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Il caso di un'impresa suicidatasi.

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7.3 Il caso di un’impresa suicidatasi.

Anni fa mi è capitato di assistere al declino e alla scomparsa di una gloriosa impresa, una volta fiore all'occhiello di un grande gruppo industriale italiano. Nel 1992, nulla faceva, apparentemente, presagire l'evoluzione futura. I ricavi industriali erano oltre i 130 miliardi di lire, il margine operativo di 12 miliardi, il risultato operativo di 3 miliardi, il totale delle immobilizzazioni di poco inferiore a cento miliardi, i dipendenti oltre seicento, secondo un trend di dati positivi che risaliva ad almeno una decina d'anni. La capogruppo non chiedeva alla Società forti utili perché poteva godere della funzione d'immagine che la controllata le arrecava; l'unico aspetto negativo era nella composizione dei ricavi, che per l'87% derivavano da commesse provenienti dall'interno del gruppo, percentuale che da anni la controllante chiedeva di ridurre, a fronte, viceversa, di costanti aumenti.
Il top management non fu in grado di recepire una serie di segnali, anche forti, che avrebbero dovuto imporre, in un periodo di perdurante floridezza, un violento rilancio dell'impresa. Per indicare i segnali che già erano emersi da qualche anno si può far riferimento agli otto indicatori tipici dello stato di salute di un’impresa.
La soddisfazione dei collaboratori.
Tra i dipendenti della fascia "eccellenti", serpeggiava da tempo un forte malumore per una politica del personale che tendeva a privilegiare ex-sindacalisti, persone indicate da lobby esterne, amici del top management, tutti, per lo più, di una fascia professionale "medio-bassa". Il risultato più evidente era stato un elevato numero di dimissioni tra gli elementi con le migliori qualità professionali e manageriali. Il top-management aveva sempre cercato il consenso e la concertazione, ma, sempre, in un rapporto prioritario con il sindacato, limitando il rapporto con dirigenti, quadri e impiegati a una sterile riunione di fine d'anno. Quei pochi che nell'assemblea di fabbrica prendevano la parola per criticare la direzione si ripromettevano solo ritorni di tipo “politico”. In parole semplici il top management preferiva mantenere un buon rapporto con il sindacato piuttosto che con gli elementi migliori.
L'energia dei dipendenti.
Non esisteva nessun ritegno a passare delle buone mezz'ore al bar, a chiacchierare nei corridoi, a leggere il giornale in ufficio, a trasformare i laboratori in piccoli mercatini dove si poteva trovare un'ampia varietà di mercanzia, dai gioielli agli orologi, dalla biancheria intima ai preservativi, dalle pentole alle scarpe. Il tutto sotto lo sguardo severo, ma tollerante del management che non rinunciava, di tanto in tanto, a qualche acquisto interessante. Qualche giovane brillante, che sprigionava energia positiva, riusciva a creare isole di imprenditorialità, ma la mancanza di una valida politica di incentivazione basata sui risultati portava il collaboratore alla resa e all'abbandono. La corsa alle macchine della timbratura, a fine giornata, era sintomo di un senso di liberazione da parte dei dipendenti.
L'identità dell'impresa.
Rispetto ad una decina di anni prima si era perso lo spirito di appartenenza e l'orgoglio di essere in quella Società. L'attaccamento al lavoro era rimasto solo apparente e fortemente legato alla promessa della gratifica, dell'aumento o del passaggio di categoria da parte dei capi. Disaffezione, noncuranza, trascuratezza nel lavoro, posizione critica rispetto agli obiettivi aziendali e perdita completa dell'allineamento tra mission aziendale e propria visione dell'impresa erano la norma. L'azienda aveva ancora un notevole potere di attrazione tra i neolaureati, molti dei quali, i migliori, dopo pochi anni lasciavano, però, l'impresa.
L'immagine.
Il top management viveva nell'illusione che l'immagine aziendale fosse ancora quella di una decina di anni prima, ma la realtà era diversa. Molti dei clienti del captive market vedevano l'impresa come un carrozzone al quale affidare attività che venivano effettuate a prezzi fuori mercato. Operare in condizioni di captive market tarpa le ali della creatività e dell'efficienza, cosicché i clienti esterni al gruppo pretendevano prestazioni che l'impresa non era più in grado di effettuare. Per soddisfare le loro richieste si scaricavano costi e inefficienze sul captive market offuscando ulteriormente l'immagine dell'impresa nei riguardi di quel key-client, che, comunque, consentiva all'impresa di sopravvivere. Mentre il top-management nelle riunioni con il personale e con i sindacati decantava le sette meraviglie della Società, forte dei risultati di bilancio, il personale era perfettamente conscio che la realtà era, oramai, diversa. Si era creato un disallineamento tra l'immagine aziendale vista dal top-management, quella della maggior parte di dirigenti e dipendenti e quella dei clienti.
L'innovazione.
Nel corso degli anni il top-management aveva sperimentato diverse ristrutturazioni organizzative, ma la molla di questi cambiamenti non era mai stata la volontà di innovazione, quanto la necessità di dimostrare come l'organizzazione proposta fosse più moderna e avanzata del sistema organizzato dal precedente management. La certificazione Iso 9000 fu vissuta dall'azienda come un male contagioso e gli addetti alla qualità, considerati degli appestati da tenere il più possibile lontani da reparti e laboratori. Il gusto del cambiamento per la creazione di valore a favore del complesso degli stakeholders non sfiorò mai la stragrande maggioranza di dirigenti, quadri e impiegati. Il piacere dell'innovazione restava circoscritto ai laboratori di ReS, dove peraltro allignava il virus dell'intoccabilità del ricercatore, con grave pregiudizio della soddisfazione del cliente. Nella ReS la tendenza a operare era più rivolta al raggiungimento di prestigiosi obiettivi tecnologici, piuttosto che alla realizzazione di nuovi prodotti di facile uso per il cliente e, fondamentalmente, realizzati per risolvere bisogni reali. Piccoli miglioramenti incrementali si ebbero con l'introduzione dell'information technology, ma, anche in questo caso, scelte molto conservative limitarono l'efficacia di questa tecnologia che in quel tipo di impresa avrebbe potuto creare enormi potenzialità di business; la logica della parrocchia, adottata dagli addetti all'informatica aziendale, tarparono le ali a molte proposte e iniziative provenienti da parte delle altre divisioni.
Il capitale intellettuale.
Gli asset intellettuali avrebbero dovuto costituire un elemento di osservazione fondamentale per una società che operava nel settore delle tecnologie avanzate; società che era stata, fin dalla sua nascita (negli anni cinquanta), una fucina di talenti, alcuni migrati per altre sponde in Italia e all'estero e molti rimasti per la crescita e lo sviluppo di altro capitale intellettuale. Eppure nulla fu tentato per arrestare la fuga di cervelli che andava verificandosi da qualche anno, a ogni accenno di ripresa dell'economia nazionale. L'impresa era diventata un'area di addestramento di giovani dotati, pronti a intraprendere l'attività lavorativa in un'altra impresa. L'incapacità di creare una corsia preferenziale, formativa e remunerativa, per le risorse intellettuali e l'impossibilità dell'opzione dirigenziale in un ambito saturato da scelte di convenienza politica, allontanava i giovani di talento da un'azienda che non era in grado che di formulare vaghe promesse; l'impoverimento culturale era evidentissimo. Il monitoraggio sulle esigenze delle risorse intellettuali era fiacco, estemporaneo e lasciato a persone più adatte alla mediazione che alla proposta o a consiglieri di comodo.
La customer satisfaction.
Il monitoraggio della soddisfazione del cliente non era stata mai presa in considerazione, perché il top-management partiva dalla convinzione (o fingeva di essere convinto) che tra i responsabili delle divisioni produttive e il key-client esistessero dei rapporti improntati alla normale pratica imprenditoriale «Io acquisto questo prodotto perché ritengo che mi serva e che abbia un prezzo giusto». Nella realtà il ragionamento del cliente era diverso «Io acquisto questo prodotto pur sapendo che è ancora in fase sperimentale, che non è stato ingegnerizzato, che forse non funzionerà e del quale non sento un bisogno reale, ma che mi consente di giustificare la tua e la mia presenza nel gruppo». Al top-management, di tanto in tanto, arrivavano voci dall'interno dell'azienda o da parte del key-client che la situazione richiedeva forti interventi di rinnovamento, ma la filosofia del management era «Raglio d'asino non sale in cielo». Se fosse stato fatto qualche tentativo di valutazione concreta della customer satisfaction con il cliente stesso si sarebbero potuti prendere provvedimenti drastici, prevalentemente nella direzione di trasformare la filosofia del conseguimento di traguardi tecnologici, con quella più pratica della realizzazione di prodotti rispondenti a reali bisogni. Questa strategia avrebbe aperto, maggiormente, all'azienda la strada della committenza esterna al gruppo, alleggerendo il peso nei riguardi della controllante. In vista di un possibile tracollo il top-management creò una struttura di marketing senza, però, darle il potere di incidere, né sulla tipologia dei prodotti, né sui rapporti con il key-client. La nuova struttura trovò un forte ostracismo all'interno dell'azienda, impreparata a un cambiamento culturale; ognuno si ritenne investito del potere di avviare una propria politica di marketing, creando competizione tra le varie divisioni e quindi sconcerto e definitiva sfiducia tra i clienti.
La competenza emotiva.
Questo aspetto era stato sicuramente quello più pregnante all'epoca della nascita e dello sviluppo della società. L'entusiasmo, la passione, il gusto della sfida, le idee più pazze avevano reso possibile la nascita dell'azienda attraverso infinite difficoltà, specialmente dovute a un'incredulità sulla possibilità di costituire in Italia un'impresa orientata sulle tecnologie avanzate. La competenza emotiva fu senz'altro la chiave che aprì molte porte e convinse una serie di finanziatori a credere in quell'idea. L'entusiasmo durò ancora parecchio, ma iniziò a scemare. Questo fu sicuramente il segnale più forte, un urlo che l'impresa lanciò alla proprietà, in una sorta di visione profetica della propria fine. La competenza emotiva scomparve del tutto, stritolata dal tran tran quotidiano e dal morbido atterraggio tra le braccia di un importante gruppo industriale che somministrò all'azienda un'adeguata dose di sonnifero per portarla, lentamente, a una "dorata" fine indolore.
Furono consultate diverse importanti aziende specializzate nelle riorganizzazioni, ma nessuna ebbe il coraggio di sostenere che andava abbandsonato mil principio del captive market.
Giova notare che dal 1993 fino alla sua fine nel 1997 anche i bilanci descrivevano una situazione di lento degrado: rallentamento nell’acquisizione di ordini, contrazione dei ricavi, investimenti in diminuzione, risultati operativi negativi. Il top management, nonostante i cambiamenti imposti dalla politica, di fronte a tanti segnali che coerentemente reclamavano un drastico cambiamento culturale si facevano scudo di risultati ritenuti soddisfacenti dalla controllante, ma, dal 1992, l'anno del massimo splendore in termini di bilanci, nel giro di cinque anni l'impresa fu portata, come era corretto e fisiologico, alla definitiva scomparsa.

Eugenio Caruso - 28-02-2021

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Tratto da

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www.impresaoggi.com