
Note
- La forma Figliuole (v. 4) ha l'antica desinenza -e del vocativo latino ed è attestata anche indipendentemente dalla rima.
- I golosi intonano il versetto 17 del Salmo L, che recita: Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem tuam («O Signore, tu aprirai le mie labbra e la mia bocca annuncerà le tue lodi»). Dante crea evidentemente un contrasto tra chi usa la bocca per lodare Dio e chi, come i golosi in vita, l'ha usata per mangiare e bere smodatamente.
- Erisìttone, citato al v. 26, era il mitico figlio di Triopa, re di Tessaglia, che aveva tagliato una quercia in un bosco sacro a Cerere; la dea lo aveva punito con una fame inestinguibile che lo consumò al punto di fargli addentare le proprie carni. La fonte è Ovidio (Met., VIII, 875-878: postquam consumpserat omnem / materiam... ipse suos artus lacero divellere morsu / coepit et infelix minuendo corpus alebat, «dopo che ebbe consumato ogni cosa, egli con spietati morsi iniziò a sbranare i suoi arti e l'infelice nutriva le sue membra smagrendole»).
- Ai vv. 28-30 Dante cita Flavio Giuseppe, lo storico che nella Guerra giudaica narra il terribile assedio di Gerusalemme ad opera di Tito nel 66-70 d.C., nel quale gli assediati erano tormentati dalla fame (VI, 3).
- Lo spazzo (v. 70) è lo spazio del ripiano della Cornice.
- Il v. 74 allude alle parole pronunciate da Cristo sulla croce, ovvero: Elì, Elì, lamma sabachtani («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», Matth., XXVII, 46).
- La Barbagia (v. 94) è una regione centrale della Sardegna, nota ai tempi di Dante per l'arretratezza dei suoi costumi. Forese la cita come esempio di barbarie paragonandola a quella fiorentina, probabilmente per la pseudo-etimologia Barbagia / barbaries (cfr. v. 103: quai barbare...).
- Il v. 105 allude a pene e sanzioni date dalle autorità ecclesiastiche (spiritali... discipline) o da quelle civili (altre).
- I vv. 110-111 indicano che il castigo contro le donne fiorentine non tarderà molti anni e giungerà prima che i bambini che dormono in culla raggiungano la pubertà (mettano cioè la barba sulle guance).
- Al v. 119 l'altr'ier vale genericamente «alcuni giorni fa», in quanto l'incontro fra Dante e Virgilio nella selva avvenne la mattina dell'8 aprile 1300, mentre ora siamo a mezzogiorno del 12 aprile. Al v. 120 Dante ricorda che l'8 aprile c'era la luna piena, come già aveva detto Virgilio in Inf., XX, 127).

TESTO

Mentre che li occhi per la fronda verde 
ficcava io sì come far suole 
chi dietro a li uccellin sua vita perde,                              3

lo più che padre mi dicea: «Figliuole, 
vienne oramai, ché ‘l tempo che n’è imposto 
più utilmente compartir si vuole».                                    6

Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto, 
appresso i savi, che parlavan sìe, 
che l’andar mi facean di nullo costo.                              9

Ed ecco piangere e cantar s’udìe 
Labia mea, Domine’ per modo 
tal, che diletto e doglia parturìe.                                      12

«O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?», 
comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno 
forse di lor dover solvendo il nodo».                              15

Sì come i peregrin pensosi fanno, 
giugnendo per cammin gente non nota, 
che si volgono ad essa e non restanno,                       18

così di retro a noi, più tosto mota, 
venendo e trapassando ci ammirava 
d’anime turba tacita e devota.                                          21

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, 
palida ne la faccia, e tanto scema, 
che da l’ossa la pelle s’informava.                                 24

Non credo che così a buccia strema 
Erisìttone fosse fatto secco, 
per digiunar, quando più n’ebbe tema.                         27

Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco 
la gente che perdé Ierusalemme, 
quando Maria nel figlio diè di becco!’                             30

Parean l’occhiaie anella sanza gemme: 
chi nel viso de li uomini legge ‘omo’ 
ben avria quivi conosciuta l’emme.                                33

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo 
sì governasse, generando brama, 
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?                   36

Già era in ammirar che sì li affama, 
per la cagione ancor non manifesta 
di lor magrezza e di lor trista squama,                           39

ed ecco del profondo de la testa 
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso; 
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».                  42

Mai non l’avrei riconosciuto al viso; 
ma ne la voce sua mi fu palese 
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.                           45

Questa favilla tutta mi raccese 
mia conoscenza a la cangiata labbia, 
e ravvisai la faccia di Forese.                                           48

«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia 
che mi scolora», pregava, «la pelle, 
né a difetto di carne ch’io abbia;                                      51

ma dimmi il ver di te, di’ chi son quelle 
due anime che là ti fanno scorta; 
non rimaner che tu non mi favelle!».                              54

«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, 
mi dà di pianger mo non minor doglia», 
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.                               57

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; 
non mi far dir mentr’io mi maraviglio, 
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».                     60

Ed elli a me: «De l’etterno consiglio 
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta 
rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.                            63

Tutta esta gente che piangendo canta 
per seguitar la gola oltra misura, 
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.                                   66

Di bere e di mangiar n’accende cura 
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo 
che si distende su per sua verdura.                               69

E non pur una volta, questo spazzo 
girando, si rinfresca nostra pena: 
io dico pena, e dovrìa dir sollazzo,                                  72

ché quella voglia a li alberi ci mena 
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’, 
quando ne liberò con la sua vena».                               75

E io a lui: «Forese, da quel dì 
nel qual mutasti mondo a miglior vita, 
cinq’anni non son vòlti infino a qui.                                78

Se prima fu la possa in te finita 
di peccar più, che sovvenisse l’ora 
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,                               81

come se’ tu qua sù venuto ancora? 
Io ti credea trovar là giù di sotto 
dove tempo per tempo si ristora».                                 84

Ond’elli a me: «Sì tosto m’ha condotto 
a ber lo dolce assenzo d’i martìri 
la Nella mia con suo pianger dirotto.                             87

Con suoi prieghi devoti e con sospiri 
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, 
e liberato m’ha de li altri giri.                                            90

Tanto è a Dio più cara e più diletta 
la vedovella mia, che molto amai, 
quanto in bene operare è più soletta;                            93

ché la Barbagia di Sardigna assai 
ne le femmine sue più è pudica 
che la Barbagia dov’io la lasciai.                                    96

O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica? 
Tempo futuro m’è già nel cospetto, 
cui non sarà quest’ora molto antica,                             99

nel qual sarà in pergamo interdetto 
a le sfacciate donne fiorentine 
l’andar mostrando con le poppe il petto.                     102

Quai barbare fuor mai, quai saracine, 
cui bisognasse, per farle ir coperte, 
o spiritali o altre discipline?                                            105

Ma se le svergognate fosser certe 
di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna, 
già per urlare avrian le bocche aperte;                         108

ché se l’antiveder qui non m’inganna, 
prima fien triste che le guance impeli 
colui che mo si consola con nanna.                             111

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! 
vedi che non pur io, ma questa gente 
tutta rimira là dove ‘l sol veli».                                        114

Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente 
qual fosti meco, e qual io teco fui, 
ancor fia grave il memorar presente.                            117

Di quella vita mi volse costui 
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda 
vi si mostrò la suora di colui»,                                       120

e ‘l sol mostrai; «costui per la profonda 
notte menato m’ha d’i veri morti 
con questa vera carne che ‘l seconda.                         123

Indi m’han tratto sù li suoi conforti, 
salendo e rigirando la montagna 
che drizza voi che ‘l mondo fece torti.                            126

Tanto dice di farmi sua compagna, 
che io sarò là dove fia Beatrice; 
quivi convien che sanza lui rimagna.                            129

Virgilio è questi che così mi dice», 
e addita’lo; «e quest’altro è quell’ombra 
per cui scosse dianzi ogne pendice

lo vostro regno, che da sé lo sgombra».                     133

PARAFRASI

Mentre io spingevo lo sguardo attraverso le fronde verdi dell'albero, proprio come è solito fare chi spreca la vita cacciando gli uccelli, Virgilio (che era più che un padre per me) mi diceva: «Figliolo, vieni via, perché il tempo che ci è concesso deve essere speso in modo più utile».

Io volsi lo sguardo e il passo non meno rapidamente dietro quei due saggi, che parlavano in modo tale da non farmi sentire alcuna fatica nel procedere.

Ed ecco che si sentiva qualcuno che piangeva e cantava 'O Signore, (apri) le mie labbra', in modo tale che faceva nascere in noi gioia e dolore.

Io iniziai: «O dolce padre, cos'è quello che sento?» E lui: «Forse sono anime che vanno espiando le loro colpe».

Come fanno i pellegrini assorti nei loro pensieri, che, quando nel loro cammino raggiungono persone sconosciute,  si voltano verso di quelle e non si fermano, così una schiera di anime silenziose e devote ci osservava con stupore, venendo dietro di noi a passi più veloci e oltrepassandoci.

Ciascuna di esse aveva gli occhi scuri e incavati, e aveva il volto pallido e tanto magro che la pelle aderiva totalmente alle ossa.

Non credo che Erisìttone fosse dimagrito così sino alla sola pelle, a causa del digiuno, quando ne ebbe maggior timore.

Io, pensando, dicevo tra me e me: 'Ecco gli Ebrei che persero Gerusalemme, quando Maria di Eleazaro divorò il proprio figlio!'

Le occhiaie sembravano anelli senza gemme: chi nel viso degli uomini legge la parola 'omo', sui loro volti avrebbe potuto distinguere la 'emme' (la linea dei sopraccigli e del naso).
Chi, non sapendo come ciò avvenga, potrebbe credere che il profumo di un frutto e dell'acqua riduca in tale stato, generando fame e sete?

Io ero intento a guardarli e a chiedermi cosa mai li affamasse così, in quanto la causa della loro magrezza e della loro pelle squamata non era ancora nota, quando ecco che un'anima volse a me gli occhi dal profondo della testa e mi guardò fisso; poi gridò forte: «Che grazia è mai questa per me?»

Io non lo avrei mai riconosciuto dall'aspetto, ma nella sua voce mi fu chiaro ciò che il suo volto aveva nascosto.

Questa scintilla riaccese ogni mia conoscenza di quel volto trasformato, e riconobbi la faccia di Forese Donati.

Egli pregava: «Orsù, non badare all'arida screpolatura che rende pallida la mia pelle, né al fatto che mi manchi della carne;

ma dimmi la verità su di te, e dimmi chi sono quelle due anime che ti accompagnano; non restare qui senza parlarmi!»

Io gli risposi: «La tua faccia, che piansi già quando eri morto, ora mi induce a piangere dandomi lo stesso dolore, poiché la vedo così stravolta.

Perciò dimmi, in nome di Dio, che cosa vi fa dimagrire così; non mi costringere a parlare mentre sono meravigliato, poiché chi è pieno di un altro desiderio parla malvolentieri».

E lui a me: «Dalla volontà divina cade una virtù nell'acqua e nella pianta rimasta dietro, per la quale io dimagrisco in tal modo.

Tutta questa gente che canta piangendo, per essersi data al piacere della gola, qui espia la propria colpa con la fame e la sete.

Il profumo che esce dai frutti e dalla fonte d'acqua che sale lungo i rami dell'albero fa nascere in noi il desiderio di bere e mangiare.

E la nostra pena non si rinnova una volta sola, mentre giriamo lungo lo spazio della Cornice: io dico pena, e dovrei dire gioia, perché siamo condotti agli alberi da quello stesso desiderio che spinse Cristo, lieto, a dire 'Elì', quando ci liberò versando il proprio sangue».

E io a lui: «Forese, dal giorno in cui sei passato a miglior vita non sono ancora trascorsi cinque anni.

Se la possibilità di peccare era già cessata in te prima che ti soccorresse l'ora del pentimento, che ci riconcilia con Dio, come hai fatto a giungere in questa Cornice? Credevo di trovarti laggiù di sotto (in Antipurgatorio), dove si compensa il tempo perduto col tempo dell'attesa».

Allora rispose: «Mia moglie Nella, col suo pianto dirotto, mi ha portato a bere il dolce veleno delle pene così rapidamente.

Con le sue preghiere devote e i suoi sospiri mi ha fatto uscire dalla pendice dove si attende e mi ha liberato dalle altre Cornici.

La mia buona vedova, che amai molto, è tanto più cara e gradita a Dio, in quanto è ormai la sola a operare rettamente;

infatti la Barbagia della Sardegna ha donne molto più morigerate di quelle della Barbagia (Firenze) dove io la lasciai.

O dolce fratello, cosa vuoi che ti dica? Io prevedo un tempo futuro, rispetto al quale il presente non sarà molto antico, nel quale dal pulpito sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine di andare in giro a seno scoperto.

Quali barbare, quali saracene ci furono mai per le quali fossero necessarie, per farle andare coperte, pene e sanzioni della Chiesa o dello Stato?

Ma se le svergognate sapessero quello che il Cielo prepara per loro, avrebbero già aperto le bocche per urlare;

infatti, se ciò che io prevedo non mi inganna, diventeranno triste prima che cresca la barba sulle guance di colui che, ora, è consolato con la ninna-nanna.

Oh, fratello, ora non celarti più a me! vedi che non solo io, ma tutte queste anime sono stupite del fatto che tu proietti ombra».

Allora gli dissi: «Se tu ripensi alla vita che entrambi conducemmo sulla Terra, il ricordo ti sarà fastidioso anche adesso.

Da quella vita mi ha tratto costui (Virgilio) che mi precede, pochi giorni fa, quando vi si mostrò tonda in cielo la sorella (Luna) di quello», e indicai il sole; «costui mi ha condotto attraverso la notte profonda (Inferno) dei veri morti (dannati), con questo corpo di carne e ossa che lo segue.

Poi il suo conforto mi ha tratto su, salendo e girando in tondo, per questo monte, che purifica voi che il mondo fece deviare.

Dice di sostenermi con la sua compagnia finché sarò là dove apparirà Beatrice; qui sarà necessario che io resti senza di lui.

Questi che dice così è Virgilio», e lo indicai; «e quest'altro (Stazio) è quell'anima per la quale poco fa il vostro regno, che lo allontana da sé (in quanto libero dall'espiazione), scosse ogni pendice».

AUDIO

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ERISITTONE

Empio e violento, Erisittone non temeva la collera degli dei. Abbatté deliberatamente un bosco sacro a Demetra, con l'intenzione di costruirsi una sala da pranzo. Per punire la sua empietà la dea lo condannò a una fame inesauribile. Per cibarsi, Erisittone dilapidò tutte le ricchezze della propria famiglia. Infine vendette più volte Mestra, sua figlia, al mercato. Costei aveva infatti avuto dal suo amante Poseidone il dono di prendere qualsiasi forma, il che le consentiva di mutarsi in un animale diverso ogni giorno per essere venduta e sfuggire poi ai suoi padroni. «La volpe multiforme e lasciva che, con il guadagno di tutti i giorni, provvedeva alla fame smisurata del padre.» (Licofrone, Alessandra vv. 1393-1395). Alla fine, Erisittone, per placare la sua fame, finì per divorare se stesso. Nel VI Inno di Callimaco è citato Erisittone, ma non la figlia. Callimaco racconta che Demetra, assunte le sembianze della sacerdotessa Nicippe, esortò Erisittone a non tagliare gli alberi che le erano sacri, ma questi, minacciandola, continuò con la sua opera, così Demetra, ridivenuta Dea, lo condannò alla fame perenne; ed Erisittone, una volta dilapidato il suo patrimonio fu costretto a divenire un mendicante. «Nei crocicchi stette il figlio del re, seduto, a chiedere avanzi e rimasugli delle mense.» (Callimaco, VI Inno) La narrazione più completa del mito di Erisittone si trova nelle Metamorfosi di Ovidio, VIII, 738-878. Sono da segnalare in particolare i versi 877-878: « ipse suos artos lacero divellere morsu coepit et infelix minuendo corpus alebat » "egli stesso cominciò a lacerarsi gli arti a morsi e l'infelice si nutriva a prezzo del suo corpo".

MARIA di Eleazaro

Per dare un'idea della gravità della carestia in Gerusalemme assediata da Tito (70 d.C.), Flavio Giuseppe (Guerra giudaica VI 201-212) narra l'episodio di una certa Maria che, rifugiatasi in città, nella sua esasperazione uccise il figlioletto lattante, l'arrostì e se lo mangiò. Il fatto è descritto con numerosi particolari; esso, non unico nella storia ebraica, è indice di una miseria quasi inconcepibile. Dante sfrutta l'episodio per descrivere le anime emaciate dei golosi, obbligate a soffrire fame e sete: esse apparivano così smagrite come dovevano esserlo gli abitanti di Gerusalemme durante l'assedio dei Romani (Io dicea fra me stesso pensando: ' Ecco / la gente che perdé Ierusalemme, / quando Maria nel figlio diè di becco).

FORESE DONATI

Forese Donati (soprannominato Bicci novello per distinguerlo dal nonno paterno che portava lo stesso nome e forse anche lo stesso soprannome), era figlio di Simone di Forese e di Contessa, detta "Tessa", di cui si ignora la provenienza familiare. Ebbe come fratelli Corso Donati, capo dei guelfi neri a Firenze, Piccarda, che Dante Alighieri collocò nel Cielo della Luna, e di tali Ravenna e Sinibaldo, i cui nomi ci sono pervenuti soltanto attraverso documenti storici. Era inoltre imparentato con Dante Alighieri, in quanto Forese era cugino di terzo grado di Gemma Donati, moglie del Poeta. Della vita di Forese, oltre all'ascendenza magnatizia, si sa molto poco: in un anno imprecisato, si sposò con una tale Nella da cui ebbe una figlia, Ghita, andata in sposa a Mozzino di Andrea de' Mozzi; a causa dei provvedimenti antimagnatizi instaurati da Giano della Bella (gli Ordinamenti di giustizia), Forese non poté partecipare attivamente alla vita politica cittadina. Morì relativamente giovane (se si suppone che nacque intorno alla metà del XIII secolo) nel luglio 1296, venendo poi sepolto il 28 di quel mese nella chiesa di Santa Reparata. La dantesca Tenzone con Forese Donati Se del Forese "storico" conosciamo poco, di quello "letterario", invece, ricaviamo un'immagine molto più nitida, grazie soprattutto all'opera letteraria dell'amico e parente Dante. Il primo testo in cui Forese compare è la celebre Tenzone, composta da sei sonetti (tre per ciascuno dei due disputanti) e composti presumibilmente tra il 1293 e il 1296. In questa tenzone, costruita secondo la convenzione ed i moduli stilistici della poesia comico-realistica del tempo, i due poeti si rinfacciano a vicenda difetti e bassezze di ogni tipo, utilizzando espressioni gergali, se non addirittura scurrili: Dante rinfaccia a Forese la scarsa prestanza sessuale, i debiti, l'ingordigia alimentare, le abitudini violente e la nascita incerta; Forese rimprovera a Dante uno stato di povertà e di accattonaggio, le sue origini e il mestiere di usuraio del padre Alighiero. Riguardo alla veridicità della Tenzone, citata per la prima volta dall'Anonimo Fiorentino, si schierò contro Domenico Guerri, che la considerava un falso. A favore dell'autenticità della tenzone, si schierarono invece Michele Barbi e Gianfranco Contini.

Eugenio Caruso - 15/02/2021


Tratto da

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